Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Taddio:
la ragione conversazionale della fenomenologia eretica – la scuola d’Udine –
filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo friulao. Filosofo italiano. Udine,
Friuli, Venezia Giulia. Si occupa in particolare di fenomenologia della
percezione, ontologia e teoria della conoscenza a cavallo tra estetica e
metafisica. Si laurea in Trieste. Insegna a Udine. Allievo di BOZZI e DEROSSI. Il suo saggio Spazi immaginali,
Campanotto, con prefazione di Ferraris, è un testo di narrativa filosofica che
si inserisce all'interno della tradizione del realismo magico. L’esistenza
viene espressa da una sequenza di istantanee emergenti dallo spazio
immaginale. Tutti i suoi saggi sono di matrice realista. Fenomenologia
eretica: saggio sull'esperienza immediata della cosa, Mimesis, s’incentra sull'analisi
di un unico esempio considerato dall'autore paradigmatico per l'intera
tradizione fenomenologica: la percezione di un cubo. L'analisi critica
dell'esperienza è sviluppata, da un lato, in rapporto alla fenomenologia
sperimentale e, dall'altro, in risposta alle critiche alla fenomenologia.
A partire di Magritte, ne Il mistero viene applicata la teoria della percezione
diretta al problema della raffigurazione pittorica. In L'affermazione
dell'architettura, Mimesis, la relazione filosofia-architettura sta al centro,
come in Costruire abitare pensare, Mimesis, e Città metropoli territorio, Mimesis.
Il concetto d’affermazione in architettura e preso in “aut aut”. In Verso un realismo,
Jouvence, si delinea un'ontologia della meta-stabilità. Sul tema del realismo
avvia un articolato confronto. Le riflessioni sul realismo si sono sviluppate
in diversi direzioni: politica, architettura, cinema, ontologia ed
epistemologia -- v. Alfabeta, aut aut, Cinema et Cie, Teoria e Modelli, e La filosofia
futura. Fonda Mimesis. La società è detentrice dei marchi editoriali di Mimesis
in Italia. Progetta e realizza la rivista di approfondimento culturale Scenari.
Crea e dirige il festival Mimesis, territori delle idee. A partire da una
prima formazione politica di stampo liberal-socialista lavora in direzione di
un rilancio della cultura cosmopolita in rapporto alle nuove forme di
partecipazione democratica -- interventi: festival Vicino Lontano,
Pop Sophia, e Radio Radicale. Palazzo Reale, Genova. Altri saggi: La natura della
rappresentazione, Mimesis; Osservazioni
sulla stabilità tra estetica e metafisica, Jouvence; Un mondo sotto
osservazione, Mimesis; La guerra e il mortale (Mimesis); “Quale filosofia per
il partito democratico e la sinistra, Mimesis; La terra e il sacro, Mimesis; Un
metodo pericoloso, Mimesis; Manifesto per una sinistra cosmopolita, Mimesis; Radicalmente
liberi, Mimesis; L'apparire della cosa, Uno scandalo per il pensiero, su I lsole24ore, aut aut. Ma il realismo non è
tutto nuovo, su corriere. È il crepuscolo delle tradizioni, su corriere.
Sinistra e realismo, su alfabeta, Vuoti di sapere, su aut aut. saggiatore. Passione
politica e democrazia. Marionette al potere, Curi, Marramao, Palazzo Reale
Genova, Intervista. Artribune. Luca Taddio. Taddio. Keywords: fenomenologia
eretica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taddio,” The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tagliabue: la ragione
conversazionale del Remo, o le strutture del trascendentale – il concetto di
gusto nell’estetica italiana – la scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo.
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Studia a Milano. Collabora a riviste. Saggi
Le strutture del trascendentale: piccola inchiesta sul pensiero critico,
dialettico, esistemziale, Bocca, Milano; e Il concetto dello stile: saggio di
una fenomenologia dell’arte, Bocca, Milano. Insegna a Milano e Trieste.
Collabora a convegni e scrive su La lettura e La rassegna d'Italia, la Rivista
critica di storia della filosofia, la Rivista di filosofia, Belfagor, il giornale
critico della filosofia italiana, la rivista di estetica, Il pensiero, Aretusa,
Lingua e stile, Studi di estetica, Studi tedeschi, aut aut, ecc. Si occupa di
germanistica, gnoseologia, semantica, estetica e poetica, attraverso numerosi
saggi di taglio fenomenologico. Come per BARATONO e BANFI, la sua analisi dell'estetica e delle
scelte poetiche e stilistiche degl’artisti si distacca dall'impostazione di CROCE
e poi di CALOGERO per orientarsi verso l'aspetto pratico, influenzato anche
dall'esistenzialismo positivo d’ABBAGNANO, del fare arte, che non può ridursi
alla sola conoscenza, ed è fortemente legato alla tecnica, intesa anche come
gesto manuale e meccanico, e allo stile, inteso come rapporto tra gl’elementi
formali e quelli contenutistici dell'opera -- sede, inoltre, dell'unità nel
rapporto tra percezione e immaginazione. Organizza le teorie d'artista e le
dottrine estetiche non tanto in senso cronologico, ma per tipi: estetica
vitalistica, estetica psicologistia, estetica formalistica, estetica fenomenologica,
ecc. In Linguistica e stilistica del Lizio, Ateneo, Roma, e Demetrio, dello
stile, Ateneo, Roma, si occupa di retorica e stilistica antiche. Altri saggi: Il
Lizio e il barocco, Bocca, Milano; Il barocco e noi; Anatomia del barocco,
Æsthetica, Palermo, indagano sul barocco artistico e letterario, Bocca, Milano.
Si occupa anche di estetica, del pre-criticismo, della polemica
Nietzsche-Wagner, di Goethe, Musil, Roth, Kafka, ecc. Critico con la
contestazione studentesca, eppure non evita il confronto con il movimento. I
processi di GALILEI e l'epistemologia, Bocca, Milano; Dai romantici a noi,
Marzorati, Milano; Il concetto del gusto nell'Italia, Nuova Italia, Firenze; Fenomenologia
dei giudizi di valore, Istituto di filosofia, Trieste; La SEMANTICA e i suoi
problemi, Istituto di Filosofia, Trieste; “La nevrosi: Saggi sul romanzo,
Marietti, Monferrato; Nietzsche contro Wagner, Tesi, Pordenone; Geologia
letteraria, Garzanti, Milano; Goethe e il romanzo, Einaudi, Torino: Einaudi; Il
gusto nell'estetica, Centro di studi di estetica, Palermo: Arte e alienazione:
il ruolo dell'artista nella societa, Marzorati, Milano; I sogni di un
visionario spiegati coi sogni della metafisica, Rizzoli, Milano; Sul sentimento
del bello e del sublime, Rizzoli, Milano; Sul gusto, Marietti, Genova; Esercizi
filosofici, Russo, L’estetica, Æsthetica Pre-Print; Dizionario biografico degl’italiani,
Roma, Treccani, Istituto, Enciclopedia Italiana. Ritratto di un genio
politicamente scorretto. Magris, Corriere della Sera. Guido Morpurgo-Tagliabue.
Morpurgo-Tagliabue-Remo. Tagliabue. Keywords: Romolo, le strutture del
trascendentale, concetto del gusto, estetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tagliabue,” The Swimming-Pool Library. Tagliabue.
Luigi Speranza -- Grice e Tagliagambe: la ragione conversazionale e la mediazione
della re-presentazione – la scuola di Legnano -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Legnano).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Legnano, Milano, Lombardia. Studia a
Milano su GEYMONAT con cui si laurea con una tesi sull'interpretazione della
meccanica quantistica. Prosegue suoi studi specializzandosi sotto la direzione
di Terleckij e Fock. La sua attività si è sviluppata attraverso un variegato
percorso che lo porta ad insegnare presso diversi atenei e a collaborare con
differenti centri di ricerca ed enti istituzionali come consulente. Si
concentra sul rapporto tra filosofia e fisica quantistica in particolare sul
concetto di realtàe sui rapporti tra materialismo dialettico e fisica. Rivolve
l'attenzione sui temi del rapporto tra realtà OSSERVATA e sistema OSSERVANTE,
le interazioni reciproche e il ruolo del linguaggio, della comunicazione INTER-SOGGETIVA,
della mediazione linguistica e della semiotica. Elabora il ruolo e il
significato di interfaccia, il rapporto tra intelligenza NATURALE e
intelligenza artificiale, in particolare il ruolo progressivamente avuto dalle
tecnologie di informazione e comunicazione. Essamina i contributi sul significato
del concetto di margine, sia esso su un essere vivente, un'interfaccia o il
rapporto tra corpo ed anima, nei sistemi sociali e nella comunicazione. Studia
le forti inter-connessioni tra artificiale e NATURALE, il senso
dell'interdisciplinarità, e il saggio Il sogno di Dostoevskij: come l’anima
emerge dal cervello, Cortina, Milano, attraverso una visitazione storica dal
dibattito tra Dostoevskij e Secënov, fino alle scoperte della neuro-fisiologia,
mettendo a fuoco il senso del rapporto tra il corpo e l’anima, il significato e
la funzione dell'inconscio. Ricostrusce e interpreta l'intenso scambio
dialogico tra Pauli e il fondatore della psicologia analitica Jung, nel quale
emerge il rapporto tra filosofia, fisica e psicanalisi. L'analisi tra visibile
e invisibile, il ruolo dell'arte e il senso epistemologico dello spazio
intermedio e del confine sono stati da lui sviluppati anche attraverso
un'esegesi di Florenskij. Le ricadute della sua filosofia sulle scienze
sociali ed economiche trovano approfondimenti nei saggi dedicate all'analisi
dei sistemi organizzativi socio-economici. L'attività presso la facoltà di architettura
l'ho porta a riflettere sull’epistemologia del progetto, sulla relazione tra
possibilità e realtà, sul rapporto tra l'io, lo spazio, il tempo – cf. Grice,
“Personal Identity” --, l'ambiente, tra urbs e civitas, sul concetto di
paesaggio, sul ruolo delle città globali e sul nesso tra globale e locale. Gli
sviluppi delle tecnologie digitali e poi della rete come fenomeno prima tecnologico
poi culturale e sociale vengono elaborati e incorporati nella sua filosofia. La
sua riflessione è indirizzata anche ai temi dell'apprendimento e
dell'organizzazione della conoscenza soprattutto alla luce delle reali
esperienze della scuola, dei processi di modernizzazione e innovazione che la
coinvolgono e delle nuove esigenze che essa deve affrontare Dirige il
rifacimento del manuale di filosofia di GEYMONAT, La realtà: ricerca filosofica,
Garzanti. Collabora con il CNI per il Scintille dedicato all'innovazione a Pisa,
Cagliari, Roma La Sapienza, Sassari, facoltà di architettura di Alghero, vicepresidente
CRS4, ministero dell'istruzione, dell'università e della Ricerca per la
Riforma, CIES, FIESEC, direttore del progetto scuola digitale della Sardegna. Vedi
Materialismo e dialettica nella filosofia sovietica; Scienza e marxismo in Urss;
La MEDIAZIONE linguistica. Il rapporto pensiero-linguaggio. Epistemologia del
confine; recensione Corriere della Sera che cita che con questo saggio va avanti
sul progetto di esplorare una originalissima epistemologia del confine. La
tecnica e il corpo. Organizzazioni. Soggetti umani e sviluppo socio-economico. Individui
e imprese: centralità delle relazioni. L'albero flessibile. La cultura della progettualità.
Lo spazio intermedio, Bocconi, Milano, riprende, rielabora ed estende il
concetto di confine. La didattica e la rete. Più colta e meno GENTILE. Percorsi
per l'obbligo formativo; L'interpretazione materialistica della meccanica quantistica.
Fisica e filosofia, Feltrinelli, Milano; Scienza, filosofia, politica, Feltrinelli,
Milano; Materialismo e dialettica, Loescher, Torino; Scienza e marxismo, Loescher,
Torino, La mediazione linguistica: il rapporto pensiero-linguaggio, Feltrinelli,
Milano; Lo spiritismo, Boringhieri, Torino; L'impresa tra ipotesi, miti e
realtà, ISEDI, Torino; Epistemologia del confine, Saggiatore, Milano; La
politica che non c'è: dee guida per un progetto tra razionalità e valori, Demos,
Cagliari; Il sequestro dell'identità, CUEC, Cagliari; La città possible” Dedalo,
Bari; Epistemologia del cyber-spazio, Demos, Cagliari; L'albero flessibile: la
cultura della progettualità, Masson, Milano); Il profilo del tempo, Nuova
civiltà delle macchine, Organizzazioni. Soggetti umani e sviluppo
socio-economico, Usai, Giuffré, Milano; La didattica e la rete, Pitagora, Bologna;
La comunicazione nell'era di Internet; Etas Libri, Milano; Il destino del
marxismo: dall'idolatria al rifiuto; Luiss, Roma; La vittoria di Babele: dalla filosofia
naturale alla separazione dei linguaggi; Civiltà delle machine; Filosofia della
scienza, Cortina, Milano; Percorsi per l'obbligo formativo, PLUS, Pisa; L’unitario,
Cultura, Teramo; Le due vie della percezione e l'epistemologia del Progetto, Angeli,
Milano; Più colta e meno GENTILE: una scuola di massa e di qualità, (Armando,
Roma; Florenskij, Bompiani, Milano, La tecnica e il corpo, Angeli, Milano; Individui
e imprese: centralità delle relazioni, Giuffrè, Milano; Saper fare la scuola:
il triangolo che non c'è, Einaudi, Torino; Storia della filosofia, Filosofi italiani, Bompiani, Milano; Storia
della filosofia; Un confronto su materia e psiche, Cortina, Milano, La libertà,
le lettere, il potere; Rubbettino, Soveria Mannelli; La realtà e il pensiero: la
ricerca filosofica e scientifica, Garzanti Scuola. Silvano Tagliagambe. Tagliagambe. Keywords:
mediazione linguistica, naturale/artificiale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tagliagambe” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Taglialatela: la
ragione conversazionale degl’istituzioni di filosofia – la scuola di Mondragone
-- filosofia campanese 00 filosofia italiana – Luigi Speranza (Mondragone). Flosofo campanese. Filosofo italiano.
Mondragone, Caserta, Campania. Studia a Sessa. Insegna a Cava e Napoli. S’arruolarsi
nelle truppe di GARIBALDI (si veda), per predicare i nuovi ideali del movimento
unitario. Dirigge una scuola privata. Riprende e sposa le tesi di GIOBERTI (si
veda), che lo affascina. Su questo indirizzo filosofico è stato imperniato Istituzioni
di filosofia, Diogene, Napoli, che riceve le lodi di SPAVENTA. Non manca, in
seguito, avendo aderito al protestantesimo, di compiere opere missionarie, in
particolare in Puglia e in Abruzzo. A tal riguardo è documentato il viaggio di
Pescasseroli sul quale scrisse CROCE, che segnala anche come e considerato,
assieme a MAZZARELLA e CAPORALI, fra i filosofi più creativi del movimento protestante
in Italia. Altre saggi: Apologia delle dottrine filosofiche di GIOBERTI, Diogene,
Napoli, La scienza, la vita e SANCTIS, Diogene, Napoli, GARIBALDI, Speranza,
Roma; Il papa-re nelle profezie e nella storia, Speranza, Roma, In Dio, Speranza,
Roma; Fede, speranza e caritàm Speranza, Roma; Teoria evangelica della vita, Speranza,
Roma, Ciampoli, T., Unione, Roma; Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari; Fiore, Civiltà
Aurunca, Iurato, T.: dalla filosofia del Gioberti all'evangelismo anti-papale, Claudiana,
Torino; Gioberti, Protestantesimo in Italia, Dizionario biografico dei
protestanti in Italia; Società di studi valdesi. Apologia della dottrina di
Gioberti. Pietro Taglialatela. Taglialatela. Keywords: istituzioni di
filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taglialatela” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tagliapietra: la
ragione conversazionale e la sincerità conversazionale – la scuola di Venezia –
filosofia veneziana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo
veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Studia al Foscarini di Venezia, e
si laurea alla Foscari con una tesi discussa con SEVERINO e MADERA. Perfeziona
gli studi d’ermeneutica sotto la guida di ENZO. Insegna a Sassari e Milano. Fonde
nelle sue ricerche un'indagine storica sulla filosofia romana con un'attenzione
a temi contemporanei legati al mondo delle immagini e della comunicazione, allo
studio del linguaggio e delle metafore, nonché all'intreccio storico e teorico
fra dramma e filosofia. In quest'ultima prospettiva si orientano i suoi saggi
sull'idea di sincerità e sul significato della bugia nel quadro di una
costruzione drammaturgica dell'individuo, sul ridere e sulla natura del personaggio
comico e l’eroe tragico. Cura per Feltrinelli, Boringhieri e Mondadori
L'Apocalisse di Giovanni, raccolte di saggi sull'illuminismo e sul tema della
catastrofe; il Fedone o sull’anima, Feltrinelli, Milano; L’apocalisse di FIORE
(si veda), Feltrinelli, Milano; Voltaire, Rousseau, Manzoni, Volney, Feuerbach,
Mercier. Cura Valent. Collabora saltuariamente al Gazzettino, il
quotidiano della sua città, e a varie testate giornalistiche: Capital;
Panorama; Il Sole 24 Ore; l'inserto culturale Saturno del Fatto quotidiano,
ecc., con interventi di carattere culturale o legati all'attualità sociale e
politica. Con La virtù crudele: filosofia e storia della sincerità (Einaudi,
Torino, vince il Viareggio - è stato conferito il Viaggio a Siracusa per FIORE
(si veda) e la filosofia, Prato, Padova. È direttore del giornale critico di
storia delle idee. Fonda e dirigge a Milano del centro di ricerca inter-disciplinare
di storia delle idee e di Icone, un centro di ricerca di storia e teoria
dell'immagine a Palazzo Arese Borromeo. Altre saggi: La metafora dello specchio:
lineamenti per una storia simbolica, Feltrinelli, Milano, Boringhieri, Torino; Il
velo di Alcesti: la filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano; Filosofia
della bugia: figure della menzogna nella filosofia occidentale, Mondadori,
Milano; La forza del pudore: per una filosofia dell'inconfessabile, Rizzoli,
Milano; l dono del filosofo: sul gesto originario della filosofia, Einaudi,
Torino; Icone della fine: immagini apocalittiche, filmografie, miti, Mulino,
Bologna, Sincerità, Cortina, Milano; Non ci resta che ridere, Mulino, Bologna; Alfabeto
delle proprietà: filosofia in metafore, Moretti, Bergamo; Esperienza: storia di
un'idea (Cortina, Milano; Filosofia dei cartoni animati, Boringhieri, Torino; Cartografia
filosofica, La migrazione dello spirito” Mimesis, Milano; Tempo a termine e
tempo senza fine: breve storia figurale della temporalità, Mimesis, Milano; Non
desiderare la donna e la roba d'altri, Mulino, Bologna; Il senso del dolore, Raffaele,
Milano; Zerologia. il vuoto e il nulla, Mulino, Bologna; Apocalisse di Giovanni,
Feltrinelli, Milano; La verità e la menzogna: sulla fondazione morale della politica,
Mondadori, Milano; Che cos'è l'illuminismo? la genealogia del concetto, Mondadori,
Milano; Il sacro, Gallone, Milano; La catastrofe. L'illuminismo e la filosofia
del disastro, Mondadori, Milano; La fine di tutte le cose, Boringhieri, Torino;
La storia e l'invenzione, Prato, Padova; Le rovine, ossia meditazione sulll’impero
romano, Mimesis, Milano; L'uomo è ciò che mangia, Boringhieri, Torino; Montesquieu
a Marsiglia, Inschibboleth, Roma; Bisogna sempre dire la verità? Cortina, Milano;
L’idea della fine, Agalma; Il rischio e il limite”; Magazine, Energia, Pearson.
Il gesto di Socrate; Il pudore e l'enigma; Spazio Filosofico, Tipologia del riso,
Fillide, Corpo di pazienza, Esser contro, XÁOS. Giornale di confine, Il dono
della filosofia, XÁOS. Giornale di confine, Il giallo della filosofia, XÁOS. Il
volto del potere, XÁOS, La Lotteria di Babele. Appunti filosofici su caso e
fortuna nella società della comunicazione, XÁOS. Giornale di confine, L'apocalisse
delle immagini. Esegesi del cinema a partire da Fino alla fine del mondo, XÁOS,
La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare, XÁOS. Dire la
verità. L'insistenza della critica, Giornale critico di storia delle idee, L'uomo è un animale che esita. Intervista di
Dotti, in Vita, Presentazione. Il dono del filosofo. Sul gesto originario della
filosofia in Inschibboleth, Presentazione. Icone della fine. Immagini
apocalittiche, filmografie, miti Del senso della fine. Dialogo con Dotti,
Communitas, Cultura: futuro, progresso e possibilità Lezione magistrale al festival
di filosofia di Modena, Inganni. Finzioni di verità e storia naturale
dell'intelligenza. La filosofia della sincerità, di Pinto Il riso è il proprio dell'uomo. Commento in
margine a Non ci resta che ridere di Tugnoli. Se essere sinceri è una virtù
crudele. Uno studio fra storia e filosofia, Galimberti, La Repubblica, La virtù
crudele. Filosofia e storia della sincerità, Tugnoli, Dialeghestai. Rivista
telematica di filosofia, Premio letterario Viareggio-Rèpaci. Giornale critico
di storia dell’idee. CRISI: Centro di ricerca in storia delle idee. ICONE,
Centro europeo di ricerca di storia e teoria dell'immagine, su centro palazzo borromeo.
Ciclo di lezioni dette Decadi, Aula Tafuri, Palazzo Badoer, Venezia, nel quadro
del laboratorio di progettazione architettonica dello IUAV diretto da Rizzi e
costituente il I, Libro dello studio,
del progetto Lampedusa. La cattedrale di Solomon. Andrea Tagliapietra. Tagliapietra.
Keywords: Gioacchino da Fiore, l’apocalisse, dell’anima, Manzoni, inventare,
storia, sincerità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tagliapietra” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tamburino: all’isola
-- la ragione conversazionale all’isola -- il probabilismo tenue nella filosofia
siciliana – la scuola di Caltamissetta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caltanissetta). Flosofo siciliano. Filosofo italiano.
Caltanissetta, Sicilia. Entra nella compagnia di Gesù, resta a Caltanissetta.
Insegna a Messina e Palermo, e Monreale. Consigliere e qualificatore nel santo
uffizio dell’inquisizione, ossia di esaminatore dei reati prima della loro
attribuzione alla competenza dell'inquisizione. Durante un soggiorno romano,
quale rappresentante della provincia gesuitica siciliana alla congregazione
generale della compagnia di Gesù, conosce Greuter, che lavora per la casa
generalizia dei gesuiti. Apprezzandone le doti, T. gli affida l'incarico di
incidere le immagini della Madonna. Realizza finalmente il progetto di dare
alle stampe le notizie preparate da Gajetano, riguardanti appunto i luoghi del
culto mariano nell'isola, facendo illustrare l'opera con tavole riproducenti le
relative icone della madonna. Accanto alle suoi saggi filosofici, restano
anche edizioni, una in latino ed una in volgare, di un volume con incisioni di
raro pregio per la raffinatezza di Greuter. Di queste II edizioni si trovano
rari esemplari che, per le limitazioni derivanti dall'esaurimento delle matrici,
sono, per buona parte, prive delle pagine in cui sono stampate le
incisioni. Nella conoscenza del peccato attribuisce importanza primaria
alla cognitio singulorum, cioè alla capacità di valutazione dei singoli.
Diverso è, infatti, il peso delle colpe a seconda se a commettere l'infrazione
è l'individuo colto oppure l'ignorante. Nel individuo colto prevale la VIS
RATIOCINANDI. Nell’ignorante, la VIS SENTIENDI. Ancora differenza c'è tra l'ACTIO
HUMANA e l'ACTIO HOMINIS. La prima e compiuta in perfetta consapevolezza.
Nell’azione di un uomo la coscienza è spesso condizionata dal patire
passionale, che può essere VIOLENTVM, COACTVM, o NECESSARIVM -- venendo così a
mitigare la colpa. Nel trasporto passionale c'è dell'involontario, spesso
frutto di ignoranza che rende la coscienza erronea. Il tutto si traduce in una
interpretazione benignista della prudenza o epi-eìcheia, riprendendo la
tradizione d’AQUINO. A sostenere questa intensa produzione sul probabilismo,
col rientro da Palermo a Genova di Diana, rimane. I suoi saggi hanno ampia
diffusione fino al riconoscimento della validità delle tesi probabiliste d’Alfonso
de' Liguori che con la sua Theologia Moralis mette sostanzialmente fine al
rigorismo giansenista. Il probabilismo incontra ostilità negl’ambienti
religiosi più vicini al rigorismo dei giansenisti. A contrastare le tesi del
probabilismo i più influenti furono i domenicani, che spinsero Retz, a farsi
portavoce presso il papa per l'emanazione di un provvedimento di condanna. Alessandro
VII, sollecitato più volte, condenna il probabilismo. Sono censurate solo le tesi
più estreme. Un'altra condanna del probabilismo e promulgata da Innocenzo XI. Però
questa volta T. non sube sanzioni ad
personam, così passa alla storia della morale, come padre della probabilità
TENUE.Con esso si chiuse il periodo d'oro della esportazione della cultura
siciliana. È sancita la completa ri-abilitazione di T. con la pubblicazione di “Verità
vindicata” che NICETI da alle stampe a Roma. I suoi saggi sono stati
riuniti in Methodus expeditae confessionis, Opuscola tria de confessione, Comunione
et sacrificio missae, Expedita decaloghi explicatio. Libris decem digesta; De sacrificio
missae Expedite celebrando libri III, Della consolazione della filosofia, Juris
divini, juris naturalis et juris ecclesiastici, Expedita moralis explicatio, Complectens
tractationes III, de Sacramentis, quae sunt de jure divino, DE CONTRATTIBVS,
QVOS DIRIGIT IVS NATURALE; De censuris et irregularitate, quae sunt de iure ecclesiastico;
Tractatus de bulla cruciata; Sanctissimae deiparae cultus in Sicilia; Nomen
sublatum; Ragguagli delli ritratti della SS. Vergine Nostra Signora più
celebri, che si riveriscono in varie Chiese nell'isola di Sicilia; Opera di Cajetano
della Compagnia di Gesù; Germana doctrina R. Thomae perspicue refellens
impugnationes baronii adversus illam allatas; Tractatus in V ecclesiae praecepta;
Tractatus de jubileo manoscritto; Additamentum continens aliquot epistolas, et
levem vindicationem contra Joannem Sinichium hybernum authorem libri Saul et
Rex, bibl. Roma. Fondo Gesuitico, Traduce La consolazione della Filosofia. L'Anno
dei Giorni Memorabili, da Nadasi della Compagnia di Gesù., Burgio, Il
probabilismo, Catania, Soc. Storia Patria, Contenson, Theologiae mentis ob
cordis, Tolosa, Deman, Probabilisme, Colonia, Hebermann, Enciclopedia cattolica,
Appelton, Petrocchi, Il problema del lassismo, Roma, Storia e letteratura, Sinnichins,
Saul et Pax, Lovanio, Nempaei, T., Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tommaso Tamburino. Tamburino. Keywords:
prudenza, probabilismo tenue, lassimo vs. rigorismo, Grice on rigorismo, azione
di un uomo singolare, la forza del ragionare, la forza del sentire, il
necesario, il costretto (co-actum), il violento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Tamburino” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tafuri: la ragione
conversazionale del bizarro – la scuola di Soleto -- filosofia pugliese --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Soleto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Soleto, Lecce, Puglia. Versatile
e bizzarro ingegno, che dopo studi a Napoli e la Sorbona si ritira nel natio, dove
ha un cenacolo di allievi filosofi dell’accademia esoterica. Il Socrate di
Soleto è una personalità eclettica ed un affascinante intellettuale, amante
della conoscenza e studioso e di molteplici campi della filosofia: alchimia,
astronomia, astrologia, medicina, fisiognomica, e magia naturale. Al centro dei
suoi interessi vi e lo studio dei fenomeni della natura, l'anima del mondo, il
miracolo, le meraviglie del creato e l'unicità irripetibile di ogni essere
umano. Considerato alla stregua di un nostradamus salentino è onorato e
temuto per le sue capacità divinatorie e fisiognomiche tanto da attribuirgli demonologici. Un
suo ritratto col rosso copricapo della Sorbona si trova nel dipinto ad opera
del galatinese Rosario nella navata sinistra della chiesa Matrice di Soleto. Sepolto
dapprima nella chiesetta di S. Lorenzo delli T. adiacente alla sua abitazione e
poi, dopo la demolizione della cappella nel monastero di S. Nicola in una cassa
di legno con lo stemma della famiglia. Sull'architrave della sua casa
natale è inciso il motto, Humile so et humilta me basta/dragon diventaro se
alcun me tasta. Con quest'iscrizione esprime e manifesta a chiunque passasse
dalla sua dimora la sua mite natura caratteriale, mortificata dalle ingiurie e
maldicenze in conseguenza delle quali puo trasformarsi, ironicamente,
attraverso alchimia e magia, in un dragone. Nella Soleto e diffusa la
consuetudine di incidere sulle architravi delle finestre, sui cornicioni dei
balconi o all'interno di uno stemma, delle epigrafi con la finalità di motto.
Un proverbio, una citazione, un passo letterario, filosofico, o religioso, e un
pensiero personale descriveno la personalità e le attitudini del padrone di
casa o invitano il passante a riflettere su un tema o un monito saggio e
profondo. Lo stemma della famiglia, presente sulla porta della casa natia, è
costituito da un albero di quercia con due fulmini che si scagliano contro ma
non lo colpiscono. Un'aquila bicipite scolpita sopra fa pensare ad un'origine
albanese della famiglia. Infatti molte famiglie albanesi e greche di
confessione cristiano-ortodossa e cattolica sono costrette a fuggire ed alcune
emigrarono nel Salento a causa dell'avanzata dei turchi che occupano i loro
territori. Del salentin suol gloria ed onore, lo define Tommasi. E davvero
egli e, tra i filosofi che fioreno in Puglia ben noto. Partito da Soleto
per Napoli per approfondirsi nella matematica dopo la preparazione ricevuta a
Zollino da Stiso, vi torna famoso e pieno di gloria. Desideroso solo di pace,
apre una scuola di filosofia. Tra i suoi allievi: CAVAZZA, VERNALEONE,
SCARPA, e CORRADO. Assiduo verso gl’infermi, è anche di modello coi suoi saggi,
di ammirazione e rispetto coi suoi consulti e dalla ignoranza popolana ritenuto
un mago perché cultore di scienze inusitate quali l'astronomia e l'astrologia. Tornando
da Padova, cioè dai più grandi centri culturali del tempo, solle certo le
gelosie interessate di coloro che non sanno rassegnarsi al suo prestigio
professionale. A ciò si aggiunse il vigile sospetto della curia arcivescovile
messa sull'avviso dal concilio di Trento. Egli che porta per tutte parti l'amore
per il suolo natio col nome di Matteo da Soleto, proprio in patria ha a
difendersi da accuse di stregoneria come spesso avviene a chi, filosofo, si
rende filantropo. È più volte interrogato per le sue capacità di previsione del
futuro divinatorie ma è sempre rilasciato innocente. Il codice vaticano è
testimonianza pressoché l'unica superstite del suo impegno speculativo. Da
questo capostipite molti furono i T. medici o giureconsulti che da Soleto
trasferirono poi la loro residenza a Gallipoli, Nardò e Lecce Galatone. Così
troviamo nel Liber baptesimorum dell'archivio parrocchiale di Soleto un clericus
physicus Honofrius Taphurus filius eccellentissimi doctori Francisci che è
padrino al battesimo di Carrozzini. Il pronipote di Onofrio, Vincenzo Maria e
sindaco di Gallipoli mentre il fratello
di Onofrio, dottore in giurisprudenza, vive presso la corte di Napoli. Svariati
giureconsulti, medici e sindaci a Lecce e Galatone. Ricordiamo, non per ultimo,
Manni, La guglia, Galante, Nuove rivelazioni da un manoscritto, in 'Il filo di
aracne' -- Galatina, l'astrologo, Bernari
Istoria scrittori Regno di Napoli, Bernari.
Bernari, Il mago di Soleto: T., Milano, Tommasi; G. B., Biografia degli uomini
illustri del Regno di Napoli, Napoli, del Balzo di Presenzano, A., I del Balzo ed
il loro tempo, Napoli, Manni, Guida di Soleto, Galatina, Manni, La guglia di
Soleto, Galatina, Manni, La guglia, l'astrologo, la macàra, Galatina, Montinari,
Soleto, Fasano, T., G. B., Istoria degli scrittori del regno di Napoli, Napoli,
Bacca, Personaggi del sole culturale, Lecce Alchimia Galatina Giovanni Battista
Della Porta Orsini Orsini Del Balzo Guglia di Raimondello Soleto. G. B. Tafuri.
Matteo Tafuri. Tafuri. Keywords: mago. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tafuri”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tandasi: la ragione conversazionale del filosofo
principe – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The philosophy tutor of
Antonino. It is not known to which school he belongs. Grice: “As a consequence,
we shouldn’t know to what school *Antonino* does, but we do: Porch. Keywords: Porch,
Antonino.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tarantino:
la ragione cnversazionale dell’umanesimo – la scuola di Gravina -- filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gravina). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Gravina,
Bari, Puglia. Noto per i suoi studi sul padre e per fondare insieme la sezione
dell'istituto italiano per gli studi filosofici di cui è stato anche presidente.
Ha saggi sulla pedagogia, la psicologia e l'umanesimo. Dopo la laurea,
diviene insegnante per i licei italiani; in particolare, insegna al liceo Federico
II di Svevia di Altamura dove uno dei suoi studenti è RUBINI. Nominato
dirigente scolastico del Liceo di Altamura, porta la scuola al più alto numero
di studenti mai raggiunto. In qualità di dirigente scolastico, si reca a Tokyo per una visita di incontro tra scuole. Durante
la sua permanenza si verifica un violento terremoto, che gli causa paura e
notevoli disagi con un volo di ritorno pagato 4000 euro e un'assistenza a
quanto pare insufficiente da parte delle autorità consolari del posto. Dirigente
scolastico del liceo classico Luca de Samuele Cagnazzi, presidente di
circoscrizione del Lions club Puglia Consigliere di Club del Lions Club
Altamura Host Presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Altri
saggi: “Speranze e proposte formative. La lezione di T. (Bari); Dietro la ruota.
Infanzia pregiata, Levante, Lezioni di volo, Bari, L'inconscio e la coscienza nel pensiero di T.,
Bari,. L'umanesimo mediterraneo. Orizzonte storico-culturale per la costruzione
di una cittadinanza cosmopolita, Storia antica e moderna dell'ordine del tempio,
Nisroch, L'umanesimo di T., Aracne. Filippo Tarantino. Tarantino. Keywords:
umanesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tarantino” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Tarantino:
la ragione conversazionale dell’inconscio e la coscienza – la scuola di Gravina
– filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gravina). Filosofo pugliese. Filosofo italiano.
Gravina, Bari, Puglia. Insegna a Pisa. Studia nel ginnasio e compì gli studi
superiori a Pisa, dapprima come studente all'università della stessa città e
successivamente come allievo della scuola normale superiore di Pisa. Inizia gli
studi sotto la guida di FIORENTINO (si veda). Si laurea e segue a Napoli il
maestro FIORENTINO. In sua memoria dedica al suo maestro “I Saggi Filosofici,” ottenne
la docenza in filosofia. Inizia ad acquisire notorietà grazie ai saggi critici
che pubblica sul Giornale Napoletano. Insegna al liceo Genovesi di Napoli. Compone
il Saggio sulla volontà, Gennaro, Napoli. Insegna al Marciano, e Pisa. Insegna anche
alla scuola di pedagogia, dove tra i suoi insegnanti figura GENTILE. La sua
notorietà cresce sempre più grazie ad alcuni suoi saggi critici pubblicati
sulla Rivista di Filosofia Scientifica di MORSELLI, il più noto dei quali è su
Locke. Tra i suoi studenti di Pisa più noti figurano NICOLA ed ACCADIA. Torna
nella sua città natale, dove dona alla biblioteca Santomasi una parte cospicua
dei suoi libri. A lui è stato intitolato il liceo. Altre saggi: Appunti di Filosofia,
Toso, Aversa, Saggi filosofici, Napoli, Morano; Studio storico su Locke, Rivista
di Filosofia, Milano-Torino, Dumolard; Saggio sul criticismo e sull'associazionismo,
Napoli, Morano; In morte di CALDERONI, Vecchi, Trani; Saggio sulla volontà; Saggio
sulle idee morali e politiche di Hobbes, Napoli, Giannini; Il problema della
morale di fronte al positivismo e alla metafisica, Pisa, Valenti; Il principio
dell'etica e la crisi morale, Napoli, Tessitore; Il concetto dello STATO ed il
principio di nazionalità” (Napoli); “Discorso preposto alle traduzioni dal
latino, dall’inglese e dal francese di SOTTILE, Napoli; VINCI (si veda) e la
scienza della natura, Nel centenario di VINCI, La politica e la morale.
Discorso, Pisa, Mariotti, Sulla riforma universitaria, Rivista di filosofia. Cfr.
Turi, Gentile: una biografia, Firenze, Giunti, Parzialmente Google Libri.) tarantino-inconscio,
tarantino-inconscio-, tarantino-inconscio-,
Tarantino, Dibattista, Recchia-Luciani, L’inconscio e la coscienza nel pensiero
di T., F. T., Adda, F., Speranze e
proposte formative. La lezione di T., Bari, Levante, Amato, Orazione funebre in
onore di T.. Giuseppe Tarantino. Tarantino. Keywords: inconscio, Gentile, Vinci,
lo stato, la nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tarantino” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Taranto:
la ragione conversazionale della colomba d’Archita – la scuola di Taranto –
filosofia tarantina -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Filosofo tarantino.
Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. Grice: “I was insulted,
if not offended, by The Cambridge Dictionary of Philosophy having ‘Anchita’ as
Greek! The man as born in Taranto, Italy, and died in Taranto, Italy! – He was
a Tarantoian!” – “My favourite of his philosophical tracts is “Della colomba,”
– Strawson pointed out to me that since this is a mechanical
(mechanical-mechanical) pigeon, I should have used ‘scare-quote’ gesture!” Filosofo,
matematico e politico. Magnum in primis et præclarum virum -- Cicerone, De
senectute. Appartenente alla seconda generazione della setta di Crotone, ne
incarna i massimi principi secondo l'insegnamento dei suoi maestri FILOLAO ed
EURITO. Figlio di Mesarco o di Estieo o di Mnesagora, nasce nella città della
quale è stratego massimo, proprio nel periodo in cui Taranto raggiunge l'apice
del suo sviluppo economico, politico e culturale. Conduce una vita
austera, improntata a uno stretto auto-controllo nel rispetto delle rigide
regole della setta di Crotone, ma non priva di umana socievolezza. Rcconta ELIANO
che spesso quello s'intrattene a SCHERZARE CON I FIGLI DEI SUOI SCHIAVI e con
questi stessi non disdegna di sedere assieme a banchetto. Abile uomo politico,
si tramanda che è nominato per VII volte στρατηγός di Taranto, riuscendo ad
essere un condottiero sempre vittorioso nelle sue battaglie. Probabilmente è anche
stratego αὐτοκράτωρ della lega italiota, ricostituitasi dopo la morte di
Dionisio I di Siracusa, e che ha come sede Eraclea. Non si sa se, nonostante il
divieto della costituzione cittadina, è stato nominato consecutivamente. I suoi
mandati vengono datati tra il II e il III viaggio di Platone, quindi potrebbero
essere stati ricoperti anche uno di seguito all'altro. Attua una politica di
sviluppo che porta Taranto a diventare la metropoli più ricca e importante
della Magna Grecia. Con l'edificazione di monumenti, templi e edifici da nuovo
lustro alla città. Potenzia il commercio stringendo relazioni con altri centri,
come l'Istria, la Grecia, e l'Africa. Durante il suo governo, si dedica allo
sviluppo dell'economia, favorendo l'agricoltura e insegnando egli stesso ai contadini
i precetti per migliorare i raccolti. Spesso ricordava loro che Apollo non
concesse altro a Falanto che fertili campi e ama ripetere. Se vi si domanda
come Taranto è diventata grande, come si conservi tale, come si aumenti la sua
ricchezza, voi potete con serena fronte e con gioia nel cuore rispondere: con
la BUONA agricoltura, con la MIGLIORE agricoltura, con l'OTTIMA agricoltura.
Nel campo legislativo promulga una legge per favorire l’equa distribuzione
delle ricchezze, basandola sul principio dell'armonia matematica. Uomo di
multiforme ingegno, s’interessa di scienza, musica ed astronomia e studia
matematica con EUDOSSO di Cnido. La vastità di queste competenze si spiega con
il fatto che la scuola di Crotone conceve la matematica, o meglio l'aritmo-geometria,
fondamento della realtà naturale e l'universo come un cosmo, ordinato cioè
secondo principi mistico-matematici dai quali si genera un'armonia musicale
poiché la musica stessa si basa su precisi rapporti matematici. Crede che
i principi delle matematiche sono i principi di tutti gl’esseri. Ora, il
principi della matematiche e il numero. Pensa quindi che gl’elementi del numeoi
sono elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo è armonia e numero --
Aristotele, Metafisica. Non a caso è stato il primo a proporre il
raggruppamento delle discipline canoniche -- aritmetica, geometria, astronomia
e musica -- nel quadrivium, l'ordinamento che riprende BOEZIO (si veda).
Infine, la partecipazione alla scuola di Crotone, configurata come una setta
mistica, è riservata a spiriti eletti e implica che gl’iniziati che la
frequentano hanno disponibilità di tempo e denaro per trascurare ogni attività
remunerativa e che puossono dedicarsi interamente alla filosofia -- da qui il
carattere aristocratico del potere politico che Crotone e suoi filiali esercitano
nella Magna Grecia ed Etruria fino a quando furono sostituiti dai regimi
democratici. Conosce Platone quando questo soggiorna a Taranto nel suo primo
viaggio verso Siracusa, dove ha un confronto piuttosto acceso con il tiranno
Dionigi I sulla realizzazione di una possibile RIFORMA FILOSOFICA del suo
governo. Questa'amicizia è preziosa per Platone quando compiendo questi il suo III
e ultimo viaggio in Sicilia nel tentativo di realizzare la sua riforma, il tiranno
Dionigi il giovane lo caccia dall'acropoli facendolo vivere nella casa di
Archedemo, vicino ai mercenari che mal lo sopportano. È grazie ad Archita, il
quale invia il tarantino pitagorico LAMISCO a Siracusa per convincere l'amico
Dionigi a liberare Platone, che questo puo lasciare la Sicilia – “maledetta
isola,” in parole di Platone. Lo stesso Platone racconta così quegli
avvenimenti in una lettera. Sembra che Archita si sia recato presso Dionisio. Perché
io, prima di ripartire avevo unito Archita e i tarantini in rapporti di
ospitalità e di amicizia con Dionisio. E così con un terzo invito Dionisio mi
manda una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme manda un amico di
Archita, Archedemo, che egli ritene fosse il più apprezzato da me tra quei di
Sicilia, e altri siciliani a me noti. Altre lettere poi mi giungeno da parte di
Archita e dei tarantini, che fanno grandi elogi dello zelo filosofico di
Dionisio, e anche avverteno che, se non ando subito, avrei causato la completa
rottura di quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che è di
grande importanza politica. Vennero in molti da me, fra cui alcuni servi, e
quindi miei concittadini. Essi mi riferivano che calunnie circolano su di me
fra i peltasti, e che alcuni minacciano, se riusciano a cogliermi, di
sopprimermi. Escogito allora qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire
Archita e gl’altri amici di Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto
un pretesto per un'ambasceria, mandano uno dei loro, LAMISCO, con una nave e
trenta rematori. Costui, appena giunto, intercede per me presso Dionisio,
dicendogli che io voglio lasciar e nient'altro che lasciar Sicilia. Dionisio
accondisce e mi lascia andare, dandomi i mezzi per il viaggio. Archita muore a
seguito di un naufragio probabilmente nel corso d’operazioni di guerra nelle
acque di fronte a Mattinata sul Gargano e lì e sepolto, come riferisce ORAZIO.
TE MARIS ET TERRÆ NVMEROQVE CARENTIS HARENÆ MENSOREM COHIBENT ARCHYTA PVLVERIS
EXIGVI PROPE LITVS PARVA MATINVM MVNERA. Nonostante e visto dopo Socrate, è considerato
un continuatore dei filosofi piu antichi, perché appartenne alla scuola di
Crotone e si mantenne aderente al pensiero di questa setta, tant'è che basa le
proprie idee filosofiche, politiche e morali sulla matematica. Al riguardo,
infatti, così recitano due suoi frammenti. Quando un ragionamento matematico è
stato trovato, controlla le fazioni politiche e aumenta concordia quando c'è manca
l'ingiustizia, e regna l'uguaglianza. Con ragionamento matematico noi lasciamo
da parte le differenze l'un con l'altro nei nostri comportamenti. Attraverso
essa i poveri prendono dai potenti, ed i ricchi danno ai bisognosi, entrambi
hanno fiducia nella matematica per ottenere un'azione uguale -- Giamblico, de
comm. Math. Per essere bene informato sulle cose che non si conoscono, o si
devono imparare d’altri o bisogna scoprirle da sé. Ora imparando si deduce da
qualcun altro e ciò è straniero, mentre scoprendo da sé è PROPRIO. Scoprire
senza cercare è difficile e raro, ma con la ricerca è maneggevole e facile,
sebbene CHI NON SA CERCARE NON PUO TROVARE. Dollo, Istituto e museo di storia
della scienza Archimede, Olschki. A lui sono tradizionalmente attribuiti molti
testi. Sono sopravvissuti alcuni frammenti conservati nei saggi d’Ateneo e CICERONE
e provenienti dai suoi discorsi morali, che delineano un filosofo più originale
nel suo pensiero etico rispetto alla dottrina di Crotone e piuttosto
influenzato dall’Accademia Viene considerato l'inventore della meccanica
razionale e il fondatore della meccanica. Si dice che inventa due straordinarie
apparecchiature meccaniche. Un'apparecchiatura è un uccello meccanico, la
famosa colomba, l'altra sua invenzione era un sonaglio per bambini. Il primo è
descritto d’Aulo GELLIO (si veda), e ne tenta la ricostruzione Schmidt. Si
tratta d'una colomba di legno, vuota all'interno, riempita d'aria compressa e
fornita d'una valvola che permette apertura e chiusura, regolabile per mezzo di
contrappesi. Messa su un albero, la colomba vola di ramo in ramo perché, apertasi
la valvola, la fuoruscita dell'aria ne provoca l'ascensione. Ma giunta ad un
altro ramo, la valvola o si chiudeva da sé, o veniva chiusa da chi faceva agire
i contrappesi. E così di seguito, sino alla fuoruscita totale dell'aria
compressa. Il secondo giocattolo, la raganella, ha fortuna. È ancora in
uso e spesso si vede nelle fiere popolari di giocattoli. Nella forma originaria
è costituita da una piccola ruota dentata fissata ad un bastoncino. Sulla
ruota, da dente a dente, salta una molla cui è congiunto un pezzo di legno.
Aristotele consiglia questo giocattolo ai genitori perché, divertendo e
captando l'attenzione dei bambini, li distoglie dal prendere e rompere oggetti
domestici. Si dice anche che inventa la carrucola e la vite, anticipando Archimede.
Il più importante risultato ottenuto da lui è una soluzione tri-dimensionale
del problema della duplicazione del cubo. Precedentemente, Ippocrate ri-conduce
questo problema ad un problema di proporzionalità. Se a è il lato del cubo che
si vuole duplicare, il problema consiste nel trovare due valori x e y medi
proporzionali tra a e 2a, ovvero tali che a:x=x:y=y:2. Trovati questi due
valori, x rappresenta il lato del cubo con volume doppio. La costruzione
geometrica utilizzata d’Archita per risolvere questo problema è uno dei primi
esempi dell'introduzione del movimento in geometria. In esso si considera una
curva, conosciuta come curva d’Archita, generata dall'intersezione della
superficie di un cilindro e di un semi-cerchio in rotazione rispetto a uno dei
suoi estremi. Si dedica anche alla teoria delle medie, e da il nome alla
media armonica o media sub-contrari). Inoltre, dimostra che tra due numeri
interi che sono nel rapporto {\{\frac {n}{n+1}}} non è possibile trovare nessun
altro intero che e una media geometrica. Il risultato ha applicazione alla
teoria delle scale musicali. Apuleio riporta un argomento di fisica trattato d’Archita:
la natura della riflessione della luce sopra uno specchio. Platone pensa che
dai nostri occhi partano dei raggi luminosi che vanno a mescolarsi con quelli
che colpiscono lo specchio. Archita concorda col fatto che i raggi partano dai
nostri occhi, ma senza combinarsi con alcuna cosa. Più felici furono le
sue deduzioni sul rumore. Egli capì che provenivano dalle vibrazioni prodotte
dall'urto dei corpi nell'aria. Da tale scoperta, formula l'ipotesi che anche i
corpi celesti, dotati di continuo movimento, produceno rumore. Questo rumore
però, non sarebbe udibile dai sensi umani, essendo non intervallato, ovvero
continuo nel tempo. Molto interessanti sono gli studi di carattere
sperimentale che conduceno a conoscere le cause che diversificano i suoni acuti
dai gravi, diversità che sono in funzione della rapidità della vibrazione.
Tanto più rapida è la vibrazione, tanto più acuto è il suono che ne proviene, e
viceversa. Esperimenti sono eseguiti con flauti, zufoli, tamburelli, e si
constata come anche LA VOCE UMANA segue questo principio. Nell'ambito della
teoria musicale sviluppata dalla scuola di Crotone, ed esposta per la prima
volta da Filolao, III contributi sono sicuramente dovuti ad Archita. I è
la teoria secondo cui l'altezza dei suoni è determinata dalla loro velocità di
propagazione. Secondo Archita, una bacchetta che oscilla più velocemente -- con
frequenza più alta -- produce un suono che si propaga con maggiore velocità
nell'aria, e che di conseguenza è percepito come più alto, rispetto a una
bacchetta che oscilla più lentamente. Questa teoria, per quanto non corretta
dal punto di vista fisico e percettivo, rappresenta il primo tentativo di
attribuire parametri quantitativi alla propagazione del suono, ed è ripresa da
molti autori successivi -- inclusi Platone e Aristotele. Il secondo contributo
è di natura specificamente matematica. Archita conosce la relazione fra
intervalli musicali e frazioni che conduce alla costruzione della scala
pitagorica. Uno dei problemi teorici connessi a quella costruzione è il perché
gl’intervalli sono progressivamente suddivisi secondo quelle particolari
proporzioni, anziché suddividere semplicemente ogn’intervallo in due sotto-intervalli
uguali. Per comprendere la natura del problema si deve ricordare che per
definizione gl’intervalli musicali si compongono moltiplicando fra loro i
rapporti corrispondenti – v. g., la XVIII 2:1 si può ottenere componendo una V
3:2 con una IV 4:3, infatti 3:2 x 4:3 = 2:1). Quindi per suddividere un
intervallo a:b in II parti uguali si deve trovare il medio proporzionale fra a
e b, ossia il numero x tale che a:x = x:b -- ciò equivale a cercare la radice
quadrata del rapporto a:b. Archità osserva che l'intervallo di doppia IV (4:1)
si può suddividere in due sottointervalli uguali (rappresentati dal rapporto
2:1), ma dimostra matematicamente che nessun rapporto del tipo super-particulare
{\ {\frac {n+1}{n}}} - genere a cui appartengono tutti gl’intervalli
fondamentali della scala pitagorica (2:1, 3:2, 4:3, 9:8) - ammette un medio
proporzionale fra i numeri interi. Quindi nessuno di quegli intervalli può
essere suddiviso in due parti uguali -- se si mantiene l'ipotesi che ogni
intervallo musicale corrisponda a un rapporto fra numeri interi. Infine,
Archita descrive la costruzione delle scale musicali nei III generi: dia-tonico,
cromatico ed en-armonico. Diversamente dalla scala pitagorica, il tetra-cordo
dia-tonico proposto da Archita è formato dai rapporti 9:8, 8:7 e 28:27. Quello
pitagorico contiene invece due intervalli di tono uguali, 9:8, e un semitono di
256:243. Nel tetra-cordo cromatico di Archita figurano gli intervalli 5:4,
36:35 e 28:27, e in quello enarmonico gli intervalli 32:27, 243:224 e 28:27.
Questi valori sono riportati da Tolomeo, che afferma che si basa sulla
necessità teorica di descrivere tutti gl’intervalli consonanti con rapporti
superparticulari -- e tuttavia nel tetracordo enarmonico figurano rapporti che
non appartengono a quel genere. I filosofi hanno invece ipotizzato che Archita vuole
descrivere matematicamente le scale musicali effettivamente in uso nella
pratica a lui contemporanea, sulla base dell'osservazione diretta delle
tecniche di accordatura usate dai musicisti. Archita si propone di superare il
problema dei commi musicali. Afferma che l'VIII puo essere divisa in 12
semitoni uguali ed indica un divisore che ne consentisse la partizione, cioè un
numero prossimo ad un terzo di л. In effetti il divisore dell'VIII della scala
temperata, la radice XII di 2 =1,0594630943592…. è prossima a л/3=1,0471975
postulato sia da lui che d’Aristosseno. La divisione dell'VIII a cui Archita
pervenne è la seguente: л/3, Л 4/11, Л 3/8, Л 2/5, Л 3/7, Л 5/11, Л 9/19, л/2,
Л 7/13, Л 4/7,Л 3/5 Л 7/11, nell'ordine: II min., II maggiore, III minore, III
maggiore, IV giusta, IV eccedente, V giusta, VI minore, VI maggiore, VII
minore, VII maggiore, VIII. Il divisore proposto d’Archita porta a differenze
con la scala temperata dell'ordine delle decine di centesimi di
semitono. È trattata da Archita in un passo di Eudemo da Rodinel suo
commento alla “Fisica” di Aristotele, nel quale si discute il problema della
dimensione dell'universo. Per Archita l'universo è infinito. Se mi trovassi
all'ultimo cielo, cioè a quello delle stelle fisse, potrei stendere la mano o
la bacchetta al di là di quello, o no? Ch'io non possa, è assurdo. Ma se la
stendo, allora esiste un di fuori, sia corpo sia spazio -- non fa differenza. Sempre
dunque si procede allo stesso modo verso il termine di volta in volta
raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e se sempre vi è altro a cui possa
tendersi la bacchetta, è chiaro che anche è interminato. In Enciclopedia
Garzanti di Filosofia Archita. Museo Nazionale e archeologico di Taranto. Riedweg,
Pitagora: vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, Ceglia, Bari. Seminario
di storia della scienza, Scienziati di Puglia: Adda, CICERONE, De senectute,
ELIANO, Varia istoria; Ateneo; Dizionario di filosofia, Treccani alla voce
corrispondente. Pareti, Storia della regione Lucano-Bruzzia nell'Antichità,
Storia e Letteratura, Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini
leggendarie alla CONQUISTA ROMANA, Edipuglia. Juliis, Magna Grecia: l'Italia
meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana, Edipuglia
srl, Ai tarantini, citato in La Voce del Popolo, Dizionario della civiltà,
Gremese Editore, Nicola, Atlante illustrato di Filosofia, Giunti. “κόσμος”
nasce in ambito militare per designare l'esercito schierato ordinatamente per
la battaglia (in Sesto Empirico, Adv. Math.); Joost-Gaugier, Pitagora e il suo
influsso sul pensiero e sull'arte, Edizioni Arkeios, Pichot, La nascita della
scienza: Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, Edizioni Dedalo,Cfr. anche Bonghi,
Delle relazioni della filosofia colla società: prolusione, Vallardi. Secondo
una tradizione apocrifa Archita trae dalla filosofia dell’accademia la
convinzione della immortalità dell'anima. Al contrario CICERONE ritiene che
Platone si reca in Sicilia per conoscere le dottrine pitagoriche che apprende
da Archita e che condivide divenendo lui stesso pitagorico. Cfr. CICERONE, De
Repubblica, De finibus bonorum et malorum, Tuscolanae disputationes, D.
Laerzio, Platone, Lettera, Vita di Platone. Urso, La morte d’Archita e
l'alleanza fra Taranto e Archidamo di Sparta, Aevum, Taddei, I robot di Vinci:
la meccanica e i nuovi automi nei codici svelati, ed. VINCI, GELLIO, Notti
Attiche, Aristotele, Pol., Pitoni, Storia della fisica, Società
tipografico-editrice, Boyer, Carl B., Storia della matematica, Apuleio,
Apologia; Platone, Timeo, A Giambico, in Nicom.; Ceglia, Università di
Bari. Seminario di storia della scienza, Scienziati di Puglia: dda, p.1ific. Huffman,
Archytas of Tarentum. Pythagorean, Philosopher and Mathematician King,
Cambridge -- l'edizione più completa dei frammenti --; Cardini, I pitagorici,
testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze Platone, Lettere, Mondadori;
Grande, Archita e i suoi tempi, Taranto, Cressati Paris; Olivieri, Su
Archita tarantino, memoria letta all'Accademia Pontaniana; Frajese, Attraverso
la storia della Matematica, Veschi, Roma Stante, I problemi di terzo grado e
Archita da Taranto, Lecce; Tagliente, “La
colomba d’Archita”, Scorpione, Taranto; Tagliente, Il mistero del trattato
perduto, Scorpione, Taranto A. D. Abbaiatore, Scritture Musicali greche, Teoria
armonica ed Acustica, Taranto nella civiltà, Napoli Taranto e il Mediterraneo,
ISAMG Taranto, Filosofia e scienze, Napoli Eredità, Taranto, Alessandro il
Molosso e i condottieri, Taranto, Teofilato, "Interpretazione di
Archita" dalla rassegna Vecchio e Nuovo di Lecce; Mele, Archita, i suoi
tempi e il suo pensiero, in Taranto tra Classicità e Umanesimo, Scorpione
Editrice Taranto; Personalità legate a Taranto Raganella (strumento musicale)
Eudosso di Cnido. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A buon diritto
chiamare l'inventore de'moderni palloni arrostatici. Però un secolo prima a
LANA, SCALIGERO, a proposito della colomba volante d'Archita, della quale parla
ORAZIO nell e sue odi, indica il modo di costruirla. Nulla di più facile, dice.
Basta comporre la sostanza con midolla di giunco, e diligentemente coprirla
colla pelle adoperata dai battiloro. Mediante un facile meccanismo sipuò dar
movimento alle ali. Scaligero scorda di avvertire che bisogna riscaldare l'aria
interna con un lumicino quando rolevasi farla volare. Cosi trova il modo di far
salire nell'aria un pallone in forma di colomba, dacchè tutto fa credere che i mezzi
impiegati da questo filosofo sono gl'identici che quelli impiegati oggigiorno
per levare i palloni. Quanto al ritorno della colomba, obbediente alla voce
d'Archita, questa evidentemente è una favola. Sempre, a un fatto sorprendente,
l'immaginazione aggiunge circostanze impossibili. Ma ciò che io credo
innegabile è che l'areostato èconosciuto a tempi detti favolosi, e che, amio
parere, sono reminiscenze di una civiltà perduta, che Vico chiama il regno
degli dei. Quegli ignivomi draghi. SULLA COLOMBA Entre a pišivago, e più
superbo volo pel regno aereo l'ali fu e spandea, e di spirto novello acquisto
fea La Colomba d'Archita inverso il Polo, volgendo a caso i suoi begl’occhi al
suolo del terzo ciel la vezzofetta dea, la vide, e per rapirla già scendea da
quel de' dei seggio beato, e solo. Allor grido, e quafi fu per dire: Oh così fosse
pur la mia. Colomba, Fattasi Citerea con gran desire, di legno fols'avvide: esserl'augello.
ARCHITA. Juan. Juven. Ital. Sacr. in Tarentin. Mitrop. Lamb. in Schol. Horat. Od.) regnasse più di un’anno.
I nuove grazie adorna il suo bel volto D LLi:etasengiva in maestà reale astrea,
mirando venerato, e colto fa più volte prefetto della sua patria, ancorchè le leggi
comandassero, che nessuno in tempo di sua vita quel delle leggi fu e pregio
immortale. Quando Prudenza, il dolce fuon disciolto, figlia d' eccelsa mente, e
trionfale, non titurbar, le diffese sia tolto il primier di regnare ordine
uguale. Tempo verrà che in arme, e in toga imperi più d'un'anno al suo ftuoi,
mai sempre intento Archita a nuove glorie, e a bei pensieri. E a Leila Diva, in
cento modi, e certo muta pur leggi, e Fafti miei primieri, Purchè Archita mio
regni, io mi contento. Diogen. Laert. in Vit. Archyt. In Joan. Buno. not. ad
Philip. Cluver. ARCHITA FILOSOFO PITTAGORICO, E MATEMATICO E PERITISSIMO. Odar
chi mai tanto ti può, che basti, alma immortal degnissima d'impero? Chi dir di
tue virtudi il volo altero, per cui fovra ogni saggio alto poggiasti? Del ciel
le stelle, e i moti lor sì vasti, tu delle cose le cagioni, e'l vero, e quanto
il mare, e l'universo intero circonda, e abbraccia, chiaro a noi mostrasti, tu,
ch'eccedi de’ savii i bei consigli già di ogni uman pensier reso maggiore, quanto
il sol delle stelle avanza irai, tu, che te stesso, e null? altro somigli,
coll'auree del tuo suon note canore tu sol di tue virtù cantar potrai. Diogen.
Laert. in vit. Archyt. For eft. Joan. Juven. Tarentin. Lambin in Scbol. Horat.
Od. Nicol. Parth. Giannet. in Geograph. SEN. TARENTINO, Scrivendo contro il
Piacere. O So, chemente all'Von dona, e Tume aquella; SENTIMENTI D'ARCHITA chi
dietro alsuo piacer brutale corre, e del sensorio fà l’alma ancella, bruto
diventa agli altri bruti eguale, tutto perdendo il bel, che aveva in ella.
Senza lume si vago, e rilucente Joan. Juven. Tarentin. Mente, ch'èper fuo pregio trionfale della
divinità parte più bella che quando avvien, che sopra l'alma impero abbia il
piacere, allor cieca è lamente è cieca la ragion, cieco è 'l pensiero. Oprano i
bruti, e senza il suo primiero lume fia, chel'uom bruto anchedivente. E pur
ESER, Diogen. Lacrt. in vit. Archyt. Foreft. Joan. Juven. Tarentin.
Mille a mille empj nemici, incampo scendete pure, e con terribil grido, no uche
con quel dell'armi orrido lampo Fate tremar dell'onde Jonie illido. ESERCITO
TARENTINO NON MAI VINTO, ESSENDO CAPITANO. Là nel Galelo col suo nobil campo
Itene or lieti delle forze usate, faran del vostro suol le schiere armate, finchè
Archita sia duce, alta vendetta. ARCHITA v'aspetta il bravo duce. E già lo
strido de' corni i' fento, en el cercarlo scampo già cader vi vegg'io pel colpo
infido, ed alla patria, che il trionfo aspetta, le tolte spoglie in vostro
onormostrate. Se per ostil cadeste atra disdetta, LA, ARCHITA D'ESSER
CAPITANO, PER SOTTRARSI ALL'INVIDIA, L'ESERCITO DE TARENTINI E' FATTO PRIGIONE
DA NEMICI. Arme il fulgore insiem spaventa, e sfida co’luoi deftrieri i
cavalier, già scende sangue da larga vena in terra infida, mira Tarento mio,
quei, che fen muore, hàgli spinti l'invidia a tante pene. LASCIANDO DO di
guerra sonar le trombe orrende? di come il rio Marte all'alte strida di quel drappello,
e questo i cuori accende, perchè col ferro suo l'un l' altro ancidas arme, arme
fre me ognun: già di tremende e quei, che'l braccio stende alle catene son
dolci figli, oimè, del tuo dolore, freme contro d'Archita il rio livore,
E lull'alme innocenti il mal senviene. Diogen: Laert, in vit. Archyt. Joon.
Juven. Tarentin. AR.: ad altri venduto, ed alla fine è riscattato offri; buon savio,
soffri. Ecco fortuna S di mortal sfavillando atro disdegno sue forze impiega, e
l'arme sue raduna, per far del tuo valor sterminio indegno, già l'empia, oime!
con faccia torva, e bruna scocca saette últrici, e ben al sogno colpito hà
omai; ve come in preda d'una ti dà vile ciurmaglia in fragil legno. TARENTINO
ARCHIT. A peregrinando per imparare, è preso dà’ corsari, serve ma che sie; se
delcuorle forti tempre Alexand. ab Alexand, Joan. Juven. Tarentin. Di. Pur non
è fazia no, schiavo al servaggio Ti mena ancor, perchè nel duol di stempre il magnanimo
tuo nobil coraggio rassoda più ne'colpi suoil'Vom saggio, E di sua libertà gode
mai sempre, PLATONE DOPO AVER CAMMINATO L'EGITIO, VIENE IN ITALIA PER IMPARAR
SOTTO LA DISCIPLINA, edesti pur, come il gran Nilo altero, da perenne sboccando
occulta fonte ogni argine disprezzi, ed ogniponte, e i campi ad ipopdar si apra
il sentiero e di vi asperto di sudor la fronte delle scienze falisti all' arduo
monte, e ti fur quelle il solo premio intero, ed or, per sulle scienze alzare
un volo sotto l’aurea d'Archita arte gentile, cerchi il Galeso, e l Tarentino
luolo? Dunque in Egitto Eroenonv hà simile, CICERONE de finib. bonor. molor. Foreft:
Joan. Juven. Tarentin. DOPS V D'ARCHITA TARENTINO si, vedesti l’egizio, e 'l greco
impero, ARCHI. Nè ingegno in Grecia, al solo Archita, al solo suo noro ingegno,
anche oltre Battro, e Tile. A ARCHI. Pri, Fortuna, per un
solmomento gl’occhi, cui buja notte orrida cuopre, e mira, le il tuo solle afproardimento
contro savio maggior sua forza adopre. Questi è il gran Platone, e quegli son
que cento Folle, Re Plato al tuo servil flagello ARCHITA TARENTINO RISCATTA
PLATONE PRESO DA CORSARI. Empj ladron, per le cui mani, ed opre schiavo il
facefti; or com 'ei sparge al vento gl’infranti lacci, e in libertà li scuopre?
Com e il trionfo, che del suo servaggio ornar credesti e de' suoi guai far
bello, qual peve dilegudfli al caldo raggio? Menalti, a un cenno sol d'Archita
il saggio cara torna la libertà di quello. Joan. Juven.T'arentin. e Se
avvien, che della gloria i m i diftempre La bella gloria è tua, fe Plato
apprese che del tuo figlio al nome accrebbe il vanto, CICERONE, de
finib.bon.domal. Fiscula Joan.Juven. Tarcntin. ARCHI. ARCHITA MAESTRO DI
PLATONE. C Figlio di puro core, e viva immago, che vero io canto, efoldiluimi
appago, dice un giorno Atene in dolci tempre, dal tuo gran figlio Archita il
pregio santo, E B alme di virtude auree contefe. ella è mia pure, e téco i
fafti io canto: Poich? Ei tal lume in tutto il mondo accese, nel gaudio, el
corc in fuperbito, e pago pel mio Plato or fen vada, un don si vago A te, Tarento
mio, debbo mai sempre. ARCHITA CAMPA PLATONE DALLA MORTE INTENTATAGLI DA
DIONISIO TIRANNO. AR, Due Polato il scan Plato, ahimè, quel saggio, t
Veloce sahi laffo a tramontar quel raggio Det rio fallir le pene: omai trionfi si
bella dote, e vinca ancor sapienza. Si disse Archita; e i fieri petti, e
tronfi. Placando al gran poter d'aurea eloquenza, morrà, perchè un tiranno
indegno d'ostro sogna sospetti, e teme indarno oltraggio? Correrà, che dà lume
al secol nostro? Ed io, perchè più viva, ancor non mostro, Non mostro, ancor
dell'anima il coraggio? No, che non porterà l'alma innocenza Plato all'ombra
viveade'suoi trionfi. CICERONE Tuscul. Diogen. Laert. Vit. Archyt., o Platon.
Juan. Juven. Tarentin. Ital. Sacr. in Torentin. Metrop. Plutar. in Platon.
Sabell. Ennead. ARCHITA TARENTINO A PLATONE. Se amica pioggia a temprar mai
l'ardore scende dal ciel, non giace no più china La fronte lor, ma col nacio
colore s'innalza si, che al ciel più si avvicina; lasso ! calo io restai, allor
che infermo Starte neudj fra pene, o mio buon Plato senza ajuto languendo, e
senza schermo. Ma or che di sua vita al primo stato fatto hai ritorno, io mi
rinfranco, e fermo pertemi rendo, cfon, qual pria, beato. Q Diogen. Laert. in
vit. Archyt. Joan.Juven. Tarentin. Val Yenza umor giglio languisce, o fiore, E
scolorito à terra il capo inchina, questo il vermiglio onor, quello il candore
Perdendo a poco a poco in sua ruina: PLA. Q A te del loro autor duce sì pio in
mezzo del cammino elle si stanno, pss.) Ma giugnere alla meta orgoglio sette
Ben le vedrai, fe nuovo spirto avranno, PLATONE MANDA ISUOI COMMENTARIJ AD
ARCHITA TARENT INV. Veste assai più, che dell'ingegno mio, opre de'tuoi fudori,
onde a be'studii delle più gloriofe alte virtudi La mia mente infiammaiti, el
buon deslo, Opre dunque son elle ora imperfette. Raro è però l'onor, se a te verranno;
Più raro, le giammai fien da te lette. Diogen Lacrt. in vit. Archyt. Platon.in
Epist. Vengono, Archita. O: tu le leggi, e i nudi sensi del tuo saver poi mi
dischiudi con quella libertà, con cui le invio, PLA, Gloria dai tuoi si provvi di
sudori, soffri in regnar, grida la Patria, e uffici Mostra di quel, che sei, Signor
de cuori, E tu mal grado imperi? et ila mente Non fei; la Patria hà in te parte
del tutto. Non oscuro è il linguaggio; od i mia mente: O rendi alla tua Patria il
ben, ch'èsuo, O del suo ben fà, ch'ella n'abbia il frutto. CICERONE de finib. bonor.
comalor. la de Offic. Joan. Juven. Tarentin. in Prefate do Lib.z. Cap.2.
Platon. in Epif. gi PLATONE TÀRENTINO VN malele solo (AD ARCHITA On, a se
folo no, nasce agli Amici, nasce alla patria l'uom, nasce a Maggiori, E dal bel
nascer suo giorni felici speran questi, e sperar voglion tesori. Or soffri, o
Figlio, o tu, che tanta elici De' gran pubblici affari? ah che sol tua
SULLA AD ARCHITA TARENTINO, Del buon governo, e loro fren spogliace. O
naufragar, dall'empie arti indiscrete di piggior duce a morte ria guidate: El
soffriran del cuor le tempre? Ah fiamma D'amor mostrate, evoi la Patria bella
Reggete: omai con quell'ardor, che infiammar così lungi da lei strage rubella
Sen fuggirà, qual Cervio a i colpi, o Damma, O, che viver a voi non mai potrete;
Se non vivrete ad altri se se pensate Goder mai signoria, nè servirete Alle
pubbliche cose, alle private, O vacillar ben presto le vedrete E poi fia vostra
gloria il ben di quella. In argument. 9. ad Epist. 9. Platon, D'ARCHITA Ad de
Archita, e vidjo senza conforto E scorse fino all' ultimo confine La Terra, e il
Ciel coll'arti fue divine, Archita il grande, il nostro padre è morto! Del mar
le Dive usciro al pio lamento. SULLA MORTE. Pianger lo stuol da rio dolore
assorto. Oimè, dicean, chi dall'Occafo all'Orto, CAdele Dell'alte sue virtudi, e
pellegrine, Pallido il viso, e lacerato il crine, E in lor leggendo i gran
pubblici danni Pianfero', e poi partiro, e di Tarento Giunte alla Reggia: or vesti
i negri panni Da e r, bella Città: per tuo tormento Archita è morto ahi sul bel
fior degli anni ! Horat. ORAZIO od. E Diede il Popot Matin l'ultime prove se'l
crudo suo destino unqua vi spiacque Le bell*ossadi Lui, che tanto piacque
Abbian lieve la terra; e poi partite. Horat. od. Joan.Juven. Tarentin. za SULL’INVITO
A RIMIRARE IL TUMULO D'ARCHITA PRESSO AL LIDO MATINO, Ccop Urna funefta. Alme
ben nate, Cui di pietà l'amabil forza muove, Deh fermatevi alquanto, e rimirate,
Pria di ftendere il passo agile altrove. Qui le fante d Archita ossa onorate
Giaccio n sepolte, e qui spargendo nuove: Piogge d'amaro pianto, di pietate del
passato dolore in segno ah dite:. th Allor, che in mar precipitò, smarrite Sue
forze, e in franto illeguo in mezzo all'acques Di Natura le fonti
più segrete; Chi dall'onda fatal raplo diLete L e naufraghe virtudi, e l ebbe
accanto; Chi le vie seppe drittamonte torte, i Percui la Luna appar', el Sols’asconde,
Aili ah yoi le face offa, e'l cener fanto Di quell Almagentilahicitogliete, Che
fù si chiara al Mondo, e vi godete Della vera fapienza il facro immanto. Chi a
noi mostrò con tanto studio, e tanto Horat. od. Joan. Juven.Tarentin. SUL
SEPOLCRO EUDOS D.ARCHITA TARENTINO. Chi 'n Terra,e 'n Ciel la ferma, e mobil sorte;
chi come il foco, el Aere, el suolo, e l'onde s'abbraccin, seppe,
orquìsengiace. Oń Morte, Oh duri fastí, ohcieche ombre profonde? S quanto mai
di bello in Ciel fi additag; Ne panni no, ma nella mente fiede. Diogen. Laert. in
vit.Eudox. Foreft. Tom.1. Lib. 8.Cap. 4 Joan.
Juven, Tarentin. Q. EUDOSSO DA GNIDO FAMOSISSIMO MATEMATICO DISCEPOLO ARCHITA
NON FU'RICEVUTO DA PLATONE ALLA D Mira come in udir fuo ftile adorno La tua fuperbia,
e'lfollear direon danni. No, non dovevi il gran Figliuol d'Archita SUA SCUOLA,PER
ESSER POVERO, Vesti, o Platon, che tu schernisti un giorno Perchè di povertà
fentia gli affanni Questi è colui fe pur nol fai che intorno Del fuo grave
faver difpiega i vanni, Gnido vi spenda il più bel fior degli anni; E come
giusta ad immortal tuo scorno Si vilmente scacciar dalla tua fede Qualor
baffamenava umile vita. Poichè virtude, onde 1 U o m farli erede. ARCHYTAS OF
TARENTUM (fifth/fourth century BC) Archytas was a Pythagorean and a friend of
Plato. When Plato got into trouble in Syracuse, Archytas sent Lamiscus of
Tarentum to go and rescue him. His interests were wide-ranging, but lay
primarily in pure and applied mathematics. It is thought that Plato acquired a
great deal of what he knew about mathematics from Archytas. He made advances in
geometry and contributed to musical theory. According to lamblichus of Chalcis,
he took the view that parts could only be understood properly in the context of
the wholes to which they belonged. However, it is not clear whether this view
should properly be attributed to him as his name became attached to a number of
later Pythagorean writings long after his death. Huffman, Archytas of Tarentum:
Pythagorean, Philosopher and Mathematician King, Cambridge, Cambridge
University Press, Huffman, 'Archytas', The Stanford Encyclopedia of Philosophy,
Zalta, plato.stanford Archita. Archita da Taranto. Taranto. Keywords:
Cicerone, scuola di Crotona, scuola di Taranto, scuola di Ponto Magno, la
colomba d’Archita, Platone, magna Grecia, piccione viaggiatore, il vuolo della
colomba, Gellio, Notte romane. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taranto” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tari:
la ragione conversazionale e l’origine del linguaggio, o la questione spuria
favorita da Grice – la scuola di Villa
Santa Maria Capua Vetere – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Villa Santa Maria
Capua Vetere). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Capua Vetere, Caserta,
Campania. Di famiglia originaria di Terelle, nel Frusinate, nasce in palazzo Mazzocchi,
anch'essa rientrante in Terra di Lavoro, da un impiegato che si trova lì di
passaggio. Il palazzo natìo ove aveva schiuso gl’occhi anche l'archeologo
Mazzocchi. Studia a Montecassino, dove conosce SPAVENTA (si veda). Si trasfere a
Napoli dove si laurea. Ben presto però all'avvocatura prefere la filosofia,
unendosi all'amico SPAVENTA, a CUSANO, a SANCTIS, e ad altri filosofi liberali
e collaborando a vari giornali letterari partenopei. Entra per concorso nella
Regia Napoli, divenendo cattedratico di estetica, nello stesso periodo in cui
vi insegnano anche SANCTIS, SETTEMBRINI, SPAVENTA, E BOVIO. Si dedica a vari
rami della filosofia e delle scienze del linguaggio per Detken, saggi di Brothier,
Moindron e Noel. Il suo sistema
estetico, variamente criticato, in particolare per la scarsa originalità, si
caratterizza per una vivacità espressiva, con ricche e talvolta variopinte
esemplificazioni, che peraltro ne resero celebri e molto frequentate le
lezioni. CROCE define T. il lieto giullare della filosofia. T. non ha mai
nemici, riuscendo a farsi ben volere sia dagl’amici sia dagl’avversari, che
prende a braccetto, e li mena a spasso con sé, DIVERTENDOSI A CONTRA-DIRLI -- e
a sentirsi contradetto. Quasi ad avallare la definizione sopra riportata, ha anche a rilevare che la sua bizzarra
genialità gli fa trovare piacere nei ravvicinamenti e collegamenti più
disparati e più comici: della frase sublime con la scherzosa, del ricordo
solenne con l'aneddoto salace, del linguaggio latino o del tedesco col
vernacolo napoletano. Parla in gergo, ma in gergo che è quintessenza di cultura
e stravagante miscuglio di elementi geniali. Filosofo di professione ed uomo di
dottrina enciclopedica, nonostante tutta la sua perizia filosofica, la sua
sterminata dottrina e il suo molto acume, e soprattutto un bizzarro artista. La
sua concezione metafisica non gli concede una trattazione veramente logica dei
problemi. Ma la sua personalità, vibrante di commozione innanzi alle opere
dell'arte, riboccante di entusiasmo, dotata di bontà e di nobiltà di sentire,
gl’ispira una filosofia che e di una specie assai rara in Italia. L'essenza
giocosa si mischia, confondendosi, con un'acuta critica, che si rivolge a
tutti i campi in cui l'estetica si sostanzia e, in particolare, ad una delle
arti al quale e più attratto, come la musica, il melodramma, o la logica
formale proposizionale del Portico. Tra il serio e il faceto, infatti, pubblica
un saggio su Serietà e ludo, Regia Università, Napoli, e compone un saggio
musicale, con tanto di note, dal titolo in tal senso emblematico di “Lezioni di
estetica generale”. Questo indirizzo lo porta ad occuparsi anche sulla celebre
pastorale di Beethoven. Altre saggi: Estetica ideale, Fibreno, Napoli, Ente
spirito e reale: confessioni filosofiche, Regia Università, Napoli, Melodramma,
dramma, Regia Università, Napoli, Critica, Vecchi, Trani, Estetica e metafisica,
Laterza, Bari, Estetica esistenziale, Morano, Napoli, L'estetica reale, Prometheus,
Milano, Dizionario dei cittadini notevoli di Terra di Lavoro antichi e moderni,
Forni, Bologna, Ed. Spartaco, Santa Maria Capua Vetere; Licatese, Storia e
monumenti di Santa Maria Capua Vetere, Stampa Sud, Curti, Storia popolare della
filosofia, Detken, Napoli, Origine del linguaggio, Detken, Napoli, Il contratto,
Detken, Napoli; Croce, La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, Laterza,
Bari, Lezioni d’estetica generale, Tocco, Napoli, La sinfonia pastorale, Regia
Università, Napoli, Leotta, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, Solitario,
La Critica di CROCE. Contributo per un recupero, Prometheus, Milano; Solitario,
Cultura filosofica, Prometheus, Milano; Treccani Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Archivi di Teatro Napoli. Antonio Tari. Tari.
Keywords: ‘origine del linguaggio.” Refs. Luigi Speranza, “Grice e Tari” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tartarotti:
la ragione conversazionale della differenza delle voci nella lingua italiana e
la sua rilevanza filosofica, o dell’ omicidio rituale -- la scuola di Rovereto – filosofia trentina
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo trentino. Filosofo italiano. Rovereto,
Trento, Trentino-Alto Adige. Divenne famoso per aver contrastato i processi
contro i streghi e per aver osteggiato la devozione per il vescovo del XII
secolo Adelpreto, mettendone in discussione santità e martirio. Impersona
la figura del filosofo che non si lascia limitare dal luogo nel quale nasce,
cioè nel Trentino, lontano dai grandi centri culturali del tempo. Sa anzi
sfruttare le opportunità e le peculiarità di Rovereto, al confine tra mondo
tedesco e italiano, in un periodo storico nel quale rifiorirono i commerci e i
rapporti economici, grazie al suo trovarsi su una delle principali vie di
comunicazione in Europa. Suo merito è la capacità di saper tessere legami con filosofi
italiani che risiedevano a Venezia, Roma, Salisburgo, Torino, Brescia, Vienna,
Innsbruck. Utrecht e Parigi. Studia nell'imperial regio ginnasio. Si
interessa di filosofia, che segue a Padova. Si interessò personalmente per far
insediare nella Città della Quercia la stamperia di Berno e fonda l'Accademia
dei dodonei. A Verona conosce Maffei e altri filosofi, poi ad Innsbruck, dove lavora
di precettore. Si trasfere a Roma, come segretario di Passionei. Durante
le sue permanenze roveretane, vive nella stessa casa dove abita Vannetti e dove
questi iniziarono a tenere un vivace SALOTTO FILOSOFICO che porta,
probabilmente su ispirazione dello stesso T., alla nascita all’altra accademia,
degl’agiati. Il soggiorno romano è breve, per passionati contrasti con
PASSIONEI, quindi fa ritorno a Rovereto. Si trasfere a Venezia, come
collaboratore di Foscarini. Ha discussioni anche con Foscarini e torna ancora
una volta a Rovereto. T. si dimostra poco propenso ad accettare l'aiuto di
mecenati che lo avrebbero limitato nella sua libertà e approfittò dell’occasioni
che gli venivano offerte lontano da Rovereto per consultare biblioteche o
incontrare filosofi. Tartarotti si dedica agli studi filosofici
interessandosi per approfondire tematiche della scolastica. Infatti, scrive saggi
critici nei confronti di questa. Collabora con Calogerà per la sua Raccolta
d'opuscoli scientifici e filologici, e venne in polemica con Trento
dimostrando, in una sua pubblicazione, che la città tridentina divenne sede
episcopale solo nel IV secolo e non al tempo dei primi apostoli. Pubblica
“Congresso notturno delle lammie”, il suo saggio più noto, nel quale dichiara
inesistente la stregoneria come la si vuole descrivere al suo tempo, e questo
sulla base della FILOSOFIA. Pubblica nei “Rerum Italicarum scriptores” le sue
conclusioni relative alla cronaca di Dandolo e correggendone le fonti nelle sue
basi documentarie. Continua nelle indagini storiche e dimostra che era
sbagliata la venerazione dei trentini per Adelpreto. La sua tesi è spiegata
nella Lettera contro la santità (se non il martirio) d’Alberto. Un’altro
saggio, sempre legato a questo tema sono le Notizie istorico-critiche intorno a
Adalpreto.” Questo saggio venne messo al rogo su disposizione del principe d’Enno.
Sempre amante della piu oscura filosofi, quando non gli fu possibile viaggiare
per acquistare trattati personalmente si affida a contatti che col tempo
divennero per lui preziosi per procurarseli. A Verona poté contare su Ottolini,
a Brescia su Mazzucchelli, a Modena su Muratori, a Venezia su Carli. A Rovereto
è molto vicino a Vannetti, degl’agiati, e anche da lui ebbe aiuti per procurasi
i testi dei quali aveva bisogno per i suoi studi. A Vannetti è legato anche per
altri motivi, essendo precettore del fratello di lei. Si procura libri
anche grazie a donazioni, eredità e prestiti. Vannetti e Saibante si
spesero dell’acquisizione culturale per Rovereto avesse successo, e l'atto di
compravendita venne registrato. T. è molto attivo a Rovereto e si spese per
portare una maggior apertura culturale in città facilitando l'arrivo di un
tipografo, fondando l'accademia dei Dodonei, svolgendo il ruolo di precettore
per due dei fondatori dell'Accademia Roveretana degli Agiati, ma non divenne
mai un socio di quella istituzione. Le ragioni del suo rifiuto di far
parte di quell'accademia, che pure risponde a molte delle esigenze che sente
anche sue, sono diverse. La principale è la forte inimicizia con Maffei, e il
fatto che l'uomo di lettere veronese entra tra i primi come socio aggregato
dell'associazione. Questo fa sì che non partecipa alle riunioni del nascente
sodalizio culturale roveretano. Altri saggi: “Ragionamento intorno alla
poesia lirica Toscana”; “Delle disfide letterarie, o sia pubbliche difese di
conclusion”; “De auctoribus ab Andrea Dandulo laudatis in Chronico Veneto”; “Apologia
del Congresso notturno delle Lammie”; “Memorie antiche di Rovereto e dei luoghi
circonvicini”, “Apologia delle Memorie antiche di Rovereto”; “Lettera seconda
di un giornalista d'Italia ad un giornalista oltra-montano sopra il libro
intitolato: Notizie istorico-critiche intorno al b. m. Adalpreto Vescovo di
Trento, Alcuni saggi sono pubblicati nella Raccolta d'opuscoli scientifici e
filologici: “Relazione d'un manoscritto dell'Istoria manoscritta di Giovanni
Diacono veronese”; “Dissertazione intorno all'arte critica”; “Lettera al sig.
N. N. intorno alla sua tragedia intitolata ‘il Costantino’; LETTERA INTORNO
ALLA DIFFERENZA DELLE VOCI NELLA LINGUA ITALIANA; “Osservazioni sopra la
Sofonisba del Trissino con prefazione di Vannetti, La conclusione dei frati
francescani riformati; Annotazioni al Dialogo delle false esercitazioni delle
scuole d'Aonio Paleario. Annotazioni
Ipotesi avanzata da Baldi, Direttore della Biblioteca civica T. e membro
dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Baldi. Farina, Mostra T., Mostra T., Muratori, “Rerum
Italicarum scriptores”. Mediolani, ex typographia Societatis Palatinae in Regia
Curia, Tartarotti, (check). Trinco, Mostra T., Sito Biblioteca Civica T., su
biblioteca civica. Rovereto Comune di
Rovereto. Baldi, La Biblioteca civica T. di Rovereto: contributo per una storia”
(Calliano,Trento); Manfrini, La letteratura italiana, Milano-Napoli, Ricciardi,
Franchini, Adversum malleum maleficarum, biografia del filosofo pre-illuminista
roveretano” (Rovereto, Stella); Cusumano, “Ebrei e accusa di omicidio rituale --.
Il carteggio tra T. e Bonelli” (Milano, Unicopli); Farina, “Gl’Agiati” (Brescia,
Morcelliana), Filosi, La Biblioteca di T.:
filosofo roveretano: Rovereto, Palazzo Alberti, Rovereto, Provincia autonoma,
Servizio beni librari e archivistici, Comune di Rovereto, Biblioteca civica T.,
Trinco, San Marco in Rovereto: la chiesa arcipretale tra storia, arte e devozione,
Mori, La grafica, Gl’agiati roveretani, Biblioteca civica T. Treccani Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Girolamo Tartarotti. Tartarotti. Keywords: accusa di
omicidio rituale, la differenza delle voci nella lingua italiana. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Tartarotti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tataranni:
la ragione conversazionale del gusto per l’antico – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Matera).
Filosofo basilicatese. Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Lucano di
origine, esponente dell'illuminismo napoletano. Non sappiamo a quale ceto
appartenesse la sua famiglia, ma sicuramente essa è fornita dei mezzi economici.
Non a caso, quando è battezzato nella chiesa cattedrale di Matera, i suoi
genitori scelsero come padrino il nobile Ferraù. Sin da ragazzo matura
quella che è la sua vocazione, tanto che divenne prima allievo del seminario
diocesano. Sebbene ha una posizione di un certo rilievo sia in ambito
ecclesiastico, sia in ambito educativo, non mostra alcun tentennamento
nell'accettare l'invito del principe di Francavilla, che lo vuole a Napoli per
affidargli la direzione della sua paggeria. Grazie a questo incarico,
accrebbe ancor di più la stima di cui già gode, stringendo rapporti amichevoli
con i filosofi più illustri ed autorevoli del tempo, incardinate nella reale accademia
delle scienze e belle lettere. Ha la possibilità di frequentare proprio tali
stimolanti dibattiti, che del resto avrebbero formato l'humus delle sue future
riflessioni, in qualità prima di direttore della paggeria, poi della scuola
militare del real collegio militare -- ufficialmente reale accademia militare
-- fortemente voluta da Ferdinando IV, che mostra di aderire al generale clima
di rinnovamento e consolidamento delle istituzioni militari del suo regno. Ha
l'onore di esserne il direttore, partecipando vivamente, dunque, al graduale
svilupparsi e moltiplicarsi dell'alveo della cultura politica riformatrice, che
ancora auspica un reale cambiamento all'interno dello stesso apparato
monarchico. Così, nell'arco di un settennio, pubblica dei saggi molto
significativi, in cui è evidente il suo tracciato ideale di
società. Tuttavia, in seguito agl’avvenimenti, quindi dopo il concordato e
dopo la fallita congiura di Lauberg, le sue posizioni rispetto alla politica e allo
stato cambiano tangenzialmente. Con questa disillusione coincide il silenzio
del filosofo materano, che in quegl’anni si limita, a quanto noto, a proseguire
i suoi studi come direttore ed al giardino. La delusione, si può ipotizzare, lo
spinge a tacere fino alla proclamazione della repubblica, quando dichiara sicuro
dell'importanza dell'istruzione del popolo e del nuovo cittadino, elabora il catechismo
nazionale pe'l cittadino, nel quale incoraggia il popolo a difendere i principi
della rivoluzione a vantaggio dell'umanità intera. Il catechismo vince il primo
premio indetto dal governo e venne adottato come catechismo ufficiale della repubblica
ed ha il compito di educare i SUDDITI – I SUDDITI DI ROMOLO -- a divenire CITTADINI
– BRUTO E SUOI CO-CITTADINI. Alla caduta della repubblica riusce a porsi in
salvo, rifugiandosi a Matera, nei cui tribunali, in tale periodo, venneno
esaminate le posizioni di ben rei di stato lucani, dei quali sono condanati all'esportazione
e VII a morte. Comunque, a Matera puo contare su solide relazioni interne al
locale capitolo cattedrale. Più volte tiene a sottolineare l'importanza della
triade divino-ragione-sentimento, in una sorta di compromesso tra illuminismo,
sensismo e religione. Inoltre, caratteristica della sua filosofia è una
forte connotazione politica, mirando alla figura del sovrano quale principale
esempio per i SUDDITI, capace di governare un regno che si fonda su solidi
valori, legati all'importanza della famiglia, della civiltà contadina e della
piccola proprietà terriera, quest'ultima ottenuta con un giusto ed onesto
lavoro. È da evidenziare come il T. professa idee di una peculiare modernità,
al punto da convincersi che il passaggio verso una nuova stagione dell'umanità
avvenne attraverso la costituzione di una dieta universale. T. sostene,
infatti, che, ad ogni rappresentante dell’organismo, esse ha espresso i giusti
diritti del re (mon-arca) al fine di raggiungere la felicità COMUNE e la PUBBLICA
sicurezza, ponendosi, negl’ordini e nelle attività sociali, sull'unica
distinzione del merito. Notevole importanza e, poi, assegnata al ruolo
dell'educazione e dell'istruzione, poiché afferma l'importanza dello studio
delle litterae humaniores -- unico mezzo per riscoprire i principali temi della
filosofia antica ed attualizzarli. Inoltre, T. si fa anche sostenitore
dell'istruzione in geometria pura e, ancora una volta, suggere di avviare gl’alunni
sin dall'età più tenera al processo educativo, seguendo le direttive di Pitagora.
Il filosofo-riformatore auspica tutto questo in un contesto socio-economico che
riserva particolare attenzione all'attività agraria (agrimensura) e ad una
pratica religiosa semplice “pura, e brieve.” Dunque, predica il ritorno alla
religione delle origini, costruita sull'aiuto reciproco tra gl’individui, in
modo che gli’uomini si rassomiglino in qualche modo all'ente supremo d'infinità
bonta. Pertanto, afferma che i filosofi dovessero essere esenti dalle pubbliche
cariche e che come gl’altri uomini dovessero essere soggetti alla giurisdizione
dei giudici laici nelle loro cause civili. Il primo, monumentale, saggio è il
Saggio d'un filosofo politico amico dell'uomo (Napoli). Con la composizione di
questo saggio, T. si propone di delineare il suo tracciato ideale di società,
confidando nella figura del sovrano. Infatti, già il titolo dell'opera risulta
molto significativo, in quanto T. si presenta come un filosofo con
atteggiamento “filantropico” nei confronti di Ferdinando IV, al fine di
mostrargli la retta direzione per guidare un giusto governo ed attuare delle
riforme interne allo stesso apparato monarchico, favorevoli alle idee
democratiche. La fiducia che ripone nei riguardi del monarca vienne ancora
espressa nel “Ragionamento sul carattere religioso di Carlo III umiliato a
Ferdinando IV re delle Due Sicilie” (Napoli). Si tratta di un panegirico
riferito al *padre* del sovrano, Carlo di Borbone, che, spentosi l'anno
precedente, vienne proposto come esempio da seguire al suo erede. In tal senso,
egli si rivolge ancora pieno di ammirazione nei confronti di Ferdinando IV nel “Ragionamento
sulle sovrane leggi della nascente popolazione di S. Leucio umiliata alla
maestà di Ferdinando IV re delle Due Sicilie” (Napoli). Nella “Brieve memoria
sull'educazione nazionale dei nobili guerrieri,” T. affronta il tema, a lui
caro come direttore di istituti di formazione, dell'educazione dei militari. T.
adere alla repubblica, ma, convinto dell'importanza che rivestiva la formazione
del popolo e del nuovo cittadino, decide di redattare e pubblicare questo catechismo
nazionale pe'l cittadino. Archivio Diocesano di Matera, Cattedrale, Battesimi Lerra.
Catechismo nazionale pe’l cittadino. Progetto di cultura politica e ruolo
dell'antico. Lerra XVII. Chiosi, Lo
spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell'età dell'illuminismo (Napoli,
Giannini); Bruno, "Catechismo nazionale pe' il cittadino". Contributo
alla storia della repubblica partenopea -- "Studi Meridionali", Cronache
di una rivoluzione: Napoli (Angeli, Milano); Lerra, L'albero e la croce: istituzioni
e ceta dirigente nella Basilicata, Napoli, ESI, Bruno, Il catechismo nazionale
pe' il cittadino" (noterelle di storia napoletana), in Scritti in onore di
Trifone, Storia Meridionale, II, Sapri,
Ed. del Centro Librario, Bruno, "Catechismo nazionale pe' il
cittadino". Contributo alla storia della Repubblica Partenopea, in Studi Meridionali,
Guerci, Istruire alle verità
repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell'Italia in rivoluzione”
(Bologna, il Mulino); Caserta, Teologo della rivoluzione napoletana, Napoli,
Vivarium, Capobianco, La pedagogia dei catechismi laici nella Repubblica
napoletana (Napoli, Liguori), Lerra, Catechismo nazionale pe' l cittadino.
Progetto di cultura politica e ruolo dell'antico, Manduria-Roma-Bari, Lacaita, Andria,
T.: un riformatore napoletano in limine, in Sguardi sul mezzogiorno, Quaderni
eretici -- studi sul dissenso politico, religioso e letterario, Illuminismo in
Italia Repubblica Napoletana. Storia della Basilicata Un'analisi dei
concetti politici nel catechismo, su nuovo monitore napoletano. L'indice
ragionato del Filosofo Politico amico dell'Uomo La Brieve memoria in edizione
integrale. Onofrio Tataranni. Tataranni. Keywords: filosofo principe, i sudditi
e i cittadini, il popolo sovrano – sovrano e monarca, filantropia del re. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tataranni” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tatiano: la ragione conversazionale -- ogni
filosofo è arrogante – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds a sect in
Rome which he calls The Encratites’ – the self-controlled ones. Ippolito claims
they are more followers of the Cinargo than anything else. T. famously accuses
all philosphers of arrogance – “including himself,” as IRENEO di LIONS noted in
his review of the tract.
Luigi Speranza -- Grice e Taumasio: la ragione conversazionale della
dialettica come anti-romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A pupil of Plotino
and Porfirio at Rome. He finds their style of teaching – through questions and
answers – to be very ‘silly,’ and ‘uncongenial to a proper Roman,’ preferring
instead the old ‘formal lecture’ of his ancestors. “And right he was, too!” –
H. P. Grice.
Luigi Speranza -- Grice e Teage: la ragione conversazionale degl’ottimati
di Crotona – Roma – la scuola di Crotone
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. According
to Giamblico, a Pythagorean, who seeks to introduce more democratic
institutions into Crotone. STOBEO (si veda) preserves fragments of a little
treatise T. writes on this – “On Virtue – possibly by a later philosopher,
though. The treatise is not well known, and as a result of this ignorance, the
sect is destroyed without a trace, by the real democrats, who think that the
sect was pro-aristocratic, only!
Luigi Speranza -- Grice e Teagene: la ragione naturale del naturale, del
tras-naturale, e del sopra-naturale –
Roma – la scuola di Reggio Calabria -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Reggio,
Calabria. T. argues that a myth or a legend – such as a she-wolf having
nurtured the founder of Rome, and his twin brother – should be interpreted *allegorically*
or analogically. T. also claims that what people regard as an act of a god (say,
Romolo, once divinised, or when the statue of the she-wolf is struck by a
lightning – is only a natural (fisico), not trans-natural (meta-fisico) o
super-natural (iper-fisico) phenomenon. Cf. Psicologia, para-psicologia.
Luigi Speranza -- Grice e Teagene: la ragione conversazionale del cinargo
di Roma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cinargo. T. gives his
seminars in the foro di Traiano. He dies, unfortunately, when he consults Attalo
about a problem he is experiencing with his the liver, and for which Attalo gives
him the totally wrong treatment and medication – hemlock, mixed with beans -- causing
the philosopher’s death.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teanor: la ragione
conversazionale del filosofo come dramatis persona -- Roma – la scuola di
Crotone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Crotone, Calabria. Filosofo italiano. A
Pythagorean, he appears as a character in some of the dialogues by Plutarco.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tearida: la ragione
conversazionale -- il principio conversazaionale è uno – Roma – la scuola di
Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata.
T. composes an essay entitled, “Della natura” – where he argues that everything
comes from one single first principle. Cited by Clemente of Alexandria. He may
have attended the sect at Crotone. “Or not.” – Grice.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Telecle: la ragione
conversazionale della diaspora di Crotona -- Roma – la scuola di Metaponto -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Telesio:
la ragione conversazionale del filosofo sperimentale – la scuola di Cosenza -- filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Grice italico -- Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Cosenza). Filosofo cosentino. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Cosenza, Calabria. Mentre le sue teorie naturali
sono state successivamente smentite, la sua enfasi sull'osservazione fa il
primo dei moderni che alla fine hanno sviluppato il metodo scientifico. Nato
da genitori nobili, è istruito a Milano dallo zio, lui stesso uno studioso e
poeta di eminenza, e poi a Roma e Padova. I suoi studi hanno incluso tutta la
vasta gamma di argomenti, classici, scienza e FILOSOFIA, che costitusceno il
curriculum degli rinascimentali sapienti. Così equipaggiata, inizia il suo
attacco sul LIZIO medievale che poi fiorisce a Padova e Bologna. Fonda
l’Accademia cosentina. Per un certo periodo vive nella casa del duca di Nocera.
Il suo grande saggio è “Sulla natura delle cose secondo i loro propri
principi,” seguito da un gran numero di saggi di importanza sussidiaria.
L’opinioni eterodosse che mantenne suscitano l'ira di Roma per conto del suo
amato LIZIO. Tutti i suoi saggi sono stati immessi sul “Index.” Invece di
postulare materia e FORMA, T. basa l'esistenza sulla materia e FORZA. Questa
forza ha due elementi opposti. Il primo elemento è il calore, che espande la
materia. Il secondo è il freddo, che la contræ. Questi due processi
rappresentano tutte le tipi di esistenza, mentre la MASSA su cui opera la FORZA
rimane la stessa. L'armonia del tutto consiste nel fatto che ogni cosa separata
sviluppa in sé e per sé conformemente alla sua natura e allo stesso tempo la
sua MOSSA avvantaggia il resto. I difetti di questa teoria, che solo i sensi
possono non comprendere materia o MASSA stessa. Non è chiaro come la
molteplicità dei fenomeni puo derivare da queste due forze. Pensato, non è meno
convincente di Aristotele caldo/freddo, secca spiegazione/umido, e che addotta
alcuna prova per dimostrare l'esistenza di queste due forze, sono stati
sottolineato a suo tempo. Inoltre, la sua teoria della terra fredda a riposo e
il sole caldo in moto è destinato a confutazione per mano di Copernico. Allo
stesso tempo, la teoria è sufficientemente coerente per fare una grande
impressione sulla filosofia italiana. Va ricordato, però, che la sua
obliterazione di una distinzione tra la fisica super-lunare e la fisica
sub-lunare certamente abbastanza preveggente anche se non riconosciuto dai suoi
successori come particolarmente degno di nota. Quando T. continua a spiegare la
relazione tra mente o anima e materia, e ancora più eterodosso. Le forze
materiali sono, per ipotesi, in grado di sentire. Questione deve anche essere
stato fin dal primo essere vivo dotato di coscienza. Per la coscienza, o anima,
esiste, e non avrebbe potuto essere sviluppato dal nulla. Questo porta T. a una
forma di ilo-zoismo. Anche in questo caso, l'anima è influenzata dalle
condizioni materiali o della massa e la forza. Di conseguenza, l'anima deve
avere un esistenza materiale. Inoltre, T. dichiara che tutta la conoscenza è
sensazione ("non-ratione sensu sed") e che l'intelligenza è, quindi,
un agglomerato di dati isolati, in sensi. Non lo fa, però, riesce a spiegare
come solo i sensi possono percepire la differenza e identità. Alla fine del schema
di T., probabilmente in ossequio ai pregiudizi teologici, aggiunta un elemento
che e completamente estraneo, vale a dire, un impulso più alto, un'anima
sovrapposta dal divino, in virtù della quale ci sforziamo di là del mondo
sensibile. Questa anima divina non è affatto un concetto completamente nuovo,
se visto nel contesto della teoria percettiva d’Averroe e Aquino. L’intero
sistema di T. mostra lacune nella sua tesi, e l'ignoranza dei fatti. Allo
stesso tempo, T. è un precursore di tutte le successive scuole dell'empirismo e
segna chiaramente il periodo di transizione da autorità e la ragione di
SPERIMENTARE e individuale responsabilità. Nel ricorso ai dati sensoriali, T. è
il capo del grande movimento italiano del sud, che protesta contro l'autorità
accettata della ragione astratta e semina i semi da cui spuntavano i metodi
scientifici di CAMPANELLA (si veda) e BRUNO (si veda), e di Bacon e Descartes,
con i loro risultati ampiamente divergenti. T. quindi, abbandona la sfera
puramente intellettuale e ha proposto un'indagine sui dati forniti dai sensi,
dai quali ha ricoperto che tutta la vera conoscenza viene veramente. La sua
teoria della percezione sensoriale è essenzialmente una ri-elaborazione della
teoria di Aristotele dal De anima). Nota all'inizio del proemio del primo libro
della terza edizione del De Rerum Natura Iuxta propria principia Libri Ix che
la costruzione del mondo e la grandezza dei corpi in esso contenuti, e la
natura del mondo, è da ricercare non dalla ragione, come è stato fatto
dagl’antichi, ma è da intendersi per mezzo di osservazione. Mundi
constructionem, corporumque in eo contentorum magnitudinem, naturamque non
ratione, quod antiquioribus factum est, inquirendam, sed sensu percipiendam.
Questa affermazione, che si trova sulla prima pagina, riassume ciò che molti
studiosi moderni hanno generalmente considerato la filosofia di T., e spesso
sembra che molti non leggere oltre per nella pagina successiva si imposta il
suo caldo teoria/freddo della materia o massa informata, una teoria che non è
chiaramente informata dall’osservazione. L’osservazione (sensu percipiendam) è
un processo dell’anima molto più grande di una semplice registrazione dei dati.
L’osservazione comprende anche l’analogia. Anche se Bacon è generalmente
accreditato con la codificazione di un induttivo metodo che sottoscrive
pienamente l'osservazione come procedura primaria per l'acquisizione di
conoscenze, non è certamente il primo a suggerire che la percezione sensoriale
è la fonte primaria della conoscenza. Tra i filosofi naturali del Rinascimento,
questo onore è generalmente conferito a T.. Bacone si riconosce T. come il
primo dei moderni. De T. autem bene sentimus, atque eum ut amantem veritatis, e
scientiis utilem, e non nullorum Placitorum emendatorem et novorum hominum primum
agnoscimus. – Bacone, “De principiis atque originibus.” Per mettere
l'osservazione di sopra di tutti gl’altri metodi di acquisizione delle
conoscenze sul mondo naturale. Questa frase spesso citata da Bacon, però, è
fuorviante, perché semplifica eccessivamente e travisa l'opinione di Bacone di
T.. La maggior parte del saggio di Bacon è un attacco a T. e questa frase,
invariabilmente fuori contesto, facilita un malinteso generale della filosofia
naturale di T. dando ad essa un timbro baconiana di approvazione, che era
lontano dalle intenzioni originali di Bacon. Bacone vede in T. un alleato nella
lotta contro l'antica autorità. Ma Bacone ha poco positivo da dire su
specifiche teorie di T. della mossa della massa per la forza. Ciò che forse
colpisce di più De Rerum Natura è il tentativo di T. di meccanizzare il più
possibile. Si sforza di spiegare tutto chiaramente in termini di materia
informati – la mossa della massa colla forza -- dalla calda e fredda e per
mantenere i suoi argomenti il più semplice possibile. Quando i suoi colloqui si
rivolgono agl’esseri umani, introduce un istinto di auto-conservazione per
spiegare le loro motivazioni. E quando discute l’anima e mente umana e la sua
capacità di ragionare in astratto su argomenti immateriali e divine, aggiunge
un’anima divina. Per senza anima, tutto il pensiero, dal suo ragionamento,
sarebbe limitato alle cose materiali. Ciò renderebbe il divino impensabile e
chiaramente questo non è il caso, per l'osservazione dimostra che la gente
pensa del divino. “De rerum natura iuxta propia principii libri IX” (Horatium
Saluianum, Napoli). Altre saggi: “De Somno”; “De la quæ in ære fiunt de mari de
cometis et circulo lactea respirationis. De USU. Gl’appunti Riferimenti.
Deusen, Telesio: primo dei moderni. De La sua, Quæ in ære Sunt, et de Terræ
motibus piena. GENTILE T. CON APPENDICE BIBLIOGRAFICA BARI LATERZA Questa
commemorazione, scritta per invito del Comitato per le onoranze a T. nella
ricorrenza del quarto centenario della sua nascita, e letta, tranne poche pagine,
nel Teatro Comunale di Cosenza, poteva e non vuol essere una monografia su T,;
ma soltanto una caratteristica della sua personalità e della sua filosofia
guardata nel processo generale del pensiero speculativo. Ciò spiega perche essa
si estenda un po ' largamente sulla storia degli antecedenti. Aggiungendovi,
per questa stampa, oltre le note necessarie, una bibliografia, 1 nè sembralo
opportuno riprodurre in essa dalle vecchie edizioni raiùssime degli scritti
telesiani dediche e proemii, che sono documenti biografici e storici
notevolissimi, poiché m'è accaduto di vederli non di rado citati di seconda
mano pur dagli studiosi più diligenti, ai quali non era riuscito di averli
sott'occhio. Dietro al chiarore del rinascimento, sullo sfondo dell’orizzonte,
s’addensa ancora la nebbia medievale; e la luce nascente s’imporpora dei
riflessi fumiganti di quella nebbia, che il sole alto, splendente nel mezzo del
cielo, spazzerà, quando all’alba della rinascenza sarà successo il gran giorno
dell’età moderna. In quella prima ora le vecchie idee sono morte; ma, pur
morte, rimangono nel pensiero umano, e l’impediscono e l’opprimono con la
gravezza di ciò che, estraneo alla vita, attraversa il processo della vita. Le
idee nuove, quelle che sono anche oggi la sostanza del nostro spirito, si sono
annunziate, anzi affermate con la vivacità impetuosa e fremente, con
l’entusiasmo gioioso della giovinezza, che ha per sè l’avvenire, e non sente il
passato che si lascia alle spalle. Ma la loro affermazione per noi è piuttosto
un annunzio: manca lo sviluppo logico, in cui è la vita vera e concreta delle
idee, e manca l’integrazione, che il lembo della verità intravvista raccolga
nella coscienza coerente • del tutto, dove ogni parte ha il suo valore
organico. E lo sviluppo e l’integrazione mancano, perchè il nuovo è commisto e
ravvolto nel vecchio: e si va innanzi, come infatti è dei giovani, senza sapere
distintamente che cosa si lascia e che cosa si cerca, e quale è il cammino:
portati dall’istinto della vita, che perverrà più tardi alla netta coscienza
del nuovo in quanto negazione del vecchio. Perciò tutti i pensatori di questa
età hanno due facce, e ci presentano contraddizioni, che paiono spiantare i
principii stessi del loro filosofare: e chi guarda a una sola faccia, non riesce
a più rendersi conto dell’altra; e c’è chi di costoro ne fa gli iniziatori, a
dirittura, del pensiero moderno, e chi li re- ' spinge indietro, alla
scolastica dei tempi di mezzo: laddove il loro significato storico è in questa
posizione, che occupano, tra una filosofia che hanno solo virtualmente superata
e una filosofia che solo del pari virtualmente essi affermano. Trascurare
cotesto residuo esanime, che resiste nei loro sistemi alle loro intuizioni
innovatrici, in tutti questi filosofi, dal Poinponazzi a Bruno e a Campanella,
non è possibile: vien meno tutto il significato di queste medesime intuizioni,
che fanno di loro i precursori dei più grandi filosofi moderni; e non si
spiegano più atteggiamenti essenziali, parti vitali del loro pensiero; ma, sopra
tutto, diviene un mistero perchè il germe di verità, che essi si recano in
mano, rimanga soltanto un germe, di cui la vita s’arresti appena cominciata.
L’uomo del medio evo si era travagliato in una contraddizione, che si può dire
organica, perchè ne dipendeva la vita stessa del pensiero: contraddizione, i
cui termini, se si vuol considerare il processo generale della storia ne’ suoi
grandi tratti, si possono designare come la filosofia greca e la fede
cristiana: due termini, che il pensiero tentò tutte le vie, lungo più di un
millennio, di conciliare; ma erano inconciliabili per lui, assolutamente, sul
terreno in cui egli era posto; perchè, a dirla brevissimamente, la filosofia
sua, che avrebbe dovuto operare la conciliazione, era tuttavia la filosofia greca,
e cioè uno dei due termini stessi antagonisti. T. La filosofia greca è il
pensiero che si vede fuori di sè: e si vede perciò o come natura, nella sua
immediatezza sensibile, o come idea, che non è atto del pensiero che pensa, ma
cosa in cui il pensiero si affisa, e che presuppone come verità eterna e
ragione eterna di tutte le cose e della sua stessa cognizione parallela alla
vicenda delle cose: in entrambi i casi, come una realtà che è in se stessa
quella che è, indipendentemente dalla relazione in cui il pensiero entra con
essa quando la conosce. Visione la più dolorosa che l’anima umana possa avere
del proprio essere nel mondo: perchè l’anima umana vive di verità, ossia della
fede che sia quel che essa pensa ed afferma: e in quella visione, che è poi la
visione eterna della prima riflessione, da cui si dovrà sempre pigliare le
mosse, la verità, quel che è veramente, non è nell’anima umana; la cui
condizione permanente ed essenziale è raffigurata da quel sensibilissimo
amatore della verità, dell’essere eterno del mondo, che fu Platone, nel mito di
Eros: mito pregno, nella sua classica serenità, di pathos che direi cosmico:
perchè l’aspirazione fervente al divino, che è l’Amore di Platone, e che nella
sua forma più alta è la filosofia, non è solo lo sforzo supremo in cui si
concentra l’anima umana, ma culmina in questa, e affatica tutto l’universo,
tormentato dal desiderio di qualche cosa che è il suo vero essere, ma è fuori
di esso. Mito, che, con tutto il suo pathos, può essere intanto sereno, perchè l’occhio
dell’idealista greco è attratto e fermato dalla bellezza dell’ideale lontano, e
gli sfugge la miseria infinita dell’amante senza speranza. In questa visione,
quando, per opera principalmente dello stesso Platone, la verità della natura
sensibile e mortale si rifrange nelle forme ideali, ond’essa si rivela al
pensiero ne’ suoi varii aspetti, e diventa sistema di idee, tutta la scienza,
nel suo proprio assetto, come possesso adeguato della verità, non apparisce
quale il perenne lavoro della mente e la celebrazione dell’ufficio supremo del
mondo, ma quasi un che di remoto dalla realtà, o, come si dice, d’ideale, di
cui la cognizione umana è sempre copia imperfetta. La scienza, di cui la logica
deduttiva di Aristotile descrive mirabilmente il congegno, non è la scienza
nostra, la scienza umana, che si fa e rifà continuamente nella storia: è la
scienza che ha principi! immediati, che in sè contengono sistematicamente tutti
i concetti, I in cui si snoda lo scibile: è pertanto la scienza che è tale, in
quanto è tutta e perfetta a un tratto, senza possibilità di svolgimento
storico. Ossia, la scienza per ottenere la quale ] tutto questo svolgimento, in
cui è pure tutta la vita e tutto l’essere nostro, non giova: un ideale, al cui
cospetto quel travaglio mentale, che ci par tuttavia la cosa più seria del
mondo, non ha valore di sorta '). Dentro questa visione si chiude tutta la
filosofia greca, e ogni filosofia che, come quella del medio evo, accetta la
logica, ossia la maniera d’intendere la verità, di Aristotile. Questa logica si
può definire la logica della trascendenza; o altrimenti, la logica
dell’intellettualismo: per questa logica infatti la verità, che è termine dello
intelletto, è trascendente, radicalmente superiore all’intelletto stesso; e
questo è ridotto a semplice facoltà passiva, contemplatrice e non autrice: che
è il concetto dell’intelletto nel senso deteriore di questo termine: quasi una
mente, che importa bensì la presenza delle cose da conoscere, ma non dell’uomo,
non dello spirito che le conosce, e che ha appunto questo di proprio e di
diverso rispetto alle cose: che non è cosa da conoscere, ma l’attività
correlativa, che queste presuppongono nel loro concetto di « cose da conoscere
» : una mente, insomma, per cui c’è il mondo, ed essa, per cui il mondo è, non
è. Che è come dire: l’uomo, questo divino artefice di quanto è bello e santo e
vero nel mondo, di quanto c i umilia e ci esalta, ora facendoci piegar le
ginocchia innanzi alla potenza terribile del genio, ora sublimandoci nel gaudio
di quanto trascorre immortale i secoli e aduna nel consenso d’uno spirito solo
i morti coi vivi; quest’uomo, annichilato. Annichilato, s’intende, ai proprii
occhi, nella coscienza che ha del suo essere. Di un uomo così, ignaro del
proprio valore, men che atomo disperso nell’infinito, Chiesa ed Impero,
accampatisi immediatamente come rappresentanti di Dio, possono disporre a loro
talento, come cose, che non sono persone. Manca la coscienza, e manca perciò
l’individuo: non c’è la libertà, come coscienza della propria legge. La legge,
come la verità, scende dall’alto. Ma era questo il principio del cristianesimo?
Il cristianesimo voleva essere, al contrario, la redenzione, la rivendicazione
del valore dell’uomo; voleva sollevare l’uomo a T. Dio, facendo scendere Dio nell’uomo,
e rendendo questo partecipe della natura divina. Giacché in Gesù, che è l’uomo
stesso nella sua idealità, o come dev’essere concepito, Dio stesso era uomo:
con tutte le miserie j umane, soggetto all’estrema delle miserie, la morte; ed
era Dio (quel dio, che redimeva) in quanto questo uomo, che eroicamente
affrontava la morte, otteneva in questa il premio della missione della sua vita
tutta spesa umanamente in un’opera d’amore. Onde l’amore risorgeva, non più,
come nel mito platonico, contemplazione desiderosa dell’irraggiungibile, ma
attività dell’uomo che crea se stesso perennemente: e non era più la
celebrazione estatica di un mondo che è, ma la celebrazione operosa, dolorosa
insieme e letificante, di un mondo, che è regno di Dio essendo la purificazione
della smessa volontà umana nella fiamma della carità. Onde l’uomo non è più
sapere o intelletto; ma amore o volontà, cioè creatore esso stesso della sua
verità, che è il bene: la verità che si scorge, j insomma, quando la cerchiamo
con la buona volontà, col cuore puro, mettendo tutto l’essere nostro,
sinceramente, ingenuamente nella ricerca; e che non è più, quindi, un che di
esterno a noi, che si presenti e s’imponga a noi passivi, ma è il premio o il
risultato del nostro sforzo. L’uomo non è più spettatore; ma artefice. Si
desta, e sente se stesso; sente che senza la sua volontà, senza il suo conato,
senza lui, il mondo che ha valore per lui, la felicità, la vita, Dio, non si
raggiunge. Acquista quindi davvero la coscienza della sua personalità, e però
della sua responsabilità: poiché vede che da sè dipende tutto; e, lui caduto,
tutto cade; e lui risorto, tutto risorge. L’uomo trova dunque se stesso nel
cristianesimo. Se questa intuizione fosse divenuta senz’altro concetto
complessivo ed organico del mondo, se questo senso nuovo del valore dello
spirito umano avesse rinnovato tutta la concezione della vita, in cui l’uomo
afferma la sua creatrice potenza, se insomma il contenuto della nuova fede
fosse assurto al vigore di una nuova filosofia, il cristianesimo avrebbe
segnato fin da principio la morte dell’intellettualismo. Ma la fede non è
ancora filosofia: è visione immediata della verità non integrata in sistema di
pensiero. E il cristiano, quando volle pensare il suo Dio, pensò più a Dio
padre che a Dio figlio, e G. Gentile, Bernardino Te lesto. s’impigliò nella
rete della metafisica aristo telica che il principio della realtà, come motore
immobile, che è solo pensiero di se stesso, e non d’altro, faceva estraneo alla
realtà, e poi s’affaticava invano a colmare l’abisso tra Dio e la natura; tra
la causa del movimento, che non è movimento, e il movimento, che non ha in sè
la propria ragione sufficiente; e quindi tra il principio del divenire, che non
diviene, e la natura che in se non ha la cagione del suo perenne generarsi e
corrompersi; e poi tra l’anima e il corpo; e poi ancora tra l’anima che
intende, ed è lo stesso intendimento in atto, e 1 anima naturale solo capace di
raggiungere la mera possibilità d’intendere, ma incapace per sè d'intendere mai
realmente: e,' in generale, tra la materia, potenza, e non più che potenza, di
tutto, e la forma, realizzazione di tutto: come dire, tra l’aspirazione alla
vita e la vita: eterno destino di Tantalo! Aristotelici o platonici,
nominalisti o realisti, averroisti o tomisti, tutti i cristiani che nel medio
evo si sono sforzati di concepire la realtà, sono giunti a questo risultato: al
destino di lantalo. Tanto più doloroso, tanto più inquietante, in quanto era
pur contenuto nella fede novella, che fiammeggiava a quando a quando nei
mistici, il concetto dell’immanenza di Dio nel mondo, nell’uomo, nello spirito.
La teologia, tutta la filosofia scolastica, anzi tutta la scienza medievale
(che non è tutta filosofia) si costruisce come scienza di una verità che si
sente, appena il sentimento si sveglia (basti per tutti ricordare Francesco
d'Assisi e Jacopone, il suo poeta), che si sente, dico, estranea all’anima,
lontana, occupante per vano riflesso solo l’intelletto dell'uomo, speculazione
umbratile e di scuola, che non entra nell’ intimo e non afferra e non impegna e
non riforma e non fa l’uomo. Scienza vana per chi ravvivava in sé il sentimento
tutto cristiano del valore spirituale: scienza elegante nel suo laborioso
artifizio, sottile nella pellegrinità de’ suoi tecnicismi, delicatissima nei
pazienti avvolgimenti didascalici in cui si dispiega, vasta, universale come un
mondo per quanti vi si dedicavano: e, messovi dentro, talvolta, un intelletto
di vasto respiro e di tempra ferrea, vi si aggiravano e scendevano per meati
lunghissimi, con ricerche, che ora ci spaventano per la fatica di pensiero e la
forza di sacrifizio che attestano, fino a toccare l’ultimo fondo delle
difficoltà, in cui la filosofia antica urta e si arresta. E basti per tutti
ricordare il nostro Aquino: i cui sforzi possenti per scuotersi di dosso la
plumbea cappa delle conseguenze ineluttabili dell’antica filosofia, riempiono
l’animo dello studioso moderno di commossa ammirazione e di reverenza. Chi
vuole intendere la storia del pensiero medievale, deve figgere lo sguardo in
questo contrasto delle maggiori forze spirituali che vi operavano dentro: il
misticismo, che, affermando immediatamente la presenza di Dio, della verità, di
quanto ha valore, nello spirito umano, nega la scienza, la cognizione che è
sviluppo e sistema, e tutte le forme a cui lo sviluppo dello spirito dà luogo
nella scienza e nella vita; e la filosofia intellettua* listica, che,
presupponendo una realtà fuori dello spirito che la ricerca, si affanna in una
costruzione, formalmente ricchissima e sostanzialmente vuota, di quel che non
può essere verità. O verità senza scienza, senza vita dello spirito; — o
scienza, forma elevatissima di questa vita, senza verità, vana. Quando il medio
evo è al tramonto, un uomo di genio raccoglie in una espressione eloquente il
senso di vuoto che l’anima cristiana provava nella scienza delle scuole: ma un
senso, che non è più schietta conseguenza di disposizione mistica, la quale,
rinunciando alla scienza, possa trovare il suo appagamento nell’immediatezza
della fede; anzi, un senso che nasce da un vivo bisogno di sapere, di pensare,
d’intendere. Egli è un dotto, un grande mæstro di dottrina, un amante
appassionato della scienza; ma aspira dal profondo a una scienza che riempia
l’anima e appaghi i bisogni che la nuova fede ha creati dando all'uomo la
coscienza della sua iniziativa, della sua posizione centrale nel mondo: a una
scienza insomma che dia la filosofia a questa fede. Quest’uomo, che si presenta
sulla soglia del rinascimento con la coscienza di tale nuovo problema, e che,
parlando un linguaggio pieno di malinconica nostalgia per un tempo che non è il
suo, avvia per una nuova strada lo spirito umano, svegliando intorno e innanzi
a sè una lunga schiera e folta di ricercatori, che indagano con fedel oscura ma
salda una scienza nuova, che noni essi potranno trovare, è un grande poeta,!
che fu anche un grande scrutatore deH’anima propria colta e sensibilissima,
I'rancesco le trarca: iniziatore deH’umanesimo. L’umanesimo ha un doppio valore
storico negativo e positivo. È guerra alla scienza del medio evo, combattuta
bensì con argomenti alquanto estrinseci e con spirito assolutamente restio per
lo più, a passare attraverso a quelli scienza per superarla: combattuta con 1;
satira della forma letteraria, ispida, irsuta lutulenta, aspra di terminologia
creata dal l’intelletto assottigliantesi nell’astrazione quello degli studi, e
quell’altro, in cui purj vive come uomo, che ha famiglia e interess sociali,
non è il suo mondo; il letterato in^ somma che non è uomo. Tale il Petrarca, i
cui sdegni contro l’avara Babilonia e il saluto augurale ed ammonitore allo
spirito gentile sono superfetazioni retoriche della sua poe? sia. Tale non era
stato quell'Alighieri, che fu a lui sempre incomprensibile, nel poemi divino,
contemplazione e poesia, ma di uno spirito energico, che guarda al suo tempo, e
s’appassiona per tutte le lotte che gli si agitano attorno, e fa tuonare da Dio
la parola che può essere la salute di tutti. Letterati saranno tutti i poeti e
filosofi della Italia fiorentissima del rinascimento, che accetteranno tutti la
vita quale la troveranno, poiché la loro vera vita essi se la faranno dentro,
nella fantasia e nella speculazione, nel mondo creato da loro. La stessa
religione, fissatasi al loro sguardo nella Chiesa, che non solo associa le
anime, ma le forma e riforma, con l’amministrazione del divino commessole, con
la sua teologia e con la sua filosofia, diventa per loro qualche cosa di
estrinseco e indifferente, che ogni cittadino nel suo pæse deve accettare come
le leggi dello Stato. Cioè, in realtà, essi non partecipano alla religione del
pæse; ma ne hanno una per conto loro, il loro Dio è la loro arte, la loro
filosofia, alle quali votano tutta infatti l’anima loro e subordinano ogni
altro interesse, almeno nell’intimo del loro spirito. Non è, veramente, nè
indifferentismo religioso, nè tanto meno ateismo. Ma ateismo pare verso la
religiosità ufficiale di cui si ridono, ancorché esteriormente le professino
ogni riguardo. Quindi i conflitti frequenti e le prigioni e i roghi, che
aspettano i nostri filosofi del secolo xvi. Il letterato, a ogni modo,
stralciandosi dalla vita comune, in cui si era consolidata, in forma di
instituzioni costrittive dell’individuo, l'intuizione trascendente e
intellettualistica del medio evo, ereditata dalla filosofia greca, ristaurava,
come poteva, la libertà dello spirito che si fa il suo mondo; e si fa un mondo
di puro pensiero, poiché non gli è consentito di scrollare, d’un tratto,
quell’altro della comunità sociale; al quale per altro, a suo tempo, perverrà
egualmente quando il principio suo, il principio della libertà, diverrà nel
secolo xvm coscienza di tutti. E per questa sua ristaurazione, che è perfetta
ed assoluta rispetto al mondo dell’umanista, egli, il malvisto della Chiesa, il
perseguitato nei libri che saranno proibiti, nell’insegnamento che sarà
vietato, nella persona' che sarà bruciata, egli è più cristiano dei suoi
persecutori: egli è il continuatore dello spirito vero del cristianesimo. Ha
infranta e buttata via, con l’impeto. • della giovinezza, la vecchia filosofia,
la fida, l’eterna alleata della chiesa medievale, come della chiesa di oggi e
di ogni chiesa avvenire (poiché un medio evo bisogna che ci sia sempre); ma non
si è abbandonato, come si faceva una volta, al misticismo; anzi celebra la
potenza dello spirito; e, poiché una filosofia sua non ce rha (e non era facile
averla, dopo il rifiuto di una filosofia opera millenaria), ei la ricerca
nell’antichità più remota. La ricerca dove, a dir vero, era vano cercarla;
perchè quell’antichità aveva generato il medio evo; ma l’umanista non sa
questo, e non può credere che Platone, Aristotile, quei mæstri solenni di
sapienza umana, che gli scrittori antichi a una voce lodano, possono avere
insertato la dottrina di cui essi vedono la tardiva e sfigurata immagine nelle
scuole del loro tempo. E poiché, in realtà, noi troviamo solo quello che
cerchiamo, gli umanisti, che imparano il greco, e vanno a leggere nei testi
originali e traducono e commentano, col sussidio dei più genuini commenti
greci, gli scritti di Platone ed Aristotile, scoprono un mondo nuovo; un altro
Platone e un altro Aristotile da quelli che erano i mæstri della filosofia del
medio evo; non dico di quella filosofia, ansimante nella logica terministica
degli occamisti, che sul cadere del 300 lacerava le orecchie delicate dei primi
umanisti fiorentini, i quali avviarono pure i lavori delle nuove traduzioni
greche (chè codesta è la filosofia della decadenza medioevale); ma di quella
che e la vera, la essenziale filosofia dell epoca: la filosofia della
trascendenza e dell’intellettualismo. E non occorre dire che, se essi non
trovano più i mæstri di questa filosofia, è perchè muovono da una condizione
spirituale affatto nuova, che fa di questo ritorno all’antico, che avviene nel
400, ' qualcosa di radicalmente diverso non solo dalla primitiva ellenizzazione
del cristianesimo nel periodo alessandrino, ma anche, e sopra tutto, da quel
primo ritorno alle fonti I greche del sapere, che era già avvenuto nel secolo
xm, nel tempo stesso di San Tom- I maso. Marsilio Ticino e Pico della
Mirandola, in j cui culmina la direzione platonizzante, sono j platonici; ma
sono profondamente cristiani; 1 e un aura di mistica religiosità pervade tutto
1 il loro pensiero, che vede e sente Dio per ] tutto, e sommamente nell’anima
umana; e, | ispirandosi ai neoplatonici anzi che a Pia- J tone, accentuano più
della trascendenza, che ] non possono negare, l’immanenza del divino I nella
realtà naturale e aspirante a ritornare ] all Uno da cui træ sua origine: e
aprono la 1 via a Leone Ebreo e a Bruno. Pomponazzi, il maggiore aristote- 1
fico, fiorito al principio del 500 dal movimento filologico sui testi di
Aristotile del secolo antecedente, scopre un Aristotile, che non è più quello
dei tomisti, nè quello degli averroisti: un Aristotile che, a poco per volta,
secondo apparisce dai varii gradi attraversati dalla speculazione stessa del
Pomponazzi, finisce col persuadersi che la materia si possa sollevare da sè
fino all’intelligenza, senza il sussidio dell’intelletto separato; e che
l’anima umana, ultimo risultato così del processo della natura, possa compiere
in questo mondo, con le sue forze, tutta la sua missione, che è principalmente
il ben fare, la virtù; e che tutti poi i fatti della natura debbano pel
filosofo spiegarsi meccanicamente, per le loro cause: un Aristotile, insomma,
per cui quel che rimane di trascendente (e rimane tutto quello che
nell’Aristotile originale e nell’Aristotile medievale, ossia nella scolastica,
era tale) non serve più alla ricostruzione e spiegazione della realtà che sola
è per il filosofo. Sicché la filologia del secolo xv riesce, ricalcando gli
antichi modelli con lo spirito nuovo dell’umanesimo, a cavarne due intuizioni
generali, in cui la filosofia greca riapparisce trasfigurata e come ricreata
dal soffio spirituale del cristianesimo, inteso, come ho detto, quale autonomia
e valore assoluto della natura e dell’uomo. La nuova filosofia infatti dicesi
platonica e aristotelica $ ed è cristiana, ancorché mal veduta e con-] dannata
dai rappresentanti ufficiali del cri-^ stianesimo. Guardatela in Machiavelli,
contemporaneo di Pomponazzi e coerede suo della tradii zione filologica del
secolo xv: chè tutto il suo realismo politico, quella concezione dello ^ spirito,
della storia, dello Stato, tutta fondata sulla visione della realtà effettuale
e I illuminata dalla lezione degli antichi, non è I come il positivismo
guicciardiniano un empi- I rismo, ma è una vera e propria speculazione I
(Machiavelli è un idealista); la quale dello I studio degli antichi si giova
solo per libe- I rare l’uomo dalle contingenze storiche, quali I sono per lei
tutte le forme e istituzioni me-j I dievali sorrette dalla autorità di una tra-
I dizione irrazionale; e studiarlo quindi per I quel che esso è, nelle sue
forze e nelle sue I reali attinenze col resto del mondo, come il I vero ed
unico autore della sua storia: una J specie di naturalismo del mondo umano.
Guardate, dico, questa nuova filosofia nel I Machiavelli. Machiavellismo sarà dopo
un secolo, nel Campanella, sinonimo di « achitofellismo », negazione di ogni
fede religiosa, p l’achitofellismo, più o meno apertamente e coraggiosamente, è
la conclusione definitiva e il succo delle dottrine di tutti i pensatori del
500: anzi, di tutto lo spirito italiano del secolo: a cui l’interpretazione
aristotelica si ispira e si conforma. Giacché averroisti e alessandristi, per
diverse vie, tendono tutti alla stessa mèta: che è la spiegazione naturale di
quel che una volta pareva superiore affatto alla natura; e gli artisti, si
chiamino Ariosto o Folengo, non conoscono altro inondo, oltre quello naturale
ed umano. Ma negavano perciò Dio? Se Dio è quel Dio, che, stando fuori della
natura e dell’uomo, rende impossibile concepire una natura divina e un uomo
divino, Dio essi lo negavano, perchè affermavano il valore assoluto della
natura e deH’uomo. Ma quel Dio, che era sceso in terra, e si era fatto uomo, e
aveva redento la natura, era la radice della religione, che, essi primi, dopo
il lungo vano travaglio medievale, ristauravano nella storia della umanità.
Essi, infatti, per la prima volta, rivendicavano in libertà, dal misticismo e
dall’ intellettiialismo, che ne sono per opposte ra-, gioni la oppressione
aduggiatrice, il sensi profondo, proprio del cristianesimo, dellaI divinità
della vita che crea eternamente sj stessa, dell essere che nella propria logica
ha eternamente la ragione del proprio traJ formarsi e perpetuarsi
trasformandosi. Quando l’umanesimo venne per tal modo in chi prima e in chi dopo,
alla maturiti della rinascenza, lo spirito umano potè mettere quasi 1 anelito
potente di una nuova; vita, e di filologia farsi filosofia. Quando il nuovo
Platone e il nuovo Aristotile ridiedero all’uomo la coscienza dell’immanente
suo valore, e l’ebbero allenato alla libertà dell esser suo, e dell’essere
naturale, cui il suo essere appartiene, lo stesso Platone e lo stesso
Aristotile, (questi sopra tutto, che era stato il vero signore delle scuole e
il mæstro di ogni umana sapienza) dovevano necessariamente perdere il loro
prestigio di rivelatori privilegiati delle verità naturali.] L umanista e
ancora un platonico o un aristotelico; cerca la scienza; e non sa nè anche come
deve cercarla; e interroga gli] antichi, che la tradizione e la fama consacra nella
generale estimazione come i soli filosofi. UMANESIMO E RINASCIMENTO il fil° s
°f° c l e H a rinascenza da questi ntichi, meglio conosciuti e studiati con lo
spirito nuovo dell’umanesimo, ha appreso he la natura si spiega con la natura,
la toria con la storia; e che bisogna cercare quindi nel gran libro della
natura e della realtà effettuale dei fatti umani che cosa è la natura e che
cosa è l’uomo. Gli antichi mæstri rimandavano i nuovi scolari all’osservazione
diretta di quel che essi avevano osservato e inteso come era possibile a loro,
senza nessun sentore della imprescindibile presenza del soggetto umano nel
mondo dell'uomo. La libertà, che gli scolari appresero da loro, quali essi li
videro coi loro occhi nuovi, la libertà essi la affermarono ben presto contro
l’autorità dei mæstri, che faceva della verità qualche cosa di dato e di
estrinseco alla mente come il Dio nascosto della teologia, come la realtà
dell’intellettualismo. E però gli umanisti, divenuti filosofi, come parvero, e
in un certo senso furono, atei e achitofellisti, furono antiaristotelici e, in
generale, ribelli all’autorità degli antichi. Tutti invasi da un fantasma
affatto nuovo, non intravvisto mai dagli antichi scrittori: quello in cui i
vecchi pensatori e sacerdoti l’avj vano posta a sedere, quasi paralitica impoJ
tente: e si sgranchisce, e procede col tempo! e vive di questo suo cammino pei
secoli ' anzi per le menti delle generazioni, che si succedono, e mai indarno:
quasi fiamma che] passi da una mano all’altra e mai non sii spenga perchè
accenda sempre nuovi incendiiJ e sempre più vasti. / eritas jilia temporis! Gli
uomini, che peri lo innanzi avevano concepito la verità cornei pei se stante e
non come il loro lavoro, I l’avevan sempre collocata dietro a loro', al
principio della loro vita, nel paradiso ter- ] restie, nell età dell oro, nel
vangelo rinnoJ vatore e iniziatore di un’era nuova già fin da principio
perfetta, o, almeno (la verità acJ cessibile a mente umana) nell’insegnamento
degli antichi, venuti crescendo perciò sempre ] più nella venerazione
dell’universale e illuni! nandosi dell’aureola della saggezza, onde agli t
occhi dei fanciulli si ricinge sempre la canizie, dei vegliardi. — Sì, è vero,
si comincia a dire I sulla fine del secolo xvi : la sapienza cresci cogli anni
; ma i vecchi siamo noi, non quelli che furono prima di noi. — Così dice Bruno;
; e così ripeteranno Bacone e Cartesio, Pascali UMANESIMO E RINASCIMENTO
Malebranche, e poi con voce sempre più alta tutti i filosofi moderni 4 ). I
quali affermeranno con coscienza sempre più salda la ] e 11, 1-5; c. 49 r e 49
v : capp. 11 e 12; c. 50 v a 51 v : cap. 14. Ma per mostrare con un solo
esempio, tratto da un luogo del De retimi natura contenente alcuni periodi
famosi (cfr. anche in questo voi. p. 40: quei periodi in forma poco diversa
erano nel proemio del 1565, soppresso nell’ed. 1570: cfr. sopra pp. 102-3) come
il Telesio lavorasse dopo il 1570 attorno al testo della sua opera, giova
riferire il cap. 1 del lib. 11 dell’edizione Cacchi con le correzioni autografe
dell'esemplare napoletano e la redazione corrispondente del 1588, dov’è
mantenuta la più importante di quelle correzioni. Ecco il cap. dell’ed. Cacchi
con le correzioni dell’autore: Quoniam, quæ in superiore Commentario exposita
sunt t alio omnia se habere modo Aristoteli videntur, eius omnino de singulis
illis sxp/icondqw esse, cxcwiviividfinique sententiam. Quoniam autem non Terra
modo e sublunaribus primum corpus Aristoteli videtur; sed et aqua itidem, et
qui nos ambit ær, et is, qui Coelo subiacet et cum Coelo circumvolvi videtur;
et unumquodque eorum non ab unica' agente natura, sed a duplici singula illas,
debilitatasque, at non eas tamen modo, quæ unius sint corporis, sed omnes simul
sibi ipsis commistas, contplicatasque, pene et unum factas inesse; e simplicium
itaque complexu, commistioneque effecta mista Aristoteli dicuntur: et nequaquam
a propria Coelum natura, propriaque calefacere substantia, caloris omnino
expers, nec calorem suscipere ullum aptum, commune sublunaribus habens nihil,
penitusque diversa præditum natura, sed sublunarem ærem commovens,
conterensque: et nec a propria omnino forma '), propriaque moveri substantia,
sed ab immotìs motoribus; longe omnia a nostris dissidentia; ipsius explicanda
est, excutiendaque de singulis sententìa: neque enim et aliorum itidem
recensendæ sunt, examinandæque opiniones, ab ipso satis reiectæ Aristotele, et
non penitus etiam notæ nobis. Utinam et cum Peripateticis liceret idem: magno
itaque vacuis labore aliena exponendi reiiciendique, nostra tantum explicanda.
esset sententia; at non admissis modo illorum placitis decretisque, sed ea
acceptis fide ac religione, ut si ex ipsius naturæ ore prolata essent: non
igitur rei ullius 1 2 ) amplius natura inspicienda, indagandaque cuipiam
videtur, at tantum quid de quaque Aristoteles senserit, speculandum. Non id
ignoscant raortales rogandi, quod videlicet in singulis examinandis et
neqnaquam a propria Coelum.., forma, cancellato. 2) itaque rei ti ullius. T.
Arislotelis sententiis hæreamus '): at quod dissentire ab ilio audeamus, et non
illum numinis instar veneremur; qui si illius dicto audiant, aut factum
incitentur, nihil nobis veritatis studio illi adversantibus succenseant : quin
gratias potius habeant, et idem ipsi faciant omnes: ipse enim Aristoteles veritatem
amicis omnibus præhonorandam admonet, et veritatis gratia præceptorem etiam
amicumque incusare nihil vereri videtur. Huius certe nos amore illecti, et hanc
venerantes solam, in iis, quæ ab antiquoribus tradita fuerant acquiescere
impotentes, diu rerum naturam inspeximus: et conspectam (ni fallimur) tandem
aperire illam mortalibus voluimus, nec liberi nec probi liominis officio fungi
iudicantes, si generi illam hurnano invidentes, at invidiam ab hominibus veriti
ipsi illam occultemus. Age igitur, ut clarius illa elucescat, agentia rerum
principia inquirentem, et prima constituentem corpora, tum reliqua ex iis
componentem, postremo et Coeli Solisque motu calorem generantem, et motores
immotos, a quibus Coelum moveatur, indagantem, ea omnino, quæ in superiore
nobis tractata sunt Commentario, in quibus (ut dictum est) omnibus summe a
nobis dissentit, explicantem Aristotelem audiamus, eiusque dieta singula
rationesque examinemus. Ed ecco che cosa diventerà questo capitolo nella
redazione definitiva del De rer. natura (ed. Spampanato). Cancellato questo
periodo Non id... hæreamus, c corretto: {speculandnm) quovis labore nostro,
quovis ahorum itidem fastidio, singulæ eius positiones quam diligentissime et
sæpius eadem interdum esponendo f ex am in a n dæque omnino sunt (?). Nihil si
in iis tractandis plus iusto immoremur mortales nobis ut ignoscant rogandos
esse existimantcs. GENTILE, T. Repeluntur complura quæ superioribus traditi
sunt commenlariis. Ponitur stimma positionum Aristotelìs quæ infra sunt
expendendæ. Materia non una ei duplex natura agens, et unus calor frigusque
unum, mundi huius universi principia, nec quod terrain mareque et stella? inter
quodque ipsas inter stellas locatum est ens, unam idemque et ab una eademque
universum constitutum natura, nec duo tantum prima esse corpora, nec entia
reliqua a coeli solisque natura e terra effecta, quemadmodum nobis, Aristoteli
videntur. Ille enim sublunaria omnia una eademque e materia; quæ supra lunam
sunt entia, cælum stellasque omnes, ex alia constare et quæ nihil illi congruat
naturarumque quas illa suscipit prorsus incapax sit; et quod inter lunæ orbem
terramque et mare est ens, in duo, in ignem aéremque (ignem enim supremam eius
portionem quæ lunæ orbi subiacet, ærem vero infimam liane quæ terram ambit, appellat),
divisam esse affirmat. Et præter cælum quattuor esse prima corpora, terram,
aquam, ærem, ignem, decernit: minimeque ad horum constitutionem calorem modo
frigusque sed humiditatem etiam et siccitatem, ut agentes naturas, et ad
illorum singulorum constitutionem nequaquam earum unam sed oppositionis
utriusque alteram affert; et duplicem omnino singulis agentem assignat naturane
dictisque e quattuor corporibus, at veluti mutuis vulneribus confectis
afflictisque et pugnam pertæsis tandem et sibi ipsis commixtis, pene et unum
factis omnibus, entia reliqua constituit omnia. Et cælum stellasque omnes
propria natura et quæ a calore frigoreque et ab humiditate siccitateque prorsus
diversa sit, donat. Itaque calor qui a sale fit non ab eius natura nec a propriis
eius viribus, sed ab eius fit motu, a quo sic cælo suppositus ignis et bona
aéris pars agitetur, conteratur, accendatur accensusque ad terram usque
detrudatur; et nequaquam a propria cælum natura propriaque substantia sed ab
immotis moveri motoribus statuit. Longe tandem mutuo in omnibus fere
dissentimus. Quas ob res Aristotelis explicanda excutiendaque est de singulis
sententia; nec vero et aliorum etiam opiniones, satis ab ipso, ut videtur,
reiectæ et quæ, nulli admissæ, ab ullius removendæ sunt animo. Utinam cum
Peripateticis liceret idem: magno aliena exponendi reiciendique labore vacuis,
nostra tantum explicanda esset sententia. At quoniam non admiserunt modo
illorum placita et decreta, sed ea acceperunt fide et religione ac si ex ipsius
naturæ ore prolata essent; itaque rei nullius amplius natura inspicienda
indagandaque cuipiam videtur. sed tantum quid de quaque Aristoteles senserit
speculandum: utique quovis labore nostro, aliorum etiam fastidio quovis,
singulæ illius positiones quam diligentissime, et sæpius eædem interdum,
exponendæ examinandæque sunt. Nihil, si in iis tractandis plus iusto interdum
immoremur, mortales nobis ut ignoscant, sed quod a summo naturæ interprete
dissentire audeamus et non numinis instar illum veneremur, rogandos esse existimamus:
qui, si illius dictum audiant aut factum imitentur, nihil nobis veritatis
studio illi adversantibus succenseant, quin gratias potius habeant idemque ipsi
faciant omnes. Ipse enim liber in philosophando Aristoteles veritatem amicis
omnibus præhonorandam admonet, et veritatis gratia præceptorem etiam amicumque
incusare nihil veretur. Huius certe solius nos amore illecti et hanc venerantes
solam, in iis quæ ab antiquoribus tradita erant acquiescere impotentes, diu
rerum naturam inspeximus, et conspectam, ni fallimur, tandem mortalibus aperire
voluimus; nec liberi nec probi hominis officio fungi iudicantes, si generi
illam humano invidentes aut invidiam ab hominibus veriti, ipsi illam
occultaremus. Ergo, ut clarius illa eluceat, agentia rerum principia inquirentem
et prima constituentem corpora, tum reliqua ex iis componentem, postremo et
càeli'solisque motu calorem generantem et motores immotos, a quibus cælum
moveatur, indagantem, ea denique, in quibus omnibus summe a nobis dissentit,
explicantem Aristotelem audiamus, et singula eius dieta rationesque examinemus.
T. Consentini De Ret urn natura \ iuxta propria principia | libri IX | ad
illustriss. et Excellenriss. D. Ferdinandum Carrafam Nuceriæ Ducem | Neapoli |
Apud Horatium Salvianum In f. Sul frontespizio è riprodotta la figura
femminile. Questa edizione definitiva (di cui Græsse, vi, ij, p. 47 ricorda
copie con la data 1587) è riprodotta nelle due seguenti: 4 Tractutionum
pkilosophicarum tomus unus\ in quo continentu.r: I. Mocenic! Veneti Universaliutn
Institutionum ad hominum perfectionem, quatcnus industria paruri potest,
contemplationcs quinque ; Cæsat.pini Aretini Quæstionum Peripateticarum, libri
v; III. Ber. Telesii De rerum natura, Genevæ, apud Eustach. Vignon; in f. Nè
anch'io I10 potuto vedere questa edizione; che il Nicekon (Mèmoires) dice
conforme all’ed.. Spampanato, pref. alla sua ed. p. xxi, erra dicendo genovese
questa ristampa e credendo relative al De rcr. fiat, le opere del Mocenigo e
del Cesalpino. T. I i; 5 T. Consentini De rerum natura iuxta propria principia,
Coloniæ, Excudebat Petrus Moulardus,Questa edizione è citata da L. T., in T.
Operimi catalogus, aggiunto alla sua ristampa dell 'Orazione del D’Aquino, p.
71.— Fiorentino, Pomponazzi, cita una edizione del De rei . natura con la data
di « Neapoli 1637»: che dice appartenuta a Ulisse Aldrovandi ed esistente nella
Bibl. Naz. di Bologna. Se non che, come m’informa l’amico prof. Flores, questa
Biblioteca possiede soltanto l’edizione, e del resto l'Aldrovandi mori nel
1605. È piuttosto da tener presente il seguente luogo della Orazione 8 del
D’Aquino (p. 9): « Onde de’ suoi divini scritti tanta stima ha fatto il mondo,
che sono stati dati più volte in luce, non solamente in Italia, ma in Fiandra
ed in Germania: e sebbene gli Italiani hanno innalzato le sue opere
grandemente, le nazioni straniere si sono ingegnate in ciò di avanzargli, e gli
Alemanni, rimosso il primo titolo del libro, dove egli per sua modestia ponea
solamente il suo nome ed il suggetto dell’opera, l’hanno ornato grandemente
d’un altro nuovo titolo nel quale si contiene, che quella opera è piena di
molta dottrina, e che è necessaria agli studiosi delle lettere così umane come
divine ». T. De rerum natura \ a cura di | Vincenzo Spampanato, Formiggini
editore in Modena. È il 1“ volume dei Filosofi italiani, collezione promossa
dalla Soc. filos. italiana, diretta da Felice Tocco. Precede una pref. del
Tocco e una dello Spampanato. Il (piale pubblicherà in altri due volumi il
resto del Ve r. nat., e forse un 4“ e un 5» voi. contenenti dei saggi delle
edizioni e gli opuscoli. A questo i» voi. ha premesso una riproduzione del
ritratto inciso dal Morghen, pubbl. per la prima volta nella Biografia degli
uomini ili. del Regno di Napoli del Gervasi. n 8 appendice bibliografica Riproduco
qui appresso la dedica e il proemio, premessi dal Telesio all’edizione
definitiva della sua opera, secondo la stampa del Salvianl. Illustrissimo atque
exceli.entissimo domino don Ferdinando Carrafæ duci Nuceriæ Bernardinus
Telesius consentinus. Commentarios de rerum natura, quos, ut probe nosti,
excellentissime Princeps, magnis laboribus diuturnisque confeceram vigiliis,
edendos tandem visum cum csset, sub tuis omnino auspiciis emittendos esse
duximus; nani et domi tuæ conscripti fuerant, et plurtmis magnisque beneficiis,
quæ in me contuleras, debebantur. Et amplius etiam, quod Aristotelis doctrinam
(quam adeo Alexander excoluit veneratusque est, et quæ sub Alexandri patrocinio
adeo floruit tantoque habita fuit in honore) ut sensui et sibi ipsi passim
repugnantem cum damnemus, aliamque et longe ab illa diversam cum ponamus, non
sub regis cuiuspiam auspiciis, qui imperii amplitudine Alexandro conferri
posset, sed sub herois præsidio emittendos esse duximus, qui nec ingenio nec
iudicio nec animi magnitudine nec virtute omnino ulla ab Alexandro
exsuperaretur, quin qui in multis illum exsuperaret. Et nostri temporis hominum
unus tu talis, excellentissime Princeps, non nobis modo, sed sanis hominibus
visus es omnibus, ltaque nihil venti quod opibus potentiaque ab ilio
exsupercris, sub tuis omnino auspiciis emittendos esse decrevimus. Nostra
siquidem doctrina quoniam nec sensui nec sibi ipsi nec sacris etiam litteris
repugnat unquam, quin adeo bis et illi concors est, ut ex utrisque enata videri
possit; quoniam omnino vera est, sese ut ab mvidorum calumniis tueatur et, iis
reiectis, sese assidue T. effundat amplificetque, nullis regum opibus nuliaque
potentia sed tua modo opus habet ope; qui sic animi bonis, quæ dieta sunt,
nihil ab Alexandro exsuperaris, quin in illorum multis tu illum exsuperas. Nam
ingenio iudicioque te ilio quam longissime præstantiorem esse, vel doctrina,
quam uterque admittendam decrevit, manifestai.,Quam enim ille amplexatus
veneratusque est et summis præmiis summisque dignara existimavit honoribus,
quod dictum est, et sensui et sibi etiam ipsi, quin et Deo optimo maximo,
passim repugnat. Itaque soli calorem lucemque abnegat: et mundum nequaquam a
Deo optimo maximo constructum, sed voluti casu quodam enatum ponit; et rerum
humanarum administrationem cognitionemque Deo demit omnem. Et non sensui modo,
sed, ut nostris in commentariis apertissime ostensum est, sibi ipsi etiam
passim dissentit adversaturque ; ut existimare liceat vel in præceptoris
gratiam, nihil eius fundamentis positionibusque inspectis examinatisque,
Alexandro admissam fuisse, vel quam longissime illum abesse, ut ingenio
iudiciove tibi conferri possit. Nam tu doctrinam nostram non statim, sed ibi
tandem admittendam perdiscendamque esse duxisti, ubi sensui et sibi ipsi universa
et sacræ etiam scripturæ bene concors visa est. Ut, quod dictum est, ingenio
iudicioque multo te Alexandro præstantiorem esse necessario existimandum sit. Neque enim, si, quali tu,
ingenio iudiciove donatus ille fuisset, et sensui et sibi ipsi et sacris
divinis litteris passim dissentientem Aristotelis doctrinam admittendam
duxisset unquam. Animi porro magnitudine fortitudineque nihil Alexandrum te
præstantiorem fuisse res, a te in Peloponneso gestæ, manifestant: ubi,
innumerabilibus Turcarum equitibus in Christianorum exercitum, turbatum iam
trepidantemque, irruentibus (qui omnino nisi a te repressi reiectique fuissent,
magnimi nostris incommodum illaturi erant), non magno veteranoque cum exercitu,
ut Alexander, sed perpaucis cum peditibus, in fugam iam coniectis et a te
retentis tuaque præsentia et fortitudine confirmatis, sponte tua te opposuisti;
et longe illorum plurimis interfectis, reliquos in fugam coniecisti penitusque
prodigasti. Itaque Christianorum exercitum, summum iam in periculum adductum et
in fugam iam conversum confirmasti conservastique : talem omnino te
præstitisti, ut eorum, qui pugnantem te conspexere, nulli dubium esse posset,
quin, si unquam exercitus ductandi magnaque bella gerendi occasio tibi oblata
foret, bellicam Alexandri gloriam æquaturus et superaturus etiam esses. At
pares, quæ dictæ sunt, virtutes in utroque ut sint, puriores certe in te
splendent, neque enim, quod in ilio passæ interdum sunt, ab immixtis vitiis in
te obscuratæ sunt unquam. Et nequaquam, ut ille, deos tu colis ab hominibus
effictos multisque obnoxios vitiis; sed Deum venerans, cæli terr:eque
conditorem et qui unigeniti Filii sui morte humanum genus servari substinuit,
sanctissimaque eius præcepta summa observas cum religione. Minus etiam generis
claritate ab Alexandro exsuperaris, siquidem Carraforum) familia multis iam
sæculis plurimorum magnorumque principum coronis et regio etiam diademate
effulget (nam tuus ille Stephanus Sardiniæ regnum regio cum titulo obtinuit
diuque possedit), et plurimorum magnorumque sacrorum antistitum puniceis pileis
et pontificia etiam corona exornata est: ut ambigere non liceat, quin generis
etiam claritate nihil ab Alexandro exsupereris. Quoniam igitur, Alexandro collatus, nec generis
claritate nec ullis animi bonis inferior videri Spamp. Carra/arum. potes; age,
commentarios nostros (propterea in primis tibi dicatos, quod Alexandro si)
quidem fortuna imperioque, non certe et ingenio iudiciove, nec vel magnitudine
vel aliis ullis animi bonis ab ilio J ) exsuperaris, quin in multis tu illum
exsuperas) libens suscipe. Et si Aristotelis voluminibus, quæ tantis Alexander
præmiis tantoque digna existimavit honore, niliil deteriores tibi visi sint; et
nostri mores nostrumque ingenium, quod penitus tibi perspectum sit oportet,
nihil me unquam (cuiusmodi Aristoteles erga Alexandrum fuit) tuorum erga me
beneficiorum immemorem ingratumque futurum suspicari sinent 3 ); non quidem, ut
non minoribus præmiis nos prosequaris, rogamus (quæ scilicet a præsenti fortuna
tua exspectari non possunt et quæ nulla a te expetimus, satis superque a
benigni tate tua ditati), sed ut non minore me prosequaris benevolenza et, quod
hactenus strenue fecisti, Peripatedcorum iniurias calurnniasque repellas. Nihil
omnino, quam Aristoteles Alexandro fuit, me tibi minus carum, neque in minore,
quam ab ilio habitus fuit, nos a te in honore haberi homines intelligant. Hoc
vero, ut præstes, percupimus et summopere te rogamus. Vale, o præsidium et
dulce decus meum. Spamp. Quod si. Spamp. Ab Alexandro. Spamp. Sinant.I T.
Comentini De rerum natura iuxta propria principia Liber primus: Prooemium ').
Mandi constructionem corporumque in eo contentoram magnitudinem naturamque non
ratione, quod antiquiorihus factum est, inquirendam, sed sensu percipiendam et
ab ipsis liabendam esse rebus., Qui ante nos mundi huius constructionem
rerumque in eo contentarum naturam 3 ) perscrutati sunt, diuturni quidem
vigiliis magnisque illam indagasse laboribus, at nequaquam inspexisse videntur.
Quid enim iis
illa innotuisse videri queat 5), quorum sermones omnes et rebus et sibi etiam
ipsis dissentiant adversique sint? Id vero propterea iis evenisse existimare
licet 1 2 3 4 5 6 7 ), quod, nimis forte sibi ipsis confisi, nequaquam, quod
oportebat, res ipsas earumque vires intuiti, eam rebus magnitudinem ingeniumque
et facultates '), quibus donatæ videntur, indidere. Sed veluti, cum Deo de
sapientia contendentes decertantesque, mundi ipsius principia et caussas
ratione inquirere ausi, et, quæ non invenerant, inventa ea sibi esse
existimantes volentesque, veluti suo arbitratu mundum effinxere. Itaque corporibus, e quibus Questo Proemio
formava il cap. i del lib. i nella ediz. 1570 con alcune varianti che saranno
qui appresso indicate: rultima delle quali assai notevole. coni etti or uni
naturam. rerumqtu naturam.indagasse illatn. videri potest. evenisse videtur. id
rebus ingenium easque facultates. 8) causas. constare is videtur, nec
magnitudinera positionemque, quam sortita apparent, nec dignitatem viresque ‘),
quibus prædita videntur, sed quibus donari oportere propria ratio dictavit,
largiti sunt. Non scilicet eo usque sibi homines piacere et eo usque animo
efferri oportebat, ut (veluti naturæ præeuntes, et Dei ipsius non sapientiam
modo 1 2 3 4 5 ) sed potentiam etiam i) affectantes) ea ipsi rebus darent, quæ
rebus inesse intuid non forent et quæ ab ipsis omnino habenda erant rebus. Nos
non adeo nobis confisi, et tardiore ingenio et animo donati remissiore, et
humanæ omnino sapientiæ amatores cultoresque (quæ quidem vel ad summum
pervenisse videri debet, si, quæ sensus patefecerit et quæ e rerum sensu
perceptarum similitudine haberi possunt, inspexerit), mundum ipsutn et singula
eius partes, et partium rerumque in eo contentarum passiones, acriones,
operationes et species intueri proposuimus. IUæ enim, recte perspectæ, propriam
singulæ magnitudinem, hæ verum ingenium viresque et naturam manifestabunt. Ut
si nihil divinum, nihil admiradone dignum, nihil etiam valde acutum nostris
inesse visura fuerit, at nihil ea tamen vel rebus vel sibi ipsi repugnent
unquam; sensuin videlicet nos et naturam, aliud præterea nihil, secud sumus,
quæ, perpetuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo atque idem
semper operatur. Nec tamen, si quid eorum, quæ nobis posita sunt, sacris
litteris catholicæve ecclesiæ non cohæreat, tenendum id, quin penitus reiciendum,
asseveramus 1) ejfmxere et corporibus. e quibus constate is videtur. non ram
tuagnUudinem eamque dignitatem et vires. modo sapientiam.etiam
potentiam.aciiones atque operationes intueri.magnitudinem ac speciem, hæ. s
unirne. contendimusque. Nequeenim humana modo ratio quævis, sed ipse edam
sensus illis posthabendus; et si illis non congruat, abnegandus omnino et ipse
etiam est sensus *). 7 Bernardini | Telesii | Consentini | De hìs, quæ in Ære
fiunt; et de Terræ- \ motibus. Liber (Jnicus | cum Superiorum facultate. |
Neapoli, | Apud Iosephum C'acchium. Carte. nuin. nel redo. Sul frontespizio è
la solita figura femminile, eom’è anche nei due opuscoli seguenti. Precede
questa dedica: Illustrissimo et Reverendissimo Tolomeo Gallio Cardinali Comensi
ac Archiepiscopo Sipontino Bernardinus Telesius S. P. D. Quoniam plurimis
gravissimisque, ut nosti, molestiis oppresso detentoque, ad te, quod summe
quidem semper cupivi, et quo nihil mihi iucundius contingere posset, venire
tecumque vivere non licet; nec vero alia ratione meam erga te observaniiam
gratitudinemque manifestare; utrumque, quo licet modo, ut efficerem,
Commentarium De iis quæ in aère fiunt, ad te mittere statui. Minus certe munus,
quam quod tuis erga me meritis debeo; qui scilicet cum nulla alia in re studium
voluntatemque tuam a me desiderati passus sis, tum vero studiorum meorum
egregius imprimis fautor semper fuisti. Multo etiam minus quam quod virtutes
tuæ expostulant, surnma integritas, summaque in omnes charitas; non illæ quidem
ad homines alliciendos simulatæ, [Mancano i due ultimi periodi: JVec tamen...
est sensus. a ut segnes unquam, sed veræ puræque, et unius honesd grada scraper
vigiles semperque operantes; et summa prudentia, rerumque omnium cognido.
Emicuerunt quidem illæ, cum sub Pio IIII. Pontif. Max. Christianam Rempublicam
tu imprimis tractares, administraresque; et ita eraicuere, ut multo spiendidius
emicaturæ viderentur, si tempus unquam nactæ forent, in quo liberius splendere
possent. Summam præterea animi tui magnitudinem quis non summopere amet
summeque veneretur? Qua effectum est, ut nullis bonorum quorumvis accessionibus
quicquam elatus aut immutatus omnino esses unquam; bona scilicet quævis, et quæ
virtus tibi pararat tua, te minora semper visa sunt, et fuere mehercule semper
minora; itaque nihil illa te extulere unquam. Me quidem diu penitusque egregias
animi tui virtutes et mores cum sancdtatis tum vero et iucunditatis plenissimos
intuitum tanta illæ erga te veneradone tantoque animi tui amore desiderioque
inflammarunt, ut nec venerari te satis, nec colere amareque, et tecum esse
satis desiderare posse videar. At multo, ut dixi, maiora a me meritus, parvo
hoc munere, scio, contentus eris ; Deum Opt. Max. imitatus, qui non quas non
habemus opes, nec opes omnino ullas, sed veram modo pietatem, esto et modici
thuris evaporationem a nobis poscit. Tum qualecunque id est, perpetuum erit,
spero, tuorum erga me meritorum, et meæ erga te observantiæ charitatisque
signum. Vale. T. | Consentini De color um generatione Opusculum. Cum superiorum
facultate | Neapoli, | Apud Iosephum Cacchium. In-4 1 cc. 7 nnmiii. nel redo.
Precede la seguente dedica, in alcuni esemplari premessa ai due libri del De t
er. natura del '70 per errore di chi legò con essi questi opuscoli. Illustr. mo
Io anni Hieronymo Aquevivio Hadrianensium Duci T.,CONSENTINUS S. P. D. Multos
equidem iam annos surama te prosequor veneratione, summoque tui videndi
desiderio teneor. Neque enim unus aut alter te cum cæteris animi bonis
virtutibusquetum vero divino sane ingenio iudicioque longe acerrimo præditum
disciplinisque omnibus apprime ornatum mihi prædicavit; sed communis omnium
consensus, et eorum præcipue qui et te magis norunt, et qui, quæ in te sunt,
bona reliquis exquisitius intueri possunt: in primis Marius C/aleota (qui vir
et quantus!): hic quideni te non summis ætatis nostræ hominibus, sed antiquis
illis hæroibus ac divinis viris conferre nihil veretur; nec vero Rempublicam
vel manu vel consilio adiuvandi occasionem nactus si sis umquam, quin illorum
gloriam exæques, aut etiam exsuperes dubitat quicquam. Admirabilem scilicet
intuitus naturam tuam, et cum reliquarum honestarum disciplinarum tum vero
philosophiæ studiis diu summaque excultam diligentia, summa itaque erga te
charitate ac veneratione summoque tui desiderio me inflammavit (rie). Quod si
per molestias, quibus multos iam annos assidue opprimor, mihi licuisset,
promptius, mihi crede, ad te quani ad fortunatissimos reges advolassem; et
præsens animi mei propensionem erga te patefecissem, ac dedidissem omnhio me
tibi. Id quando adhuc facere non licuit studiorum meorum monumentum quippiam
tibi offerre visum est, quod meæ erga te observantiæ signum esset: itaque
commentarium De colorum generatione ad te mitto. Libens, spero, munus,
qualecumque est, accipies, in quo nimirum hominem, qui te nunquam vidit,
virtutum tuarum pulchritudine ac fulgore incensum intuebere. Nani, si probatus
tibi ille fuerit, et perobscuram adhuc, ut videtur, colorum naturarli
exortumque patefecerit, id vero opibus a te omnibus carius æstimatum iri certo
scio; ut qui illustrissimorum maiorum tuorum more rerum cognitionem rebus
omnibus ac regnis edam ipsis præhabendam semper duxeris. Vale. 9 Bernardini |
T. | Consendni | De mari, \ Liber Unicus. | Ad Ulustriss. Ferdinandum Carrafam
| Soriani Comitem. | Neapoli, | Apud Iosephuin Cacchium. In fondo
all'opuscolo-. Cum Licentia Superiorum. Sono cc. 12 numm. nel recto-.Precede
questa dedica: Illustriss. Ferdinando Carrææ Soriani Comiti T. S. P. D. Cum
primum literas tuas accepi, quibus declarabas te in iis, quæ de mari ab
Aristotele tradita erant, acquiescere minime posse, et quid de eius natura et
motibus sentirem, ad te conscribere mandabas: etsi plurimis (ut nosti)
opprimerer molestiis, dbi tamen ut morem gererem tuique desiderio sadsfacerem,
commentari uni, quem iam pridem de eo conscripseram, rudem adhuc, quantum per
præsentes occupadones licuit, polivi. Et præter morem nostrum, prius quæ ab
Aristotele tradita sunt, in eo exponuntur examinanturque, ut facile homines
intelligerent iure te in iis acquiescere non potuisse: tum nostra apponuntur. Perleges vero tu illuni,
et si tibi probatus sit talisque visus, qui et tuo sub nomine in lucem prodire
queat, prodeat. Neque enim, quæ tu admittenda decreveris, alii ut damnent
vereri licet; libens certe confectum tibi opus, qualecumque id sit, accipies;
summara in eo meam erga te charitatem observantiamque intuitus et grati animi
signum cura erga te, tum et erga illustrissimos parentes tuos, Alfonsum Nuceriæ
Ducem, virum unum omnium optimum constantissimumque, et loannam Castriotam, quæ
cum maxime fortunæ corporisque bonis affluat, et tantis omnino, quantis plura
ne optare quidem liceat, si cum alias eius animi virtutes, tum vero, quæ ægre
sitnul coire videntur, lenitatem sublimitatemque summe in ilio coniunctas, pene
et unum factas quis inspiciat, vix illorum splendorem intueatur; ut mihi quidem
nostræ ætatis homines nihil ea amabilius, nihil etiam divintus conspicere posse
videantur. Hæc vero tu eius parentisque tui splendorem summamque utriusque
generis claritatem ne novis luminibus non illustres dubitandum est quicquam.
Nam mihi quidem te illosque intuenti, quæ in illorum utroque corporis animique
bona sunt, ex utroque hausisse videris omnia: minimeque vel eorum vel avorum
gloria vel tantarum opum possessione, totve ac tantorum populorum dominatione
contentus tuo tibi ut studio tuoque labore novum decus novosque honores
acquiras summa attendis cum diligentia. Age vero, qua coepisti perge, et mihi
crede, non summam modo gloriam, sed veram adipisceris felicitatem, summæ
nimirum fortunæ summam adiicies sapientiam. Vale. io. Bernardini | Telesii | Consentini | Vani de
naturalibus | rebus libelli \ ab Antonio Persio editi. | Quorum alii nunquam
antea excusi, alii meliores | facti prodeunt. | Sunt autem hi | de Cometis, et
| Lacteo Circulo. | De liis, quæ in Ære fiunt. | De Iride. | De Man. SCRITTI DI
B. T. Quod Animai universum. | De Usu Respirationis. | De Coloribus. | De Saporibus. |
De Somno. | Unicuique libello appositus est capitum Index. | Cum privilegio |
[insegna tipografica) | Venetiis M.D.XC. | Apud Felicem Valgrisium. Dopo la pref. Antonine Persine camiido Perfori,
c’è l’ Inde a opusculorum, diviso in due parti: Prima pars, in qua precipua
Metereologica continentur; Secunda pars, in qua, quæ Parva naturalia dici
possimi, tractantur. Nella 1“ classe sono compresi i quattro opuscoli De
Cometis et tacteo circolo, De bis quæ in apre fiunl (dedicati entrambi a Gian
Iacopo Tomaie), De iride (al vescovo di Padova Luigi Cornelio) e De mari (a
Francesco Patrizio). Nella 2 a altri cinque opuscoli : Quod animai universum ab
unica animæ substantia gubernatur contro Calenum (a Tinelli), De usu
respirationis (a Giovanni Micheli), De coloribus (a Benedetto Giorgi), De
saporibus (a Fed. Pendasio), De somno (a Girolamo Mercuriale). Il volume consta
di 4 carte inn. a principio, 5 parimenti inn. in fine e dei 9 opuscoli ciascuno
dei quali con numerazione a sé, sul recto, e con frontespizio particolare;
tranne il primo. Il I- 1 I op. di cc. (De Com. e De Air); il III (De ir.) di
cc. 20; il IV (De mari) di cc. 19; il V (Quod anim.) di cc. 47; De usu) cc. 8;
De color.) cc. 15; (De sapor.) cc. 15; De somno) cc. 15. Riporto la prefazione
generale e le singole dediche. Antonius Persius CANDIDO LECTORI. Novem hæc
Bernardini Telesii physica opuscula, quorum tria tantum antehac excusa fuerunt,
eodem omnia volumine complexa, ut publici iuris efficienda curarim id fuit
causæ potissimum, Candide lector, quod, cum paucissima eorum exempla
circumferrentur, adeo ut jpsi mihi, qui Telesio inter vivos agenti
coniunctissimus, G. Gentile, T.1.^0 ac, ni fallor, carissimus fueram, antequani
unius ex singulis compos fierem, sudandum fuerit, liuic malo quani primum
eonsulere necessarium existimarim. Timebam enim ego duorum alierum, vel
scilicet ne labores Ili perirent omnino, vel ne quis eos tanquain proprii sibi
partum ingenii vindicans, suuni iis noinen, Telesii expuncto nomine,
inscriberet, et ut sua tandem in commune proferret. Cuiusmodi non defuturos
homines fuisse ut milii persuaderem effecere multi, quos novi egomet consimilem
lusisse ludum. Ac profecto nostra liac tempestate, si ulla unquam alia factum
est, malis hisce artibus prò sapientia uti licet. Ut autem rem piane
intelligas, erant ex his tres tantum modo, ut dixi, excusi libri, De his quæ in
ære fiunt scilicet unus, alter De mari, tertius De colorum generatione. Ac De mari quident ille
nonnullis auctior capitibus tibi datur, quæ nos in ipsius calcem omnia
reiecimus. Qui vero De coloribus est, longe prodit alius, non verbis tantum,
sed et sententiis atque opinione. Cæteri omnes nunc primum publicantur. Ex iis,
qui mihi a T. missi fuere (sunt autem hi; De somno, De saporibus, De bis quæ in
ære, De mari), hi longe aliis emendatiores exhibentur; reliqui autem, quos
aliunde expiscatus sum (curavit eos mihi Franciscus Mutus, præstanti vir
doctrina ac T. philosophiæ cognitione liaud levi præditus), ii non solum
alicubi imperfecti, veruni etiam tam male exarati ac mendose exscripti erant,
ut divinandum mihi fuerit in plerisque locis. Cum autem in iis exentplaribus,
quæ nacti sumus, loci nulli neque Aristotelis, neque Galeni, neque aliorum, qui
a I elesio laudantur authores, neque in contextu, neque in margine notati
extarent, nos eos omnes in tuum commodum, Amice Lector. ad oram cuiusque
libelli rite adscripsimus. Ad hæc schemata quædam in libello De '.il iride ab
authore nominata, vel saltem subintellecta, quod nullum eorum in nostris
codicibus vestigium extar et, accurate delineavimus, ut facilius id, quo de
agitur, intelligeres. Atque hæc
nos tibi tanquam in alieno solo (ut cum nostris loquar iurisconsultis)
elaboravimus, propediem te in nostro accepturi, atque ex ugello ingenioli
nostri, quæ tibi forte non ingrata videantur, multo liberalius deprompturi.
Quod reliquum est, Lector Immanissime, quo nobiscum ab illius sapientissimi
viri manibus gratinili aliquam in eas, ac magis udlitati publicæ consulamus, si
forte meliores, quam nostri sunt, codices fuerit nactus, ut et ego meliores
edere possim, mihi eos, quæso candidus imperti; si non, his utere mecum. Vale.
Ai primi due opuscoli è premessa la dedica seguente: Antonius Persius IGANNÌ
IACOBO TONIALO VIRO PRÆSTANTISSIMO S. P. D. Quod in studio mathematices, quo
maxime omnium semper es delectatus, in primisque astronomicæ facultatis, totus
usque sis, laudo te, mi Tomaie, vehementer, ac vere virum censeo, qui non te
otio, quod plerique ista fortuna, hoc est opibus, abundantes homines faciunt,
corrutnpi sinas; sed, cum ingenio iudicioque cum paucis sis conferendus, animum
tuum optimis artibus perpolitum nobilissima rerum excelsissimarum excolis
cognitione. Cui tantum detulit Aristoteles, ut eam vel imperfectam perfecta
inferiorum rerum scientia multo duxerit esse præstantiorem. Utere igitur
fortunæ bono dum per florentem ætatem tuam licet, et viaticum senectuti para.
Collocupleta tuum solidis atque immortalibus bonis animimi: amicitias quoque,
quod facis, adiunge tibi liberalitate hac tua, omnique officiorum genere, quæ
ego abs te expertus non vulgaria, perlibenter soleo prædicare. Et quo extaret
eoruni significano diuturnior, a me tibi nuncupati ut exirent duo hi Telesii
nostri libelli De cometis et lacteo circulo unus, De iis quæ in ære fiunt
alter, libentissime curavi: simul ut haberes occasionerei de rebus coelestibus,
coeloque proximis, quo te rapit astrorum studium, novam Telesii nostri
disputationem alacrius legendi. Cuius tu philosophiam magno animo amplexatus maxima cum
iudicii et ingenii laude tueris. Ac liber ille quidem, quo De iis, quæ in ære
fiunt, disseritur, editus antehac est, nunc emaculatior prodit. Alter vero nunc primum publici iuris efficitur.
Vale, et Persium tuum ex animo nunquam elabi tuo patiare. Patavio Illustrissimo
ac reverendissimo Aloysio Cornelio episcopo Paphiensi et Patavino designato.
Antonius Persius. S. P. D. Post nobilem illum universæ terræ cataclysmum, ex
quo Noe, cum familia servatus, humanum genus reparavit, apud Ethnicos quoque
pervulgatum, ac Deucaleonearum undarum nomine a poeds significatimi, scriptum
fecit Moses summi ille Dei scriba atque interpres, Illustrissime ac Reverendissime
Episcope, Deum ipsum edidisse arcum, seu Iridem pacti indicem ac foederis inter
se atque humanum genus constituti, ut quoties id in coelo appareret toties
divinæ potentiæ beneficiique nobis divinitus collati memoriam renovaret. Hoc
mihi, . 1 .1,ì dura eximii philosophi Bernardini Telesii libellum De iride in
lucem proferre cogitarem animo repetenti cupido incessit, ut haud ita
dissimilis in re simili tui erga me animi significatio exstaret, operam dare.
Est igitur a me curatimi, ut ii, in quorum oculos hæc T. Iris incurreret, de
tuorum in me magnitudine meritorum brevi hac ad te epistola quoquo pacto
admonerentur. Namque, ut alia præteream, maximorum semper in loco beneficiorum
mihi delatum putabo, quod in aliqua apud te grada vigeam, ac me ipse in tuorum
tibi addictissimorum numero censeri velis. Cum enim percrebuerit te non nisi
doctos, probos ac sapientes viros, tui scilicet simillimos, amare, fovere atque
ornare solere, cum tu non solum maiorum splendore summaque familiæ nobilitate,
verum edam doctrinæ, probitatis ac sapientiæ laude nemini concedas (quarum
quidem virtutum singulare specimen in administradone Episcopatus Patavini tibi
ab amplissimo Cardinali Federico patruo tuo, prudentissimo viro delata maximo
cum ecclesiæ Patavinæ fructu quotidie exhibes); quid mihi proficisci abs te
maius atque optabilius unquam posset, quam ex tua consuetudine, qua me dignum
tua esse voluit humanitas singularis, tantarum mihi virtutum famnia, ac nomen
aliquod comparare? Quod igitur opusculum hoc tuo sacratum nomini dicarim, id
primum boni ut consulas vehementer cupio; deinde ut tuam in me animi
propensionem, in qua maximam existimadonis meæ partem esse positam inteiligo,
(quod facis) tueare te iterum rogo obsecroque. Vale. Patavii. d) Antonius
Persius Francisco Patricio Platonicæ Philosophiæ in Ferrariensi Gymnasio
Professori Celeberrimo S. P. D. Meministi, eruditissime Patrici, cum Venetiis
conintoraremur, me tibi novam Telesil Philosophiam ac philosophandi rationem
sæpius commendare, et te hortari, ut libros eius de natura legeres diligenter.
Quod ubi est a te factum, cum multa offenderes in iis, quæ velini Democritea
Delio quopiam natatore indigerent, me identidem tanquam in eorum lectione
diutius versatuni, ac Telesii familiarem consulebas, ego igitur libenter et
obscura quæcunque tibi essent interpretabar, et obiicientium sese dubitationum
scrupulos eximebam, quod poteram. Ita ad calcem usque operis cum legendo
pervenisses, tum honorifice de eo loqui cæpisti, ut ipsurn veteribus
philosophis anteferres. Scripsisti quoque a me rogatus in eam philosophiam
dubitationes tuas nonnullas, quas ad Telesium transmisi. Ex eo candidissimus
philosophus quanti tuum lacere iudicium haud obscure significavit, cum deinceps
sua scripta ad tuum sensum exigere non sii gravatus. Cum igitur libellum eius
De mari ab ipso primum editum, atque aliquibus ex eiusdem scriptis ad eandcm
rem pertinentibus auctum, denuo imprimendum curarem, patrem ipsi ac patronum
nullum Patricio aptiorem in venire me posse existimavi, tuæque idcirco ipsum fidei
commendare decrevi. Tu, si constans es in summi viri laude, ut te esse mihi et
natura et consuetudo tua suadet, huiusce opusculi patrocinium suscipias
libenter, ac tuam in eo tuendo non SCRITTI ni n. T. t35vulgarein eruditionem
plaudentibus omnibus explicabis. Feceris autem mihi pergratum, si meis verbis
coniraunem amicum ac fatniliarem Franciscum Mutum et tuum et Telesii præclarum
propugnatorem ingenii, et eruditionis laude ornatissimum, salutaveris, meoque
ipsi nomine dixeris, cura ego ipsius beneficio plerosque ex iis, quos iam edo
libellos, fuerim nactus, expectare, ut eosdem idem ipse meliores, atque alios
eiusdem Auctoris nondum editos nobis eruat alicunde. Vale, ac mei mutuo memor
est. Patavio. Dopo il cap. x segue quest’avvertenza (c. 13 t f ): Tria hæc, quæ
sequuntur capita de maris æstu, a Telesio quidern et ipsa elucubrata sunt, sed
tamen ab eodem in prima huiusce libelli editione consulto prætermissa; idque
ea, ut puto, de causa, quod in hac conteraplatione nondum sibi piane
satisfaceret. Erat enim tum in alienis, tum maxime in propriis sententiis
iudicandis sane quam difficilis atque morosus. Itaque nihil edere ille solebat,
quod non longa adhibita discussione lente prius ac fastidiose probasset. Nos
tamen, ne ea quidern intercidere æquum putantes, quæ ipse rudia atque
imperfecta reliquerat, pauca hæc de manuscripto exemplari diligenter excepta,
priusquam ea sibi aliquis vindicaret et ut sua venditaret, in calce huiusce
libelli excudenda curavimus. l H. T. doctrina et eloquentia tectum sartumque præstes
ab aculeis reprehensorum, libenter curavi ut nonien tuum clarissimum præ se
ferret imprcssus. Neque enim dubito, quin maximum apud omnes hoc tuum
patrocinium sit pondus habiturum. Perspectum iam enim est ac notum, quanto te
discipulo gloriaretur dignus ille tnagnorum philosophorum magister Iacobus
Zabarelia, nobis importuna morte præreptus. Cuius sane viri quoties mihi venit
in mentem, venit autem sæpissime, toties ego Patavinæ, in qua profitebatur,
Academiæ ingemisco, quæ tot tantisque infra paucos annos orbata viris, civem
hunc suum, qui facile omnium desiderium leniret, rednere diutius in vita non
potuerit, cum tamen ea decesserit ætate, quæ senectutem vix a limine
attingebat. Verum alieno quidem patriæ et amicis, sibi autem, hoc est nomini,
et gloriæ suæ liaud quam importuno tempore cessit e vita, relictis ingenii sui
monumentis, nunquam intermorituris. Cuius vocem porticus illæ eruditæ Lycei
Patavini frustra nunc, frustra, inquam, desiderant. atque eum, si possent, suum
ipsæ civem, qui philosophiam non præceptis tantum ac scriptis, verum et factis
præclarissime exprimebat, omnium virtutum, imprimis humanitatis ac modestiæ,
singulare exemplunt erat, perpetuo lugerent ; ut eos contra philosophos
riderent, qui non tam in academiæ porticis prò Peripateticæ doctrinæ primatu,
quam in publicis hisce, quæ promiscere ab omnibus ultro citroque commeantibus
teruntur, prò peripatetica, hoc est, ambulatoria (ut sic dixerim) prærogativa
tanquam prò aris et focis ridiculc dimicant, quasi in eo sitæ sint Græciæ divitiæ,
si cui occurrens, caput aperias, aut interiorem Porticus partem, videlicet
parietem ambulanti concedas. Sed iam nos iis homulis et xaipeiv dicamus et vyicuveiv.
Te vero iterum iterumque rogo, ut animum tuum familiæ tuæ splendidissimæ
nobilitate dignissimum mihi benevolum æ meæ summæ in te observantiæ memorerà
tueri, munusculumque hoc, novum piane munus (cum libellus hic it prodeat ab
eodem Auctore iam pridem multis additis, detractis, immutatis interpolatus, ut,
si cum antea edito conferas, mirum quantum ab eo difierre deprehendas) tanquam
maximum a maximo ad te missum animo gratificandi tibi suscipere ne dedigneris.
Vale. h) Persius Eminentissimo Phii.osopho Federico Pendasio,. S. P. D. Si
quantum Aristoteli philosophorum filii, tantum tibi, Federice Pendasi,
philosophorum memoriæ nostræ facile princeps, ipsum debere Aristotélem dixerim,
næ ego vera prædicarim. Illustrasti etenim publicus tot annos in ceteberrimis
Italiæ Gymnasiis interpres Aristotelicam usque adeo philosophiam, ut non tibi
minus, quam Aristotelicorum librorum, qui situ obsiti parum ab interitu
aberant, erutori ac vindicatori iHi gratiæ debeatur. Quos si nobis inimicum
fatum ad exitium usque invidisset, poteras tu novus illucere mortalibus
Aristoteles, iacturamque tantam undequaque compensare. Itaque subinvideo
Ascanio fratri, quod ipsi, te Bononiæ degente, Bononiæ degenti fruì licet, ac
de te non publicos solum, sed, quæ tua in omnes privatimque in ipsum est
benignitas, domesticos haurire sermones. Ferebam ego antea tui desiderium
paullo lenius, dum viveret alterum Italiæ lumen Zabarella philosophiæ scientia,
ut tibi uni secundus (quem scilicet ille sibi non solum præferebat, sed
auctorem ctiam recte philosophandi fuisse olim prædicabat), sic cæteris omnibus
meo ac multorum iudicio anteponendus. Eo nunc,quo familiarissime utebar, extineto, nisi tua me aliquando
usurum consuetudine sperarem, vitarn mihi profecto acerbam putarem. Interim
autem quia te libenter et studiose legere ea scripta, in quibus ingenii et
eruditionis lumina haud vulgaria conspiciantur probe novi, cuiusmodi sunt
Telesii philosophica monumenta, idcirco ut ex ungue leonem agnosceres: ad hæc
ut sententiarum novitate animum tuum consuetis fessum contemplationibus
recreares, liunc eius De saporibus libellum tanquam èvSóoipav ad reliquam
ipsius philosophiam cognoscendam, et, ut sapiat, iudicandam ad et mittere,
adeoque tuo inscriptum nomini publicare decrevi. Accipies igitur hilari fronte
hanc meæ in te benevolentiæ atque observantiæ significationem, ut meum in te
studium nunquam in posterum obliviscaris. Vale. Patavii. Persius PRÆCLAR1SSIMO
MEDICO Hieronymo Mercuriali S. P. D. Homericus ille Iuppiter, quod te non
fugit, HieronymeMercurialis, medicorum choryphæe, ut Agamemnonem de sonino
excitaret, misisse ipsi somnium a poeta perhibetur. Ego vero, ne tu mihi
dormias, hoc est, ne me tibi e memoria atque ex animo excidere patiare, tui
amantissimum studiosissimumque tui nunquam oblitum, non vanum aut mendax
aliquod somnium, sed eruditum ca veridicum Somnum Telesianum a Telesio tum, cum
minime dormitabat, elucubratum ad te mitto, qui somnum arcere quovis somnio
validius possit. Hunc ego, et ut sedulum monitorem, et ut non obscurum mei in
te animi interpretem ad Te destinavi, dum aliud TOSINO U2 quæro tibi
mnemosynon, quo pateat illustrius non solimi quantuni tibi ipse ego debeam
deferamque, veruni edam quam ab aliis omnibus esse deferenduni exisdniem; etsi
tu unica de te clarissimæ Bononiensis Academiæ existimatione (ut communem
eruditorum omnium sensum prætermittam) contcntus esse potes, quæ te tanto
studio ac contentione ad eminentissimam medicinæ cathedram ingentibus atque
ante te nemini propositi præmiis pertraxit. Atque hoc sapienter B0110nienses,
ut alia omnia, sapienter te quoque ipsum, qui condicionem acceperis, fecisse
sapientissimus quisque existimat, cum tibi in ea urbe domicilium statueris, quæ
bonorum omnium ornatu ac copia comparari cum urbibus' omnibus merito potest.
Quo tit ut non iniuria et te ego Bononiæ, et tibi Bononiam invideam, hoc est
summorum virorum doctrinae et huraanitatis laude celeberrimorum Bononiae
degentium consuetudinein. Peregrinos nunc taceo, ne te plus aequo legentem
morer. De civium numero unum tantum honoris caussa commemorabo, Camillum
Palaeottum, tuorum, ut tu te merito gloriaris, principem amicorum; quem virimi
primum Romae sum contemplatus, allocutus, admiratus, cum in eo omnia maiora
opinione ac fama deprehenderim. Itaque Alexandrum Burghium summa insignem timi
scientia et eloquentia, tum probitate virum amo plurimum, qui ut Romae
Palaeottum cognoscerem atque ab eo cognoscerer et auctor et interpres mihi
fuit. Obsecro igitur te, vir preclarissime, per humanitatem et comitatem iliam
tuain, qua vel sola aegrotis restituere valetudinem soles, ut me illi
addictissimum diligentissime commendes, et a me salutem dicere ne graveris. Te vero mei muneris ne
poeniteat, siquidem id, quod ab optimo in te est animo profectum, optimum
putas. Vale, et diu vive, ut
diutius alii vivant. Patavio. In fine della raccolta sono 3 cc. di
Errata-corrige,Due opuscoli inediti del T. De fulmine e Quae et quomodo febres
facilini furono per la prima volta pubblicati dal Fiorentino, Telesio, n, pp.
325-374, insieme con la risposta del Telesio al Patrizi: Soluliones Thyìesii.
Dal Fiorentino è anche ristampato il Carmen ad Ioannam Castriotam del T.,
inserito nel volume Rime et versi in lode della illustriss. et eccellen/iss. S.
D. Giovanna Castrio/a Carr. Duchessa dì Nocera et Marchesa di Civita Santo
Angelo, scritti in lingua toscana, latina et spagnuota da diversi huomini
illustri in varii et diversi tempi et raccolti da Don Scipione de’ Monti, Vico
Equense; già ristampato da S. Spiriti, Memorie, e da Luigi T., o. c. pp. 55-6.
Circa l’apocrifità dell’epigramma per la storia di Scipione Mazzella v.
Bartelli, Note, Manoscritti e opere smarrite. Oltre la notizia importante
dataci da Giov. Paolo d’Aquino, riferita a p. 54, e quelle del Persio, è da
considerare la lettera del Quattromani, su cui richiamò già l'attenzione il
Nicodemi nelle Addizioni copiose alla Bibl. Nap. del dott. N. Toppi, Napoli,
Castaldo: e l’accenno dello stesso Telesio De rer. nat., v, 1: « Tum maris
aquarumque et eorum quae im sublimi fiunt iridisque et colorum exortus in
propriis est explicatus commentariis. Metallorum lapidumque et reliquorum, si
quae alia supersunt, quin in superioribus manifestatus sit, parimi cannino
deesse videri potest, et alias, si coeptis faverit Deus, manifestabitur magis
». Per un opuscolo De pluvfis, cui si allude nel De mari, c. x, cfr. AlmagiA,
I.e dottr. geofisiche di B. T.. La Filosofia di Berardino T. ristretta in
brevità, et scritta in lingua toscana dal Montano Accademico Cosentino
[Sertorio Quattromani], in Napoli, appresso Giuseppe Cacchi, 1589. Ora/ione di
Gio. d‘Aquino in morte di Bernardino Telesio, philosopho eccellentissimo, agli
Accademici Cosentini. In Cosenza, per Leonardo Angrisani, 1596. Rist. a Napoli,
Fratelli Traili, a cura di L[uigi) T., Precede una lettera di T. al marchese di
Villarosa; e seguono (p. 55) il Carme del Telesio a Giovanna Castriota con la
trad. italiana del Cavalcanti, l’epigramma a Scipione Mazze-Ila (p. 60) col
distico contro Aristotile, il son. di Lelio Capilupi (p. 61) e due poemetti di
Antonio Telesio. Sul p. Luigi Telesio prefetto della Biblioteca dei Gerolamini
v. Luigi Maria Greco, Elogio del p. L. T., negli Atti dell’Accademia Cosentina,
voi. Ili, pp. 345 sgg. Francesco Bacone, De principiis atque originibus
secundum fabulas Cupidinis et Coeli: sive Parmenidis et T. et praecipue
Democriti philosophia, tractata iti fabula de Cupidine ; in Philosophical Works
edited by Ellis and Spedding (con pref. dell’EUis e note). La prima volta
questo opuscolo fu pubblicato da Isacco Gruter in Franc. Baconi de Verulamio
Scripta in naturali et universali philosophia, Amsterdam. Sono citati gli
scritti più notevoli. Delle storie generali della filosofia soltanto quelle che
contengono esposizioni originali. G. Gentile, Bernardino T. appendice bibliografica
Iohannis Imperiala Musaeum kistoricum et pkysicum, Venetiis, ap. Iuntas, C’è un
ritratto del Telesio. Pel cui valore storico si osservi che nello stesso
frontespizio del libro è detto che le imagines del Museo storico sono ad vivum
expressae, e nella prefazione al lettore: « Icones ad vivum ubique locorum a
nobis anxio perennique studio conquisitas, vix cogere in unum licuit paucas,
nec impensae pepercimus, nec oleo, aliquam interdum, prout minus congrua
censebatur, abolendo, aliquam reformando, et cum probatioribus conferendo, quo
studiosa cupidaque huiusmodi elegantiarum tua non falleretur fiducia». Petri
Freheri Theatrum viro rum eruditione claro rum, Norimbergae. C’è un ritratto
del T., riprodotto da Rixner e Sibek innanzi al vojutne qui sotto citato. Ioh.
Georgii Lotteri De vita et philosophia T. commentarmi ad illustrandas historiam
philosophicam universam et literariam saeculi XVI C/iristiani sigillativi,
Lipsiae, apud Bernh. Christoph. BreitKopfium. Nei Nova Acla eruditorum di
Lipsia, 3 c'è una recensione di questa monografia. Bruckeri, Historia critica
philosophiae, to. iv, pars 1, Lipsiae, Mémoires pour servir à filisi, des
hommes illustres dans la republique des le/tres avec un catalogne raisonné de
leurs ouvrages par le R. P. Niceron barnabite, to. xxx, Paris, io. H 4 Salvatore Spiriti, Memorie degli scrittori
cosentini, Napoli, Buhle, Gesch. d. neueren Philosopkie seit der Epoche d.
Wiederhers/ellung der Wissenschaften, SCRITTI SU B. T. Gòttingen.; trad. frane.
Jourdan,
Paris, Ginguené, Histoire littéraire d’Italie [continuata da F. Salfi], to.
vii, Paris, Michaud. I- e PP' 5
°°* 1 4 relative al T. sono un’aggiunta di Salfi. Rixner e Siber, Leben und
Lehrmeinungen berukm- ter Physiker am Ende des XVI und am Anfange des XVII
fakrhunder/s, Bd. ni (Sulzbach) (T.) . Oltre una biografia del T., contiene la traduzione'(molto libera) di
molti brani del De rei' . natura. Giuseppe Boccanera da Macerata, B T., nella
Biografia degli uom. illustri del Regno di Napoli, to. vni, Napoli, N. Gervasi
(col ritr. del Morghen). Francesco Saverio Sai.ki, Elogio di Bernardino T., 2“
ediz., Cosenza, Migliaccio Ristampato in Salpi, Prose varie, Cosenza,
Migliaccio. La prima volta era stato pubblicato nel giorn. La Fata Morgana di
Reggio Calabria; e contro di esso allora comparve un opuscolo: Luigi Telesio,
Risposta all'art. inserito nel giorn. intitolato La Fata Morgana... Su la vita
e la filosofia dì Bernardino Telesio, in Napoli, nella Stamp. della Società
Filomatica (cit. da F. Bartelli, Note). Scaglione, [La filosofia di B. Telesio]-,
negli Atti della Accademia Cosentina, Cosenza, pe’ tipi di G. Migliaccio, 1842,
voi. 11, pp.15-115. In risposta al tema assegnato dall’Accademia l’anno 1838: «
Esporre con lucidezza e precisione il sistema filosofico di B. T., e far
conoscere quale e quanta influenza abbia esercitato sul progresso delle
scienze, e quali scrittori, sian essi calabri o stranieri, abbiano maggiormente
contribuito a propagare la nuova dottrina Telesiana APPENDICE BIBLIOGRAFICA
Bartholmèss, De Bernardino T., Paris, 1849. H. Ritter, Geschichte dcr
Philosopkie, r l heil (Bd. I della Gesch. d. neutra Pkilos. ), Hamburg,
Perthes, Erdmann, Grundriss der Geschichte der Phi- losophie, 1, Berlin,
Fiorentino, T., ossia studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento
italiano, Firenze, Le Monnier, 2 voli. 1872, e 1874. Della psicologia del T. il
Fior, s’era occupato nel Pomponazzi. A proposito del volume del Telesio furono
pubblicati i seguenti scritti du Ferri e Francie. Luigi Ferri, La filosofia
della natura e le dottrine di B. T.\ nella Filos. ileUe scuole i/al., a. 1873. Ad. Franck, Bernard.
Telesio, ou Études histort- ques sur l’idée de la nature pendant la renaissance
ita- lienne par F. Fiorentino, in Journaldes Savanls. Carriere, Die philosophische Weltanschauung der
Reformationszeit*, Leipzig. T., rivista di scienze lettere ed arti, Cosenza
(direttori Iulia e Bianchi). Ne conosco 3 fase., che non contengono nulla sul
Telesio, salvo un cenno neil’art. di G. M. Greco, Il Qualiromani critico a 8 a
teoria dell’anima del filosofo cosentino, difesa dalle critiche del Fiorentino.
SCRITTI SI! B. T. Lasswitz, Geschichte der Atomisti): vom Afitte/- alter bis
Newton, Hamburg u. Leipzig, Heiland, Erkenntnisslehre nnd Ethik des Bernardinus
Telesius ; Inaug.-Dissert., Leipzig. C’è una bibliografia della letteratura
telesiana. Tocco, Le fonti più recenti della filosofia del Bruno, Roma, 1892
(estr. dai Rend. Lincei). I rapporti di Bruno col T. Cui è da aggiungere
l'osservazione dell' Eli.is nella pref. al De principiis di Bacone, ed. cit.,
p. 75 n. Felici, Le dottrine fi/osofico-religiose di Campanella con particolare
riguardo alla filos. della rinascenza italiana. Lanciano, Carabba. Sono
studiati i rapporti del Camp, con T. St. de Chiara, Bricciche lelesiane. Nozze
Tancredi- Zumbini, xix aprile mdcccxcvii (Cosenza, ApreaJ, Spigolature
dall’archivio cosentino relative al nome della madre del T. e ad alcuni de’
suoi figliuoli. A p. 4 n. 1, è detto: c Un solo, il Bruckero, dice ch'egli sia
nato nel 1508: ma questo non è assolutamente possibile, perchè nel sett. del
1508, come abhiam visto [«nelle schede del notar Arnone, i capitoli di un
secondo matrimonio, che Giovanni T., padre del nostro Bernardino, contrasse con
la signora Vincenza Garofalo »], il padre passa a seconde nozze. La data, poi,
si desume anche dalla seguente notizia cortesemente comunicatami dal mio nob.
amico Luciano de Matera e da lui ricavata di su un antico ms.: si sepelì nella
sua sepultura della sua cappella dentro la Chiesa magiore il filosofo
Bernardino tilese d’età d’anni settantanove APPENDICE BIBLIOGRAFICA Bartelli,
Note biografiche (B. Telesio e Galeazzo di Tarsia) Cosenza, A. Troppa, MCMVI.
Sul T. È il miglior saggio biografico che si abbia per l’esame rigoroso delle
notizie e per la larga • esplorazione dei documenti inediti cosentini. Almagià,
Le dottrine geofisiche di B. T.: primo contributo alla storia della geografia
scien¬ tifica nel cinquecento, Firenze, Ricci, 1908 (estr. dagli Scritti di
geografia e storia della geografia pubbl. in onore di Vedova). Duilio Ceci,
Bernardino Telesio (con bibliografia) ne La cultura contemporanea, Roma, a. n,
n. 3, Articoluccio d’occasione. Nella Bibliografia si cita: «Bonci, Il
volgarizzamento dello scritto latino di B. (sic) T: I colori presso gli antichi
Romani, Pesaro, Federici, 1894. Ma si tratta del De coloribus di Antonio T.
Troilo, T., Modena, Formiggini; col ritr. del Morghen; N. 11 dei Profili del
Formiggini). Il medio evo; II. Umanesimo e rinascimento Vita e scritti del T.,
La filosofia del T.; V. Chiarimenti Note Appendice bibliografica. » I. Scritti
di B. T. » II. Scritti su B. Telesio LATERZA BIBLIOTECA DI CULTURA MODERNA
Elegante collezione Orano Psicologia sociale (esaurito). •2. B. King e T. Okkv
1/ Italia d'oggi .Ciccotti Psicologia del movimento socialista . Virgiu
L’Istituto famigliare nelle Società primordiali -,f>0 Martin L’Edncazione
del carattere (esaurito). Lorenzo — India e Buddhismo antico Spinazzola — Le
origini ed il cammino dell’Arte. Gourmont Fisica dell’Amore. Maggio su l'
istinto sessuale . Cassola I sindacati industriali. Cartelli - Pools - Trusts .
Marchesini Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica Kbioh 11 Successo
delle Nazioni. Barbagali La fine della Grecia antica . Novati Attraverso il
Medio Evo Spingarn La critica letteraria nel Rinascimento.. Carlyle Sartor
Resartus Carabki.lbse Nord e Sud attraverso i secoli Spaventa — Da Socrate a
Hegel Labriola — Scritti vari di filosofia e politica a cura di B, Croce.
LATERZA Balfour Le basi della fede Freycinet Saggio sulla Filosofia delle
Scienze Crock Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel Hearn
Kokoro. Cenni ed echi dell’intima vita giapponese . Nietzsche Le origini della
tragedia Imbriani — Studi letterari e bizzarrie satiriche. Hearn Spigolature
nei campi di Bml- dho . Saleeby La Preoccupazione ossia la malattia del secolo.
K. Vossi.br Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio. Arcoleo Forme
vecchie, idee nuove Il pensiero dell’Abate Galiani - Antologia di tutti i suoi
scrìtti editi e inediti Spaventa La filosofia italiana nelle sne relazioni con
la filosofia europea Sorbi. — Considerazioni sulla violenza Labriola Socrate.
Kohlkr Moderni problemi del Diritto Vossi.br — la Divina Commedia stu¬ diata
nella sua genesi e interpretata Storia dello svolgi¬ mento religioso-filosofico
Storia dello svol¬ gimento etico-politico. Gentile — Il Modernismo e i rapporti
tra religione e filosofia. Festa — Un galateo femminile italiano del trecento
Spaventa — La politica della destra Royce — Lo spirito della filosofia mo¬
derna Pensatori e Problemi Prime linee d’un sistema . LATERZA Rrnier Svaghi
critici Gbbhart — L’Italia mistica Farinelli — Il romanticismo in Germania Tari
— Saggi (li Estetica e di Metafisica Romagnoli — Musica e Poesia nell antica
Grecia Fiorentino — Studi e ritratti • 45. G. Fkrrarelli Memorie militari del
Mezzogiorno d'Italia Spaventa - Principii di Filosofia Anile - Vigilie di
Scienza e di Vita Royce — La Filosofia della Fedeltà Emerson L’anima, la natura
e la saggezza - Saggi Rbnsi — Il genio etico ed altri saggi Gentile, T.
Bernardino Teleio. Telesio. Keywords: empirismo, teoria della percezione,
l’anima d’Aristotele, l’analogia, l’uomo e gl’animali, la ragione, i antici,
contro i antici, osservazione, percezione, la tradizione empirista italiana, il
Telesio di Bacone, sperimento, sperienza, esperienza, ex-perior, esperire –
Latino ex-perior, Gr. em-pereia, osservazione, osservare – observatum,
percipere – percezione per-capio. Refs.: Luigi Speranza, “Telesio e Grice,” per
il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. Telesio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teocle: la ragione
conversazionale della legislazione di Reggio – principe filosofo -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Reggio Calabria,
Calabria. A Pytahgorean who helps produce a new code of law for Reggio. Cited
by Giamblico. Unfortunately, Giamblico also mentions one Teeteto in exactly the
same context – implying that they may be the same person.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teodoro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della natura rerum – Roma – la
scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Filosofo
lombardo. Milano, Lombardia. Accademia. Nato da famiglia ligure. Agostino, che
gli dedica il “De beata vita”, dice che conosce bene l’Accademia, Dopo essere
stato per qualche tempo avvocato, poi governatore in Africa e consolare della
Macedonia e aver coperto vari uffici a corte, è praefectus praetorio delle
Gallie. Si occupa dell’amministrazione dei propri beni e di studi filosofici e
astronomici e scrive dialoghi su questi argomenti, STILONE lo nomina praefectus
praetorio per l’Italia, l’Illirico e l'Africa. Mentre confere questo ufficio ha
il consolato e in quell'occasione CLAUDIO CLAUDIANO gli dedica un panegirico.
Di T. resta un saggio “De metris”, mentre si sono perduti altri, tra i quali un
“De natura rerum.” Console, Consolato Prefetto del pretorio d'Italia. Di T. è
noto abbastanza, grazie al panegyricus dedicatogli da CLAUDIO CLAUDIANO. Di
famiglia notabile, sappiamo che è console. Il suo consolato avvenne sotto il
principe ONORIO. Prima di essere console è anche prefetto con sede a
Mediolanum-Aquileia. Qui Agostino conosce T., uno degl’intellettuali accademici
che incontrato appunto a Milano e, scrive “De vita beata”, dedicandolo proprio
a T., che a quel tempo si è ritirato dalla corte. Di T. resta un trattato di
metrica, “De metris”, uno dei migliori pervenuti, e per questo molto conosciuto
e studiato. Inoltre, sempre secondo CLAUDIO CLAUDIANO, e un cultore di
filosofia, astronomia e geometria e scrive diverse saggi su questi argomenti
che, insieme al suo consolato, sono l'argomento del panegirico a T. dedicato da
CLAUDIO CLAUDIANO. Markus, The end of ancient Christianity, Cambridge; Keil,
“Grammatici Latini”. Bonfils, C. Th. e il prefetto T., Bari, Edi puglia, consoli
tardo imperiali romani Stilicone Prefettura del pretorio delle Gallie Mariano
Comense Siburio Teatro romano di Milano Prefettura del pretorio d'Italia
Nicomaco Flaviano (prefetto del pretorio) T., su Treccani – Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di T. su digi libLT, Università degli Studi
del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Opere di T., su Open Library, Internet
Archive. Predecessore Consoli romani Successore Imperatore Cesare Flavio
Honorio Augusto IV, Flavio Eutichiano T., Eutropio Aureliano, Flavio Stilicone V
D M Grammatici romani Portale Antica Roma Portale Biografie
Categorie: Scrittori romani Grammatici romani Politici romani Scrittori Consoli
imperiali romani Prefetti del pretorio d'Italia. A statesman and author who writes
on a wide range of subjects. He is best known for a technical work on poetry,
but he also comments philosophical works. Flavio Mallio (o Manlio) Teodoro.
Keywords: de natura rerum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Teodoro”, per H. P.
Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza
Luigi Speranza -- Grice e Teodoro: la ragione conversazionale della
scuola di Taranto – Roma – filosofia pugliese – la scuola di Taranto -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Taranto). Filosofo
pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean cited by Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teone: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della salute –
Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. He moves to Gaul to become
a healer. Cited by Eunapio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teofri: la ragione conversazionale della setta di
Crotone– Roma – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teoride: la ragione
conversazionale da Crotone a Metaponto –
Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Matera, Basilicata. Pythagorean cited by Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Terillo: all’isola – la
ragione conversazionale della scuola di Siracusa -- Roma – filosofia siciliana
-- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. Plato
mentions T. in his letter to Dionisio II di Siracusa. In it, T. is described as
someone who divides his time between Siracusa ‘and everywhere else’ – ‘a
philosopher, of much learning, too’, he adds as a joke. The authenticity of the
letter is highly doubted – “and therefore, of Terillo’s own existence!” – H. P.
Grice. Terillo. Keywords: filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Terillo,”
per H. P. Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia Grice e Tertulliano: la ragione
conversazionale -- nothing is so absurd that some philosopher has not thought
it – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. ‘Credo quia absurdum
est’ is his life-guiding motto, which he learns from his philosophy tutor at
Rome. He belongs to the Porch, and later becomes a ‘montano,’ an ascetic sect,
“although,” his brother reminsices, “my brother stays away from the more
extreme forms of the asceticism the sect officially promulgates.” Quinto
Settimio Florente Tertulliano.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Terzi: implicatura crittologica
– Gaskell’s pupil -- la scuola di Brescia – filosofia lombarda. filosofia
italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Brescia). Abstract. Keywords: Peccavi. It was a pupil of Gaskell
who submitted to PUNCH the Peccavi conversational implicature pun. Francesco Lana de Terzi Francesco Lana de Terzi
(Brescia, 10 dicembre 1631 – Brescia, 22 febbraio 1687) è stato un gesuita,
matematico e naturalista italiano, considerato il fondatore della scienza
aeronautica.[1] Il pioniere dell'aeronautica Gaston Tissandier definì Lana «Le
premier qui formula le principe de la navigation aérienne.»[2] Arthur Mangin
riconosce nel Lana «il solo fisico del secolo XVII, le cui vedute
sull'aerostatica abbiano veramente avuto qualcosa di razionale».[3]
All'aeronave di Lana de Terzi si ispirò Bernardo Zamagna per il suo celebre
poemetto latino Navis aeria (1768).[4] Biografia Frontespizio del
terzo volume del Magisterium naturae, et artis di Francesco Lana de Terzi
(1692) Francesco Lana de Terzi, figlio del conte Ghirardo e della contessa
Bianca Martinengo, nacque a Brescia il 10 dicembre 1631 dalla nobile famiglia
Lana de Terzi.[5] Dopo aver frequentato il Collegio dei Nobili di Sant'Antonio,
l'11 novembre 1647 entrò nella Compagnia di Gesù.[6] Dopo il biennio di
noviziato passò nel Collegio romano, dove studiò per due anni lettere e per tre
anni filosofia (1651-1654). Nel 1652 iniziò a collaborare con padre Athanasius
Kircher, che aveva un laboratorio attrezzato per le esperienze scientifiche e
lo introdusse al metodo sperimentale[7][5]; seguì anche i corsi di matematica
di Paolo Casati.[8][6] Il p. Lana dimostrò fin da giovane grande ingegno,
unendo lo studio e la ricerca in svariati campi dello scibile umano a viaggi,
che lo portarono a visitare molte città d'Italia. A Terni insegnò grammatica e
retorica, scrivendo nel frattempo una piccola opera dedicata al protettore
della città. Dal 1675 al 1679 insegnò matematica e fisica all'Università di
Ferrara e in forma privata nel Collegio della Compagnia.[9][10] Nel periodo ferrarese,
il Lana intrattenne una ricca corrispondenza epistolare con il confratello
Daniello Bartoli, e «meditò a lungo e profondamente le opere dei maggiori
scienziati del primo Seicento italiano ed europeo (Keplero, Galilei,
Torricelli), nonché quelle degli studiosi a lui più vicini nel tempo (come
Hevelius, Huygens e Malpighi).»[11] La sua salute cagionevole lo
costrinse a ritornare a Brescia, dove divenne insegnante di filosofia nel
convento di Santa Maria delle Grazie. Intraprese lunghi viaggi verso i
territori vicini, i laghi di Garda, Iseo e Idro, e le valli, Camonica, Sabbia e
Trompia, traendo dalle sue esplorazioni il trattato Storia naturale Bresciana,
che rimarrà in forma di manoscritto. Nel 1671 venne nominato socio
corrispondente della Royal Society di Londra ed entrò in relazione epistolare
con il giovane Leibniz.[10] Studioso poliedrico, il Lana si segnalò per
le brillanti invenzioni: «dopo un geniale telaio «per rendere più razionale la
semina», riuscì a perfezionare un modello di cannocchiale distanziometrico
(attuato in perfetto parallelo con Geminiano Montanari), e affrontò il progetto
della “nave volante” che gli diede un posto ragguardevole nella storia della
scienza.»[12] Nel 1686, sull'esempio dell'Accademia dei Lincei, fondò a
Brescia l'Accademia dei Filesotici, con lo scopo di pubblicare ogni mese i
risultati degli esperimenti condotti dagli accademici e di recensire le nuove
pubblicazioni, sia italiane che estere.[13] L'Accademia, tuttavia, non
sopravvisse alla morte del fondatore, e pubblicò un solo volume di Atti (Acta
Novae Academiae Philexoticorum Naturae, et Artis, Brixiae, apud Jo. Mariam
Ricciardum, 1687, in-12).[14][15] Dedicati dal Segretario dell'Accademia,
Ermete Francesco Lantana, a Gianfrancesco Gonzaga, Duca di Sabioneta, gli Atti
riportano i resoconti degli esperimenti condotti dagli accademici dal marzo
1686 al febbraio 1687 e la recensione delle pubblicazioni scientifiche più
recenti («ragguaglio de' libri»), come i primi due volumi del Magisterium
naturae et artis del Lana e le opere di Filippo Bonanni, Marcello Malpighi e
Bernardino Bono, lui pure «academico filesotico».[16] Vari esperimenti inclusi
negli Acta, come quelli sulla declinazione magnetica, sulla costruzione di una
pisside magnetica, sulla solidificazione di due liquidi venuti a contatto,
furono realizzati sotto la direzione del p. Lana.[10] Tra le opere del
Lana notevole è anche il progetto del Magisterium naturæ et artis (3 voll.
1684-1692), opera enciclopedica in nove volumi, di cui però solo i primi due
furono completati. Gli è stato dedicato un asteroide, 6892
Lana.[17] L'aeronave Disegno dell'aeronave di Lana de Terzi
(c.1670) Francesco Lana de Terzi propone il primo serio tentativo di realizzare
un velivolo volante più leggero dell'aria. Nel 1670 pubblica infatti il libro
Prodromo, che contiene un capitolo intitolato Saggio di alcune invenzioni nuove
premesso all'arte maestra nel quale è riportata la descrizione di una nave
volante, un vascello più leggero dell'aria da lui immaginato nel 1663 sviluppando
un'idea suggerita dagli esperimenti di Otto von Guericke con gli emisferi di
Magdeburgo.[18] Secondo il progetto, che intendeva "fabricare una
nave, che camini sostenuta sopra l'aria a remi, & a veli", il velivolo
doveva essere sollevato per mezzo di quattro sfere di rame, dalle quali doveva
essere estratta tutta l'aria. La chiglia sarebbe stata appesa alle sfere di
rame (di circa 7,5 metri di diametro), con un albero a cui era attaccata una
vela; secondo i suoi calcoli, quando nelle sfere veniva fatto il vuoto, esse
divenivano più leggere dell'aria e offrivano una spinta ascensionale
sufficiente a sollevare la barca e sei passeggeri. Oggi sappiamo che la
realizzazione del progetto non è fisicamente possibile, perché la pressione
dell'aria farebbe implodere le sfere e perché sfere sufficientemente resistenti
avrebbero un peso superiore alla spinta fornita. Ma il grande merito dello
scienziato è di aver per primo applicato alla navigazione aerea il principio di
Archimede, lo stesso che consente alle navi di galleggiare sull'acqua e che nel
1783 porterà all'aerostato dei fratelli Montgolfier.[19] Lana non giunse
infine a realizzare la sua "nave volante", non per i problemi che il
progetto presentava (di cui comunque era ignaro), ma per il timore che la sua
invenzione potesse essere usata per scopi militari, come egli stesso ebbe a
scrivere nel Prodromo.[20][21] Ma intanto l'aeronave del Lana aveva fatto
parlare molto di sé, in Italia e all'estero, nei circoli colti, divenendo
soggetto di discussioni erudite, suscitando ammiratori e oppositori. Per
accennare alla diffusione delle sue idee nei primi anni dopo la pubblicazione
del Prodromo, va ricordato che già nel 1671 Henry Oldenburg ne pubblicò una
recensione sulle Philosophical Transactions.[22] Robert Hooke, curatore degli
esperimenti della Royal Society, presentò una traduzione inglese di alcune
sezioni del Prodromo, accompagnata da una dettagliata discussione dei principi
fisici su cui l'idea di Lana si basa.[23][24] Nel 1673 le sue tesi sui presupposti
scientifici dell'aeronave furono difese all'Università Carolina di Praga per
iniziativa del gesuita Kaspar Knittel, professore di matematica. Simili atti
accademici ebbero luogo all'Università di Erfurt sotto la presidenza del
professor Hiob Ludolf e nel 1676 all'Università di Rinteln in una tesi di
laurea sotto la presidenza del gesuita Philipp Lohmeier, il quale però attribuì
a se stesso il merito dell'invenzione. Lo stesso anno a Norimberga Johann
Christoph Sturm pubblicava una raccolta di esperimenti di fisica in cui si
sosteneva la validità scientifica dell'invenzione del Lana.[25]
L'alfabeto per ciechi L'aeronautica non esaurisce certo gli interessi del p.
Lana. Ad esempio nel capo primo del Prodromo («nuove inventioni di scrivere in
cifra») Lana elabora nuovi sistemi di crittografia, più tardi ripresi da Kaspar
Schott nella sua Schola Stenographica.[26] Ma uno dei meriti maggiori di Lana
consiste nell'avere elaborato, cent'anni prima dell'Abate de l'Épée, un metodo
pratico per l'istruzione dei sordomuti e dei ciechi nati.[27] Nel capo
secondo del Prodromo, infatti, viene presentato un alfabeto per non vedenti di
concezione interamente nuova. A differenza dei metodi di lettura e scrittura
per ciechi inventati in precedenza, l'alfabeto creato da Lana si basava
sull'intuizione fondamentale che esso non dovesse imitare i caratteri
"classici" (come avevano proposto ad esempio Girolamo Cardano ed
Erasmo da Rotterdam), ma dovesse utilizzare un sistema di segni fatto da una
serie di linee percepibili al tatto. Vi fu un solo dettaglio che impedì
all'invenzione di Lana di avere successo: il gesuita non comprese che i punti,
invece delle linee, sarebbero stati più facilmente riconoscibili con la
sensibilità delle dita. Ciò fu invece compreso da Louis Braille, il quale
apportò la miglioria definitiva all'alfabeto per ciechi che da lui ha preso il
nome.[28] Opere Francesco Lana de Terzi, Prodromo ovvero saggio di alcune
inventione nuove premesso all'arte Maestra Opera che prepara il P. Francesco
Lana, Bresciano della Compagnia di Giesu. Per mostrare li più reconditi
proncipij della Naturale Filosofia, riconosciuti con accurata Teorica nelle più
segnalate inventioni, ed isperienze fin'hora ritrovate da gli scrittori di
questa materia & altre nuove dell'autore medesimo, Brescia, Rizzardi, 1670.
(Ristampa: Milano, Longanesi, 1977) (LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium
naturae, et artis. Opus physico-mathematicum, vol. 1, Brescia, per Io. Mariam
Ricciardum, 1684. (LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium naturae, et artis.
Opus physico-mathematicum, vol. 2, Brescia, per Io. Mariam Ricciardum, 1686.
(LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium naturae, et artis. Opus
physico-mathematicum, vol. 3, Parma, Typis Hyppoliti Rosati ac sumptibus
Iosephi ab Oleo, 1692. Edizioni moderne Francesco Lana Terzi, Prodromo all'Arte
maestra, a cura di Andrea Battistini, Brescia, Morcelliana, 2016, ISBN
978-88-372-3070-8. Note
^ Joseph MacDonnell, Jesuit geometers: a study of fifty-six prominent Jesuit
geometers during the first two centuries of Jesuit history, Institute of Jesuit
Sources, 1989, p. 21, ISBN 978-0-912422-94-7. «Francesco Lana-Terzi is found at
the head of literature on Aviation because of the treatise in his book Prodromo
alla Arte Maestra (1670) on aerostatics. His work was translated by Robert
Hooke and presented to the Royal Society of London by Robert Boyle. Later it
was discussed by physicists for over a century before the first successful
aerostatics flight by the Montgolfier brothers in 1783. His work fascinated
scientists because it was the first time anyone worked out the geometry and
physics for such a device.» ^
Giuseppe Boffito, Il 'più leggero dell'aria' prima di Montgolfier, in L'ala
d'Italia rivista mensile di aeronautica, febbraio 1926 – nº 2, p. 51. ^ «Le seul physicien
d'alors dont les vues sur l'aérostation aient eu quelque chose de judicieux et
de rationnel»; Arthur Mangin, La navigation aérienne, Mame, Tours 1856, 10. ^ Giuseppe Boffito, Il 'più leggero dell'aria'
prima di Montgolfier, in L'ala d'Italia rivista mensile di aeronautica,
febbraio 1926 – nº 2, p. 52. «Al Lana s'ispirò Bernardo Zamagna nel cantare
latinamente la sua Aeronave (Navis Aerea).» Mario Zanfredini, 1987.
DBI. ^ Cfr. Magisterium naturae et artis, II, Brixiae 1686, p. 176. ^ ibid., p.
425. ^ Grendler (2017), p. 373. Enciclopedia bresciana. ^ Davide Arecco,
Mongolfiere, scienze e lumi nel tardo Settecento: cultura accademica e conoscenze
tecniche dalla vigilia della Rivoluzione francese all'età napoleonica, Bari,
Cacucci, 2003, pp. 30-31. ^ Maria Luisa Altieri Biagi e Bruno Basile (a cura
di), Galileo e gli scienziati del Seicento, vol. 2, Milano-Napoli, Riccardo
Ricciardi editore, 1980, p. 1220. ^ Giambattista Chiaramonti, Dissertazione
istorica delle Accademie Bresciane, 1762, p. 46. ^ Antonio Fappani (a cura di),
Accademia dei Filesotici, in Enciclopedia bresciana, vol. 1, Brescia, La Voce
del Popolo, 1987, p. 4. ^ Cfr. anche: Clelia Pighetti (a cura di). L'opera
scientifica di Francesco Lana Terzi S.I.: 1631-1687 (Brescia: Comune di
Brescia, 1989). ^ Ugo Vaglia, Stampatori e editori bresciani e benacensi nei
secoli XVII e XVIII (PDF), Brescia, Ateneo di Brescia, 1984, p. 281. Su Bernardino Bono medico e
collaboratore del Vallisneri cfr: Ivano Dal Prete, “Ingenuous
Investigators": Antonio Vallisneri's Regional Network and the Making of
Natural Knowledge in 18th-century Italy, in Paula Findlen (a cura di), Empires
of Knowledge: Scientific Networks in the Early Modern World, Routledge, 2018,
pp. 179-204, in partic. pp. 184-188, ISBN 978-0-429-86792-7. Negli Acta
compaiono diversi suoi interventi di pregio (Relatio de quodam aegroto singulis
paroxismis sanguinem loco urinae excernente; Epistola continens quaedam circa
visionem depravatam et vitae prolungationem per respirationem alterati aeris;
Intestini caeci usus; De scorbuto nostrarum regionum advena exotico; De
respiratione). ^ (EN) Lana - Dati riportati nel database dell'International
Astronomical Union, su minorplanetcenter.net. ^ Ronald S. Wilkinson, John F.
Buydos, William J. Sittig, Aeronautical and Astronautical Resources of the
Library of Congress: A Comprehensive Guide, Library of Congress, 2007. «This
author's work was based on the discovery of atmospheric pressure by Torricelli,
the barometrical researches of Pascal in France, and the experiments relating
to the vacuum pursued in Germany by Otto von Guericke, but Lana Terzi deserves
the sole credit for discovering the principles of aerostation.» ^ Gaston Tissandier, La
Navigation aérienne, BnF collection ebooks, 2014, ISBN 978-2-346-00000-5.
«Assurément le projet de Lana est impraticable : le savant jésuite n'a pas
prévu que ses ballons de cuivre vides d'air seraient écrasés par la pression
atmosphérique extérieure ; mais il n'en a pas moins eu une idée très nette et
très remarquable pour son époque du principe de la navigation aérienne par les
ballons plus légers que le volume d'air qu'ils déplacent.» ^ Francesco Lana, su Gesuiti.it (archiviato
dall'url originale il 9 gennaio 2006). ^ «Dio non sia mai per permettere che
una tale macchina sia per riuscire nella pratica, per impedire molte
conseguenze che perturberebbero il governo civile e politico tra gli uomini.
Imperciocché chi non vede che niuna città sarebbe sicura dalle sorprese,
potendosi [...] con ferri che dalla nave si gettassero a basso sconvolgere i
vascelli, uccidere gli uomini ed incendiare le navi [...] le case, i castelli,
le città.» ^ An accompt of two books. - I. Prodromo overo saggio di alcune
inventioni nuove premesso all'Arte Maestra di P. Francisco Lana della Campagnia
di Jesu, in Brescia, 1670. in 4˚. II Joh. Henr. Meibomii de cerevisiis,
potibùsque & ebriaminibus extra vinum aliis Commentarius, annexo libello
Turnebi de vino. Helmestadii
1668. in 4˚, in Philosophical Transactions, vol. 6, 1671, pp. 2114-2118,
DOI:10.1098/rstl.1671.0005, JSTOR 101056. ^ Robert Hooke, P. Fran. Lana's Way
of Making a Flying Chariot; with an Examination of the Grounds and Principles
thereof, in Philosophical Collections, vol. 1, 1679, pp. 18-29. ^ Viktoria
Tkaczyk, Ready for Takeoff. Robert Hooke's flying experiments, in Cabinet
Magazine, n. 27, 2007, pp. 44-49. ^
Mario Zanfredini, 1987, pp. 127-8. ^ Le invenzioni e i criteri scientifici del
P. Francesco Lana Terzi (1631-1687), in La Civiltà cattolica, anno 83 – 1932 –
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30 dicembre 2011. Bibliografia Parte di questo testo proviene dalla relativa
voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, pubblicata sotto licenza
Creative Commons CC-BY-3.0, opera del Museo Galileo - Istituto e Museo di
Storia della Scienza (home page) Illustrazione del velivolo di Francesco Lana
de Terzi (JPG), su pilotundluftschiff.de. URL consultato il 14 agosto 2008
(archiviato dall'url originale il 26 ottobre 2012). Giammaria Mazzuchelli,
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Cesare Preti, Francesco Lana Terzi, in Dizionario biografico degli italiani,
vol. 63, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2004. URL consultato il 19
marzo 2017. Modifica su Wikidata (DE) Ulrich Magin, Luftschiffe im 17.
Jahrhundert?, in JUFOF, n. 158, 2005, pp. 60-61. Flavio Mucia, La nave volante
che ha fatto storia, in Giornale di Brescia, 10 marzo 2005, p. 33. (EN) Paul F.
Grendler, Jesuit Mathematicians in the Universities of Ferrara, Pavia, and
Siena, in The Jesuits and Italian Universities, 1548-1773, 2017, pp. 367-392,
DOI:10.2307/j.ctt1q8jj4h. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Wilhelm, Francesco Lana de Terzi, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata (DE) Roland Lüthi, Francesco Lana Terzi: La Nave
volante (Brescia, 1748), su ETH Zürich, 16 marzo 2012. V · D · M Compagnia di
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e tecnica Categorie: Gesuiti italianiMatematici italiani del XVII
secoloNaturalisti italianiNati nel 1631Morti nel 1687Nati il 10 dicembreMorti
il 22 febbraioNati a BresciaMorti a BresciaIngegneri aerospazialiInventori
italianiFisici italiani del XVII secoloScrittori in lingua latinaScrittori in
lingua italianaScienziati del clero cattolico[altre]Filosofo lombardo. italiano.
Brescia, Lombardia. Sistemi crittografici di questo tipo hanno grande fortuna.
Ma ovviamente in ragione dello scopo contrario a quello qui perseguito d’A., il
rendere illeggibile un testo non possedendone la chiave di lettura. Più sistemi
di questo tipo sono ad esempio creati dal padre gesuita, e allievo di Kircher,
Francesco Lana conte de’ TERZI (si veda) nella suo saggio “Prodromo, overo
saggio di alcune inventioni nuove premesso all'arte maestra pubblicato a
Brescia. Vedasi FRANCESCO LANA CONTE DE' TERZI, Prodromo, overo saggio di
alcune inventioni nuove premesso all'arte Maestra, opera che prepara il P.
Francesco Lana bresciano della Compagnia di Giesu per mostrare li piu reconditi
principij della naturale filosofia, riconosciuti con accurata teorica nelle piu
segnalate inventioni, ed isperienze fin'hora ritrovate dai filosofi di questa
materia e altre nuove del filosofo medesimo, Brescia, presso Rizzardi. Lana
nacque a Brescia e vi muore. Studia FILOSOFIA presso l'ordine dei gesuiti a
Roma, dove conosce anche Kircher che lo introduce alla fisica e al poker. È
insegnante di matematica e FILOSOFIA. •^J 'iMì\h TPi- 3M00 PRODROMO ovvero
saggio di alcune invenzioni nuove premesso ALL’ARTE MAESTRA, opera che prepara
T., BRESCIANO, DELLA COMPAGNIA DI GIESV. Per mostrare li più reconditi
principij della naturale filosofia, riconosciuti con accurata teorica nelle pio
segnalate invenzioni, ed isperienze fin'hora ritrovate dagli scrittori di
questa materia ed altre nuoue dell'autore medeiimo. DEDICATO ALLA SACRA MAESTÀ
CESAREA EL IMPERATO LEOPOLDO I IN BRESCIA. Per li RizLardi, Con Licenza de'
Superiori. V SACRA MAESTÀ CESAREA Ouca per ogni titolo ricorrere al patrocinio
dt Vojlra Sacra Maefià Cefarea, quejia prtr/io, e ro'j^iQ parto del mio dehhole
ingegno : ìmpcrcioche ejfendo egli ijn fag^ gio dell' opere, che fono per
dedicare k Fofira Sacra ^Maefià, fono le ali deli" aquila Imperiale,
tncominctera ad auuelJiarfi a fijfare lo f guardo ne' chiari ffimt fpiendori dt
quei SOLE terreno, che tiene il primo pofio nella ^Monarchi^ Colitica de"
Trencipi, come appunto ti Sole nella cele fle gerarchia delle felle. Non
doueano efporp alla luce dt vn Pianeta sì luminofo tutti li miei parti prima di
far prona, fé pano atti a contemplare i raggi del f no maejlofo fplendore-^
All'hora io gli ricono fcero per miei, quando potranno fìjfar gl'occhi in
Vofira Sacra t^AtaeJlà, (f all' hora folo potranno 'Volare per tutto il mondo,
quando faranno fofienutt dalle grand' ali di queìi' ej^qutU, che impera
nelì'Vniuerfo. Quejlo TRO D ROMO, che va innanzi all' ^ RT £ ìM a e ST RA, non
potea ritrouare alloggio più fortunato, che in cote fa Qorte, la quale da
leggi, ^ ammaejira tutti le nattoni : e benché fir amerò, fpera nulladtmeno fa
per ejferc ^ ejfere accolio be/jignamefUe d^ l^oflra Sacra lAaefla, che con
fauorue ì lelicralt jcrrihra haner conferito U csìtadt.nanl^a a tiitie l Arti
piti nobili . Pertanto fé queUe mandano per vn fuo mcjfao^gtcre alcune naoue
ìnuenìionì fi deggiono tributare al merito di Vofira Sacra Aiaefià, che con la
ma~ gntficen]^a della Jua mano {^efarea, e con la grandeZjZ^^ del petto
magnanimo i diva altro. Il nono è il moto predominante, che imp"difcc,o
rv^primc "l'altri moti meno potenti, Il decimo è quello di lìftole, e
dialtole, quai'è quello delle arterie. L'vndecimo è quello di fimpatia,&
antipatia. Alcuni aggiongono quello, che imprime alcuna virtù alle_^ cpfe,
fenza comunicarli alcuna foftanza; quale io nego potcrfifare, e refterà prouaro
a fuo luogo. Inoltre vi fono li moti propri] di ciafcun fenfo, della FantafiajC
dell'Appetito; ma quefti fi deuono fpicgare a luogo proprio,oue fi tratta delle
operationidelli animali ;folo a predetti moti fi deue aggiongerc la quiete, con
ciò che fa refiftenzs al moto. Dalli predetti moti naturali femplici prouengono
i moti naturali. compofti,che fono Talteratione, la niiftione,la feparationc,
la gcncr rationCjC corruttione, Taumentationce diminutionej poiché i moti
femplici j che nafcono da più intimi penetrali della Natura continuati,
mescolati, replicati, alternatÌ5rafrrenati, incitati, &: in molte maniere
variati sono cagione di tutti gl’effetti j e h.e amrairiaiBO r.cllc cpfe Efiche
0, La seconda parte della fisìca aftratta confiderà gl'accidenti, che fono
c6muni, o a tutte, o almeno a molte sostanze materiali, come sono il raro,^
iì,den/o ; il greue,e leggiere; il caldo, et il freddo ; l'huraido,8c il lecco
1 il volatile, et il fifso; ilfolido5& il £luidp;il crudo 6 fondare inai
alcun principio ("opra ilpeneniejche non fiano certe, e prouaiCj
proeurjndo di ibbilir? laveria non fopra vna fola, ma ibpra molte ilpericnic fé
fìa pofsibilei Ec oflemando fé il principioj e verità ftahilita fi confacela ad
altre limili efperienzc^ poiché all'ho-fa fi donerà itimarc infallibile vn
priacipio, quando coerentemente a quello caminano tutte le altre cofc della
medefima, o fimile.^ •nate ria. Manca dunque a qiicfta fcienza vna notitia
efatta, e ben ordi=T nata di tutte l'ifperienze, le quali Piano certe^e
prouatCjtanto naturali, quanto artiBciali, ò mirtea e quefte fi deuono ridurre a
capijcon-f forme l'ordinedeUe matcrieje quali ti trattano, premettendo le dette
ifpeticnze,e pofcia ftabilendo con quelle i principi;, e le verità proprie di
quella materia, e con cfsi rendendo ragione delle ifperienz,e medefime,
mollando la coerenza de principi; con tutte quelle ifpC'^ iienzc; il che noi
procuraremodi fare nella noftr'AtteMaeftrajqyaiv to comporterà il noffro debole
intendimento. Tutte Tifpericnze fi pofsono conliderare di tre forti: la prima
intorno alle gcnerationi saturali di tutte lecofe materiali, e fenfibili, come
delli mincralijdelli vegetabili, e delli animali, e anche delle mur
tationi,& accidenti ne corpi celefti, delli elementi, e de mifti imperfetti
j La feconda, intorno all€ generationi^che fono ftior dell'ordir ne naturale, e
fi chiamano pretergenerationi, e tutto ciò che fifcofta dalcorfo ordinario
della Naturalo fia per ragion del luogo particolare, o del concorfo di caufe
ftraordinarie j o per qualche altro infoiito cafo, o accidente; sì de moftri
nelli animali, e nelle piante 5 sì de portenti meteorologici, e fotserran/^if
sì d'alcun' Indiuiduo fingolare nella fua fpctie; sìdi altre nafcofte proprietà
ftraordinarie. La terza, intorno all'ifperienze artificiali, le quali fono
moltiflìmp da notarfi in ciafcun' aite, non trafcurando le piuEriuialÌ5&
vfitate, quando da quelle fi pofsano dedurre verità non. ordi|iarÌ€,.e di moke
confcguenzCo ., La prima forte d'jfperienze,per quanto appartengono alla
gcneratione delli animali,de vegetabili, e minerali, è fiata afsai accuratamente
ofseruata da Arìftotele,da Diofcoride, da Teofraflo, da Giorgio Aericola,e da
akri^ non cosi di quelle che appartengono alli elementi, et alle cofe
meteorologiche, fotterranee, e celefti. La fecondi forteèft.ata afsai uafcnrata
dalli antichi» e, Jbjp il mg-. derno derno Aldroando l'ha' in buona parte
illuftrata. La terza delle ifperienze artificiali, fi ritrouafparfa in molti
autori, fenza alcun buoji-, ordine,e molto imperfettamente. Tutte tré poi fono,
come diffi, ripiene di molti inganni, e fallacie, efsendo molte cofe ofcure,
altre incerte, et altre del tutto falfe ^ oltre che non fono confiderate, et
ordinate in modo, che feruano al fine, che pretendiamo, di ftabilire con
elìe_-> le più foftantiali verità della fcienza naturale. Quanto poi a
quella parte della Fifica,che tratta de principi] delle cofe fenfibili,èftata
maneggiata affai bene da molti, e particolarmente da alcuni moderni, tra quali
il noUro P, Cabco, e dopo lui il Caffendo j ma in elfi fi può defiderare
maggior metodo, et vn indutcione megliore di maggior numero di efatte
ifperienze. Quell'altra parte, che difcorre della fabricadelPVniuerfo con
l'ordine, e collegamento delle fue parti, non la ritrouo trattata con quella.,
dignità, che merita vna materia fi nobile : Poiché fé bene molti hanno fcritto
opere degne dì Aftronomia, e di Cofmografia, particolarmente il noftro
P.Riccioli nel fuo impareggiabile Almagefto jquefti però fi fono fermati nella
confiderationede'moticclefli^ nelle mifure del!a_^ grandezza de cieli, e della
terra, nelle lorodiftanze, e nella defcrictione de'fiti, fenza confidcrare
Tordine, e connedìone delle cofe terrene jcon le celefti,* la virtù, et
efficacia dell'operare dell'vne nell'altre, e la dipendenza nelli effetti
squali fi debbano attribuire, a quef1:a,ò a quell'altra ftella^qualfia la vera,
e fifica foitanza de corpi celef^i ; quale fia la cagione del loro moto :
perche alcuni veloci, altri tardi s'aggirino ; perche altri intorno alla terra,
altri intorno al Sole, a Gioue, a Saturno; perche hora vicini, hora più lontani
dalla terra, e cofe fimili . Et ancorché delli effetti, et influenze de Cieli,
moke cofe fi leggano apprelfo gl'afiirologi giudiciarij, fono però tanto vane,
e fi mal fondate, che meritamente da huomini di giudicio fi hanno in conto di
pazze chimcre,e di vere bugie, ellendo quelli fimili a Prometeo, che ingannò
Gioue con vn bue, il quale haueua folo la pelle grande, bella, e ben difpofta,
ma fotto di efla altro non v*era,che paglia,e foglie. Moflrano coftoro vn cielo
fatto da Dio, qui e xiendit calumf cut pillem ^con bell'ordine di regolati
fiftemi difpoftojma vi mancano le vifcert»» 5 cioè le ragioni fific he, dalle
quali fi poffano ftabilire le verità intorno alla natura, foftanza, moto, et
influfidieffi. E benché io del tutto condanni quella parte di
Aftrologiagiudiciaria, la quale foggetta il libero arbitrio alle influenze del
Cielo j non pretendo però condannare, quella,che giudica de futuri auuenimenti
nelle cofe fifiche, e naturali; come fono le mutationi dell'aria, l'impreflìoni
meteorologiche,& altri D eflfecci ' effetti pccpnarijjchedcpendono
dancccflaric cagioni: ma folo dico che qucfta parte fia alcuni fondamenti
fìlli, i quali fi deuono rigettare, jilcuiii veri 5 che fi deuono ammettere, ma
adoperare con maggior cautela diquellojche fi faccia comunemente dalli
aftrologi; e che molti filtri feli deuono aggiongere,dopo che fi faranno ben
conofeiutc le proprietà, e natura delle ftcUe, e de loro infludì, conforme
vedremo a |uo luo^Ojincui prccuraremo di riformare quell'arte, accio in cai
modo corretta, polla non folo con diletto, ma vtilmente efcrcitarfi. Laterza
parte, che difcorre delle nature fparfe in varij generi, «^ fpecie, ritrouo
edere molto più imperfetta delle due precedenti j e ciò r.onfolo mentre tratta
delle cofeaflratte, ma anche delle concret^-^ } poiché quanto a quefte non fi
ritroua alcuno, che abbracci tutcc 1^.^ parti,edi ciafcuna numeri Tjfperienze,
deducendo da effe con buon ordine le verità, e principi] di quefta (cienz,a.' e
benché molti habbiano riattato di vna parte, o fpecie di cofe particolare
sciopero hanno fatto rn^^lto imperfettamente, non penetrando a fondamenti, e
ragioni più recondite dclli effetti, e ciò per mancamento delfinduttione,
l*aItrafcientifica,e fpeculatiua j la prima contencrà gran numero d'ifperienze
le più confiderabili, et vtili appartenenti a quella materia, eoa l'inuentioni
più rare tanto mie propri^.^ quanto di ciafcun altro autore, fi antiche come
moderne. Nella feconda partCjdalle predette ifperienze,&
operationiprattiche, dedurrò tutti i principi j vniuerfali,con le altre verità
che s'afpettano a tai ma« teria, procurando di confermarle con lunga induttione
dell* ifperienze medefime,emoftrando la coerenia di quelle con li Inabiliti
principi], che renderanno la ragione vera, e legitima di effe : doue infieme
accennerò cornei mcdefimi principi} fi poffano ftendere all'inuentione di cofe
nuoue, e ftraordinarie; particolarmente applicando i principi] di vna materia
ftfica a quelli di vn altra parimente fifica, et a quelh di ciafcuna materia
fifica, quelli di alcuna parte della Matematica. Nel principi® di ciafcuna di
quefte feconde parti riferirò grafiìomi,& il modo di filofofare di ciafcuna
fetta de filofofi i e nel fine aggiongerò vn catalogo de problemi, ò fiana cofe
dubbiofe, delle quali non fi hauerà potuto hauer perfetta cognitione
fpeculatiua, et vn altro dellt^ inuentioni prattiche,che reftaranno a
ritrouarfi j accio ogn* vno, dalle cofe antecedenti pigliando nuouo lume, poffa
animarfi a perfettionare maggiormente quefta fcienzaj mentre procurarò di far
vedere che l'Arte, e Tefperieza è quella, da cui ogn'vno più che da niuna cofa
reftì jneffa ammacftratOjond*è,chemi è piaciuto di dare all'opera, che in
quefto faggio prometto, nome d'Arte Maeftra j non arrogandomi il ti» tolodi
maeftro,ma attribuendolo air Arte, di cui con indefeffe ifpe^^ jienze mi fono
fempre profeffato fcolaro.. Ho voluto dare q^uefto faggio, e notitia dell*
opera j che fono pe^ man^ 17 mandare alle ftampe, non tanto per fodisfarc alla
curlofità di quelli, che defideraranno di vederla, quanto far fare intendere a
tutti quelli, che fi dilettano d'ifperienze, buone, e di curiofe inuentioni,che
mi faranno cofa grata fé degnaranfi di communicarmi alcuna cofa di nuouo
ritrouata in tal genere, e mi obligaranno a darne all'autore quell'honore, di
cui farà meriteuole. In tanto acciò tal vno non ftimi che io prometti cofe
vane, mentre prometto inuentioni nuoue in ogni forte di arti, con il modo di
perfettionarle 5 ho voluto inuiare auanti all'Arte Maeftra quefto mio Prodromo,
in cui oltre varij nuoui ritrouamenti in molte forti di arti,pongo per vltimole
regole prattiche, che feruiranno a perfettionare due arti appartenenti ad vna
fol parte della Fifica, cioè alla fcienza delfOpticajlVna è l'arte della
Pittura, l'altra de cannocchiali, e microfcopij; Doue per hora tralafcio di
rendere efattamente le ragioni di quefte operationijriferuandomi a farlo
ordinatamente in ciafcuna-. parte dell'opera già promefla, che oltre
l'ifperienze, et operationi prattiche in ogni materia, et in ogni arte, comprenderà
infierae ia_teorica, e fpeculatiua, con l'ordine, e forma accennata di fopra_..
2^uoud ìttuentione di fcriuere in "fifira, in modo tale, che il fegreto
nafcofto nella fcrittura fia del tutto tmper-eettihilei^ U fcrtttura formi
fenfi totalmente diuerp dal f egreto, siche non dia fa ff etto alcuno di X^fra,
Oltifsimi fono ì modi di fcriuere in Zifra,nafcondendo alcun feg^eto fotto
varie note, caratteri, numeri, e cofe (ìmili, ritrouati da varijAutori,come fi
può vedere nelle loro Opere date allaStampaj e particolarm.ente in quelle di
Tritemio, di Cardano,e nuouamente di Hercol^-ij. deSundc,e del noftro Gafparo
Scotto. Ninno però fin hora ha po-t tuto ritrouare ciò,che N(^ qui proponiamo
di fare j con tutto che ciafcuno (ìHa in quefto affaticatOjC particolarmente i
Segretari] de Prencipi dcftinati a quefto laboriofo meftiere di fcriuere, et
interpretare le Zifrc . Tre fono le forti di Zifre ritrouate fin hora da altri
: La prima è tale, che venendo in mano d'alcuno viene tofto riconofciuta per
zifraj& il modo con cui è comporta fi può penetrare da chi è prattico nel
dizifrare; e quelle zifre fono le più imperfette di tutte le altre; poiché
hanno ambi li difetti,che fogliono efsere nelle zifre; rvno che danno fofpetto
di alcun fegreto nafcofto, e perciò vengono trattenute; Taltro che facilmente
fi può fcoprire, e cauare il fegrero con le regole del dizifrare molto ben note
a fegretarij di zifre, quali infegnaremo nella già promeffa no^ra. Arte
Maefìra,!.^ feconda iorte di zifre, è quella, che non da fofpetto alcuno: ma
eflendoui il fofpetto per altro, è tale, che con le medefime regole fi può
dizifrare. La terza è di quelle zifre,che in niunmodofipofìbno dizifrare da chi
non ha la contrazifra; ma però ritengono l'altro difetto, ch'è il dare
fofpettodizifra, e di fegreto; onde le lettere fcritte in tal forma vengono
trattenute, . Reda dunque da ritrouare il modo di togliere alla zifra ambidue
C|ueftidifettì,sichene dia fofpetto, ne poifa effer dizifrata da chi haucfle
per altro alcun fofpetto; ilche fin hora non è ftato ritrouato da alcuno,
benché cercato con ogni ftudio, per IVrilità grande che può recare nelli pia
importanti maneggi,& intereflì Politici : Onde fpero, che per quefto folo
fia per efler gradita quefta mia Operetta, mentre palefo vna nuoua mia inuencione
tanto gioueuole a tutti,emafi[ìmea grandi, li quali finhoraL l'hanna
anfiofamente defiderata. Pri 29 Frìma ^ifrA in intelligthile, e fen-^a
sospetto, si dividano le venti lettere dell'alfabeto italiano in cinque parti
come qui si vede, e sé le dia queir ordine confuso che ciascun vuole: il quale
i b o n a 1 e d hspnì I qgfz Alfabeto cofi diuifo seruirà dichiaueper chiudere,
e nascondere nella lettera qual si voglia segreto, e per cauarnelo, 8c
intenderlo, da chi farà partecipe della medesima chiave. Si scriva pofcia una
lettera di cerimonie, o di qualunque negotio meno importante –H. P. Grice
PECCAVI: an ingenious pun which few in South-Asian regions woul understand, but
which well-educated English people of the time would appreciate – submitted to
PUNCH by a pupil of GASKELL for which a cheque was received!. , ma ciò fi
faccia.» in modo tale, che fi fcielgano alcune lettere, le quali seguitaranno
dopo una virgola, e punti che foglionfi mettere sopra la vocale i: 1««* quali lettere doueranno pigliarfi, o
immediatamente dopo l’ultima i» oucroncl
principio della parola seguente, il che riuscirà più facilt^j Umilmente le
lettere che feguitano dopo un punto fermo, e Tiftefle vocali i, e nello stesso
modo le lettere, che seguitano dopo due punti, e le medesime vocali i. Quelle
parimente che seguono dopo vn punto interrogativoje vocale i, E
finalmente quelle lettere che seguitano dopo un accento, eie medesime vocali i.
Si che volendo indicare la lettera h del SEGRETO, faremo che detta
lettera si ritrovi immediatamétc dopo una virgola, e due vocali; per efleril h
la seconda lettera delle quattro notate colla virgola: ma volendo SIGNIFICARE la
lcrtera_. O, faremo che questa venga
immediatamente dopo una virgola, e tre vocali
j, per esser nel terzo luogo. Se poi voremo SIGNIFICARE 1. lettera » faremo che questa sia immediatamente
dopo una virgola le quattro vocali i, che sé voremo DENOTARE la lettera
/. faremo si, che venga-» dopo un punto, e due vocali ». fé
la lettera /?. dopo due punc!, e tré vocali ». fé
la lettera g dopo un punto
interrogatiuo, e due vocali i i, * fé la lettera e dopo un accento, e quattro
vocali /'. m Volendo dunque scrivere QUELLE PAROLE
SECRETE è mono Paolo ^ pet più facilità disponerai aparte ciascuna lettera, con
le note dc funti, i]irgole, ed accenti,
che li devono precedere conforme la chiavi
iopr*polla, le quali faranno queste.
.. e è
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5 • j
cmortopaolo Ciò fatto potremo stendere una lettera di cerimonie in questa
forma. jFÙ (ingoiare ilhenepcio, e grande ti favore fattomi da
V. S» : ne io mai mancaro di corrispondere^proteHandomi di rimanere à
lei obligato in ognhora, in ogni momento f' che mi rejìa digita cuunque farai
Porgami occasione di poter mostrare dottuto affetto. Poiché amo-, di impiegarmi ognora a prò di f^.S.
Aspetto Cuoi comandi lontano, ben fi di loco ma non di ohìtgatiom, ^affetto. PER INTENDERE IL SEGRETO NASCOSTO in quella
lettera – cf. Napier’s dispatch to Ellenborough: Peccavi – I’ve Oude., si osserveranno
tutti i accenti, virgole, e punti, con tutti li punti pofti sopra le vocali u e
vedremo primieramente che dopo il primo accento posto sopra la prima
parola/» seguitano quattro.. ..di quattro vocali «.prima di ritrovare altro accento, uirgola,
o punto j perciò vederemo nella chiave quale sia quella lettera, la quale è notata
con un accento, e tiene il quarto luogo tra le accentate, e ritrovaremo eiTere
la lettera e. Seguitando poi avanti
ritrovaremo due punti: e dopo questi
prima di ritrovare altra virgola, o interpuntione, vedremo che vi sono quattro
not«L^ di uocale
i. Dal che verrà SIGNIFICATA quella
lettera, nella chiave jche tiene il quarto loco tra le appuntate con due punti, cioè la Ietterai. Poi ritrovaremo
una virgola, e dopo questa tre note della vocale i. prima di ritrovare altro accento, onero
interpuntione, la qual virgola co tre vocali
i. DENOTANO nella chiave la
lettera o. segue poi l'accento con tre punti di vocali
prima di ritrovare altra interpuntione, che ci NOTANO la lettera r. fi che
pigliaremo la lettera r. e cosi caveremo lo»
altre lettere, che compongono LE
PAROLE SEGRETE: PECCAVI I HAVE SINNED -- e
morto Paolo. Avvertasi che per facilità maggiore nel comporre la lettera
si potrà tal'hora tralasciare alcuna NOTA, o punto, che per altrodourebbe collocarsi
sopra la vocale /'. come filiede nelle
parole il fattore fattomi, tL^
fimilmente si potrà tralasciare alcuna virgola, o punto; poiché quando
ciò si faccia con moderazione, non da
alcun sospetto, essendo consueto a molti l'aver poco riguardo nello scriuere
alle virgole, ed interpuntioni. Quefìo modo di scriuere come che paia al quanto
laborioso, nnlfa dimeno dopo qualche efercitio, colla prattica si rende facilcj
perche siamo sempre in libertà di scrivere que'sensi che noi vogliamo, e di usare,
e variare le parole a nostro capriccio – HUMPTY DUMPTY IMPENETRABILITY – H. P.
GRICE, DEUTERO-ESPERANTO --, il che fa che fi poflano fare cadere le lettere
del SEGRETO nel principio delle parole, che seguitano doporinterpuntioni, e
note richieste. Così resta manlfefìo, che non solo si toglie ogni sospetto, ma
anche si rende la zifra impercettibile, il che naice dalie coflibinationi quasi
infinite delle lettere dell'alfabetto,
colle quali si può variate la chiave in altre tante maniere, quante sono le
combinatieni possbilf. Resta parimente manifefto che con questa maniera di scriuereoC' eultamente
si può comporre la lettera in lingua latina, o greca, o in_. qual si
voglia altro idioma, ancor che IL SEGRETO NASCOSTO SIA IN LINGUA ITALIANA – cf.
H. P. GRICE: PECCAVI – I HAVE SINNED – I HAVE SCINDE --; ed all'incontro IL
SEGRETO POTRà eifere Latino – PECCAVI: I
have Scinde --, Greco, o Arabo, anchor che la lettera sia in lingua italiana si
che scrivendo in tutte le lingue, potrò esser intefoda chine sa una folade scriuendo
in vna sol linrzua, potrò esser inteso da tutti quelli, che profefiano altre
lingue diverse Si può anche render più facile la composizione della lettera, disponendo la
chiave nella forma seguente-» i b o n
\ a 1 e
d | h s p m j q, : :
* : ^
l i i i ? JJ
J)> 1 >
5>. >3> I
5 55 5>J
I > 5>
5» g f"
2 ? ? ? g f z
j u t r e
J > 3 Conforme alla quale volendo noi SIGNIFICARE
la lettera i. faremo che questa seguiti immediatamente dopo un punto fermo, e
volendo SIGNIFICARE la lettera k faremo
ch'ella seguiti immediatamente dopo un punto, ed una virgola; la lettera
o. seguitarà dopo vn punto, e due virgole 5 la lettera ». dopo vn punto, e due
virgole j la lettera ^on inuiAruì nella
presente una fuìfc erata preghiera y e he ut *.
mgliate degnare di commandarmi
(^c. • Nel quale paragrafo fé noi voremo FARE
INTENDERE queste parole segrete: mi ritrem prigione scieglieremo li foli caratteri, v he f )rmano tali
parole, --the complex example of the
British General who captured the province of Sind and sent back the message
Peccavi. The
ambiguity involved ("I have Sind"/"I have sinned") is
phonemic, not morphemic; and the expression actually used is un-ambiguous, but
since it is in a language foreign to speaker and hearer, translation is called
for, and the ambiguity resides in the standard translation into native
English. Whether or not the
straightforward interpretant ("I have sinned") is being conveyed, it
seems that the nonstraightforward interpretant must be. There might be
stylistic reasons for conveying by a sentence merely its nonstraightforward
interpretant, but it would be pointless, and perhaps also stylistically
objectionable, to go to the trouble of finding an expression that
nonstraightforwardly conveys that p, thus imposing on an audience the effort
involved in finding this interpre-tant, if this interpretant were otiose so far
as communication was concerned. Whether the straightforward interpretant is
also being conveyed seems to depend on whether such a supposition would
conflict with other conversational requirements, for example, would it be
relevant, would it be something the speaker could be supposed to accept, and so
on. If such requirements are not satisfied, then the straightforward
interpretant is not being conveyed. If they are, it is. If the author of
Peccavi could naturally be supposed to think that he had committed some kind of
transgression, for example, had disobeyed his orders in capturing Sind, and if
reference to such a transgression would be relevant to the presumed interests
of the au-dience, then he would have been conveying both interpretants:
otherwise he would be conveying only the nonstraightforward one. Take the
complex example of Latin pupil, who, upon advice of his tutor – Gaskell, as it
happens – sent a note to PUNCH, receiving a cheque in return, about Napier,
who, having captured the province of Scinde, in South Asia, sent back the
secretive military dispatch to Ellenboroguh: “Peccavi.” The ‘ambiguity’ involved
(Peccavi -> I have Scinde”) – I know explaining jokes ruins them, but hey --
is phonemic, not morphemic. The expression actually used is of course unambiguous
in Latin. But, since this is supposed to be a military dispatch containing a
serecy, and where Latin was often used as the lingua non-franca --, i. e. the
expression it is in a language ‘foreign’ – in some way of understanding
‘foreign’ to both the utterer, Napier, and his intende, but only his intended,
addresses – Ellenborough – spontaneous on-line translation is called for. The ‘ambiguity’
resides in the standard translation into Napier’s and Ellenborough’s language.
Whether or not the straightforward interpretant -- "I have, literally, sinned"
-- is being conveyed by any intelligent reader of PUNCH, it seems that the NON-straightforward
interpretant must be. There may be stylistic reasons for conveying by a
sentence merely its NON-straightforward interpretant. The writer in PUNCH
assumes that it would be more or less pointless, and perhaps also stylistically
objectionable, to go to the trouble of finding an expression that NON-straightforwardly
conveys that the utterer has Scinde, thus imposing on Ellenborough the mental –
as Peirce calls it -- effort involved in finding this interpretant, only to
find out that this interpretant is wholly otiose so far as communication –
however secretive to a third party -- concerned. Whether the straightforward
interpretant is being conveyed seems to depend on whether such a supposition
would conflict with other conversational requirements, for example, would Napier
be being relevant, would it be something Napier could be supposed to accept,
and so on. If such requirements are not satisfied, the straightforward
interpretant is not being conveyed. But if these other conversational
requirements ARE met, it is. If Napier could naturally be supposed to think
that, by having Scinde – and this seems to be the PUNCH in PUNCH -- he had
committed some kind of transgression – cf. the repartee: More briefly, I’ve
Oude --, e g., Napier had disobeyed his orders in capturing Scinde, or more
generally, the command of Jesus Christ and Kant about eternal peace --, and if
reference to such a transgression would be relevant to the presumed interests Ellenboough,
Napier would have been conveying BOTH interpretants. Otherwise he would be
conveying only the NON-straightforward one. It is a common idea that the
most laconic military despatch ever issued was that sent by CesAr
to the Horse Guards at Rome, containing the three memorable words
" Veni, ridi, viei," and, perhaps, until our own day, no like
instance of brevity has been found. The despatch of Sin CHARLES
NorIER, after the capture of Seinde, to LORD ELLENBOROUGH, both for brevity and
truth, is, howeves, far beyond it. The despatch consisted of one emphatic
word--" Peccuri," " I have Seinde," (sinned). Grice
comments: “It has been a common idea that the most laconic military despatch that
was ever issued is that sent by GIULIO CESARE to the Horse Guards at Rome,
containing the three memorable words: Veni, ridi, vici -- and, perhaps,
until our own day, no like instance of brevity has been found. The
despatch of Sin CHARLES NAPIER, after the capture of Scinde, to LORD
ELLENBOROUGH, both for brevity and truth, is, however, far beyond it. The
despatch consists of only one emphatic word: Peccavi”. According to the
Encyclopedia of Britain by Bamber Gascoigne (1993),[12] it was Catherine
Winkworth who, learning of General Charles James Napier's ruthless and
unauthorised, but successful campaign to conquer the Indian province of Sindh,
"remarked to her teacher that Napier's despatch to the governor-general of
India, after capturing Sindh, should have been Peccavi" (Latin for "I
have sinned": a pun on "I have Sindh"). She sent her joke to the
new humorous magazine Punch, which printed it on 18 May 1844. She was then
sixteen years old. The Oxford Dictionary of Quotations attributes this to
Winkworth, noting that it was assigned to her in Notes and Queries in May
1954.[13] The pun has usually been credited to Napier himself.[14] The
rumour's persistence over the decades led to investigations in Calcutta
archives, as well as comments by William Lee-Warner in 1917 and Lord Zetland,
Secretary of State for India, in 1936.[15] Grice comments: “According to the
Encyclopedia of Britain by Gascoigne, it was one of Gaskell’s Latin pupils, who,
upon learning of Napier's RUTHLESS AND UNAUTHORISED, but successful campaign to
conquer the Indian province of Sindh, remarked to Gaskell that Napier's DESPATCH
to Ellenborough, then the governor-general of India, after capturing Sindh,
should have been Peccavi. Gaskell sent the joke to the humorous magazine Punch, which
printed it. The Oxford Dictionary of Quotations attributes this to Gaskell as
per Notes and Queries. The pun has usually been credited to Napier
himself. The rumour's persistence over the decades led to investigations in
Calcutta archives, as well as comments by Warner and Lord Zetland, Secretary of
State for India. Refs.: “Napier’s Sin” – “A good story killed” The Manchester
Guardian. [15] Michael John Barry was another
who at this time (1857) shed no little brilliancy on Punch; and to him is now
credited the admirable "Peccavi" despatch—perhaps the most finished
and pointed that ever appeared in Punch's pages, and certainly one of the most
highly appreciated and most loudly applauded:— "'Peccavi! I've
Scinde,' said Lord Ellen[44] so proud— Dalhousie, more modest, said 'Vovi, I've
Oude!'" This brilliant couplet, according to the "Times," is
said to have been contended for by "both Punch and Thomas Hood;" and
it never was finally decided which of the two great humorists followed the
other. Their claims, indeed, are not irreconcilable. Latterly, the credit has
been claimed, with some show of authority, for Barry, who was generally
regarded in his day as one of Jerrold's peers in wit. It is curious to observe
that in the House of Commons debate on the Candahar question, Mr. P. J. Smyth
was reported to have referred to "the unexampled brevity of the General's
despatch after he had won his great victory on the Indus," in the quaint
belief that the first half-line of the epigram was Lord Ellenborough's actual
report. Grice comments: “Barry was another who at this time shed no little
brilliancy on Punch. To Barry is credited the admirable "Peccavi"
dispatch — perhaps the most finished and pointed that ever appeared in Punch's
pages, and certainly one of the most highly appreciated and most loudly
applauded: Peccavi! I've Scinde,' said Lord Ellen so proud— Dalhousie, more
modest, said 'Vovi, I've Oude!'" This brilliant couplet, according to the
"Times," is said to have been contended for by both Punch and Thomas
Hood; and it never was finally decided which of the two great humorists
followed the other. Their claims, indeed, are not irreconcilable. Latterly, the
credit has been claimed, with some show of authority, for Barry, who was
generally regarded in his day as one of Jerrold's peers in wit. It is curious to observe that in the House of
Commons debate on the Candahar question, Smyth was reported to have referred to
“the unexampled brevity of the general's despatch after he had won his great
victory on the Indus,” in the quaint belief that the first half-line of the
epigram was Lord Ellenborough's actual report – when it was Napier’s confession
of his ruthless and unauthorised act in his despatch to the governor -- incominciando
dal terzo carattere w. e da queitoiì no all'altro carattere /.del secreto
numeraremo cinque caratteri, quindi
prima di ritrovare il terzo carattere r. numeraremo dicci carattcri, e così
delli altri, che per facilità abbiamo NOTATI con punti, ed in quefìo métte
collocheremo da parte li numeri delli caratteri, che s'interpongono tra l'vn
punto, c Taltroj cioè numerando dal primo carattere fmo all'/», aueremo il
numero 5. e dall' w. fino all'/, aueremo il numero s, da_, questo fino air r, averemo
il numero i o. e cosi facendo
delli altri raccoglieremo li numeri seguenti . 5, 5. 10.4. 22. 25. I. IO.
10.45. I(). 21. II. 2. IO. IO, 5. Oltre
di ciò aueremo un alfabeto, il quale sia dispofto non coll'ordine naturale, ma
con qualfivoglia altro ordine j e sopra il detto alfabeto si collocheranno i suoi
numeri corrispondenti alli caratteri, il quale alfabeto così disposto seruirà
di chiave. Supponiamo per tanto che sia
dispofto nel modo seguente, I. 2. 3. 4.
5. C, 7. 8. 5). lo. II. 12. 15, 14. 15. 16. 17. 18. Ip.20, a. r. n. d. b, d. f. e. i. h.
1. m. s. u. t. e. g. p. q,
z. Per nascondere dunque li predetti numeri, che mostrano il segreto nascosto
nel primo paragrafo della lettera, componeremo il secondo paragrafo in modo,
che la prima lettera fia». la quale INDICATA il primo numero 3. pofcia dopo la
prima virgola incominciaremo la parola con la lettera ^. che indiorà il secondo
numero 5. Similmente dopo la seconda virgola, incominciaremo la parola col
carattere/;. chft«» DENOTATA il terzo numero cioè i o. e così degl'altri
caratteri, z^ numeri. Si oflrerui che fe vi farà alcun numero maggiore, il
quale non si ritrou^neU'alfabettOjfi donerà aver riguardo solo alla seconda
nota numerale, incominciando la parola col carattere à tal nota corrisponaente,
guanti alla quale parola cfoiirannò '^recedòre due punti in_i luogo r'jeiJa
virgola, i quali due punti mostrcranno, che la prima nota_» nmiiP-vale farà 2.
e quando la prima nota numerale farà 5., dourà precedere vn punto, ed una
virgolasse vn punto fermo quando la nota numerale farà, Per tanto il fecondo
paragrafo della lettera potrà ei'er questo, ^cn ho potuto/:» hora, benché io la
desideri, avere occasione di parlare con Antonio yOYide mi dispiace: reH^wdo
defraudato dal deJJderto di femirui: non ho pero perfa U [piranha ^anzi credo
che prejìo, auero commodita, oggiforfi di abboccarmi con esso. u^el reHo
sempre, t^m ogni occorenza farò pronto 5 anzi prontissimo a seruirvi la vosra
wodejìia non'vi, ritenga di commandarmi auete un servo fedele y abbiate ogni
confidanzj^ con me^ ne ut f cordate di un mHra Ajfctionatifftmo &c. In
questo modo di scrinerefele interpuntioni per maggiore facilità non foflero del
tutto acconcie, e pofte a suoi luoghi, non perciò li darà sospetto alcuno, come
ho auiiertito di sfopra^e sempre il segreto starà nascosto, senza poterfi
intendere da chi non ha la chiavcj cioè la disposizione del sopraposto
alfabeto. Ma il corrispondente, o amico, il quale sia partecipe della chiaue
josseruerà il primo carattere ». al quale nella chiave corrisponde il numero ^.
e pofcia il carattere.^, che fc"U!ta dopo la prima virgola cioè ^. a cui
corrisponde nella chiave il numero 5. indi dopo l'altra virgola ritroverà il
carattere h, a cui corrisponde il numero io. più avanti ritroverà il
carattere^, a cui corrisponde il numero 4. Poco dopo ritrouerà il carattere r.
a cui corritiponde il numero 2. e perche al detto r. precedono due punti, che
SIGNIFICANO – nautrale o non-naturalemente? GRICE -- il numero 2. perciò noterà
il numero 22. e così ritroverà tutti li altri numeri; con i quali avcrà poi
facilmente nel primo paragrafo della kttera, tutti li caratteri che formano il
segreto nascosto, Ter^o f^oào ài fcrluere in zifra fatile ^che non da alcuu
sospetto 3 ne può intendersi da chi non ha la chiave» Q Vello, che ferine, e similmente
quello, a cui si ferine, auranno una serie, ed ordine di caratteri, com'è il
posto qui sotto, ed ambidue s’accorderanno aflìeme di scrivere in una tal
chiaue determinata, quale farà una parola, o molte, O SIGNFICIATIVA – come
PARROT --, O NON SIGNIFICATIVA – come PIROT -- come lorc pili piacerào A B M A
B C D E F G H 1 L M N O P Q R S T V Z A B C D E F G H I L M N O P Q R S T V Z A
B C D E F N O P C L R S G H I L T V Z M A B C D E F G H I L O P C L R S T V Z M
N A B C D E FG H I L P Q R S T V Z M N O A B C D E F G H I L Q R S T V Z M N O
P A B C D E F G H I L R S T V Z M N O P C L A B C D E F G H I L S T V Z M N O P
Q R A B C D E F G H I L T V Z M N O P Q R S A B C D E F G H I L V Z M N O P Q R
S T A B C D E F G H I L Z M N O P Q R S T V ;!pnj ••0'> Il ^'5 /> CU ore
cuorecuo r ecuor ecuorecuo :i Il tuo fratello è stato ammazzato,>> Di poi
nell’ordine de’caratteri posto di sopra si cercherà la prima^ lettera e, della
chiave rielli caratteri più grandi, la qual lettera e stà nella seconda riga, e
perche sotto il e della chiave v’è la prima lettera j. del segreto, cercheremo
nella seconda linea la lettera i, delli caratteri più piccoli, ed in vece di
essa fermeremo quella, che vi stà sotto cioè àferpendo{l!uoniptrò,/ono
gl'auuifi dell'armata yi>uoni[iìmi quellt dei nofìro CeneraliJl/tmOiÀcui. è
riyfcito yfcuidare dalli alloggiamenti n nemico ? Q ode fi per tanto Jpermdoxhe
il Turco si risolverà ad abbandonare l'intprefa^ Se altro accader a ^mandaro
auutjo iiJoiin tanto fiate [ano ^ godete dt fotefi\ ^ria.; non. fate,
dfordini^e ricordateui di onorartni de m^ri commandi f^c. U cQtrispondente
consapevole dell’artificio, aperta la lettera, noterà per ordine tutti li
caratteri, che seguitano immediatamente dopo le virgole,^: interpuntionì, quali
ritroverà essere li seguenti cuQ re cuore cuore zubba fgfafmugne., Sopra de
quali egli scriuerà la solita chiaue 5 poi cerchersi la. prima^! lettera IìR
fcrluercinxifrafi servono alcuni delli numeri corrispondenti alle lettere j ma
perche cosi facendo, rifte(ro numero vale sempr«-» ^erla medesima lettera j
perciò riefcc facile rintenderc, e cavare dalla 2Ìfra il segreto nascosto; Noi
dunque in vece di scriucre li numeri corrispondenti alle lettere, cioè /. per
a. 2. per L 5. per e scriuercmo vn altro numero ,che sìa moltiplice di eflb j
fi che poi quelli numeri divisi per vii altro numero si abbia il numero precifo
cornfpondence alli caratteri. Per efempio volendo lu scriuere quelle parole non
ti pdire di Pietro, scriuerai questi numeri in tal forma 5 9, 42, 3 9« 5 7, 27.
i 8, 27, f 2, 5, 5 1, 15. 12, 27.45,27, 15, 57> 5 i,42. dove i punti sono
quelli, che dividojio le parole vna dall'altra, eie virgole dividono le
lettere: quelli nujmeri dunque divisi per il numero 5, fil quale serve di
chiave) danno li aìumeri seguenti 15,14,15. I9,p.6,p,4, i, 17, 5. 4,9. MjP,
5)«9, 17,14. IL PRIMO NUMERO SIGNIFICA »«» jpoiehe il i ?.corrifp. Io. I7« iS.
ti?. 29. H. 12. 13. 14. 15» I. %, 3. 4. 5. 6. 7. S. . ICt li. tf. 10. II. 12.
13* 14. 15. i^. 17. t. 1. 3. 4. 5. 6. 7. •• P. IO» 19. 20. II. 12. 13. I4. 15.
16, 17. 18. '•= •* 2 I '• ^* 5* 4* 5. ^» ?• "• 9* i®» ^ I ipi II. 12^. I3«
14. ts. i^. 17. IS. 19 H ST 5^ Si determini una chiave, sopfa cui si auerà da
scriuere, ta quale consisterà in alcuni numeri, più, ò meno, conforme si vuole_^,
pur che niun numero ecceda il venti. Sia per essempio la chiave composta delli
quattro numeri seguenti, cioò 7. 12. ?. 8. Volendo metrtere in zifra queste
parole, ^on it firmare in l^oma, cercherai nelle lettere poste qui a lato la
lettera N. è nella riga corrirpondcnte iln^.y^ ma in luogo del 7. scriverai
quello, che vi è posto Tetto, cioè 12. Di poi prenderai la seconda lettera del
segreto, che è O, e nella riga corrifpondente cercherai il secondo numero della
chiave, che è 12. ina in luogo di 12. scriuerai il numero sopraposto, che è'(5.
similmente prenderaila terza N, e nella riga corrispondente cercherai il numero
3. della chiane, ma in luogo del j. metterai il numero pofto di fotto, cioè 1
8. cesi farai di tutte le altre lettere, ed averai li seguenti numeri 1 2. (?.
18. 15. 1 1. IO. 15. 15. 12.2.20. 20. 1 1.7.20.14. 12.2. quali fé manderai al
suo corrispondente, fingendo, che fiano numeri di altre cofej non cagionaranno
sospetrpje quando ben'anehe vi foflfe per altro alcun sospetto, la zifra è
tale, che non potrà mai esser inteso il segreto j perche la medesima lettera
muta sempre numero per cagione della chiave, come si può facilmente osservare
dell’esempip allegato.'' ^ ' t-^'-i >■•%. t'?. •:£ *o.!: .^?. .?? .A,1t r .-t
.^ i ki. D l l ''^, 8-. ■ • t : t .on,^l .1? " M «:i Ti * "» •? t£ oi i *T '^ t%t l^ :14
a? «Q? «^2 I ',3 y Settima Si §. VII, Settima x'tfra cen numeri, QVellOjche
scriue, è quello a cui si scri'ue, abbiano rvno, e l'altro alcune virgolette di
cartone, o di rame, o di legno con sopra notati i numeri e lettere, come si
vede nelle seguenti . * VI 2 B 4 5 6 7 8 ( .« 2 ■ b* ■d e S g il i T n o X 7 t
li t I 2 4 7i loi ili I2i .I>|, ^7 il 19 2Ó 1 b C e T g i T m n o P a r s t
u z a I 2 4 7 9 lo I I 12; 11 1(5 17. i5' !>> 20 e e ^— cr ?> h T T m
n 0 P »— • q r s I u a i' 2 7 8 s» Jo 1 1 12 (4 i7 16 iS I7 '2ÒI d e il h* i T
m n 0 P r s t u z a b e 2 i ■ 4 I 9" IO Ili 16; 17 ì8, IP 20 e 7 g i T m n
0 i 2. r s t u z a b e di 1 1 >^\ 2! 1' 4 il _9 II 12 13 14 (5 16 18 19 lo'
f a ti i> T ! m n. 0 P r ., s '^ t u z a b e 11 2 1 4' I 5i 8 II' 11 u I6 17
il 19 20 g h i m n z P q 7 s t U z a b e d e 7Ì 2' II 7 •>— • ■ 6 Ji 8| 7 10
i7 i7! '7 "7 18 i^ 20 : h ! ^ 7 m n. z q r s t^ u z a b e 7 r 7 g I 2 4 7
8 i IO IC II IJ i7 '7 18 19 20 V Quelle verghettc si potranno proseguire fino
al numero di venti, che cosi ciafcuna sarà diversa dall’altra; ma balleranno
anche meno per il nostro intento: servendosi noi dunque delle sole otto qui
pofte, e volendo per esempio scriuere:,: “Pietro è morto,” per scriuere il p
prenderemo iU'n:-iih mo qualfivoglia delle dette vei ghette^ per esempio
quella, che ha ili fronte il 5. e troverernojclie in essa alla lettera;»
corrisponde il numero IO. onde noteremo questi due numeri 5.r o. coli in luogo
della lettera i, scriuerenio 8. 2. CHE SIGNIFICAnell'ottava verghetta il
secondo luogOj Oiiero 4, tf, CHE SIGNIFICA nella quarta verghetta il sesto
luogo &c. e per togliere il sospetto che potrebbero recare questi numeri,
li potremo scriuere come sé fossero tauole astronomiche, ponendoui avanti il C,
& M» quasi che IL NUMERO CHE SIGNIFICAle verghette SIGNIFICAsse i gradi 5 e
l’altro numero SIGNIFICAsse i piinuti di qualche fcgiio qelei^c; il che
refleropio potrà stare così, ^ C. 5 . G. 8. G. 7. G. ». G. 5 . G. a. G. ^. G.
1. G. 2. G. 5. C.7. G. 9^ ~ M.IQ.M. 2» M,ip. M.i7.M.i2.M,i i.M.^o.M.^i.M. 1
2.M.14.M.1 ^.M.^, Quando dunque l’amico tuo vorrà leggere una tale scrittura,
prende-' là le verghette per ordine cioè la quinta, Tottauaj la settima &c.
e queste le ponerà l'vna dopo Taltra alzandole, ed abbacandole si, che
s'incontrino insieme li secondi numeri 10. 2.19. i7«&c. Poiché con tali
niji^ in?ri auerà gnqora \c predette parole, “Pietro e morto.” Un altro modo di
scrivere in ^ifrsJimUi 4I precedente SI abbia no le tavole posse qui sotto segnate
con LI DODICI SEGNI DEL ZODIACO, in quella forma che qui si vede, con
progressione di numeri, Hiuno de quali sia maggiore del 30. per esprimere i
gradi di tali segni. Volendo dunque scrivere “Paolo” in luogo del Pi scrierai
G.24. onero G. 25. ouero G.22.§ic.cosi in luogo di « scriaerai G. il. ouero G.
io. e cosi le altre lettere di mano in mano. Li collocarai poi seguitamente
rvno dopo l'altro in modo che ftmbri. vna tavola astronomica. ^9 Auercait Jr a
Illa bi2 C15 loia CI2 C15 e 14 {16 gì? hi8 i Jp I 20 raii n22 o 15 P»4 q25 r i6
( 27 C28 U29 biojb 5 e II e Io d 12 d II e 15 e 12 f i4f 15 gM fi5 gi6 hi7
hi^.h 15 i i8ji 17 i 16 I iPjl 18I 17 mzo^mip mi8 mi n2o n 19 022 021 02Q p25
;P22 p2I SS fi • a 8 (a 7 b 8 e 9 d lo ei I f 12 np sa a 5[a 5 b 7 b 6 e 8 e 7 d
9d 8 e Iole 9 f Ii'flo hi4'hij h II, i 15 ji 14 i 15 1 i5 1 !5 1 14 mi7|mi^ nn5
n lèin 17 n i5 o ipjo 18 o 17 p2o, pippi8 gU q 24 425 q22 q2I r 25 jr 24 r 23 r
22 f 26 f 15 f 24 f 25 ti? U28 Z19 t adi c 25,c 24 U27 ui^s m^ q2o q C9 r 21 r
20 r 22 f »i t 25 t 22 a b 1 .. iM6 3J 4'=l « Jb i«6 K ^la 2:a Ha 30 5|b 4'b
i\k 2bi9 e ole 5 |c 4|c 5 C28 d 7 d ó'd 5id 4 d 27 e sic 7ie 5 e 5 e 2^ f 9f 8f
7f 6 f 25 giog ^g 8|g 7g24 hii b lo h s> h 8,h25 i 121 II ji loi pji 22 1 I?
l 12 il ni «o l 21 0114 mi3 mi2^mn'ifn20 a 15 n 14'n ti n lin ip Q 160 1.5 |o
140 150 18 pi7:pi6!pi5 PI4'P»7 qi8qi7 r ipjr li r 2,o;f 19 e 21 |t 20 U 24
U2JU22 U 21 ^28'l27lZ %6*Z2$ Z 24li23'£ 22 q I5qi5jq ^^ r 17 r i6 r t5 fi8f 17
e ip't 18 U20ÌU IP r 14 t li U 12 £21 Z20Ì£ Ili Auuertafi, che in qucftc tauole
fi è fchiuato il cominciare dallVnrà tà » ma fi è cominciato dall' vndici, per
Icuare ogni fofpjstto,il che configiiamoa fare io ogni altra uuola.
.ty^'-..,imm 34 Volendo dunque scrivere GuarJati Ja Pittiò Tefcmpìt (iiaì n«I
modo che feguQ. V I uì, I V ♦H, I C, 17. I G. »?. \ G. 10. Q. 19 I cofì fbrme
esprimono di essere in diversi gradi delli segni del zodiaco; nel qual modo oga
uno potrà formarsi le tauo« k a suo piacere j potendofi queJftc disporre in
molte maniere, per esempio in luogo di cifticuna lettera, potrai usare qual si
voglia € nel medesimo modo egli potrà rispondere benché cieco. In oltre si
potrà trattare viccndeuolroentc in segreto co vn cieco per mezzo di un libro di
molti fogli: ponendo tra fogli medesimi vari segni, si che i'vnofia dittante
dall'altro tanti fogli quante il numero corrispondentc al carattere del
alfabeto, che vogliamo indicarejd: acciò il segreto retti maggiormente
nascotto, daremo alli caratteri dell’alfabeto vari numeri feni ordine naturale
5 come farebbero li seguenti. i 3. 2. I. 7. 8. 9* lo. 4. 5. 6, II, I). I J.I4.
15. 2o» fp. 18. I7.1tf« a b c d e f g h i l m n o p q r f c v z E volendo
indicare il carattere g* numeraremo dal principio del libro dieci carte, e dopo
la decima metteremo nel libro un segno di car13, 0 altro; ovvero piegaremo la
carta medesima j volendo indicare il d seguitaremo a numerare sette altre
carte, e dopo vi metteremo un altro segno, e cosi seguitando finoche sia
compito tutto il senso segreto. Questo modo si può variare in molte forme
facendo seruire diverse sorti di segni per diverse lettere, ovvero diverfe
piegature impiegature empiegature di carte, bora di sopra, hor di sotto, hor
alla dettra, hor alla siniftra del libro; si che il diuerso numero delle carte,
e la diversa sorte di segni combinati insieme denotino li diversi caratteri. Il
modo di dare minor sospetto, e difficilissimo ad esser ritrovato da chi non ha
la contra-zifra, può esser questo. Aabbiansi cinque segni diversi da mettere
tra una carta, e l'altra del libro j la diversità de’segni otrà essere, che vno
sia vna lifta fottile di carta, raltro vna lifta parimente di carta ma piegata
per lungo, il 3. vna lista simile piegata da capo; il quarto un’altra iifta
piegata da piedi, il 5. vna lista piegata da capo, e da piedi. Aciafcuno di
quefti segni si attribuiranno quattro carattc!ri, che saranno in tutto venti.
Volendo poi indicare il primo di quelli quattro caratteri, posto il segno in
qualfivoglia luogo cominciando dal principio del libro verso il fine, ò dal
fine verso il principio tra IVna-j» carta, e Taltra fi piegherà la carta, che
sta alla destra parte del segno, c6 vna piegatura, come fi fuole, nella parte
di sopra; e volendo indicare il 2**carattere si piegherà la medefima carta
nella parte di fono: per indicare il 4J il terzo carattere si piegherà la carta
siniftra nella parte superiore, o per indicare 4°. carattere si piegheri la
medesima carta nella parte inferiore j così faremo di tutti li altri caratteri
attribuiti a gl'altri segni si che la diverfità delli segni, colla diversità
della piegatura delle carte, indicfai la diversità delli 20. caratteri. Molti
altri modi si potrebbero INVENTARE – “I can invent a new language – call it
Deutero-Esperanto” – GRICE --, quali ognino potrà facilmente ritrovarea similitudine
delli precedenti – cfr. Myro’s SYSTEM G, based on Grice’s SYSTEM Q – or
Austin’s SYMBOLO and Whoof’n’Poof –a whole term writing dots on pieces of
paper; a quali voglio aggiongerne vn altro non meno ingegnoso, benché alquanto
laborioso. Si pigli una tavola di legno dolce, e molle, e con caratteri da
ftanv. pa, quali però vorebbero essere di ferro, o altro metallo fodo, più
tosto che piombo, ed alquanto grandi, s'imprimano nella tavola le parole del
segreto – LISTEN DO YOU WANT TO KNOW A SECRET --, facendo rientrare in dentro
il legno j di poi con vna pialla, si fpiani la tavola levandone tutto il legno,
che foprasta alli caratteri impressi, in modo, che resti tutta piana. Questa
tavola s'inui; al cieco il quale la metterà neiraqua: & in breve l’aqua
penetran ào per i pori fari rialzare i caratteri compressi, si che il cieco
TOCCANDOLI CONLLE MANI – alla BRAILE -- potrà leggere ed intendere il segreto.
In questi modo si pojfa parlare, o rnamfeUarc ì suoi fcnji 4 chi ^t^ lontano
fenza mandare ne letjtre ne mejfaggtere^ JTIft «^^'Arie inticntloni h sono
ritrovate per manifestare i suoi fl^nfi, ^\Éj4?^ e parlare a chi (la lontano
PER VIA D’ALCUNI SEGNI VISIBILI – Roman smoke signals – signify fire --,
p\\Jv^^ le quali deicriueremo nell'arte maestra, con molte altre ¥&i^^
cosejcheaqucfta materia s'afpettano.Maperrhe le fu dette inuentioni feruonofolo
per parlare : Ila diltanza di pochenilgliaje di più fono alquanto labonofea
pratticarfi: perciò ne defcriuerò qui due altre mie molto più facili delle
ritrouate fu/ bora_., con le quali pot^-emo parlare alla dilania di trenta, et
anche piu mi olia_Je Sedunque quello,con cui vogliamo parlare farà in Iuoctoj
ne! quale fionpofla penetrare la vifta, per eflerui di mezzo alcuna collina,
muraglia,© altro: potremo nulladimeno parlar facilmente con efib lui in_a
quefta forma. Spararemo vn mofchetto, e fé queflo.per la molu; diftanza, non
potefle vdirfi, vn grofìfo mortaro, onero vn pezzo di cannone | «quello farà il
primo fegno 5 che daremo a quello, con cui vogliamo parlare. Tanto egli 5
quanto noi hauremovna palla di qualfivoglia materia pendente da vn filo, o
catena, con il moto,&ondutioni della quale fi mifuri il tempo: ma è
neceflario chelVno, e l'altro (ìlo-da cui pendono fofpefe in aria le pallejfia
della medefima lunghezza, accio i moti, et ondationiiiano parimente vguaii.
L'amico dunque vdito il primo fparo fi accoderà al fuo filo, e pallajC noi
fimilmente alla no(ìra_i : All'hora faremo vn altro fparo, e nel medefimo tempo
daremo il moto alia palla pendente dal filo, acciò faccialelue ondationiiil che
farà anche l'amico lontano, tofto che ode quefto fecondo colpo: Volendo poi noi
fignificare la prima lettera del alfabeto afpettaremo,che la_# palla habbia
compito cinque ondationi,& all'hora faremo vn altro fparo jfimilmente
volendo dopo quello fignificarela feconda lettera_> dell'alfabeto,
afpettaremo chela medefima palla habbia terminato dieciondationi, e fubito
faremo vn altro fparo j per fignificare la terza lettera afpettaremo quindici
ondationi della palla; e così dell'altre j in tal maniera ancor e he fi vfafle
qualche negligenza in sparare vn poco k, piti 45 più pretto, o più tard© del
tempo «on fi potrà pigliar' errore dall'amico lontano; polche lo fuarionon farà
mai più di vna,odueondationi. Non potrà ne anche cagionai* errore il fentirfi
Io fparo lontano, molto tempo dopo che fi è dato fuoco aljmortaro, o cannone 5
poiché tanto tempo paflèrà di mezzo all'vno fparo, e l'altro, quato di mezzo al
vdnfi dellVno, et allVdirfi deiraltro. più facile farà il parlare quando
l'amico lontano fia in luogo non., impedito alla vifta; poiché in tal cafo, fé
farà di notte in luogo dello fparo, potremo moftrare vna torcia acccfa, e poi
nafconderla mentre-* che la palla falefucondationiie di nuouomoftrarla dopo
cinque, o dieci, o quindici > onero venti ondationi, conforme le lcttere,che
vorremo fignificarc ; et cflèndo di giorno,farcmo il medefimocon vna bandiera,©
altra cofa vifibile da lontano in luogo della torcia : ma queiU di notte fi
vedrà molto più lontano. Ofleruifianchora che con la torcia, o bandiera fi
potrebbero abbreuiare roperationi,feruendofidi più torc ie, o bandiere j in
modo che, per efempio, volendo denotare la prima lettera deiralfabeto,fi
moftraflc vna torcia dopo cinque moti, et ondationi della palla ; e volendo
denotare la feconda lettera fi moftraflero due torcie parimente dopo cinque
ondationi ; volendo fignificare la terza lettera fi moftraflero tre torcie dopo
il medefimo tempo ; volendo poi denotare la quarta lettera fi moftraife di
nuouo vna torcia fola, ma-» dopo dieci ondationi, e cofi dell'altre . Qyefta
inuentionedidare diuerfofignìficatoal medefimo fegno dal diuerfo tempo, in cui
fi moftra, può feruire alle perfoneinduftriofe per fondamento di molte altre
inuentionij et a me bafta per bora-, haucilo accennato. Vn altro modo propongo
per parlar da lontano, pur che fia in luogo vifibile,che può feruire alla
diflanza di vinticinque, trenta,e più miglia particolarmente di notte.Si
facciano tante tauole di legno quadre, t-* larghe vn braccio almeno, quante
fono le lettere dell'alfabeto j& iii^ ciafcunatauola sentagli vna lettera
grande quanto è la tauola,ficheiI taglio fiagroflbdue deti,'e palli dalfvna
all'altra parte della tauola-/, poi fi copra elfo taglio con carta rofla,
fottilc, e trafparente: facciati poi vna feneftrella della medefima grandezza
delle tauole : alla qualci» feneflra di notte fi applicheranno fucceflìuamente
le lettere intagliate nelle tauole, le quali trafpariranno da lontano,
tenendoui dietro vna torcia: onde fé l'amico lontano farà prouifto di
vneccelente cannocchiale, potrà diftingucre le predette lettere trenta, e più
miglia lontane^. Si poffono anchora fai riflettere, per mezzo della luce, e
dell'ombra M i 5® I caratteri sì,che comparìfconoropra !e muraglie di alcuna
càfa Ioni ranaje ciò in moke maniere j come diremo alcrouej in tanto io qui ac*
far sì, che vn tal muto fciolga la lingua, et impari a parlare ^ e qu-llo che è
più mirabile intenda benché fordo l'altrui parole . E ve ne fono alcuni efempi,
quah mi piace di riferire. Racconta Digbeo nel fuo trattato 4e natura corporum
cap. 2 ^.num. 8. che vn nobile Spagnolo, fratello minore del Conteltabile di
Cailigiii»,, fordo, e muto dalla fua nafcita in modo, che non vdiua ne pure vna
bombarda fparata vicino alle fue orecchie, dopo hauer tentato ognarte de Medici
in vano,per aquiftare rvdito,e per confequenz.a la loquela, che li
mahcauafolopernò poter imparare a parlare dall'vdire l'altrui parole j
finalmente vn certo Sacerdote fpagnolo, sì offerì ad '\n(Q-r gnargli non folo a
parlare, ma anche ad intendere le parole de gl'altri; i\ che fé bene cagionò da
principio le rifa ne circoftantiinulladimeno dopo qualche anno fi x'ìMq
riufcito,con ftupore di tutti j nel qual tempo con molta fatica, &:
allìduaapplicatioue dello fcolare,e del maeftro jnfienie,fi fece in tal modo,
che intendeua beniflìmo ogni parola proferita da altri, anche in linguaggio
difficile, e di cui non intendeua il fignificato, ma pero egli la ripcteua
felicemente, e parlaua nella propria lingua,e rifpondeua fenz* alcuna difficoltà
>haucndone fatto più volte rifperienza il Sereniamo Prencipe di Zambre,
parlando nella propria Ìingua,di cui è molto difficile l'articolar le parole
j& ilCaua^ liere Digbeo medefimo afferma di hauer più volte parlato con
queftp nobile fpagnolo, et hauere ammirato com'egli ripeteua le parola-*
proferite da vn altro con voce fommclfa, e lontano quanto era la lunghezza di
vna gran fala. L'ifteflb è riufcito al Prencipe di Sauoia fratello cugino del
Duca prefence, come mi hanno atteftato perfone,che hanno trattato con efla ., .
lui. 5* li:i,huomo di vìuaciflimo ingegno: e vi fono ftati due nofìri Padri,
che dal folo veder muouere le labra diquellijche parlauano, incendc uano le
parole j come riferifce il P. Carparo Schotci nella fua Fifica-i curiofa lib.
5,cap. 3J, Niuno però, ch'io fappia, ha fcrittodel modo,che{ìdeuc tenera-» per
apprendere queft'artc veramente mirabile^ onde ho (limato, che jion fia per
ifpiacere, fé io qui ne dirò ciò, che fento. Deuefi dunque» confiderare 5 che
nel proferire ciafcuna lettera dell'alfabeto, tanto Italiano, quanto Latino,
Greco, Hebreo, odi altra lingua,neceflariamenle fi fa diuerfo moto, o nelle
labra, o nella lingua, o ne denti, o in tutti afiìeme 5 hor* aprendo più la
bocca come nell'Arhora meno come nell* E : hora prima ftringcndo le labra, e
poi aprendole, come nel B : bora aprendole, e ftringendo i denti come nel C : e
così dell' altre . Ciò che fuccede nelle lettere folitarie,fuccede parimente
nelle lettere accompagnate, cioè nelle fiIlabe,epoi nelle parole intiere . Se
dunque alcunofiauneLzeràa conofcerc tutte le differenze di queftimoti, potrà
pariméte intendere cio,che vien detto da vn altro,bcnche no oda la voce; e per
confeguenza imparare a proferire le medefime parole, procurando d'imitare tali
moti di labra, di denti, e di linguali che non fideueftimare tanto difficile,
come a prima vifta raffembra, percloche ogn'vnodinoietiandio prima, che haueffc
IVfo della ragione, imparò a proferire le parole con marauigliofa induftria
della natura, che (limolata dalla nece(Iìtà,fi affaticaua d'imitare l'altrui
parole,con dare alle labra vari modfm tanto, chp ritrouaflfe quello, che
articolaua )a ricercata parola. Ma molto più viene diminuita la difficoltà di
apprendere queft'arte in vnfordojdallaprouida, e cortefe natura, che al
diffetto di vn fenfo fuole fupplireconla perfettione de gl'altri j onde fi come
alcuni priui di vifta, con il tatto riconofcono tutte le diuerfìtà de colori:
come ho raccontato di fopra,compenfando(ì il mancamento delia vifta con la
perfettione delli altri fen(ì,edeirimaginationc non diftratta dalli oggetti
vifibili : così il difetto deHVdito fuole ricompenfarfi dalla pcrf^tttone della
vifta, e parimente deirimaginatione,e memoria,non diftratta dalli oggetti
ftrepitofi j ond'è che il (ìlentio fi chiama padre, e maeftro delle
concemplationi. Hor venendo alle regolc,chefi deuono pratticareda chi vuole
farfi tnaeftro inqueft*arte;dicochefi deue primieramenrc hauere auanti a
gl'occhi del fordo vn alfabeto, et incominciando ad accennare al fordola prima
lettera, nel medefimo tempo proferirla con moto gagliardo della bocca, e della
lingua, accennando al fordo^che anch'egU prò 4P procuri d'imitare l'ifteflb
motore ciò fi dcuc fare fin* tanto, che imitandolo perfettamente proferifclii
ciafcuna lettera, il che riufcirà in_. poche lettioni . Apprefo che haucrà il
fordo tutto J*aIfabcto,dourà aUuezzarfi a proferire ii monofillabi,comc fono
gl'articoli //, 4/, / aura fpiritus inclufxy atque occulia ccncitum. Dal qual
mQdodifauellarc raccogliefi p che moflb non era da vento eftrinfeco, ma più
tofto da vn fiato chiufo nelle parti interne della machina, che ftauafene
equilibrata nell'aria. Racconta parimente Adriano Romano, che il Regiomontano
famofo Aftronomo,e matematico fabricò vn aquila, la quale volò incontro a Carlo
V, mentre faceua la folcnne entrata in Norimberga, e con eflb Carlo ritornò
addietro accompagnandolo fin* dentro la Città. Boetio famentionedi certi
vccelletti formati di rame, che volauano non folo, ma cantauano ancora. Glica,
e Manafle raccontano, ch'altri fimilivccellihauefle apprefo di fé l'Imperatore
Leone. E più modernamente habbiamo dal noftroP.Famiano Strada che il Turriano
ingegnere valorofifiìmo, faceua volare certi vccelletti per le ftanzc di Carlo
quinto, mentre ftaua ritirato dopo la rinuntia del fuo gouerno fatta al fuo
figliuolo Filippo. Eflendo che dunque niuno ha tramandato a pofteri queft'arte
tanto ingegnofa^ e diletteuole, mi è paruto di doner fodisfare alla curiofità
de machinifti,eon accennare in qual modo fi poiTano imitare fimilivcceU 5ili ;
il che llimo fi pofla pratticare in più maniere. Primieramente ciò f: può fare
con inanticetti moflì da ruote dentate :Fabricata che iiaraiiuila, colomba, o
altro vccello di materia legoerequanto piufia podi bile 5 fé li faranno le Tue
ah di penne, odi altra materia atta per riceuere il vento, e fi connetteranno
al còrpo dellaJ colomba per modo tale, che fi pollano agitare, e muoucre
facilmente : pofcianel corpo della medcfima fi acconcieranno alcune ruote
dentate, le quali fi muouano p mezio di vna fufta nel modo mcdefimOjchVfafi ne
"li oriuoli j quelle ruote mouendofi faranno alzare, $^' abbaflaredue
piccoli mantici conncfii allMtjma ruota, che fi muoue più veloceméte, in modo,
che mentre l'vno fi alia, l'altro fi abballi, il che non è difficile a chi ben
intende il modo, con cui le medefime ruote de gli orinoli muouono il tempo, o
librile dell'orinolo mcdefimo; Il vento de manlicettifi farà vfcire per due
piccole cannette fotto l'ali ne fianchi della colomba, in modo tale,chevrtando
nell'ali medefime le muouino, eoaqualche incerottione si, che dibattendofije
per conieguenza rcfiften(toaU'^riajfi {blleuerannoinefia,e daranno il volo alla
machina, il quale durerà fin tanto, che perfeuererà il moto delle ruote,e de
mantici; e quefto modo fembra conforme a quello,che riferifce Aulo Celio
citato, i - ; 11 fecondo modo fimile al precedente farà, fare' le medefime
ruote dentate, che in vece di muouere i manticetti, o il tcpo dell'oriuolo muo»
uano immediatamente le ali con moto proportionato alla grauità della machina,
fi che fia fufficiente ad alzarla in aria, e farla volare. . Terzo fi potrebbe
ancora condcnfare violentemente l'aria in vna^ vefica, o vafo di vetro chiufo
nel corpo della colomba, fi che poi apredo il vafo co vna chiauetta, e lafciando
vfcire l'aria per due Gaoneìfini fotto Tali, quefiia con il fuo impeto
fofpingeffe l'ali medefime j ma poco durarebbe vn tal moto,& andrebbe
prefto mancando. Quarto finalmente fi potrebbe far folleuare in arialVccclIo in
quel modo,che fi foUeua vn vuouo pieno di ruggiada fi:illata,pofto a raggi
caldi del Soie, fé nel corpo dell'vccello medefimo chiudèffìmo TvuouOjO vefica
piena diliquorefottili{Iìmo,ehc facilmente rarefatto dal colore del Sole fi
folle uafle. E quefto, e quanto ho voluto accennare in quefta materia, per
aprir la via a gl'ingegni perfpicaci in ordine a pcrfettionare quefta
inuentionc, e ricrouarnc altre fimili j e per inftradarmi ad vn altra mia
inuemione più marauigliofa, cioè ' ri^ V,'! • ;iì 6*nGob Féthricàrt 'vriA naut^
che camini fofientata fopra l* aria 4t remi, ^ h vele \ quale fi dimoerà poter
riufcirs nella prattica» [ON fi è fermato nelle precedenti inuentioni r.irdire,
e.^ curipfità deirintelletto humano j ma in oltre ha cercato comegl'huomini
poflanoanch'eflìiguifadi vccelli vo» lare per l'aria; e non è tbrfi fauolofo
ciò, che di Dedalo^ e de' Iccaro fi racconta; Imperciochc narrafi per cofa.»
certa, che vn tale,di cui non fouuiemi il nome, a tempi noftri con fimi. le
artificio, pafsò volando dall'vna all'altra parte del lago di Perugia-^: benché
poi volendofi pofare in terra fi lafciò cadere con troppo impeto, e precipitò a
cofto della fua vita. Ninno però mai ha ftimato podibile il fabricare vna naue,
che fcorra per l'aria, come fc foffe foftcnuta dalPaque j imperoche hanno giudicato
non poterfi far machina più leggiera dell* aria fteifa, il che è necelTario
accio poffa feguire l'effetto •dcfidcrato • j3.iio^nvm;f; JL Hor* io che fempre
hebbi genio di ritrouare inuentioni di cofe lc-> più difficili,
dopolungoftudio fopradi ciò, ftimo hauere ottenuto l'intentodi fare vna machina
piu leggiera in fpecie dell'aria fi, che honu -folo cffa con la propria
leggierezza ftia folleuata in aria, ma pofla por.tare fopradi fé huomfni, e
qualfivoglia altropefojue credo d'ingan.narmi, effendoche diraoftro il tutto
con ifperienze certe, e con vna_# infallibile dimoftratione del libro vndecimo
di Euclide, riceuuta per tate da tutti li matematici. Farò dunque prima alcune
fuppofitioni,dalle quali pofcìa dedurrò il modo prattico di fabricarc quefta
naue, la-, quale fé non meriterà come quella di Argo,d effer pofta tra le
Stelle^» falirà alineno verfo di efle da fé medcfima. Suppongo in primo luogo,
che l'aria habbia il fuopcfo,a cagione dei vapori,&efalationiche
all'altezza di molte miglia fi folleua no dalla terra, e dall'aque, e
circondano tutto il noftro globo tcrraqueo 5 «.*» ciò non mi farà negato da
filofofi, che fono leggiermente verfati nelle ifperienzej poiché è facile il fi
mela prona, con cauare fé non tutta almeno parte dell'aria, chefia in vn vafo
di vetro: il quale pefato prima, e dopo che n*è ftata cauata l'aria fi
ritrouerà notabilmente dimi^ &*-..nuito 5^ nulto di pefo. Quanto poi fia il
p£fodeirariaiol*ho ritrouato inquc fta maniera. Ho prefo vn gran vafo di vetro,
il di cui collo fi poteua-# chiudere, et aprire con vna chiauetta : e tenendolo
aperto l'ho rifcaldato al fuoco tanto', che rarefacendofi l'aria, ne vfcì la
maggior parte: poifubitolo chiufi sì,chenon poteflrerientrarui,e Io pelai j ciò
fatto ibmmerfi il collo ncH'aqua, reftando tutto il vafo fopra l' aqua iftelTa,
et aprendolo fi alzò l'aqua nel vafo, e ne riempì la maggior parte_j : l'apri)
di nuouo,e ne feci vfcir Taqua quale pefai,ene mifurai la mole, e quantità 5
Dal che inferifco che altre tanta quantità d'aria era ufcita dal vafo 5 quanta
era la quantità deiraqua,cheviera entrata per riempire la parte abbandonata
dall'aria 5 Pcfai di nuouo il vafo prima ben rafciugato dall'aqua, e
ritrouaiche pefauavn oncia più mentre era-, pieno d'aria di quello pefafle,
quando n'era vfcita gran parte. Si che quello di più, che pcfauaera vna
quantità di aria vgualc in mole all*aqua, che vi entrò in fuo luogo : L'aqua
pefaua 540. oncie, onde concludo che il pefo dell'aria paragonato a quello
dell' aqua, e come i.a (540. cioè a dire fé l'aqua, che riempie vn vafo pefa
640. oncie, l'aria.» che riempie il medcfimo vafo pefa vn oncia. Suppongo
fecondo che vn piede cubico di aqua, cioè l'aqua ch;_> può fìare in vn vafo
quadro, largo vn piede, et altretanto lungo, et alto, pefi 80. librecioè oncie
p5o. conforme all'ifperienza del Villalpando, che è quafi del tutto conforme
alla mra : Imperciohe ritrouai che qucll' aqua la quale pefaua 640. oncie era
poco meno di due terzi di vn pie. de cubico . Dal che viene in neceifaria
confeguenza > che fé due terzi di vn piede di aria pefa vn oncia, vn piede
intiero pefarà vn oncia e hiezza. Terzo, fuppongo che ogni gran vafo fi pofla
notare da tutta, o alme no quafi tutta l'aria je ciò dimoftrerò farfiinvarij
modi nell'opera dell'arte maeftra, come fpiegaròa fuoluogo^ Intanto accio tal
uno non ftimi, che fia una uana promefla, ne infegnarò qui uno de più facili.
Piglifi qualfiuoglia gran uafojche fia tondo, et habbia un collo, o al
yr,coUofiaconnefla una canna di rame, odi latta lunga almeno 47. V^^' Terzéi mi
Romani moderni, conforme allamifura che èregiftrata verfo il ' finediquefto
libro, nel trattato decannochiali 5 et eflendopiù lunga l'effetto farà più
ficuro 5 uicino al uafo A. fia una chiauetta B.chechiuda per tal modo il uafo,
che nonni poffa entrare aria: fi riempia di 3qua tutto il uafo con tutta la
canna; poichiufaJa canna nella partt-» eflrema C. fi riuolti il uafo si, che
flia nella parte di fopra, e la parto «flrema C. della canoa, fi fommerga
dentro alfa qua; e mentre .è im^ i '.; O merfa ri 54 merfa nell'aqua fi apra,
accio cfcaraquadal vafo,!a quale ufcirà tutta, reftando piena la canna fino
all'alcezia di palmi 45. minuti 2^. e tutto il rimanente di fiDpra farà voto,
non potendo entrar aria per alcuna partcj airhora fi chiuda il collo del
uafi^conlachiauettaB. e fi haucrà il uafo uoto^ che fé alcuno non lo crede lo
pefi, e ritrouerà,che quanti piedi cubici d'aqua fonoufcitida efi^o,altre,e
tante oncie, e mezze.-» oncie di meno pefarà di quello pefaua prima, quando era
pieno di aria ; il che bafta per il mio intento, non uolendo qui difputare, fé
refti woto d'ogni forte di corpo 5 del che difcorrerò a fuo luogo difendendo,
che non può efler uacuo, et infieme moftrando, che non ui refta-. corpo,il
quale fia di alcun pefo, Qu^arto,fuppongoefleruere, ed infallibili le
dimoftrationidel libro I i . e £ 2. di Euclide, riceuute da tutti i filofofi, e
matematici,& euidenti per manifefta ifperienza ; nelle quali fi proua, che
la fuperficie delle palle, o sfere crefce in ragione duplicata delli loro diametri,
douc che Ja folidità crefce in ragione triplicata delli medefimi diametri: Et
ac-* cioqueftofi pofla intendere da tutti; fi deue fapere che allora la
ragione, o proportione è duplicata, quando fi pigliano tre numeri in tal
modojcheil terzo contenga il fecondo tante uolte, quante il fecondo contiene il
primo, come nell* efempio qui pofto I. 2. 4, I. 5 5>. l. 4' i^. doue il
terzo numero 4, contiene, il 2.0 numero 2, tante uolte quante il due contiene
l'uno, cioè due uolte; e fimilmente, il terzo numero p. contiene il fecondo 5,
tante uolte,quante il tre contiene l'uno, cioè tre uolte 6cc, All'horapoila
proportione è triplicata, quando fi pigliano quattro numeri in modo tale,che il
4.*' cótenga tante uolte il 3 .° quante quefto contiene il 2.** &; il terzo
contenga tante uolte il 2.0 quante quefto con» tiene il primo, come ft uede in
quefto altro efempio. I* 3. 9' 17» I, 4. i6^ 64. Dimoftra dunque Badile che la
fuperficie delle palle, o sfere crefce in proportione dupUcau delli diametri 5
cioè fé pigliaremo due palle» una delle quali fia di diametro groifa il doppio
dell'altra, per efempia una 55 vnadl vn palmo di diametro, l'altra di duella
fuperficie della palla_^ di due palmi farà quattro volte più grande della
fupcrficie della palU di vnpalmoje che rutto il corpo, o folidità della palla
di due palmi crefcendo in pioportione triplicata farà otto volte più grande, e
per confeguenza otto volte più pefante della palladi vn palmo di diametro; fi
chela fuperficie della maggiore alla fuperfìcie della minore»/ farà come4, a
i.e lafoliditi faràcome 8. a i. La quale verità oltre la
dimoftrationefpcculatiuafi può vedere in prattica,pefando Taqua-. che empie vna
palladi vn palmo di diametro, e quella che empie vn_. altra palladi due palmi:
con il che haueremo la proportione triplicata della folidità ; la proportione
poi duplicata della fuperficie la ritrouaremo, mifurandola fuperfìcie delle
medefime palle, ovafirDoue di paflaggio auuerto vna regola vtile all'economia,
e fparamio nella fpefa de materiali, volendo fare botti per tener vino,facchi,o
altri vafi neceflfarij; cioè che facendo vna fola botte con quei legnami con i
quali fé ne farebbero due, quella botte fola terrà in fé il doppio di vinodi
quello, che farebbero tutte due le botti jcofi anche, fé la medefima tela, che
forma due facchi fi vniràinfieme facendone vn Tacco folo, quefto folo facce
terrà il doppio più grano di quello, che teneuanolidue facchi. Quinto, fuppongo
con tutti i filofofi, che quando vn corpo è più leggiero in fpetie,com*e(lì
parlano,di vn altro, il più leggiero afcende-» nell'altro piugreue,fe il più
greuefia corpo liquido; come vna palla di legno, afcendefopra raqua,e galleggia
percheè più leggiera in fpetie dell*aqua ; cofi anche vna palla di vetro
ripiena di aria galleggia fopra l'aqua, perche fé bene il vetro è più greue
dell' aqua, tutto il corpo pero della palla pigliando il vetro
inlìemeconTariaèpiu leggiero di quello, che fia akretanto corpo di aqua: che
quqfto è reflere più leggiero in fpetie, -ìm...
Prefuppoftequeftecofe,certoèchefc noi poteflìmofare vn vafodi vetro, o d'altra
materia, il quale pefafle meno dell'aria, che viftà dentro, e poi ne cauafifìmo
tutta l'aria, nel modo infcgnato di foprajquefto vaforeftarebbepiu leggiero in
fpetie dell'aria medefimajficheper il quinto fuppofto gaUeggiarebbe fopra
l'aria, 6 che fi deuemultiplicareefib diametro per la circonferenza;fiche mul-^
tjiplicheremo 14. per44. &haueremola fuperficiedi quefto vafo ton-ì do, che
faranno ó 16. piedi quadri di laftra di ramc,ciafcuno de quali hab 57 habblamopoftochepefi
tre oncie,riche muItiplìcando^K?. per 5. haueremo i 848. oncie j che è il pefo
di tutto iì rame con il quale è fabricatala palla, cioè libre 154. Vediamo
horafe l'aria che fi concieae in queftovafo pefipiudi i 54. libre poiché fé
cofi è, cauatanc raria_, refterà il yafo più leggiero di lei : e quanto farà
più leggiero d:lla rnedefima,altretanto pefo potrà alzare feco, efolleuarloin
aria. Per vedere il pefo dell'aria, che vi fta dentro, bifogna vedere quanti
piedi cubici di aria contenga, ciafcuno de quali habbiamo moftrato che pefi vn
oncia, e mezza. Perciò fare infegna di nuouo Archimede, che bifogna
multiplicareil femidiametro,chefarà piediy, per la terza parte della fuperficie
che farà 20 5 .e vn terzo,il che £uto, h luremo la e :ip icitàdel yafo, che
farà piedi 1457.6 vnterzo,e perche ogni piede di aria pefa yn oncia, e mezza,
Airà il pefo di tutta l'aria contenuta nel vafo oncic 2i5 5.edueterzi,cioèlibrc
i79.oncie7. e due terzi. Hauédo duridue veduto che il rame, di cui è formato il
vafo pefa folo 154. libre, reftail yafo più leggiero dell'aria 2 5. libre oncie
7.C ducterzi,comehaueuo propofto didimoftrare; fi che canata fuori queft'aria,
non folo falirà fopra l'aria, ma potrà tirar feco in alto yn pefo di 2 5 .
libre, ««# oncie 7. e due terzi. Ma accio che pofla alzar maggior
pefo,efolleuarehuominiinaria pigliaremoil doppio di rame,cioè piedi 1232. che
fono libre di rame 3o8.conilquaI rame duplicato potremo fabricare vn vafo, non
folo al doppio più capace, ma più capace quattro volte del primo, per la_^
ragione più volte replicata della quarta fuppofitione je per confeguéza
l*aria,che fi conterrà in detto vafo farà libre 7 1 8 oncie 4.e due terzi, fi
che cauata queft'aria dal vafo, quefto refterà 410. libre, et oncie 4. e due
terzi,piu leggiero di altretant'aria, e per confegucnza potrà folle-; uare tre
huomini, o due almeno 3 ancor che pefino più di otto pefi per yno. Si vede
dunque manifeftamenteyche quanto più grande fi firà li-* palla, o vafo fi potrà
anche adoperare laftra di rame, o di latta più groffa, e {oda ; Impercioche fé
bene crefcerà il pefo di eflb, crefcerà pero fempre più la capacità del
medefimo vafo, e per confegucnza il pefo dell'aria j onde potrà fempre alzare
in aria maggior pefo. Da ciò fi raccoglie facilmente, come fi pofla formare vna
machina, FigwA laqualeaguifa dinauc camini per aria jSi facciano quattro palle
ciaf IV. cuna delle quali fia atta ad alzare due, o tre huomini, come fi è
detto pocoauantijle quali fi votino dall'aria nel modo fopra moftrato, e fiano
le palle, 0 vafi A. B. C. D. Qucftc fi connetta no infieme con quattro legni,
come fi vede nella figura, fi formi poi vna machina di legno P ' E.F. 5» E.F.
fimilead vna barca, con il fuo albero, vele, e remi: e con quattro funi vgiiali
fi leghi alle quattro palle,dopo che fi farà cauata fuori l'aria, tenendole
legate a terra accio non sfuggano, e fi folleuino prima, che fiano entrati
gHiuomini nella machina j all' hora fi fciolgano le funi rallentandole tutte
nel medclìmo tempo : cofi la barca fi folleuerà fo pra l'aria, e porterà feco
molti huomini più, o meno conforme la gra pezza delle palle; i quali potranno
feruirfi delle vele, e de remi a fuo diaccreper andare velociffimamenre in ogni
luogho fino fopra allcj' iiìontagne più alte. Ma mentre rifcrifco quefta cofa
rido tra mefte0b parendomi che_-» ila vna fauola non m.eno incredibile, e
fìrana di quelle, che vfcirono dalla volontariamente paz.za fantafiadel
lepidiflìmo capo di Luciano; e pure dall'altro canto conofco chiaramente di non
hauere errato nelle mie prone, particolarmente haucndole conferire a molte
perfone_-» intendenti, e fauie j le quali non hanno faputoritrouare errore nel
mio difcorfo;& hanno folodefiderato di poter vederelaprouain vna palla, che
da fé ftefla falifìe in aria j quale hauerei fatta volontieri prima_. di
publicarequeftamiainuentione,fe]apouerta religiofache profcflo mi hauefie
permefìb Io fpenderevn centinaio di ducati, che farebbero d'auantagoio per
fodisfarea fidiletteuole curiofirà : onde prego i lettori di quefto mio libro a
quali veniife curiofità di fare quella ifperienza, che mi vogliano ragguagliare
del fucefìb,il quale fé per qualche-* difetto commefib nell'operare non
fortifle felicemente, potrò forfi ad-» ditarli il modo di correggere l'errore j
e per animare maggiormente_j ciafcuno alla proua voglio fciogliere alcune
difficoltàjche potrebbero opporfì in ordine alla prattica di quefta inuentione.
Primieramente può ritrouarfi difficoltà in voltare la predetta palla, ovafo nel
modo di fopra infcgn3ro,richiedendofi il riuoltare fopra la canna B. C. la
palla A. mettendo in alto la palla che prima pofaua_. in terra 5 il che certo
non fi potrebbe farefenza qualche machina, con difficoltà, filante la grandezza
del vafo,o palla tutta ripiena di aqua • A quefto fi può rimediare in modo,
chenonfianeceifario muouere la ì^igmA palla. Si collochi dunque la palla in
luogo alto almeno 47. palmi, e_^ V. nella parte di fottofiaconeflb al collo Ja
canna di 47. palmi,la quale fi chiuderà nella parte inferiore C. pofcia fi
empirà di aqua il vafo A. con tutta la canna per vn altro forame D. nella parte
fuperiore ; pieno che farà, fi chiuderà il detto forame con vna vite,
ochiauetta D. e volendolo votare bafterà aprire la parte efl:reraa C. della
canna immerfa in un uafo d'aqua, accio ufcendo Taqua dal uafo non ui pofia
fottentrar' aria ; ufcita che (ara rutta Taqua fi chiuderà la chiauetta B. del
collo del " uafoj 59 uafo, e fi leiiera via la canna, cofi haueremo il
uafo, il quale fé non farà del tutto voto di aria, del che non uoglio qui
difputare, certo è che almeno peferà tante uncieje mezza di menojquanti fono i
piedi d'aqua, che prima conteneua nella fua capacità, il che bafta per il mio
intento,et è già ftato prouato con rifperienza, come ho detto di fopra : deuefi
folo vfare diligenza in fare, che le chiaui, che chiudono il vafo, fiano f^t^e
efattamente in modo,che non vi pofla entrar aria perle commef furc->.
Secondo, fi può fare difficoltà in ordine alla fottigliezza del vafo ; poiché
facendo gran forza l'aria per entrar dentro ad impedire il vacuo, o almeno la
violenta rarefattione, pare che douerebbe comprimere eflb vafo, e fé non
romperlo, almeno fchiacciarlo, e guaftare la fua rotondità. A quefto rifpondo,
che ciò auuenirebbe quando il vafo non folle tondo i ma eflendo sferico l'aria
lo comprime vgualmentc da tutte le parti sì, che; più tofto lo raffodajche
romperlo? ciò fi è veduto per ifperienza in vafi di vetro, li quali anchor che
fatti di vetro grofiò, e-» gagliardo,fe non hanno figura rotonda,fi rompono in
mille pezzi^doue all'incontro ivafi tondi di vetro ancor che fottiIiffimi,non
fi rompono^ ne è necefiaria vna pcrfetciffima rotondità j ma bafta, che non fi
fcofti molto da vna tale figura sferica. Terzo,nel formare la palla di rame fi
potranno fiire due mezze palle,e poi connetterle infieme, e faldarle con ftagno
al modo folito ; ouero farne molte parti, e fimilmente vnirle j nel che non fi
può ritrouare difficultà. Quarto, può nafcere difficoltà circa l'altezza alla
quale falirà per aria la nauej poiché s'ella fi follcuafle fopra tutta l'aria che
comunementefi ftimaefferalta cinquanta miglia piu,o meno come vedremo dopo,
feguitarebbe che gl'hucmini nonpoteflero refpirare. Al che rifpondo, che quanto
più fi va in alto nell'aria, ella è fempre plufottile, e leggiera 3 onde
arriuata la nane ad vna certa altezza non potrebbe falire più alto, perche
l'aria fuperiore efiendo più leggiera-, nò farebbe atta a foftcnerla, fi che fi
fermerà doue ritrouerà l'aria tanto fottiie, che fia vguale nel pcfo a tutta la
machina -, con la gente, che vi fta fopra. Quindi accio non vada troppo alta,
conuerrà caricarla di pefopiu,o meno conforme all'altezza, alla quale voremo
falire; ma fé ella pure faliffe troppo alto ; fi può a ciò rimediare facilmente
coii_. aprire alquanto le chiauette delle palle lafciandoui entrare qualche
quantità di aria; imperoche perdendo in parte la loro kggierezza fi
abbaiferannocon tuttala nane; come airincontrofenon falifle alta_. quanto 6q
quanto defìderiamo, potremo farli falire con allegerirla di que'pefi, che vi
metteremo fopra. Cofi parimente volendo dcfcendere fino a Cerrafidoucrà aprire
le chiauette de vafijpercioche entrando in effi a poco a poco Taria perderanno
la fualeggierezza 5 e fi abbafleranno a poco a poco fino a deporre la nane in
terra. Quinto, alcuno potrebbe opporre, che quefta nane non pofla efler fpinta
pervia di remi, perche quefti in tanto fpingono le naui per 1*-^ 2 qua, in
quanto l'aqua fd refiftenza al remo, la doue l'aria non può fare tal
rellftenza. A quello rirpondo,cherarfabenche non faccia tanta refiftenza al remo
quanto fa Taqua per efser piufottile,e mobile; fa pero notabile refiftenza, e
tanta, quanta bafteràafpingere la nane; poiché quanto è minore la refiftenza
che fa l'aria al remo, altre tanto è minore la refiftenza che fa al moto della
nane: onde con poca refiftenza di remo potrà muouerfiageuolniente; oltre che
rare volte farà necefsario adoprarei remi, mentre nslfariafempre haueremo
qualche poco di vento, il quale ancorché debboliffimo farà (ufficiente a
muouerla velocemente j e quando anche fofse vento contrario alla noftra
nauigatione, infegnerò altroueilmodo di accomodare l'albero delle naui in modo,
che pofsano caminare con qualfi voglia vento non folo per aria_» ma anche per
aqua, Sefto, maggiore è la difficoltà di rimediare all'impeto troppo grandc,ccn
cui il vento gaoljardo potrebbe fpingere la naue sì, che corref^ fé pericolo di
vrtare nei monti,che fono i fcogli di quefto oceano dellV aria^ouero di
fconuolgerfijC ribakarfi: Ma quanto al fecondo dico che difficilmente potrà da
venti fconuolgerfi tutto il pefo della machina, con molti huomini,che ftandoui
fopra la premeranno in modo che fempre contrapcferannoalla leggierezza delle
palle; fi che quefte refteranno fempre in alto fopra la naue,ne mai la naue
potrà alzarfi fo« pra di loro ; oltre che non potendo mai la naue cadere a
terra, fé non_. entra aria nelle palle ; ne eflendoui pericolo d'affogare
nell'aria, come neiraqua,afferrandofi gl'huominialegni,o corde della machina
farebbero ficuri di non cadere. Quanto al primo confeflb che quefta noftra naue
potrebbe correre molto pericolo; ma non maggiore di quelli, a quali foggiaciono
le navi maritime ; percioche come quelle, cofì quefta potrebbe feruirfi
dell'ancore, le quali facilmente fi attaccherebbero a gl'alberi : oltre che
quell'oceano dell' aria, benché fia fenza_» lidi, ha pero qnefto
auuantaggio,che non abbifognano i porti oue ricouerarfi la naue, potendo ogni
qual volta vede il pericolo prender terra, e defcendere dall'aria, Altre 6i
Altre difficoltà non vedo cbe fi pofl'ano oppore a quefta inuentione toltane
vna,che a me fembra maggiore di tutte le altre, et è che Dio non fia per mai
permettere, che vna cale machina fia per riufcire nella prattica, per impedire
molte confeguenze,chepcrtiirbarebbcroiI gouerno ciuile, e politico tra
gl'huomini : Impercioche chi non vede, che niuna Città r:irebbe ficura dalle
forprefe, potendofi ad ogn'hora portar la nr uè a dirittura fopra la piazza di
erie,e lafciatala calare a terra., defcenderc la gente ? rifteflb accaderebbe
nelle corti delle cafe priuatcje nelle naui che fcorrono il mare, anzi con
folodefcenderelanaue dall'altezza dell'aria, fino alle vele della naue
maritima^ potrebbe troncarle le funi j& anche fenza defcendere, con ferri,
che dalla naue fi gcttaflero a baffo fconuolgere i vafcelli, vccider
gl'huomini, et incendiare le naui con fuochi artificiati, con palle, e bombe y
ne folo le naui, ma le cafe, i cartelli, e le città, con ficurezza di non poter
effer offefi quelli, che da vna fmifurata altezza le faceffero precipitare.
Nuoue jNfuoue intient'iom diTermofcopi per cono [cere U ^varietà del caldo, e
del freddo ., ne gl'elementi. primoinuentoredelTermofcopiojper mexz.ol'di cui
fi pofìa conofccre quando l'aria fia più, e meno calda, o frcda, fu Roberto
Fluddo, il quale prefe vn tubo di vetro com'è A.B. con vna palla, o altro vafo
C. connelTo al tubo nella fommità di lui, e facendo prima rifcaldare al fuoco
la palla, fi che Taria ne reftafle rarefatta, immerfe rcftremità A. del tubo in
vn vafo D. pieno di aqua; onde l'aria nel tubo 5 e nella palla-,
raffreddandofi, e ritornando al fuo ftato naturale di prima,ne potendo per la
bocca A. immerfa ncll'aqua entrare altr'aria, l'aqua del vafo D. ialiuaperil
tubo ad occupare il luogo abbandonato dall'aria, mentre quefta condenfandofi fi
ritiraua nella palla C. Quindi pofcia auueniua che reftandoqueftoinftrumento
immobile, ogni qualvolta l'aria efterna vcniua alterata dal freddo, o dal
caldo, fi alteraua ancor l'aria chiufe nel vetroi e condenfandofi perii freddo,
faceua che l'aqua faliff^L.,» più alta nel tubojfi come rarefacendofiperil
caldo rifcfpingeua a_. bado l'aqua medcfima -, et efiendo il tubo di vguale
groffezza in tutte le parti, e diuifo in molti gradi trafeileffi vguali, l'aqua
falendo, onero abbaflandofi moftraua nella lunghezza del tubo li diuerfi gradi
del freddo,© del caldo. Quefta inuentione fu meritamente ftimata ingeonofa,ma
nulladimenoera foggetta a tale inconuenientejcherinuernofpeiTo agghiacciandofi
Taqua, o rompeua l'inftrumcnto, o almeno lo rendeua inutile per quella
ftagione. La onde ringegnofiflTimo Gran Duca diTofcana hoggidi viuente, quanto
amante de peregrini intelÌetti,altretanto perI fpicace con il fuo alle nuoue
inucntioni, ouuiò al predetto incommodo, facendo lauorare a quelli, che fanno
l'arte, con la fiamma di vna lucerna, vna palletina di vetro con il fuo collo
fottile, quale appunto dimoftra la figura A. B. e riempiendo tutta la palla con
parte del collo figura ^jj quint' eflenza di vino, o aquauita retificatiflìma,
il che fi fa immerVII' gendo l'iftefìb vetro con il collo B. apcrto,mentre è
tutto caldo, nel liquore medefimo j pofcia fi chiude, e figilla con Tifteflo
vetro la bocca del collo,e fi coferua rinftrumcto,che fa Tvfo medefimo
deiraltro,ma c6 ^t;vt-i,. et effetto cótrariojpercioche h doue in quello l'aqua
afcende per il freddo, che condenfa l'aria della palla fuperiore, in qucftoil
liquore afcende per il caldo che Io rarefa nella pallina inferiore, e falendo
per il collo diuifone fuoi gradi, moftrahora il freddo bora il caldo,fenza
verun pericolo, che il Iiquorefiagghiacci,o fi confumi, o fi verH, come nel
primo: hauendo di più quefto maggior commodo,che potiamo facilmente portarlo
con noi ouunque andiamo ; quefto medefimo feruc per regolare i gradi del caldo
ne fornelli, de quali fi feruono i chimici per le loro operationi ; per
ritrouare, e mantenere il calore neceffario a_. far nafcer i pulcini dalle
vuoua fcnza opera di gallina, anche di mezzo inuerno : per far cuocer l'voua
medefime a quel fegno, che vn vuole»^ tenendo l'inftrumcntoimmerfo nelt*aqua,in
cui fi cuociono, fin tanto che il caldo arriui al grado prefifTo, e per molte
altre cofe come fi dirà altroue. Inuentione degna per certo di fi Gran
Prencipe, il quale noa_. contento d'hauerla ritrouata con ammiratione ài chi
fha veduta, ha_» voluto pratticarla non folo con far nafcer li pulcini ne
forni, ponendo prima rinftrumentofofto la gallina che coua, e notando il grado
del caldo che fi ricerca per tale effetto ; ma anche dando la cura a moIte_-p
perfonein diuerfipaefi,che ancor hoggi notano ogni giorno la diuerfità del
caldo, e del freddo, per potere pofcia confrontare infieme tutte le mutationi
dell'aria cagionate dalleftellein varie parti del mondo,e quindi dedurre regole
d'aftronomia fondate nell'induttione di effetti efattamente fperimentati.
Etohvi foiferopur molti ches'occupafleroin efsercitij fi nobili ! quanto
accrefcimento farebbero rarri,ele fcienze, fé tanti Prencipi, e Caualieri
dotati di eleuato ingegno, che confumano le ricchezze in_« giuochi, e
trattenimenti affatto inutili, Timpiegafìero nell'ifperienzc-^ tìfiche, da cui
trarebbsro non folo diletto maggiore, ma gloria immortale al fuo nome, con le
ingegnofe inuentioni, che riempirebbero i libri de' letterati. Io pertanto
aggiongendo in quefta materia alcuna cofa alle già ritrouateslafcierò che altri
vadino fpeculando cofe migliori 3 e per dir ciò che fento, parmi che li due
modi predetti di conofcere i gradi del caldo, e freddo foggiaciano ancora a
qualche difetto; e quanto al primo chiara cofa è, che quanto piìì l'aqua
afcende nel tubo di vetro,tanto più con il fuo maggior peforefiftealla falitaj
ondefe quattro gradi di freddo, per cagion d'efempio, baftano per farla
afcendere alla metà del tubo, quattro altri gradi di freddo, non batteranno per
farla afcendere tutta l'altra metà, efìendo che quanto più faglie, tanto più
forza fi richiede per alzarla ; aggioqgafi che parimente l'aria, che fi
condenfa-. oriuj quan 6^ quanto più fi rimuoue dalla Tua rarità naturale, tanto
maggior freddo richiedefi percondenfar]a,ond*èche non fi può alzarl'aquaapropor»tione
del freddo eftrinfeco. Si porrebbe rimediare a quefto con diuider il tubo in
parti ineguali, facendo che le parti fuperiori fodero più piccole delle
inferiori ; ouero formando vn tubo, che fofle più fottile nella fommita,che nel
fondo ; ma farebbe Tempre difficile il ritrouarc la proportione,con la
qualc-> le parti, o la grofczza dei tubo doueflcro andarfi diminuendo.
Quanto al tcrmofcopio piccolo del Gran Duca, egli incorre invn-* fimJle
inconueniente: poiché l'aria chiufa nel collo del vetro al falir del liquore fi
deue condenfare violentamente,6 quanto più alto faglie il liquore per ragion
del caldo, tanto maggiormente l'aria fa refiftenia; e ciononfolo perche fempre
più fi difcofta dalla fua rarità naturale.^, ma anche perche il caldo, che fa
rarefare, e falir il liquore,fa rarefare ancora l'aria, la quale perciò fi
sforxa di defcendere, e fa refiftenza alla falita del liquore
medefimojaggiongaficheficomeho detto dell'aria,cofidcli'aqua vita fipuo dire,
che fc dieci gradi di calore bafbno a far che falga fino alla metà del collo,
dieci altri gradi non balleranno a far che falga fino alla fommità, poiché
tanto più refifte alla rarefatione? quanto più fi rarefa, eflendo naturale ad
ogni patiente tanto più refiftere quanto più fi ritroua vicino alla fua
deftrutione,e più lontano dal fuo effere naturale. Si che queft'inflrumentino^e
ben fi ottimo per determinarci gradi del calore richicfto ne forni, o per altra
fimile opqratione chimica; ma nonèattoa diitinguere vgualmente i gradi del
caldo, e del freddo? Per ouuiare dunque a quefti difetti, ho ritrouato,e
pratticato vn_» altro modo più certo, e ficuro fjcendovntermofcopio,il quale ha
anche quefto auuantaggio fopra graltri,chc per ogni minima alteratione
dell'aria, egli fi altera notabilmente 5 fi che fi puoconofcere facilmente ogni
picciola differenza di caldo, e di freddo. Si pigli vnvafo di vetro
diqualfivoglia figura, e farà forfi migliore Figura]^ sferica 3 quefto habbia
vna picciol bocca, quale fi rapprefenta^ Vili* nella figura A. B. e nel lui
fondo fi pongano due dita incirca di aqua; fi pigli pofcia vn tubo fottile di
vetro aperto d'ambe le parti, e fi metta con vn eftremitànel vafo A.B.fi chela
parte eftrema A. refti immerfa neiraquaj&ilcollo B.fi chiuda diligentemente
sì,che non vi poffa entrar aria. Ciò fatto fi foffi con la bocca violentemente
per il tubo dalla parte C. peroche in tal modo l'aria, che fta chiufa nel vetro
fi condenferà, e facendo forza per rarefarfi di nuouo, fofpingerà l'aqua in
alto per il tubo ^5 tubo A. C. il quale douera efler lunga, non molto grofifo,
e diuifo nelle fue parti. Supponiamo dunque, che per forza della
condenfationc-» fatta con il foffio 5 Taqua fia falitafinoal fegnoD.
vedra(Iì,che ftando immobile l'inflrumento ogni minima alteratione d'aria farà
alzarti» notabilmente l'aqua, o abbacarla j poiché il caldo rarefacendo mag^
giormente l'ariajch'è condenfata violentemente nel vetro,farà alzac l'aqua : et
il freddo condenfando la medefima aria, faraila defcenderc«j. ' Quefto modo non
paté quell'inconueniente, a cui foggiaciono gl'aitri due modi mcntouati di
fopra; cioè della refiftenza dell'aria alla condenfatione, mentre faglie il
liquore ; poiché, com' è manifefto^ nel tubo l'aria, eh' è nella parte di fopra
entraj et efce dal tubo,il quale nmane aperto, ne l'aqua ritrouarelìflenza
nell'aria perfalire più alto, come fa il liquore nelli altri termometri. f In
oltre fé bene anche in quefto l'aqua con il caldo deue falirc contro alla fua
naturale inclinatione, onde pare che non debba falirs.^' •ugualmente 5 et a
proportionc del caldo, cóme fi è detto del primo termofcopiojcio pero è
rimediato fé non in tutto almeno in gran_» parte dalla violenta condenfatione
dell'aria fatta nel vetro j poiché fé bene Taqua con il fuo pefo refifte al
falire j pero raria che fta_. fopra Taquadel vafoelTendo condenfata
violentemente, preme l'aqua è lafofpinge in alto fi, che l'vna, e l'altra con
il fuo pefo ftanno in_, equilibrio :& ogni benché picciolaggionta di calore
bada per rarefar l'aria, che per fé ftelfa procura di rarefarfi,e cofi fa falir
Taqua-,: e pero vero,che anche in quefto termofcopio quanto più l'aria fi
rarefa, e ritorna al fuo ftato naturale, tanto maggior forza di calore ix
richiede, refiftendo anche vn maggior pefo di aqua che deueakarfi nel tubo: ma
quefta differenza non è fi notabile come ne gl'altri . Aggiongafi,che in
quefto,come fi proua per ifperienEa,ogni picciol calore fa alzare l'aqua
notabilmente anche quando è giontaquafi fino "i*"^ alla cima del
tubo, fi che fono più diftintamente notabili i gradi, particolarmente fé il va
fo A. B. fia grande, e fé pur vi è qualche iraproportione,fi può facilmente
correggere, con diuider la parte fuperiore del tubo ili gradi proportionalmente
fempre minori. Finalmentefi può rimediare anche a quefta piccola imperfettione
del pefo dell'aqua nel canelloche refifte al falire,con porre ilcanelloinfito
quafi hori^ig^r*. zontale, cioè con poca decliuità, come fi vede nella figura
nona. I^* Vn'altra forte di termofcopio ritrouo per ifperienza riufcire non
meno delli due primi, benché fia foggetto ad vno delli difetti accenP^g^'^x
nati. Piglio vnvafo,Q palla di vetro A. con vn colio B.C. non molto X« .:'-b '
R fbttile 66 iGiuk^Si. al collo C. attacco vn pefo conuènìénte F. poi Io
immergo] ncU'aciuajdicuicpicno il vafoD. E. fattoa modo di cojonnaj fi che.
refiftcndola leggierezza dell'aria chiufa nella palla, enei collo>quefta.
auuanzi fuori del vafo D. F. in gran parte, o la metà incirca j il colla è
diqifo nefuoi gradi 5 fi chcrifcaldandofi Tana fi rarefa nella palla,
ricercando maggior luogo, ne potendo vfcire per il collo immerfa neU*aqua fa
alzar tutto il vetro, e nell'orlo, o labro D.del va(oD.EJ nota i gradi diuerfi.
Ma perche Tacjua contiene in fearia,efacilmen-» te inaria fi rifoluc&efala
in vapori, riempiendo la palla di eflì vapori, quando l'aria di cfladouercbbe
condenfarfi.-equeftoèvn altra ìnconueniente, che patifce anche la prima forte
di termofcopio vfata comrrunementej perciò potremo rimediare ancheaqueftocon
empi-* re il vafo D, F. non di aqua? ma d'ai genso viuo j nel qual cafo accio
il pefofipo0a fommcrgerinclfodouerà eflere vna palla d*oro:ma chi non hauerà
commodità della palla d'oro, o vorrà ifparamiar queOa fpe* fa, potrà fabricare
il vafo A. in modo,che nella parte fuprema di elfo (ì pofla collocar qualche
pefo di piombo, o d'altra materia, che tenga_^ niiiììerfa parte del collo
nell'argento vino. Si può per maggior leggiadria delnoftro termometro
addattarlo in modo, che reftandoeglinafcofto fi vedano li ^radi delfrcddo-e del
caldo in vna moftrafimile a quella delli horiuoli: ilchefiottencrà facendo
galleggiare fopra l'aquachefialza nella canna vn cilindretto ft^m» di le|;nQC.
il quale ahandofi,o abbafìandofi con l'aqua medcfima_» XI. faccia girare vn
aife A. B. con la Tua frezza in B. mediante vn pefo E. attaccato ad vn filo,che
fi rauuolge intorno all'alfe in p. e dall'aitro ca* pofoftieneil cilindretto C«
Si può anche fare che il fi|o,a cui è annelfo il cilindro fia attaccata al capo
di vnaftafottile A.B. eleggiera,chcappoggiatainE. a modo /"/^«m di vna
lena fi alzi, e fi abbadi, notando con l'altro capo B. i gradi XII. del caldo,
o del freddo nell'arco CD, nelchefiolTcruische quanta maggiore farà la
proportione=delle due parti A. E. et E. B, della lcua,c quanto più lunga farà
ra(la,tanto più fenfibile farà ogni minima muta^ tione dell' aria. Finalmente
fi può fare vn termometro duplicato, in cui fi condenfcF'igmx rà l'aria
foffiando nella chiauetta A. e fubito di nuouo chiudendola, XIIU accio l'aria
condenfata faccia falirc alquanto l'aqua nei fifone B. dai quale ritirandofi
l'aria nell'altro vafo C. farà parimente falir l'aqua nel fifone D.e col
rifcaldarfi maggiormente dell'aria, falirà l*aqua fino alla fommità delli
fifoni, paflando vicendeuolmente dall' vno all'-, altro vafo, con effetti
curiofi, e diietteuoli, particolarmente fé li prcn detti re ietti vafi,o fifoni
farannodi grandezzadiucrfa. Molto più galan leggiadra riufcirà quefta
inuentionc,fe dentro a detti vafi, o alme no in vnodi effifi collocherà yna
piccola ruota, che fatta girare dairaqua,chevicaderi fopra mentre viene per il
fifone dell'altro yafo, faccia Tuonare va_i campanello, e nioftri con vna
frezza aggio nta, i gradi del caldo, e dèi freddo? Altre K« «/^/f;'^ ìnutnùonì
per fapere tutte le mt^tatlom dèlPana humiàa :, o fecc4>,oUU:?b;,
i'ii;-!g!jr: ^Ejl conofcere ogni giorno le varie mutationi intorno all'
hiimidità,oficcità dell'aria, fono varie inuentioni ritro^ uatc parte da altri,
e parte da mej delle quali ne accen^SMÌÉ narò alcune in quello capo,
riferuandomi il trattarne^ più longamente nell'Arte maeftra a fuo proprio
luogo. ìlP. Kirchero nell'arte magnetica lib.j.p. 2. capo j. dice che fi pigHj,
vn'arifta,o paglia di quelle che Iranno intorno alle fpighe dell'auena, et
vneftremità di efla fi fermi nella fommità di vno ftile, o fopra vn_, legno perpendicolare
alThorizonte^e fopra l'altra eftremùà fé li vnifca vn indice di carta, o altra
cofa che tì pofTa girare facilmente, e fia-, parallelo all'horiz-ontc, intorno
ài quale fi -defcriuavn circolo diltinto ingradij e farà preparato rifinimento
^poiché eflendo quella paglia-, naturalmente ritorta a modo di fune quando
viene inhumidita fi va_» difnodando,&afciugandofi,o fcccandofiiiiorna ad
auuiticchiarCj'i-*' contorcere, fi che riuolgendofi in giro muoiie l'indice che
ha vniconeU la parte fuperiore, e nota i qradi deirhun^idità, e ficcità
dell'aria, con^ forme alla qualejfiauuiticchia,© fi riuolgé piu,o meno. Il
mcdefimo effetto fa§|iQ.tuttii furti di hQ/be,che nafcono naturala mente in tal
modo ritorte, 6^ aivùiticcfiiàtef come fono i conuoluoli jTt^ura notturni, e
fimili jde'quali io piglio vnfufto B. A. e lo pongo chiufa XlVe in vn
cilindro,0 colonnetta A. F. fi che non veda fermando l'eftrema parte
B.fichequefta non fi pofl'a girare 5 nell'altra parte cftrema A. del detto
fufto di herba, pongo vna figurina di carta che tiene innianovna frezza D. fi
cheauuiticchiandofijegirandofi ilfuflofi gira anche la_. figurina, che gì e
attaccata per vnpiedej&in vn circolo chefì:a intor-r no, e copre il
cilindro, accio non fi veda l'artificio, moftra i gradi dell'humidità, o
ficcità dell'aria per caufa delia quale fi va girando la figuraj e la frezza.
Vn'altromodouieneinfegnato dal Cardinale Cufano il quale prefcriue,che fi
prenda una bilancia, et in efla fi ponga della lana, o altra_» materia atta ad
imbeuerei'humidicà dell'aria ^collocando nella partc^ oppofla il fuo contrapefo
alla bilancia, poiché in tal modo inhumi^ dandofi 69^ dendoG la lana fi
accrefcerà il fuo pefojOnde dal pefooppofto che la tiene in equilibrio, fapremo
la maggiore,e minore humidità deiraria medefima . Io per pefarel'h umidità
dell'aria tengoappreflb di meuna piccola bilancina ^ e in unofcudellino dì efla
pongo del fale di alcun hcrba calida, poiché quefto attrae maggiormente
l'humido, onero del Talnicro calcinato che fi il medefimo effetto, anzi attrae
tanto efficacemente,^ che fi rifolue tutto in aqua,& alcune uolte pefa tre,
e quattro uoke più di quello che pefi quando di nuouofifecca j nell'altra
parte, cioè nell'altro fcud eli ino della bilancina pongo i pefi, con la
uarictà de quili uengoapefarel'humidità maggiore, e minore dell' aria: Douc fi
noti che il fale non fi liquefa femplicementc perche la fola materia di cflb fi
rifolua in aqua: ma perche fé li unifconoiuapori dell'aria humida, e lo' fanno
più pefante j altrimente non crefcerebbe di pcfo. Manonmenogratiofo è il modo
fcguente. Si prendano due grof-; fé corde di leuto, vna delle quali fia A. B.
legata iminabihneiite in^ A. da vna parte,e dall'altra riuoltata intorno ad vna
girchcta niol-. to piccola C. la quale girelctta fia immobilmente vniti
cox^^.l'alfe di vn altra girella maggiore M. F.E. laquile habbii vn con-^rr
trapefo moderato M. N. tanto,chebaftipertener tirata li corda B. A., la quale
inhumidendofi l'aria, anch'eia fentendo l'humidicà fi acor4 cierà,&
acorciandofi alzerà il contrapefo,e farà girare la girclla,que(ì:i girella
hauerà vn dente, in F. il quale entrerà in vn manico di martelletto L, H.
fermato mobilmente in G. e facendolo alzare ricaderà con il fuo pefo
percuotendo il campanello H, L siche dal fuono di quefto campanello faremo
ammoniti dell'humidità dell'aria. Vn altro campanello di diuerfo fuono R. ci
auuertirà della ficcità in quefì:omodo:advn anello F. farà legata l'altra corda
F. O. e quefta medefima corda in qualche diftanza notabile farà riuoltata con
l'altro capo intorno ad vna gircletta D. vnifa come l'altra immobilmente
nell'alfe ad vna girella maggiore con il fuo dente P. martello, e campanella
vicini,econ il contrapefo T. Rallentandofi dunque nell'feccarfi la corda E. O.
il contrapefo T. defccnderà,e ficendo girare la girella quefta vrterà con il
dente P, nel martelletto, e farà fonare il campanello R. Si pofTono ancora
multiplicarei denti delle girelle si che fonino più volte i
campanelli,conformelamaggiore5e minore humidità, e ficcità; e le corde, ò ruote
fi potrebbero difporre in altri modi,come ognivho nella prattica potrà
facilmente prouarejbaftan* do che io habbia accennato il fondamento di quefto
artifìcio. Nel che fi habbia riguardo di fare chele girelle, intorno alle quali
firiuoltano S IcJ ie cordcjfiano molto piccolcjacciò ogni piccolo fcorcfamcnto,
o al^ lungamento di corda fia fufficiente a farle girare j e le corde fiano a.%
quanto lunghe, acciò lo fcorcianiento fia notabile. Finalmente fi pofsono anche
con l'orecchie mifurare i gradi dell*humidità dell'aria : poiché fé noi
prenderemo due corde di leuto, o di chitarra j& vnadiefse fi
ftenderàfopralifcannelli d'alcuno ftrumentQ al modo ordinario ftirandola, e
lafciandola fempre ad vn me^ demo pofto 5 ma l'altra la ftenderemo fopra li
medefimi fcannelli facendo che refti tefada vn pefo attaccato ad vn capo di
cffa,il quale fia tanto, che la renda vnifpna alla prima, Quefta che vien tefa
dal pefo mantenerà femore vn mcdefimo fuono,doue che l'altra lo variarà
facendolo hora più acuto hor più graucsconforme che fi ftenderà,o raU icntarà
dalla maggiore, o minore humidità dell'aria; onde dalle loro confonanze, 0
difsonanze haueremo armonicamente i gradi dell'hufniditàjche faranno
tantijquanti fono i tonijO femitoni rauficalio Quero fi ftenda vna corda per il
maggior diametro di vn arjcllo di legno ouato e facile a concepir l'humido
nelle fue fibre ftefe per lo groffo,no^ per lo lungo del legno,che fia porofo;
poiché all'humido fi dilanerà ranello,e fi ftenderà la corda facendo il fuono
più acuto,che paragonato co vn altro fuono fempre (labile, haueremo il medemo
intento; l.e corde fiano di metallo, acciò anch'effe non fi alterino
facilmente^ Cap© 7' CAPO NONO Wdhrìcsre *vn horimUt ^he fi muou^ perpetHAmente
fenx^&c. fia fufficientea muouereil perpendicolo, ancorché molto più
pelante della palla, che vrta nell'afta; fi aggionge al facilitar quefto moto,
che il perpendicolo quando viene vrtato dall'afta è già in moto ; onde per fare
che il moto continui, baftavn impulfo minore aftai di quello, che fi richiederebbe
per darli il moto fé fofle totalmente in quiete 5 Di più eflb perpendicolo
douràeflere molto corto, il che ci giouerà a far falire più prefto lacafletta
con nmouere più velocemente le ruote; impercioche quanto è più corto, tanto più
frequenti firanno le fue ondationi ; Dalla quale breuità di perpendicolo
nafcerà, che fia moflb più facilmente dall'afta. Finalmente accio la palla non
difcenda troppo prefto per i canali inclinati ciafcunodi elfidourà effere molto
lungho; hor quanto è pia lungo il canale, per cuidifcendela palla, ella nel
fine aquifta maggior impeto, fi che venendo da h in b, quando arriua in b ad
vrtarenell* afta, ha giàaquiftato molto impeto dal moto decliue, per tal
modo,che Scorrendo per la palla da binl,e da l in e vrta di nuouo nell'afta
mentre dura ancora il moto del perpendicolo,e non fa altro che accrefcerlocon
vrtarìo di nuouo, accio pofsa durare, fin tantoché venga di nuouo ad vrtarlo in
d, poi in e>f &c. Secondariamente può nafcere difficoltà, che il
perpendicolo fia per hauere tanta forza, quanta fi richiede per alzare la palla
conlacafsettaN.douendola alzare mediante il moto di tre ruote, ciafcuna
dells»-» quali fa refiftenza al moto. A quefto rifpondo, che farebbe diffi_cile
alzare la cafsctta con la_, palla, quando l'altezza, a cui fi dcue alzare,
fofle molta, et il tempo breue j cioè quando il moto della cafsetta douefse
efser veloce; e con feguen 84 fcgucritemente veloce cfìcrdouefi'e anche il
iiìoto della ruota I k noce leraca dall'altre ruote più tarde j ma quando il
moto della caflccia debba efìer lento fi, che fi muoua più lentamente la ruota
Jk di quello, che fi muoua la prima ruota E F, tal moto lento riufcirà
piufacilejconforme fi dimofìra con i principi] della fcienza mccanica. Che poi
bafti vn moto lento della cadetta èmanifelloj Pcrcioche ella non deuearriuare
alla fua determinata altezza fé non quando la palla, che difccnde per il
canale, farà arriuata nel fondo X : per il qual moto della palla^ firichicderà
molto tempo, doucndo dii'cendeie per moki canili affai lunghi, come fi è detto
di foprajonde tiìttclecofe concorono a fjcililare queftomoto. Aggiongoche
lacafietia N dourà eflere IcggierifTìma ; poiché, ancorché tale, potrà femprc
difcendere a ripigliare la palla in X ogni volta che farà liberata la ruota LM
dal ritegno, o linguetta L. La palla fimilmente, ancor che fia moltiffìmc volte
più leggiera della palla del perpendicolo D, farà fufficientca farlo muoucre
ccil.. vrtare nell'afta YC, fi per l'impeto che prende nel difcendere per il
canale, fi anche molto più per la lunghezza dell'aftajche farà l'effetto di
Iena; e finalmente perlabreuità del perpendicolo, Auuerto anchora che la palla
S del braccio tampinato S gR dourà efiere più leggiera di quello che fia
lacafsetta N con la fua palla_, j accio quefta vrtando nell'afta piegata EZV
pofla alzare, e ripone la.;, detta palla S foprail fuofcanettoTQ^5& ancor
che quefta palla S fia afsai leggiera farà però fufficicntea far piegare il
rampino in R,e liberare la ruota LM ritirandola vcrfo T 3 pcrcioche la fpira,o
filo di ferroRTdcue premere leggicrifììmamcnce, e fol tanto, qu;into bafta
perrifofpingerela ruota LM verfo la ruota lK,il che fi farà con poca violenza
mentre l'afse della ruota IK entra mobilmente neli'afse della ruota L M in
fitohorizontale. Nctifi di più che potiamo facilmente accomodare vn altr'afta
dall' altra parte del canale, cioè in hlmno; nella quale vrti parimente la
palla, e dia più frequentemente il moto al perpendicolo, onde roaj pofsa mai
tal moto inlanguidirfi, nel qual cafo potremo fare minorcL-» quantità di
canali, ma più lunghi fi, che la palla fpenderà maggior tempo in difcendere, e
nel fine di ciafcun canale prenderà maggior impeto, poiché quanto più lungo è
il canale, tanto maggiore farà l'inv peto, che haurà aquiftato nel fi,nt-»o Vn
altro moto perpetuo Jlmile al precedente. femplice g^^^i^^N altro modo mi
fouuiene a fine di perpetuare il moto no molto diflìmile dal precedente, con
adoperare vna copelea, la quale riporti in alto la palla dopo che farà difce ^^
fa per il canale, come fi è moftrato di fopra j il che fi fura con minor
quantità di ruote, e con machina molto più fpedita . Sia come prima vn
perpendicolo A B, il quale muouendofi faccia girare con li due rocchetti H,I,
vnitial fuoafìejla ruota L nel modo fpiegatonel capo precedente jall'afleLM di
quefta ruota fia vnita va,, altra ruota N O, la quale girandofi morda la ruota
O P : e quefta ruota OP farà vnita all'afle di vna coclea RTQ^ intorno alla
quale farà il canale, che per eflere a modo di lumaca li da il nome di coclea.
Le due cftremitàdell'afsedi quefta coclea cioè Y, T faranno appoggiate fopra
due poli T,Y in modo che Tafse fi poffa girare liberamente con la coclea vnita,
mediante il girare della ruota O P. Difcenda dunque vn\ palla per li canali O
F,come di fopra j e quefta vrtando nell'afta DF ogni volta, che arriua al fine
di alcun canale dia nuouo moto,&impulfo al perpendicolo; il quale muoucndo
le ruote inferiori, e la coclea, quefta coclea porterà in alto un altra palla
pofta nel canale tortruofo T S V Z Q^, portandola dalla parte inferiore S alla
fuperiore Q^ ^^-' quale vfcendo dal canale della coclea, cadere nell'altro
canale nel medcfimo tempo, o almeno poco dopo che l'altra palla è gionta al
fìnc^ del canale, cioè in S : all'hora quefta palla farà prefa dalla coclea, e farà
portata in alto,mentre l'altra difcende, e cofi fucceflìiiamentcruna dopo
l'altra. Auertafi che acciò la palla, che è arriuata inS, fia riceuuta dalla.»
coclea nel medefimo tempo, che l'altra efce dal canale Qjdella coclea, fi potrà
fare, che la palla vfcendo dalla bocca Qjdel canale della», coclea, e cadendo
nell'altro canale faccia impeto in alcun afta la quale fia connefla con vn
ritegno, o molletta pofta nell'eftrema parte del canale S, dalla quale l'altra
palla vcniua ritenuta, accio non cadeflc-* nella coclea prima del tempo. UTA y
n altro moto perpetuo molto più facile deUi due precedenti per Via di trombe
che ahino l'aqua. figura, ^-'^^^P, lA il perpendicolo A B foilenuto con il Tuo
afse C Q^D ia KXiL ^^%>Sj1 duepoliCQ mobilmentej&al medefimoaflefiaimn.Q
bilmenre connefsavn afta leggiera, ma foda QJl, che penda all' in giù
neiriftefso modo che fa il perpend'colo A B 5 Al fine del medefimo afte in D
fia connefso vn_. braccio F E che faccia angoli retti con l'afse C D, et alle
parti cftremeE, &F fiano attaccati due piftoniI,&G i quali entrino in
dut«» trombe LkIjSiMHG, in modo che muouendofi il perpendicolo AB fi alzeranno,
et abbafserannoi detti piftoni G,I alzando laqua..-, ('incui rifuppongono
imerfele trombe ) peri canali HM,KL nel vafo foprapofto P F j nel qual vafo
farà vno fcifone N P O il lui braccio più corco NP arriui fino al fondo del
vafo, ma reftipero apertala bocca fua N, e l'altro braccio più lungo P O
penetri per il fondo del vafo, e ftia parimente aperto in O, e quefto fcifone
fia tanto alto in P dal fondodel vafo, che riempiendofi il vafo refti pieno
anch' efso, (1 che all'hora preponderando l'aqua del braccio O P incomJnci a
fcorrere fuori del vafo, e per confeguenza non cefserà di vfcireperla bocca Q
fin tanto,che il vafo non refti voto. Sotto la bocca O, per cui efse l'aqua
farà accomodata una ruota.», ST con le fue ale foftenuta in due poli XZ,&
equilibrata in modo che con facilità fi pofsa girare dall'impeto dell'aqua, che
cadcrà per lo fcifone fopraefsa ruota 3 la medefima ruota hauerà da vna parte
vn_* aletta S che fparga in fuori in tal modo, che girandofi la ruota vrti
nell* cftrema parte R dell'afta OR,laqual hafta cadendo nontrattenerà pero il
moto della ruota ; fi che fcguitera a girare fin tanto, che vi cade fopra
l'aqua : et anche dopo che l'aqua farà finita, la ruota per l'impeto già
concepito, girerà molte altre uolte prima di fermarfij e girandofi, urterà con
l'ala S nell'afta QR, e feguiterà a dare il moto al perpendicolo AB j e perche
il perpendicolo dopo che ha concepito l'impeto feguita a muouerfi molte uolte
da le ftefso, fi muouerà, e farà le fuc»* ondationi ancor dopo che farà fermata
la ruota j Si che dopo che farà yotatoiluafojC fcorfa tutta l'aqua per lo
fcifone fopra la ruota, fegui-^. terà terà ancor qualche tempo a muouerfi la
ruota, e finito anche il moto della ruota, feguiterà per qualche altro tempo il
moto del perpendicolo: ne quali due tempi s'alz.erà nuou'aqua nel vafo per
mezzo dcii«i^ trombe mofle dal perpendicolo : fi faccia dunque il vafo capace
folo di tant* aqua, quanta è quella, che fi alza in quelli due tempi ; dal chz^
feguiterà che, finito il moto del perpendicolo, refterà di nuouoil vafi>
pieno j e per confeguenza anche il Icifone N P O, onde incominciarà di nuouo a
fcorrereraqua perii fi:ifone,e darenuouo moto alla ruota, et al perpendicolo^ e
perche voglio che molto maggior copia di aqua_. efca dal vafo per il fcifonedi
quella che nel medefimo tempo, entra_, nel medefimo vafo per le trompe, finirà
ben fi di votarfi il vafo, ma non ce&rà pero fubito il moto della ruot:i,e
molto meno il moto del perpendicolo, onde in quello tv mpo di nuouo fi riempirà
il vafo^c tornerà a votarfi per di nuouo riempirfi, e cofi perpetuamente
cadendo l'aqu-i là,d'ondefi alzò. Che quefì:o moto fia per elTere perpetuo fé
io non m'inganno fi dimoftra facilmente : poiché eflendo molto maggiore la
quantità dclfaqua che difcende per lo fcifone,c cad^ fopra la ruota, di quella
ch^-* in vgual fpatio di tempo fi alza per le trombe j e cadendo dalla medenma
altezza, alla quale fi alza j farà fufficiente, ad alzare effa minore^*
quantità di aqua, mediante il moto della ruota, e del perpendicolo j al moto de
quali due, perche fi muouono liberamente fopra i fuoi poH,noa vien fatta altra
refiftenza, che quella del pefo deiraqua,chedeue falire perle trombe j eflendo
dunque queila molto meno pefante di quella, per confeguenza potrà cfler alzata
da lei : Di più ogni poca quantità di aqua, che afcenda per le trombe nel
vafo,dopo che farà rollato voto, farà ballante nellVfcirechefaràper
lofchifoneadarnuouo impeto al perpendicolo 5 in tal modo che pofla muouerfi, e
riempire di nuouo in breue tempo il vafo. Aggiongovn altro auuantaggio, che ci
nafce dalla forza della Icua; poiché fé noi faremo che Tafta QR fia molto più
lunga di quello, che ila il perpendicolo A Bjquefìi'afta urtata in R dalla
ruota hauerà forza dileuain ordine a muouere il perpendicolo,fi che con poca
refifl:enza della ruota farà mofso il perpendicolo . E fé bene eflendo il
perpendicolo più breue, più breui ancora faranno le ondationi,e per confeguéza
meno fi alzeranno i piftoni I, G, alzando minor quantità di aqua i;i ciafcuna
ondatione del perpendicolo: quefl:o difetto però fi rà ricompenfato dalla
maggior celerità, e frequenza delle medefimeondationi del perpendicolo : il
quale quanto è più breue tanto più predo compifceun ondatione 5 fi che
facendofiinciòla compenfatione,ci rimarrà anchora 88 anchora il primo
auiiantaggi'o del muouerfi più facilmente, e fare minor rcriilciìza al moto
della ruota . Aggiongafi anchora, che poca forza fi lichiedeper rimouere il
pefo B. dal Tuo centro, a cagione che non fi deuc alzare a perpendicolo, ma
obliquamente nel arco delle fueontiutiuni 5 quanto più dunque con l'aiuto della
leua, onde fi potrà fare il pendolo B molto pefante, e sì, che pofla aliare
molta più aqua. L'efìertofeguirà anche meglio, e s'intenderà maggiormente la
ragione di efib, fé in vece di fare vn fol vafo, in cui fi riceua l'aqua, che
fi lihs. dalle trombe, e da cui efce per muouerc la ruota, faremo due vali
ciiltinti AB,& EF IVno immediatamente fotto dall'altro, con due» icitoni
C,e D. Nel vafo di fopra entrerà l'aqua alzata dalle trombe, e quando farà
pieno incomincierà ad vfcire l'aqua per lo fcifone C, b:i'jbn!ì .7 À ...iiiv;?^
^., ^n )'uh'j. OHI Oim t:jirf 'yWXi' " 1 >i». ^Modo curio jo fatile, 0*
n)ù\ì[fimo di d'^fìilUre l'aria, e (onuertirU in aqua, con 'vn tnuentione di
fare fontane co pio fé in luoghi» ne quali non fi a alcuna forbente di aqua.
Auendomoftrato alcroueche l'aria particolarmente vicina alla terra è ripiena di
molti vaporijch^ altro non fono che aqua attenuata, e rarefatta dal calore
inminutifiìme particelle; non farà difficile il conuertirla di nuouoin_, aqua,
fé con l'arte fapremo imitare la natura, che fimilmente mediante la
condenfationeconuertei detti vapori in pioggia j fi come la natura con il
calore del Sole, o fotteraneo della terra rarefacendo i'aquala conuerte in
aria, e di nuouocon il freddo della feconda regione dell'aria,condenfando,i
medefimi uapori,li muta io., aqua; coli l'arte per mezzo di una
fimilccondcnfatione,conuertirà in aqua gl'ifte^ uapori prima attenuati
naturalmente dal caldo. . Prendali vn gran varfo di vetro ABC largo nella
fommità, \i quale fi vada reftringendo nel fondo.fmo a finire in vna punta,
come di ^^'*'** vn cono jia parte fupcriore A B fia aperta, fé no in
tutto,almeno in parte nel mezzo, con vna bocca D; e la parte inferiore (ìa
tutta vetro fenr, alcuna apertura . Si riempia quello vafo di neue,o d'\ giac-,
ciò in tempo di Eftate, ò almeno in luogo oue l'aria fia affai ca!da_:.; e
meglio riufcirà tenendolo efpofto al Sole; poiqhe l'aria, che iìi intorno fuori
del vafo, feutendo il freddo della neueficondenferà, e fiandra attaccando alla
fuperficie eilerna del vetro, per il quale_^ fcorrendo giùnella punta C fi diftillarà
in gaccie frequenti si, ch^^ collocandoui fotto vn vafo E, in poco tempo ne
raccoglieremo buona quantità, ejtantopiù, quanto faj-à maggiore, la grandezza
del. vafo A B,C.^^^*»^bn? ! • onToinri" -^l»'*^^^ • :- I'^l'OìD 'V
Queft'aqua farà molto leggiera, limpida, e falubre si, che TEf* tate ne potremo
bere fenza pericolo di riceuere nocumento ; anzi per cflere ripiena di fpiriti
ignei folarif quando fia diftillata, mentre l'aria èefpofta a raggi del Sole)
conferua, et aumenta il calore naturale; onde gì' EthicijO Tifici ne riccuono
gran giouamento; et Io ho coiiofciuto vna perfona, che già toccaua il terzo
grado di tale infermità; e 91 e perciò era difperata daMedicì,'c con bere per
molti giorni buo-i na quantità]di queft*aqua rifanòperfettsmente.Quefto
mcdefimo artificio può eflere molto vtilcjà quelli, che fi ricrouaflero in
penuria di aqua dolce per bere, 3c in molte altre occarioni,come ogn'vn vede.
Et acciòche alcuno non ilimaffcche queft'aqua foffe la neue liquefatta che
penetrafle per ilJvetrOjpelì riftcffa neueauanti èdopo,e ritrouerj, che non
farà fccmata di pcfo, fé 'non forfi alquanto per eflère ftata-» efpofta al
Solejmà non mai tanto,che compcnfi il pefo dell'aqua d'aria raccolta. per
conuertire maggiore quantità di aria in aqua,c fare vna Fontana copiofa in
luogo benché aridiffimo,e nelquale non fia alcuna vena di aqua, particolarmente
di Eftate,quando il bifogno di efla fuol effermaggiorcjfcieglieremo vn fito
efporto verfo il mczzodi,e fé folle alquato eleuatoin vna collina,©
monte,farebbe migliorc,c quini fca» ueremo fotto terra vna grsn camera, la
quale habbia vna fola bocca, e quella non molto grande, e riuoltata verfo il
mezodìj ma lo fcauamento della camera non douràefler fatto immediatamente
vicino all'aria j anzi fi dourà prima incominciare vna caua larga cinque, o
F/^«r^ {ci bracci, la quale fi vada reftringendo fino alla bocca della camera;
XX\\ equeftaboccanonfia piùlargadivn braccio,e mei2o,o duej pofcia nella parte
più a dentro fcauercmo vn gran vafo a modo di vna camera, come dimoftra la
figura^ poiché in tal modo l'aria, che entri^ calda, e rarefatta dal mezzo dì
per la bocca AB nel fito grande fcauatoC fi condenferà dal freddo fotterraneo,
et aitaccandofi d*. ognV intorno i vapori condenfati,goccicranno dalla fommità
nel fondo D copiofamente si, che ogni giorno fi potranno cauar fuori molti
fecchij d'aqua per il canale D E, o in altro modo 5 e tanto maggior copia
d*aqua haueremo, quanto laflagione farà piQ calda, e l'aria maggiormente
percofsa dal Sole, a proportione della grandezza della camera C 5 poiché quanto
più grande ella farà, tanto maggior quantità di vapori conuertirà in aqua j et
acciò il freddo, che deue condenfare Taria fia maggiore, fi donerà, come dilli,
fare molto profonda, et inoltrata» nella collina,cioè lontana dalla prima
apertura più larga B. i Giouerà anchoraveftirla d'intorno di pietre fredde ed*
vmidé, Ì qualiper natura fua fiancarti ad attraerel'vmidità, come quelle che
fono imbeuute di fpiriti minerali, e particolarmente falnitrarli ; onde fi
potrà ancora artificiofamentc dare vna tal qualità a dette pietre, ac» ciò più
facilmente facciano l'eHetto, di condenfare i vapori io aqua_. f^ incroftando
la parte inferiore D che deue riceuer l'aqua come fi fuole nelle cifterne,
acciò non penetri per la terra, e fi perda. 1 £nv o3ub; .:4 Qucfì' 93
Queft'aqua farà purgata, e falubre poco meno della già detta di fo pra, onde fc
ne potrà bere a fatictà : e farà baftante per l'vfo quotidiano almeno di vna
famiglia, et anche di più quando fi faccia m luogo, e fito opportuno con le
diligerne accennate. E di ciò io ne ho veduta-. rifpericnza,e di fimil aqua
hobeuuto più volte: il cheogn*vn vede quanto fia per cfl'er gioueuolea molti in
luoghi penuriofide aque; oarticolarmcnte perche quando s' inaridifcono i powi .
E fi votano le ci^ fterne a cagione della ftagione
caIda,&afciutta,airhorapiu che mai copiofa farà quella fontana jpercioche
in tal tempo maggiore è la copia de vapori, che il calor del fole folleua
nell'aria ^ fi che quell'aqua, checifù rubbata dal fole conuertcndola in aria,
faremo che fia forzato a reftituircela molto più purgata, e falu^ tcuole.
C^cfìia inucntione parimente può liberare tal' hora vna città dall'afledio; nel
quale tagliati, come fuol farfi, i condotti dell'aqua, farebbe forzata ad
arrenderfi,fe fi feruiràdi qucfto noftro rimedio. 5riDD: •yj^qd zup: \h:: ~r ■A
ih 03 A a L'érU maej^r^ d' agricoltura infegna a moUi^licare il raccolto delle
femen'^e. L raccogliere dalle femenze frutto copiofo, non depende in tal
maniera della natura, che le produce, che non dcpenda anche molto dall'arte,
che con applicare le caufc a greffètti proportionati, auualora le forze della
natura medefima, di cui è ferua, e miniftra, Ne parlo io qui fole dell'arte
dcll'agricokurajdi cui hanno fcritto, Varrone,Colutnelia, Palladio, Crelcentio,
Herrera, il Gallo, et altri, la quale è già fatta triuiale, e
ripratticacommunemente^maparlodi qu,eUa>che con modi più reconditi emulando
la natura la necedìta a produrre frutti non ordinari], e molto più copiofidi
quelli, che ad ogn'hora fi fogliono raccogliere. Di quefta, che chiamo arte
maeftra d'agricoltura,difcorrerò lungamente a fuo luogo : in tanto per darne
alcun faggio voglio accennare il modo di fare che ilgrano,e l'altre femenze
ordinarie multiplichino copiofamentejC diano frutto fé non centuplicato, almeno
molto abbondante, Deuefi dunque fapere che, come moftrerò altroue, tutta la
virtù gcneratiua particolarmente de vegetabili confifte nel fale di e(lì, dal
quale depende l'organizatione delle parti, et è formatrice dell'embrione: il
quale pofcia viene nutrito,& allattato da gl'elementi, ma principalmente
dalia ruggiada, che cade la notte, 6C. é il latte più falutteuolc,cho
auidamente fi fucchia dalle biade afletate," per il calore del giorno •
Eforfihebbe iiguardo a ciò quella benedittionc di Giacobbe Det tihi Deus de
rore c^i/, Cp'»\ '•''^-'-^'j^ ^^ Quefto è quanto mi è paruto di douere
accennare in quefta materia, riferuandomi molte cofevtiliècuriofe appartenenti
or. all'Agricoltura e ircà^gl*irvefti,leviti,fiori, e frutti,quaU -i: paleferò
nell'Arte Maeftra al fuo luogo proprioj doue anche moftrerò in qual modo fi
pofla ♦ >in pochehore far nafccre ogni vege tabile, e raccoglierne il frutto
poche hore dopo che fi 3 farà feminato. ^ Jf, lil jcsA ì ni lìoq ib '• oi?fn
?/>?oi ib 2rr; • Ci'. nicoun-ignoiggte Ji iiJiiiJt)! óiyq ^zn-Sì. :uqof; Ol'
ìbùn'r t-^k US uì TlktV^S^ fi 'f I ir; :>aoi§ci ^fSS^^^A
•'^•'"i"^^-' *"' ''J^f-^ ^ -» or, .,; ♦.jj'j'aficlv fi «
-inrsii, p4r ndfcere quéil fi 'vp^lia fiore, e frutto in vn 'V^fo di vetro
fenz^a ftmenz^a. ^^^it/.èi vJ -fti C c Capo taoB .siriD ilbb ifnte*ibb
5lf:i5n:>D -iin^nsT iioH'tis iinor> oirnsDOOnC aì [: i^r-«i
/'^''«'«I^I^Sp^^I^ iàccia vna lucerna, di cui la part&rcibtrriceue in fc
l'oglio XXl^li ^\%^SI' ^*^ ^^ farma d'vna colonnetta,:come fi vede nella figura
!'p;;..efrexeU colonna, ocilindifo A Ji chiufo nella parte di i. r:fopr^,eper
ogni luogo fìijche non.vipolTa entrar den.i ! tro ana, tettando aperto folo
nelfondo con vna particella C per Ia.,q,ualeefica. l'oglio neJi*anneflbvafoCL incuiftàlolloppinojche
arde in Li«j€0«^uniaTidoi'oglio fa chevadi difcendendo nel cilindro a pocoapoco
vniforniemeBce nella parte anteriore CE della lucerna fia vn altEO-piccolo
cilindretto, o^-fimile ricetracoloj nella parte fuperiore del quale fia vna girella
IK-con ilfuo afìe EF chi-» habbiaanncfib vna freccia, o iindi^lc per
moftrarl'horefegnate intorno alla ruota GHjciò fatto fi ponga nella colonna AB
Toglio con vn-. pe7.zo di fuuaro, o altro corpo leggiero D che nuoti fopra
l'oglio, a cui fia legata vna funicella fottilc D CI k M, la quale fune pafli
fopra la girella IK,e neireftremo habbiaconnellb vn pefoM,ma non tanto greue
che pofla far difcendere il fuuaro D, il quale galleggierà fempre fopra
l'oglio, e quefto difcendendo con il confumarfi difcenderà anche il pefo Ni,
che con la funicella farà girare la girella IKjCol* indice E F, che moftrerà
l'hore. Deuefi dunque auucrtiredi fare la grandezza della girella
Ik,proportionataal difcendere dell'oglio, e del fuuaro D. oiferuando quan* to
difcendein vnhora, accio la girellai K, col* indice fi muoua ordinatamente. Si
deue auuertire ancora di mettere la ftbppino fempre della medefimagrolTc'zzaje
deiriikfso numero defili, acciò fempre l'oglio fi confumi vniformemente nella
fommità della lucerna fi potrà metter vna_# vite A, che chiuda perfettamente il
buco, per il quale fi mette l'oglio; benché quefto fi può anche mettere per la
portella C riuoltando fottofopra la lucerna. Notifi anche, che fé fi poteffe
accomodare in modo l'afse della girella I k dentro la colonnetta A B, che
pcnetrafse fuori per vn forame tanto,addattato,che riempiuto totalmente
dall'afsenon dafse adito all' aria 103 aria per penetrare nella colonna, fi
potrebbe accomodare il tutto fen za l'altra colonnetta,© ricettacolo IMC; ma
tuttofi potrebbe mette; e nella colonna A B^ e ciò in moki modi facendola
moftra dell'horead vn latOjOueroin cima alla colonna nel piano fuperiore di
efsa, ma perche Te vi entrafse aria Toglio caderebbe fijbito tutto a bafso ; et
è diffìcile forare k lucerna in modo, che l'afse fi giri nel forame fenza dar
adito all'aria, perciò habbiamoftimato più ifpedientc, e ficuro il modo fopra
defcritto. Si potrebbe ajicora aggiongere alla moftra vna ruota dentata, che
iacefse batter le hore come ognuno può facilmente uedere ; ma per far battere
le hore dentro allamedefima lucerna potremo fare in quefta juaniera . Dentro
alla colonna nella circonfereiìza interiore, difporemo un canale aperto nella
parte fuperiore,attoa foftenere una palla di legnOschedifcendaperefib canale
fatto a fpira,cioèamodQ di uite intorno ad efla colonna j quefta palla
galleggiando fopra l'oglio, andrà difcendendo per il canale in giror'fia dunque
accomodato in modo che dopo vn bora habbia fatto vn giro intiero, et arriuata
al fine di eftb la palla vrti nel manico j onero afta di una molla fi, che
alzandofi quefta lafci trafcorrere vna ruota con il fuo contrapefo, come fono
quelle delli oriuoli a ruota, che fanno fonare le hore j a cui fia addatta^ to
vn ma,rtelletto, che batta vn campanello pofto nella fommità della lucerna 5 e
cofi fucceftìuamente cojmpito l'altro giro, la palla faccia il medefimo cftctto
di far fonare Infeconda bora, e poi lctre,quattro&:c. In qtial modo chi
camtna in carrozjZj^, ouero nauig^ per aqtta pofs^ [^f^^i h f»k^t^ 4^^ 'Viario
fstto» ^«(•^ ^^^l^g Vefta inuentione bene he fia accennata da VitruuiOj egli
XXVinllj^^^® però parla fi ofcuramente che io non ho ritrouato alcu fefe^SJ no:
il quale l'habbia fapuca interpretare ; onde mi è par SSJI'ìS fpiegarla in
quefto luogo come cofa nuoua.*fé non in foftanza, almeno in ordine
aireifettOjdeireflc* re bene intefa,e pratticata. Si mifuri il giro di vna
ruota del carro, o carezza, e fia per efempio di I o. piedi, cioè di due paflì
^ all'afle di quefta ruota A B, come fi vede nella figura, fia vn dente C.
fopra all'afTe fia vna ruota di 5 o. denti C D, et airaile I E fia vnito vn
dente E che morda vna ruota dentata E F, che farà la moftra del viaggio diuifa
per efempio in 12. parti, e ciafcuna diefse parti habbia io. denti, che faranno
in tutto 1 20. Nel centro G fia vna freccia immobile, che moftri il numero
delle miglia.. ? Impcrocheogni giro della ruota AB, cioè ogni due pafli di
viaggio fi promouerà vn dente della ruota C D mediante il dente C, et hauendo
quefta ruota 50. denti, dopo cento pafiì di viaggio la ruota C D haurà fatto vn
giro intiero, e per confeguenza mediante il dente E haurà promofso vn dente
della moftra EFj &erscndo dieci denti da vn numero ali* altro, dopo dieci
giri della ruota CD cioè dopo mille paflì, che ■ fono vn miglio, farà promofsa
vn fegno intiero la moftra E F,e la freccia moftreràil principio del numero II.
che prima moftraua il principio del I. Nel medefimo modo fi può operare
naulgando per aquife fi feruiremo di vna ruota colle ale fimilja quelle delle
ruote demoHni,Ic quali con il moto della naue vrtando nell'aqua facciano girare
la ruota,che farà in vece della ruota A B, fi che tutto l'artificio confifte in
fare, che il giro della prima ruota, che corrifponde alla quantità del
uiaggio,fia multiplicatoa proportione delle altre due ruote CD, et EFj il che
fi può fi^rc in più maniere, gome ognVno uede. L'Arti Maejlra di (Chimica
mofira la tramutatione ie** Metaltt j ^ addita la firada pir ritrouare la
^Pietra FilofofaU, fi' Qon il modo dì fare le vere Quinte Efsenze, j»'Pg E
Operationi appartenenti alla Chimica non confiftor !6§W folamente^'come rtimano
alcuni) nella tramutatione. . V^lpl de Metalli, poiché ella è vn arte molto
piii vniuerfah -w ^ÉH^ lacuale in certo modo abbraccia anche la Mcdicinf^ o
almeno le gì accolta molto da vicmo per aiutarla-, . e fi può definire efsere
vn'arte, la quale rifoluendo, e riducendt^ tutti i corpi mifti nèfuoi primi
clementi, va rintracciando la natura d effi,cfeparando il purodairimpuro,edi
quello fi ferue a perfcttiona-" ve i medefimi corpi, et anche a tramutare
vn corpo in vn altro. _] Dalla quale definitione rclìa manifefto quanto
ampiamente fi ftendrf lachimica per tutte le forti de corpi naturalijdi cui
quella p;. ite, c"hl[* s'afpetta alli foli Metalli, ha il fuo proprio nome
di Alchimia, prcft" dal vocabolo Greco, che fignitìca Su^o di Sale;
Imperciòche ncllt fpirito fugofodel Sale rificde tutta la virtiì,&
efficacia de corpi miili" La Chimica poi vien detta ancora Spagirica dal
verbo Greco . . che vai quanto dire,fciegliere, ejfeparare ; poiché come fi è
d-tcv, fepara l'inipurOjC fciegliere il puro, Altri la chiamarono cabbala
perche anticamente fi cómunicaua da Padri alli figliuoli f jlim/ntr in voce,
propagandofi à pofteri non per hiftoria, ma per fempHc!! rraditione. Altri
finalment lì diedero nome di Sapienza ; perche nO;^ (cnza ragione (limarono
impoflibile, fcnza tal arte ii poterconofcer ' perfettamente Ja natura, e 'ic
vii tu de corpi naturali. " ^'Pcr ojongere al fine da loro pi^tefo, ch'è
il perfettionarc i. cor. con la leparacione dei puro dairimp'.:io,effcrcirano i
Chimici vari'., operationi, lequali tutte fi poiTono ridurre a Tei (òrti,che
fono le pri " cipali.La prima èVà CaUinatìone con la quale i corpnl
riduco'io in calce, onero in cenere . La fecondali chiama ^olun'one^ con cui '
difsoluono nell'vmidoi corpi gii calcinati. La."terzaèla DiUiìLuo^
mediante laquale fi purg3,e fi rettifica l'vmido già diffoluro, con. di{i{
""^ liarìo vna o p]H volte;. La quarta vien detta
Putrejaiuone^con'ìdi c.u\ 10^ fi difpongono icorpi,acciò facilmente fi pofTano
fcparare le parti pure dairimpure,che fono inei?ì mefcolatc. La quinta
chianiafi Suùli. tnaticne, per mezzo della qtjalc le parti più fottìi i,
fpiritofe,c volatili fono forzate a falire in altoj acciò in tal modo fi feparino
dalle parti pili ftfse, che rimangono nel fondo del vafojda cui fi fa la
fublinutione. La lefta finalmente è l'vnione delle parti pure fpirìtofe, e
volatili con le parti fimilmente puTe,ma fifse; acciò tutte infieme vnendofi fi
coagulinoje dìuenohinotìfse jonde vien chiamata ConguUtione ^ «^ JFifsatione ',
polche in tal modo le parti pure feparate dall'impure, ancorché altre iìano
volatili, altre fifse fi vnifcono però infieme amicheuolmente,e fi
congiongonocon vnfiifoj& indiflblubile legame, et all*hora aquiftano virtù,
merauigliofc, et efficaciflìme ncll'operare j la doue primOjtale efficacia di
operationiveniua impedita dalle parti impure, nelle quali ftauano come
imprigionate, e legate. Nel che fi deue auuertire ( come diffufamente
difcorrerò nell'Arto Maeftra, trattando delliElerpenti, conforme la Filofofia
de Chimici) che tutti li mifti da quelVarte fi fcoprono eifer comporti di
cinque»^ fjrti di foftanza 3 due forti di foftanza impura, cioè, del tutto
morta, e fenza alcuna virtùjO proprietà efficace all'operare^ e credi follanza
pura, nelle quali è pofta tutta la forza, et virtuofa efficacia propria
diciafcunmifto; di quefte due l'vna fi chiama flemma,che è quanto direvna
foftanza aqueafenzaaicnn' odore, o fapore; l'altra fi chiama capo morto,e terra
dannata, cioè, vna foflanz,a terrea parimente fenxa alcun fapore,efenza alcuna
virtù: Dell'altre tré poi l'vria fi chiama-. fale,&clj fofìianza più
fiiTa,cosi detta perche refifte ad ogni violenza di fuoco,ne fi diftiugge, ne
vola,o fuaniflfe per l'aria j la feconda vien detta oglio,oucro folfo, perche a
fimilitudine di efiTi è pingue,e vifcofa; la terza chiamafi fpirito, perche è
più di tutte l'altre fpiritofa,e volatilej& ogni benché minimo calore la
didìparebbe per raria,fe non_. fofle vnitacQnilfale,cheèIa parte fifìfa,
mediante foglio, che perciò è. di fua natura tenace, e vifcido,atto a legare il
volatile con il fido» Quefte tre forti di foftanza pura fono quelle, che con
altri molti nomi fi chiamano, corpo,anima,fpi rito j amaro, dolce, acido ifale,foIfo,
mercurio, &c.Et in efle fole è pofta tutta la virtù,& efficacia delli
minerali delli vegetabili, e delli animali j con tuttoché incialcun mifto la_*
quantità della foftanza pura, in paragone dell'impura, fia meno— mifTìma. Ciò
fi vedrà manifeftamente fé prenderemo afare,dirò cosi,vna_. diligente anotomia
di alcun mifto,pereflempio delle rofe. Prenderemo dunque gran quantità di fofe
frefche, e fiorite, colte nel leuar del I07 del fole, quando fono anchor
ruggiadofc,cfubitopcfl:ate in vnmortaj-o di pietra, le metteremo in vafiditerra
vetriati, e coprendole molto bène, le Jafcieremo macerare, e putrefare fin
tanto che uedremo, e Tenti remo dall'odore efferfi inacidite ; il che farà dopo
dodici, o quindici giornii Scacciò meglio fi difpongano alla fcparatione del
puro dall'impuro, ui aggiongeremo da principio una poca quantità di fale, o
cremore di tartaro j poiché quefto penetrando incide, ediuide le foftan^e
eterogenee j onde poi più facilmente Tuna fifepara dall'altra • Dopo
queftaputrefattione prenderemo una quintale fettima parte dì dette rofe,e
pofteinuafodi uetrolediftillaremoa Bagno maria, ouero 2 bagno uaporofo/l'aqua
chenediftillerà la rimetteremo fopra uil. altra parte di rofeC liferuando però
da parte le già diftillate,nellt-* quali rimane anchor l'oglio, ed' il fale ) e
quefte dirtilieremo al medefimo modo cauandone i'aqua foprapollaui, et anche di
più quella, che in fé contengono : quale di nuouo rimetteremo fopra altre rofe,
et in-. tal modo hauercmo tutta l'aqua rettificata, e pura i nella quale fi
contengono gli fpiriti, cioè la parte più fottile,e uolatilc : che conuienc»/
feparare dalla flemma, cioè dalla foftanz.a aquea in quefto modo: metteremo
tutta queft'aqua,o parte di efia in vn vafo di vetro, cioè in-, vna boccia con
il colio alto afl'ai,efpoftoui fopra il fuo capello, con il recipiente luteremo
benidimole gionture : poi a fuoco Icogieriflimo di cenere ne caucremogli
fpiriti,reltando la fléma nel vafo,che come m >teria più grolla ed
impura,non potrà co poco calore afcenderc tanc'alto. Ma perche nuUadimeno
fempre afccnde buona parte di flemma più fottiÌe,c leggiera perciò
rettificarcmo il già diftillato,diftilIandolo,di nuouo in vafo non men alto del
primo, e con calore più moderato, nel modo che fi fa conlofpiritodi vino,
pigliando folo quello, che afcende più facilmente, e ciò replicando più volte;
poiché alla fine hiueremo benfi vna piccola parte di tutta quella foftanz,a
liquida, ma clla^ ixrì tutta fpiriti il che fi conofcerà non folo da vn
frag^rantiffimo odore, che fpargerafi per tutta vna ftanzacon folo aprire
iìvafo; ma anche perche auuicinatogli vn lume, arderà tutta nel modo, che fi
l'aqua vi?^ più fina. Conferueremo dunque quefta parte fpiritofa,,chepcrfefoìa
ha infinite virtù, j e l'altra maggior parte, eh* è la flemn^a, la gettarc-mo
fopra le rofe già diftillate,aggiongendoui anche alcr'aqua rofa, ofl^-pa■ ma
fimile per cauar da cflè rofe l'oglio ; il che fi farà diftillando a fuoco di
ccnerijcon calore alquanto galiardo; poiché in tal modo difìillarà infieme con
la detta flemma anche l'oglio, il quale via via lì andrà da fé fteflb
fcparando, e nuoterà in cima alla flemma in coloraureo,. e bcnchcla quantità di
quefto faràpochiftìma, cioè vn oncia incirca, a poco Jo8 poco più per ogni pefo
di rofe, et ynafola quinta parte dello rpirito ludetto, hauràperò maggior virtù
dello fpirito medefimoje di tutto il rimanente . Si fepari dunque ; e fi
conferui l'oglio da per fé, et anche la flemma: poi s'abbrugino le rofe rcftate
nel vafo, dalle quali fi è già cauato l'oglio, e lo fpirito j e
ncil'abbrugiarle fé gl'aggionga vn poco di folfo ; ridotte che faranno in
cenere, fé le dia fuoco gagliardo acciò diuenti bianchinfima; Quella cenerefi
ponga in vafo di vetro, o di tew ra ben vetriata, e fé le metta fopra la flemma
fudetta j poi fi faccia bollire molto bene, fin che la flemma habbia cauato
dalle ceneri il iale : All'hora fi coli
percartaemporetica,efimettaadiftiIlare,e fenecaui la flemma: e refterà il fale
puro nel fondo del vafo : le ceneri fi calcinino di nuouoa fuoco gagliardo di
reuerbero,edi nuouofìfaccino bollire con la flemma : poiché qucfl:a cauerà
dell'altro fale; e qucfta operationefi replicherà più volte, fin chele ceneri
rcftino del tutto priue di fale: cquefìefonola terra dannata, cioè la fofì:anxa
terrea impura; fi che farà terminata tutta la feparatione delle parti pure
fpirito, ogh'o,' e fale, dalle parti impure cioè dalla flemma aquci,edcilla
terra dannata,© capo morto. Ma fé il fale non fofie puriflìmo, per farlo tale,
fi folua di nuouo nella flemma,fi coli, e fi congeli con farla euaporarc, o
difl:illare, e quefta folutionc, e congelatione fi replichi più volte, et
haueremo vn fale purismo in minor quantità dell'oglio, ma di maggiore virtù.
Qdcilc tre pure foftanze ciafcuna da per fé fono efficaci flliTie: ma molto più
fé fi vniranno infieme, formando vnà Quinta elTenra, il che fi fa in quefta
maniera :Pongafi il fale puro in vn vafo di vetro col collo affai'
Jungo,epoftoa moderatiffimo calore fé «li ponga fopra vna parte di
oglio;continuifiil calore con il vafobenchiufo,(ìno che fia l'oglio
perfettamente vnito al fale, poi fi aggionga vna altra parte di oglio, e fi
continuiladecottione, ecofia poco a poco fin tanto, che tutto i^ogiio fiafiben
incorporato,&abbracciatocon il fale: all'hora fi aggionga parte dello fpirito,
e fi operi via via lentamenre nel medefimo modo che fi è tenuto con l'oglio j
poiché cofi quelle tre foftanzc pure del fale, ogiio, e fpirito fi
abbraccieranno infieme con vn vincolo indiflblubile talmente, che ninnartele
potrà più fepa rare, e germoglieranno da fé medefime in rofe benché chiufe in
uafi di uetro, operando prodigi in' medicina*,-.«..ì.jìì^ *.i- ^u>ì -ii.qoi
Da ciò fi vede come la Chimica rifoluai córpi'ne iìiòi pirmi priti-'
cipij,& elementi,faccndone anatomia, in ordirle a conofcere le quialità '
poi che ciò che fi è detto delle rofe vale di tutti gl'alti-i vegetabili j E
anche delli animali,c dclli minerali; benché in quefti fia più difficile li
feparatione della materia pura dali*inipura,e fi richiedcano diuerf«->^^ opc
ìo9 ope'rationi ; delle quali diicorrcremo altrouc ; e fi vede parimente ifi_.
qualmodofi facciano le vere quinte eflen/.c, le quali alerò non fono, che
vnafollanza pura liberata da ogni materia impura, e che eflfendo prima diuifii
intrediucrfe fodanzc, fi fapoivna fola con vn vincolo indifiblubiie di tutte
tré. Ma ricorniamo alle opcrationi de Chimici in ordine alla tramutatione de
metalli j per le quali innumerabili fono grinftrumenti, che.-» adoprano tanto
Vafi, quanto Fornelli, eoa i quali benché facciano molte cofe vtili alia
Medicina j in ordine però alla Pietra Filofofica_,, fé conofccflero la vera
ilrada per la quale imitando la natura si de caminare, lafciarebbero da parte
tante ftorEe,Iambichi, Vafi circulatorij, oui FiÌofofifici,Vafi di Ermete,
forni d'Atanor, forni otiofi, di fafione, di r!uerbero,dicalcinatioae, di
digeftione, e che so io 5 ne fi feruirebbero di alcun fuoco violento,con cui
vanno in fumo i denari, e le fperanze di nioiti,refi:andogli la fola caligine
nel volto, e la triftezza nell'animo d'hauer coni mantici foffiato viadal
cruciuolo il mercurio, e I*crodallaborfajmentre pazzi credono alNume delle
bugiejeftimano che vn Dio de ladri uà per arricchirli. Ducpoifonoleihade
perlcquali procede la Chimica, in ordin,; .a òi n'incontro volendo tramutare il
piombo in argento vino, fi metterà il piombo invnvafo di terra, che non fu
vetriato, ma molto ben lutato ; vi fi mette lopra il cape]lo,nella parte
fuprema del quale fia vn piccolo forame, e fcglVnifce vn gran recipiente, in.
cui fia buona quantità di aqua ; fi colloca fopra vn fornello à vento,e quando
dal fupremo forame predetto incomincia ad vfcire il fumo,fubito fi chiude con
diligcnra,efiaccrefce il fuoco potentemente j poiché in tal modo il piombo fi
difilla conuertito in argento viuojmadavna libra di piombo non fi caua più di
quattro oncie d'argento, viuo . . ^^^u ^.y, ^ ^ Ouero piglia calce di piombo,
fatta come fòpra con ilfale,o falnìtro, gettala in aqua bollente, fi che la
calce deponga tutto il falt-^j poi feccatafi metta in aqua di fale armoniaco difloluto^
in cui fia alquanto di cake di fcorze d'ouo, e chiufa ogni cofa in vafo di
vctr© fifepelifcafottoiJ fimo per i^.giorni^e ritrouerafsi il piombo mutato in
argento vino» :L^c?ì! ; '-'-;' /^rr-y}} li 023!J.'": ., Ff Tir.
TRAMVTATIONE P tD/ SitAgno in aArgcnto, Rendafi vn poco di ftagno d'Inghilterra
fino,e purgato, fi chiuda invna palla di creta tenace, cioè, fi luti tutto
d'intorno la ftagno con luto fortiIIìmo,che non crepi al fuoco. Poi fi
Hqucfaccia vna buona quantità di argento in vn crogiuolo; all'hora fi metta la
palla di cicta,ofia (lagno lutato, e prima ben caldo, acciò non crcpi dentro
Targento; et acciò fi fommerga nell'argentoliqucfatto,convn ferro vi fi prema
dentro a poco a poco, e vi fi tenga immerfo per meno quarto d*hora incirca; fi
leui il luto, e ritrouerafli lo ftacrno mutato in vero argento; mafiauuerta,che
quell'argento in cui fu immcrfa la palla refta talmente infettato da maligni
vapori dello fl:agno,che poi purgandolo, e copellandoIo,fe ne perde altre
tanto,e più di quello che fi è guadagnato; non rcfta però che quefta non fia
vera tramutatione, poiché non fi può dire, che lo ftagno penetri per la creta
nell'argento, ne che l'argento penetri ou' era lo ftagnoj ma il folo odore
dell'argento comunicato allo ftagno penetrando lo muta in argento,e l'argento
vicendeuolmente riceuendo i va pori dello ftagno refta infettato da quelli;
onde chi ritrouaffcjil modo di riparare quefto danno con purgar prima lo ftagno
da quelli alici maligni, ò eoa aggiongere all'argento alcuna cofa,chc rcprimefse
tali vapori, hauerebbe vn gran fegrcto. TRAMVTATIONE r -1 .1 D*QAr gerito viua
in vero Argenta . • .-t /-» o P Rendafi del Minio,ouero altra calce di piombo;
fi mcfcoli con eflaCinabro,ouero argento viuo,e Solfo, de quali fi compone
ilCinabrojfi metta in crogiuolo, e fé gli dia fuoco prima moderato, ma quando
comincia à fumare, e volar via Targcnto viuo con il folfo,fe gli dia fuoco
potentiftìrao ; reftarà confumato tutto il folfo,eIa maggior parte dell'argento
viuo,reftando nel crogiuolo il piombo, il quale fé fi metterà alla copella,
confumato che fia, reftcrà qualche parte di argento, ma non tanta che l'opera
fia compenfata dal guadagno., % Quefta,& altre fimili fperienzehò
prouate,& vedute con gli occhi chi miei, onde non mi rimane alcun dubbio
intorno alla poiTibilid della tramutatione de metalli: Refta ch'cflaminiamo vn
altra che fi ftiaia tramutatione di ferro in rame, TRAMVTATIONE di ferro in
rame, SI prendano laftre di ferro, e fi pongano in aqua vctriolata, nella quale
ftandoimmerfefi irruginifconojfirada quella rugine,che farà poluerc roifa,!!
fonda in vn crogiuolo, e troueradì effer^-r rame perfetto. Quindi fanno il
medefimo effetto alcune aque ch^-» naturalmente fono vetriolate, perche paffano
per miniere di vetriolo; come fono quelle di vn fonte non molto lontano da
Leiden, e di vn altro appreflbilCaftclloSmolentzchi della Mofcouia; Del quale
Giorgio Agricola Lik ^. de natura foffìlium dice quefte parole;
Expuieoextrahimr atjuay ^..,:. '^i^^ì 'j^ai^m^ÙB cij^nz^ Aggiongo, cheDio perla
Prouidenw, che ha' Ù^r^ìffi^m^.h\h:, mane non deue facilmente.
pcirinecter.e,,;ch,qiOiQltia!qiii{yjn^,qtìe^*»>; art«,e
particolarmcnteiiPjenjci.pi gfandija:ehfifi ^(geifltp^tefe^'ei
cA't?à'a)^ter€Q!n a chi più li pia(;e,non'perme^9r>d0r; pwomaÌ€hefifascci;atCQmune:.3:tmiolti
.. Aggioflgafijcbe-ai cioreoftr., cQirre il pericoloni Qhi, la pofl[4edLe>fe
peraiiuemura fijrifapfta>«:diC(Hmalarla, .0 z^? i.nc::^'b " • r Sì-ì r
ijii! '••^-Yir/.| Hor per direalcuna cofa del modo,chc fiha à tenere per aqui»,
ftarla jfi de* auuertiie,anzi tenct per fermo, ch'ella tutti» cplìjQ/le ìa
(puerili due precetti, che. commuaemente danaoi maeftn^ f^ j InxHmfiat
n/olatflii; ^ iterftm/VQlaitile fiat fìxum : E voglioBKir dire,. chr dall'oro
oéairargenta fi- Qawi la femcnza, difsolueado l'oro, o 1' e*.-: Gg argen uà
ar»cnco,che fono corpi fifìfìjC permanenti alfuòcov perilche è aeceflario
ch'cfib meftruo,e liquore apra i pori dell'oro, e vi penetri dentro
amiche«olmente, feparando eflTa foftanzi vmida dall'altre parti pura, ed illefa
; e per confeguenia il mef— iruojfe ha ad operare in quello
modo,conuienejchefiavna foftanza tenuiffìma,acciò pofta entrare peri
fottiliftìmi pori dell'oro; ed in oltre congenca all'anima medefima dell'Oro,
acciò non Toffenda,nela diftrugga,maamicheuolmcnte,e fimpaticamente penetrando
fi vnifca con elf3,e la fepari dall'altre parti; In tal modoqucfta foftanza,
che vnita prima alle parti impure reftaua fifia, e pertinace al fuoco, slegata
da efle diuenta volatile, et a fuoco leggiero afcende, ediftilla per il Lambicco,
come più d'vna volta io ftcfso ho vedut» per ifperienza. E quefto è il far
diuentar volatile quello ch'era fifTo, nel che ftimafi efsere la maggiore
difficoltà di tutte l'altre» talmente, che afserifcono comunemente eftere più
difficile il diftruggere l'orOjche il farlo,' poiché quando alcuno habbia ri
trouato quello meftruo, e ridotto l'oro in prima materia, diftruggendolo coii_p
mantenere intatta lafua anima, onero Temenza, riefce facile l'adempire il
fecondo precetto, che confitte in fifsare di nuouo queft'ani ma> 119 ma, che
di fifsa è ftata fatta volatile, il che fi fa in quefto modo. Pigliali Oro
finifsimo, fi riduce in calce, cioè, in poluere impalpabile rubicondifsima,
ilchefi fa in molti modi, come diremo aitroue, ma particolarmente diftillandoli
d'addofso più volte Targento viuo prima purgatifsimo » Sopra quefta calce di
oro purifsima, fi va mettendo a poco a poco la fopradetta anima, ò fia fcmenra,
ò prima materia di oro, tenendola in vn calore moderatifsimo dentro vn vafo
figillato ermeticamente j quella imbibitioncjche chiamano inceratione, fi dee
continuare fintanto che la calce d'oro non poffa più bere altr'anima, il che
farà dopoché vna parte ne hauerà beuutecinque,piìì ò meno conforme farà più ò
meno pura j in quefto modoqueiranima,ch'cra volatile, vnita a poco a poco con
il corpo fifsoanch'efsafivà fifsando, ma fi de'auuertire diligentemente
d'inftillarla a poco a poco,lafciando fifsare la prima parte, auanci che fi
aggionga l'altra ^altramente in vece di fifsarfi farebbe diuenrar"^
volatile anche la parte fifsa, cioè, la calce fudetta j cosi refta nutrita
l'infante come parlano i Chimici, per poi pigliar forze, e coronarfi monarca di
tutti i metalli; il che fa mentre fi va continuando, ^ accrefcendo
graduatamente il calore, fin tanto,che la materia diuentirubicondifsimacomc vn
rubino, s'ella è pietra fatta con l'animi.. diOro,ouero candidifsima come vna
perla s'ella e pietra fatta eoa l'anima d'argento. Et all'hora quefta pietra
non teme più alcuna^* violenia di fuoco, anz.i da cfso piglia maggior vigore,
che però la chiamano Salamandra . Efscndochc dunque in quefta pietra cinque
parti di foftanza feminale purifsima fono perfettamente vnite ad vna foia parte
di Oro puro, come cinque anime in vn fol corpo; ella_» aquifta virtù di moIti.p.'icarc,e
produrre frutti copiofi sì, che vna fola parte può tramutare cento, et anche
mille,e più parti di altri Metalli imperfecti j non può già perù tal virtù
moltiplicatiua crefcereiiL-. infinito, come afserifcono communemente ; ma della
moltiplicatione della Pietra in virtù, ed in quantità parlerò altroue. Refta
dunque folo di ritrouare vn meftruo proportionaro alla folutÌGne,e riduttione
dell'Oro in prima materia, il quale dico,che ■OH è altro che vna fcmenza
dall'Oro medefimo : cioè, vn vmido radicale metallico fottile,pefantc>e
pingjje, il quale fi ritroua in molti corpi metallici, ma diftìcilc a fepararfi
puro, netto,cd intatto; ncll'argcmoviuofolamentefiha più copiofo^e più puro che
in alcun'altro corpo,cccetto che neiroro,e ncH'argento medef{mo;onde chi vuo-i
le operare più accertatamente, e can,iinare per la; vera ftrada,fton fi ferua
d'alcun'ahra cofa,chc del mercurio,^ dell'oro ; perciochc_-> quefti 0 2I
^uefti fono i corpi più amie abili, fi come in Cielo; gx';*ì and hr
\nLi>'.terra; che però vno s'accofta volontieri all'altrOjC l'abbmcd.i*,.
«i^^fé Tinlìnua, come vedcfi per ifperienza ; E cioèsì vcro,clie'altlitii'ra'
ifnperfcttej e nel fu« prim/> ftifcere,cd jnquéftéla Natura ha beri si
difpofta la fetncnza, ma non ha antera -j^ per per mexzo di efsa' maturato il
frutto ^ Perciò non efìfendo ancora quella fé menza,o prima materia deiroro,
ftrcttamente legata all'aU tre foftanze, con cui formafi l'Oro perfetto, e
maturo ^ ci fari facile dottenerla,eilraendola da ogn'altrafothnza minerale Impura.
Non dirci quefto, fc io mcdefimo non hauedi hauuro fortuna di hauerc alqnanta
di vna fimile miniera, dalla quale con noa molto artifìcio fu canata vna poca
quantità di certo liquore aureo, che era la vera fcmenià di oro, ma per non
cffer conofciuto, tutto fu confumacocon g'^ttarlo fopra vna quantità di argenco
vino bollente, il quale tutto fubito congcloflì, et accrefciuto il fuoco,,
refta* l^ono cinque parti di efìb perfettamente fido, cioè» a dire vna inciz'
oncia di quei liquore fifsò, due oncie e mezza di argento,viuoj che fé foffe
flato n)aggiormentc depurato, e poi congionto come anima al fuo corpo
proportionato, farebbefi con eifo potuto formare la vera Pietra j ma fm hora
non ho mai potuto ritrojuare altra miniera fimilq a quella, e perciò atta a quefto
fi nc^ Ch'intende bene quanto fm qui (i è detto non ha bifogjjo d'sicro, ckedi
elfer fauorito dalla Diuina Prouidenza si,che gli pei:aii:?:ta_,>
ilritrouare vnafimile miniera di oro, ouero d'argento; ma ricordili,! jehe
quello è dono fiagolare di Dio, che fùole concedcFlo folo a ^erfone di retta
intenciOne, acciò non ne nafcano que'difordini,fhe come fi è detto kreUhcro
co^jtcarij a iiìoi.jleUaj4ia.PxQui--jdenza, :)'>.-.-ìì-v'I r-;--:-.:? •^:
;-:n?1 p-5n'i:n:c%i:» Retta che per vltimo fi rifponda alle obiettioniiche
fogliono fjrdcontro, la poflìbilità della tramutationp,benchequì non farebbe
neceflfario hauendone già vedutala manifefta ifperienza. Dicono prr-i?.
jìiieramcnte con S. Tomafo i.fent, di/ì.j.qua/i.^.art, i^SiC i^e Pot.(j.6, artt
I. con Egidio in ^.^uod^ q,S, Auerroe m prìmum ltl>r»m de gin,amM,Si
Auicenna in Comm.Meiheor, che Toro fatto per artt-> chimica non è vero oro 3
poiché la vera forma dell'oro non fi può» introdurre nella materia fé non per
mezzo del calore Celcfte, e folare ; onde effcndo il calore del fooco, di cui
fi feruono i Chimici molto diucrfo da quello feguita, che non pofla ge-nerare
vero Oro. Al che rifpondo primieramente, che il calore del aoftro fuoco jioaè
infpecie diuerfo da quello del Sole,e delle Stelle, eflendo-^ the produce molti
effetti del lutto fimili,, come moftrerò di— : ftejfamcnte nell'Arte Maeftra, e
per confeguenza può produrre ancor Toro . Aggiongo, che con i raggi del Sole
difcende fino alla . l^oflra terra vna puriffima (oftanza Celefle,come; dirò
altroueyla,^ ^laqof Hh quale 122 quale fé alcuno ritroHcrà modo di pefcarla in
quefto vafto oceano dell* aria,c ridurla in liquore vifibilc, egli haucrà la
chiauc di tutti i fegreri, e farà quafididì padrone della natura, che di vna
tal foftania fi fcruc per fare tutti gl'effetti 5 e mutationiche noi vediamo
marauigliofiin,, quefta noftra baila terra. *'^»j ^J ^ in fecondo luogo
oppongono con Egidio,c he quelle cofe, le quali fono perfette in alcun genere,
hanno vna fola determinata caufa della fua generatione j l'oro tra tutti i
metalli è perfetti (Timo j dunque io-. vniol modo fi potrà generare, cioè in
quello che adopera la natura j donquc non fi può generare dall'arte. Rifpondo
che l'arte chimica non fa che Torojacui ella coopera,non proceda da quella
caufa,c he dalla natura gl'è ftata determinata, parlando della caufa prodìma ed
immediata j poiché quefta èia fetenza dell'ore, la quale opera naturalmente
anche quando Tarte vi coopera; onde il chimico altro non fa che cauarc dall'oro
la femenza, et applicarla a corpi proportionati, con i quali vnita poffa render
il frutto mulciplicaiojin quel modo, che l'agricoltore non produce egli i
frutti,ma difpone,eprcparala terra,e la fcmenia vncndoli in modo, che
fruttiBchino, TerjQ oppongono che il luogo della generatione de metalli è
determinato in tal modo,chela natura li produce fempre nelle vifcerc-^ della
terra, doue concorrono tutù gì* influffi celefti,come a centra commune a tutti
j e per confeguenia l'oro non potrà generarfi fuori delle vifcere della terra,
Rifpondo che il luogo della generatione dell*oro non è tanto determinato, che
non (ì polla produrre anche fuori della terra, purché vi fia materia difpofta,e
proportionata a riccuere in fé la la femenza dell'oro j(ofi> le altre
femenze di erbe,o piante portate fopra i tetti delle cafe, pur che ritrouino
terreno, o materia in cui germogliare producono ifuoi fol iti frutti. Quarto,
Dicono che l'arte non può mutare vna foftaniain vn altra diuerfa in fpecic :
poiché il far ciò appartiene alla fola natura. Rifpondono alcuni che vn metallo
non è diuerfo in fpec ie dairaltro: ma benché fia diuerfo,dico non cfler l'arte
che lo tramuta, ma la natura aiutata dall'arte j poiché l'artefice altro non fa
che applicare vna_j materia all'altra, dalla quale debita applicatione prouitne,
che vna foftanza muti in feftefla l'altra, a cui fu congionta dall' artefice.
Coiì lafemenza dell'oro congionta come conuiene al mercurio, lo tramuta in oro,
in quel modo, che la femenza di grano congionta alla terra tramutala terra
medc^ma in grano «Quindi fi dice, che Tarte non fa l'opere roperechc fa la
natura, ma folo modifica la natura medeflma, dcterminandt)Ia ad operar? più
prefto,© più tardi,in queflo,o in quell'ai* tro modo ; come ucdefi in molte
arti, e particolarmente in quella dell* ineftare un albero fopra l'altro . '
epe parimente quando dicono non poterfi dall'artefice far l'oro, per non fapcr
egli la proportionedelli elementi che lo compongano, ne il temperamento delle
qualità, ne gli ftrumenri, de quali la natura fi fcrue : fi deue rifpondcre non
edere neceffario il fa pere tali cofe : poiché fatte non opera immediatamente
gl'effetti, che fono della natura, ma fole» li porge la materia, 1« quale fc
prima fia ftata preparata, «_-> difpofta dairarte, U natura opera in efifa
più facilmentCo ed in modo ftfaordjnariovsrr rs«Rv pi Finalmente o,ppongoiio
alcuni che noi non potiamo fa pere fé l'oro chimico fia vero oro', con laverà
forma foftantialc dell'oro: poiché dicono potrebbe cflere che faflTero mutati
folo gl'accidenti, onde fQflcoroapparente.afìini^iO' >fl ^« Al che rifpondo
che nelle cofe Bfichc non fi può hauere maggior ccrtewa che quella che ci danno
concordemente tutti i fenft, i quali conofconoU foftanz,e dalli foli accidenti
: onde quando apparifcono tutti gl'accidenti di vcfo eroj l'intelletto
naturalmente deue aflerfrc ch'egli fia vero oro, quando la fede diuina non li
diceflc il contrario, Aggiongo che loroficonofce più intimamente che dalli
accidenti cfterni, facendofcne varie proue,c faggi che da Gebro fi riducono a
noue, e fono Tinfocarlo, l'eÀinguerlo, il fonderlo j IVnirfi ch'egli fa
ali*argento viuo, poiché il vero oro fé glVnifcc più facilmente ; il mcfcolarlo
con materie adurenti : il porlo fopra vapori acuti ; il metterlo alla Due forti
di Medicamenti diftinguercmo nell'Arte Maeftra,doue irattaremo della Medicina ;
IVna è di quelli i quali operano per fimpatia che hanno con gl'vmori
veneBci,che fparfi per il corpo cagionano le infermità, quefti fono i
Medicamenti purganti, che tutti ihanao del vclenofo,anziènece(farioche habbiano
in fé foftanra ve» nefica per poter efser purganti j Impercioche per la
fimpatia, che hanno con l'altra fimile foftanza venefica fparfa per il corpo
infermo.ìa rifuegliano, la muouono,e la tirano a fé, onde laNatuta del corpo
humano per mezzj^ delia facoltà efpulfiua fcaccia poi dal corpo con il
Medicamento anche la foftanza venefica, che cagionaua»» l'infermità; cosi
ilDiagridio,per eflervn veleno, il quale ha fimpacia con Thumore venefico
picuitofo, prefo per Medicina s'infinua^ Uiagneticamentc nella pituita, e fi
vnifce con efia rifuegliandola_*, commouendola,& eccitandola, onde la
Natura fentendofi opprefla da doppio remico tumultuante, e minacciante
Teftintione del caler naturale, quefto tutto fi raccoglie, fi vnifce, e
refiftendo fa forza al oemicoje lo difcaccia da fc; onde auuienejcheilDiagridio
vfcendo dal corpo tira feco ancor l'iltro veleno, a cui fi era vnito
fimpaticamente. U aiedefimo accade del Rcubarbaro in lordine alla flaua bile.
bile, deirTurbit, ElIeboro,&c. in ordine all'altra bile, e cosi di tutti i
Medicamenti purganti, i quali non purgano fen za contrailo con la Natura,e
perciò fcmpre con debilitamento delle fue forze. L'altra forte di Medicamenti è
di quelli, li quali operano per anriparia che hanno con le qualità venefiche, e
maligni vmorifp^rfi per il corpo : Quefti per confeguenza hanno fimpana con la
Natur^^ humana,cioè,J dire con il calore naturale, e con Tvoiido radicalt»ji;
onde vnendofi a quefti,& accrefcendofì le loro forzc,iì accendono
CGntroiInemico,rinueftono, e lo difca^ciano lontano dallarocca del cuore, et
anche del turca dal corpo, che è come la città, di cui impadronito rentaua
(orpendère la fortezza del cuore . Quindi è, che_^ quefta feconda forte al
Medicamenti purga da maligni, e velenoii vmori in affai diuerfe maniere j^
poiché fc tali m.aligni vn?ori, e velenofe foftanze fono fpiritofe,e fottili le
purga per i pori fcaccìandoli dal cenrro del cuore alla circonferenza, talvolta
per infen{ibMc;_^ trafpiratione,e quando fono più vmidi p fudore;Sc poi fono
vmid!,fTia più grollì, li fcaccìa,e purga per orinale finalmente fé fono groflì
e men vmidi purgali per feceflo; ladoue la prima forte dì Medica^ iTienti purga
Tempre pelfeceffo,o per vomito,rare volte per orina, e mai per fudcre, ne per
infenfibile tranfpiratione. Di qui nafce ancora, che i primi debilitano la
Natura perche li fono contrari) 5 e purgano con violenza,e con fconcerto delli
vmori, e del naturale temperamento; ladoue i fecondi più tofto fortificano, e
corroborano U Natura medefima,a cui fono fimili, e purgano foauemente, e fcKzji
rurbatione, particolarmente t^uando operano per infenfibilejraBfpiratione, o
per fudore . Da ciò che (ì è accennato,e fi dimoftrarà diffufamente a fuo
luo^o, ognVn vede quanto piìì ficuri,e gioueuoH fiano i fecondi Medicamenti, che
i primi ; nulladimeno perche i primi fono più facili arirrouarfi,e no
richiedono certe particolari preparationi,e perche operano potentemente ;
perciò fono più in vfo de gl'altri ; non operò, che non fi debbano più tofto
adoperare i fecondi j! poiché quefti fé noii danno tanta virtù alla Natura, che
bafìi per difcacciare dai corpo Tvmor vitiofo, almeno non offendono la Natura
medefima ^ e replicaci più volte finalmente a poco a poco confumano affatto il
nemico. Ma quello che quifideue auuertire, e perii che ho prcmeffo quello
difcorfo,è, che la prima forte di Medicamenti velenofi, ò fiano catartici,©
diurerici,o vomitorij, non poffono mai effere Vniuerfali sì^, che fiano
applicabili ad ogni forre d'infermità; poiché purgano folo da quel veleno
particolare, con cui ciafcun d'cfli ha fimpatìa^ma ai^ I i l'in l'incontro
gl'altri Medicamenti, i quali fono congcnei al c«loi naturale, ed vmido
radicale, fono vniuerfali, e curano ogni malaria j percirche altro non fanno,
che accrefcere leforie abbattute, e rinuigorirle, acciò la Natura medefima
pofla fcacciare da fé ogni forte di vmori a lei pcrnitiofi. Di tal forte fono
gl'elixiti, i magifteri di perle, o di coralli, i giulebbi gemmati, i Bezuari j
ma benché qucfìi in alcune forti d'infermità facciano alcun buon'effetto, pur e
he fiano fatti con quell'artejchc fi ricerca, nulladimenovedefi per ifperienza,
chelo più delle volte no hanno virtù fofficiente di efterminare l'vmore
morbifii-o^chc però 1 Medici ricorrono alle medicine purganti, che hanno del
veleno^ perche non hinno cognitione di altro medicamento, che operi
cfficscementc,e fia infieme congeneo alla Natura, onde iìa liberata dal
male,fenxareftare debilitata dal medica mento,an?LÌ fenia pericolo di reftarne
opprefla, Per tanto io pretendo di palefare qui vno fimile Medicamento, il
qualeperche,comcfi è detto, operando con dar forze alla Natura, e convna Virtù
Balfamìca contraria ad ogni forte di qualità venefica, o morbifica riefce
vciliflìmo in ogni genere d'mfermitàjperciò le diedi nome di Panacea, che vale
quanto dire Medicamento Vniucrrfale, il quale fi prepara in queftomodo^ Si
prende Salnitro ottimo, e ben raffinato^ fi mette in vn Vafo di ferro a
liquefare lentamente al fUoco ; dopo, che farà liquefatto, fi piglia carbone di
legna dolce peftato minutamente, e fé ne-» getta fop-a vna poca quantità, il
quale fubito arde, e fi confuma, all'hora fé ne mette vn altro poco, e dopo
quefto dell altro, fin che a poco a poco il Salnitro fi fifsi,fi fa di colore
alquanto verde, bc il carbone non fi folleua più a modo di fiamma, come faceua
per auanti: All'hora fig.'tta ji Salnitro fufo entro ad vn mortaro di pietra_«,
che fia calda, acciò non crepi j raffreddato che fia refterà bianco come pietra
alabafl:rma,e fragile come vetro, fubito fi pefb3,e la_. poluere fi diftende
fopra laftre di vetro,© piatti di maiolica, li quali fi tengono
efpofl:iairaria,m?^ in. luogo doue non gli pofla cader lopra ne picggia, ne
ru^giada,ne fi«no battuti dal Solej deuono collocarfi alquanto inclinati, e
pendenti, e fotto fi dee mettere vnvafo per raccoglierne il liquore, che vi
caderà dentro j poiché dopo alcuni giorni attraendo il Salnitro gran quantità
di aria firifoluerà in_. Ogìio, e per longo tempo fempre andcrà gocciando in
liquort^ ; che fé incontrerà in ilagione opportuna, farà talvolta fei,&
otto volte più in quantità, e pefo di quello, che. fofTe il Salnitro medefimo .
Queft' C^eft*^Oglio,e liquore di Nitro è vn mezzo efficaci/lìmo per eftrarre
potentemente, e con marauiglia ogni elìcnìa da tutte le forti di miftij particolarmente
fc farà rettificato, e ridotto a maggior perfetcione nel modo, che dirò altroue
. Intanto prendaci quattro, o cinque parti di eiTa, ed vna parte di antimonio
del più perfctto,cioè, di auello che è più vicino alla miniera di oro, nella
quale egli fuol gè* nerarfijeiiconofcedal colore, che in qualche parte
rofleggiajfi ponevano m vna boccia grande di vcEro,the refti vuota almeno due
terzi, e rantimonio fia macinato fotti lmente,cd il vafo chiufo per modo, che
non rcfpiri: lì tenga iodigeftione a calore moderato,come farebbe a quello
della fiamma di vna lucerna, fin tanto che il liquor.; del Nitro,che fopra
nuota all'antimoniojfia colorito in color di oro acccfo, o di rubino : all'hora
fi vuoti fuori del vafo il liquore, fi coli per carta cmporctica.e fi metta in
vn altra boccia co collo lungojvi fi metta fopra
altret3ntaaquavica,chefiafini(fima,c lenza f lemma, relUnJo la maggior parte
del Vafo vuota, e fia ben chiufaj fi tenga per alcuni giorni iadigeftionc a
moderato calore,finchc l'aquavita tiri afe tutta la tmtura, ed efscza
d€irantimonio,peroc he refterà il liquore del Nitro nel fondo bianco,echiaro,e
tutta la tintura rcfterà vnita all'aquavita, che fempre galleggia fopral'oglio
diNitro;fi decanti dunquc,e fi fepan l'aquavita daU'ogliof'ilquale è buono come
prima per reiterare la medefima opcratione ) e la detta aquavita fi ponga in vn
Lambicco, e fi diitilli foauemente, finche ne rimanga folo vna_. fluinca parte
incirca, nel Vafo inficme con la tintura, et eflenza dell'antimonio; Overo fi
caui tutta l'Aquavita, fino che rimanga la fola foftanza, dell'antimonio a modo
di fale fufibile.^. Quella è la noilra Panacea di marauigliofa Virtù per ogni
forte d'inférmità,dellaqu.ilc fé è reftata in liquore fé ne pongano cinque,
ofei goccie in liquore proportionato alla malatia,o vero itL* brodo,© Vino } ma
fé fi è ridotta in foftanza confiftente,comc fi è detto, fé ne pongono
trc,quattro,o cinque granijconforme al bifogno; auuertendQ, che l'alterar la
dofe,& accrefcerU molto più non può cagionar dapno,anzi è neceflario quando
il male è pertinace 3 poiché in tal cafo fi replica più volte pigliandone
femprc maggior dofe tre volte, o quattro alla Settimana; ma nelle infermità
ordinarie dopo due, tre; o quattro prefe gì* infermi fogliono guarire j ed in
quefto modo io ho veduto rifanare moltiffime pcrfone, che hanno prefo quefto
Medicamento, da ogni forte di malaria, particolarmente da cjuelle che erano più
inuccchiate, e più difficili a curarfi, come dalla febre cuartana, del morbo
Gal ii8 Gallico daJIa febre Etica, dairHid»opifia,e {imill : -iNfe foie gioua
per i n-;ali intcrnuma anche per gl'efterni applicato a modo cii Baiamo lite
vlccri,cancrenc,ferite,e limili. E paiimente'vtile alli diffttii della Vifta,
alla {ordità,e fimilr,rpa ottimo' riefce per lineai caduco,e per ogni
infermità, ed indirpofitiór.e del capò, e dello ftomaeo, poiché qiitllo viene
mirabilmente confortato, e quefto corroborato a bea d'gcrire. Ma peTì,che la
feconda differenza (la maggiore della prima di due vnità,e fnnilmente la terza
della fecondale, come fi vede nelle pofte differenze i. 5. 5, 7. &c. La
terza proprietà nafce dalla feconda, et è, che duplicandofi la^ radice quadra
di alcun numero quadrato, et al numero prodotto a^ giongendq vna vnit3,(; ha la
differenza tra cffo numero quadrato, e l'altro proffimo maggiore; onde tal
differenza aggionta al quadrato minore ci dà il quadrato maggiore, così la
radice del numero quadrato 4. che è 2. duplicata,& aggionta vna vnità fi ha
la differenza 5. che aggionta al 4. ci dà il quadrato 9. proflìmo maggiore.
Alfincontro, fé duplicaremo la radice di alcun numero quadrato, e^ dal prodotto
leuaremo vna vnità haueremo la differenza tra effoqua^ drato, e Taltro proffimo
minore. Ir, quale detratta dal quadrato maggiore haueremo nelrefiduo il
quadiato proflìmo minore j cosi duplicata la radice 5, del quadrato 9. haueremo
6, da cuileuata vna^ vniti refterà 5. cioè, la differenza tra p. e 1* altro
quadrato minore 4. i:f La quarta proprietà nafce dalla precedente,& è, che
fé noi diuideremo la differenza tra due numeri quadrati proflìmi ( la quale
come fi è detto è fempre vn numero imparo ) haueremo due numeri l'vno maggiore
dell'altro vna fola vnità j Qi il maggiore farà la radice del qua quadrato
maggiore, fi come il minore è la radice del quadrato n^inore;ccsì la differenza
tra 4. e p. che è 5. diuifa ci dà a. e j.che^ fono le radici di 4.6 di p. Porto
quello fi proponga vn numero,di cui fi cerca la radice qua-" dra ; quale
per ritrouare fuppongo,che ci^ fiano note alcune radici di numeri perfettamente
quadrati facili fiì me. Per cagion' di efcmpio oon'vno sa che ice radice di
100. che lo.eradicedi 4oa.che 30. e radice di 900. e 40. e radice di 1 600.
&c. Sia dunque propeso il numero 531. di cui cercsfi la radice quadra.
Prendafi vn numero quadratodtili già noti,il quale fia minore del numero
propofto 525. e quefto fia per efcmpio 400. di cui fappiamojche la radice è 20.
La differenza tra il quadrato 400. et il profifìmo maggiore per le cofe
fopradettefarà 4T.cioè,il comporto della radice ventÌ5del numero quadrato 400.6
della radice 21. del numero quadrato proffimo maggiore; qucfì:a differenza
4i.fi aggionga al quadrato 400. 6^ hauerem.o 441. Di nuouo la
differenza,tra44i.dicuila radice e it. et il quadrato fcguente,di cui la radice
e 22. farà 45. quefta aggionta al quadrato 44i.haucrcmo 484. fimilmente
ladifterenza tra 484. &il quadrato feguente farà 4 5. eioè5maggiore
diievnità della precedente, la quale aqgionta a 484. haucrenio 5 29. che farà
il numero quadrata proffimo minore del numero propofto 552. la dicui radice e
25. detratti dunque 529. da 552.reftarà j.con cui fi forma il rottOjeffcn^
dochc il numero propofto non è quadrato perfetto. Ma più facilmente faremo
Toperatione in quefto modo.Ritrouaca la differenza tra il numero quadrato prefo
4oo.eraltro proffimo magoiore, quale fappiamo edere 4 1 . quefta fcriueremo a
parte,e fottodi effa l'altre differenze per Oidinevna maggiore dell'altra di
duevnita> comevcdefi nell'efempio qui porto; dopo aggiongercmo la prima-.
differenza,cheè 4T. al quadrato 400,3! prodotto 44i.aggiongeie« rno l'altra
differenza 43.6 cosi feguiteremo fin che haueremovn numero prolTìmo minore al
numero propofto 5 31. poiché l'vlcima differenza aggionta indicata da l'altro
lato la radice d^l numero che fi ^er ca. ai. 41. c^on .^ .i/ aa. 43. -:Sion 23.
45. 24. 47. a M ^« ^-k «if ■•* r^*? ?* *t ncj Radici Differenze. i omb 6 lì
532. Quadrato. • \> aioi^'^^x.fn 23. Radice. in Il fimilefi può fare per
mcizo della fottrattionc j poiché fé noi doyeremo ritrouarc la radice del
numcso 2 8p. potremo pigliare vn numero quadrato maggiore delli già noti con la
fua radice j per cflempio rifteflb quadrato 400. Il cui radice nota è zo. e la
differenza tri elfo, et il quadratoproffimo minore perle cofe già dettefarl ^9.
qaefta fottrattada4oo. rcftarà 5 5 i.di nuouo la differenza tra 551. la cui
radice è 15).& il quadrato proflìmo minore,il cui quadrato è 185. farà
57»^a quale leuatada $6 c.reflerà 514. fimilmente da queflo Iellata l'altra
differenza 55» refleràil quadrato 289. onde lafua radice farà 17. Operifì dunque
nel modo che fièdettodifopra,fcriuendo le radici minori, e minori lotto il
quadrato prefo 400. ed in vece di aggiongerìc fi fottraggano, cerne fi vede
nelfelTempio qui pofto. zo 400 18 37 17 35 Radici Differenze Quadrato iSp. Sua
radice 17. Conquefta operatione farà facilismo ilritrouare la radice di qua! fi
voglia numero i poiché potremo prendere qualfivoglia altro numero quadrato, di
cui fia nota la radice, et il quale fia non molto maggiore, ne molto minore del
numero propofto: fé è minore, fi opererà con la prima regola della fomma 5 fé è
maggiore, fi opererà con la feconda della fottrattione : onde non farà mai
difficile il ritrouare facilmente vn numero quadrato vicino al propofto, che ci
ferua di ftrada per arriuare alla radice, che fi cerca ;fchifando con ciò tutte
le operationi laboriofe, e difficili delle diuifioni, e multiplicationi, che fi
fogliono adoperare nel modo ordinario di cauarcla radice quadra. Eperhaucrevn
numero proflìmo maggiore, o minore a quello di cui fi cerca la radice, auuertafi
di pigliare vn numero quadrato, la cui radice habbia tanti caratteri, quanti
fono i punti che fi notarebbero fotto al numero,di cui fi cerca la radice, fé
haueflìmo a cauar da elfo la radice nella forma ^ ©r . •^.-^ »K
c-T'lTI'irr.llr'.K T /•1*i,-'^i-J ?r^-:v:'r? r^,r. n^ t^ir.'ir.t. rrn, ..A 1 I
1 « ftoric, ma ancora delle fauolc de buoni poeti, e dalla lettura di cjucfti
apprenderà ràrte dell'ili iienta fé, è rìcììipirSBt-nìèlite^'Bclli fidile
imagini,gualifi sformerà di ritrarre con il pcneMondta tcIa,inaàBl ìnoJo che
«tllèdercrittioni poetiche vendono defcrirte.co* veri!,, 'n^ >-. .,
Determinata che lara la materia, o da ltorica,otauo]>jl.-,o vera, o ideale,
deuefihauer riguardo a||a rnaititu(i?ne de C'l>rpi*»difp|nendoH in modo che
non partorifcanò confw(ìonc"j perciò Benché non i\ pofla ptefwiucr numero
jlei^f^fìiinatòcfijcf^i fi^é|iojjq^ej|) ttìtci; rp£pi imerc in trodotalc, che
fi vedano i loro propri] attef^giamcnti, difetti, fcorci, p::fi' yrcyondcnop
^Ìirtorirc'arioè0nftiflone,r'cihjndo l'vno ih gran parte n^(tipft^
di^trQ,4Jrakro, renìachei'occhti^po(ra diTcemere ciò che fi faccia i In
qùèrifriódo dunque, che in vnh tragedia fi difpongono i perfonaggithcefconOin
fcenatfóh tal ordine, che dalla molntudine.^ non nafcala confufione, così nel quadro
non deuonfi rapprcfentarc li personaggi m guifi^t^le,-pheiVnQ-|olga all'occhio
il poter godere dell* altro 5 poiché cagiona noia il vedere ififcena vn
perfonjggio, cht_j pereflercon la moltitudine corfufo, non potiamo bendikerncrc
ciò eh* egli operi. >Jcl che deucfiauuer^rr^di più, chetici teatro non fi
proibisce i! molto numero delli attori, ancore he reftino ;ifFolIatri, e
ftretti, purché vi fi veda vnitàin modo, che fé benerattioni, i moti, e
gràffetticficiakuhofonodiuerfi, tutti però fia no drdmati ad vn fatto
{"olo:onde nel medefinio modo, ancorché nell'ampiezza del quadro fi
contenga gran molticudine di perf(/n?,& altri oggetti, dciionfi però tutti
difporre in modo,che habbino vnione nella diucrfìtà delle parti; flc deuonfimai
fopra vn medefinao quadro rapprc^fentarc arcioni difparatejfenEachelVnahabbia
rclaticneconl'altra. Ma li come la tnufica tanto più diletta l'vdito, quanto
più varie fono le vocijcrintrecciamento delle difl'onanze con le
confonanzc,purche dalle proportionidcH'vnecon Tjlrre, nafca l'vnionedi tuttc,e
l'armonia: e rt-ì nella piiiura, tanto più l'occhione gode, quanto più
differenti fono i volti, gl'atteggiamenti, e gl'affetti delle perfonc, purché
tanta diucrfità riceua vnione,concorendo a rapprefentare vn fol fatto.
Pertantofideue porre gran ftudioindare vnioneall'attione
rapprefentata',congiongendo con l'unità di'quefta la uarieià de gli affjtti, de
gli atteggiamenti, delle pofiture de' fcorci, e fopra tutto delle
fifonomiede'uolti; nelche fi ritroua molta difficoltà j poiché ogni pittore
inclina naturalmente ad efprimere'nelli perfonaggi quelleiìfonomie, che ha più
imprcffe nell'imaginationc, onde è ftatoofferuato che i uolti pittorefchi
tengono fempre molto della fifonomia ^1 padre,della madrej o d'altra perfona
più amata, e più frequentemente ueduta dal pittore ;e rari fono que* quadri ne
quali rapprefentandofi molte hic« eie, l'vna non habbia la fifonomiafimile
all'altra. Quindi è degno di molta lode il famofifìRmoRafaellOjche in tante
opere ch'egli fecs»* difficilmente fi ritrouerà vn volto che fia fimile ad vn
altro j per lo che giouerà tra la moltitudine della gente, andar ricercando
nuoneSfono mie di volti, riponendoli nell'erario della imaginatione per ilrui
rfene airoccafione,e cofi sfuggire la fomiglianz,a nelle fue opere j ma molto
più il fapere alterare le parti che compungono il volto humanojpoiche dal
variarne vna fola il tutto prende vna differente fìfonomia. Mi piace in oltre
ciò che hanno vfato di fare lodeuolmentc i maeitridi queft'arte, per dar
vaghezza alle loro opere con la varietà, di framefcolare con i perfonaggi
humani altri oggetti confjceuoii alla ftoria,o fauola chefi rapprefenta,come
animali, piante,f.ibrichedifegnate in buona profpettiua, lontananze di paefi, e
cofe fimili, come PaolodaVerona,DanieI da Volterra, Raffaello, e tutti li
buoni, auucrtendo però che non tutte queftc cofefidouranno accopiare sempre in
vna mcdefima ftoria,ma quelle sole che à tale ftoria fi conuengono ^ per non
incorrere nella riprenfione del poeta, fatta a coloro i quali perche sanno
esprimer bene alcuna cosa particolare, quefta in ogni luogo, e fuori d'ogni
occafione esprimer vogliono, Fortalfe cupreffum Scis [ìmulare, . ., Aquefto
medefimo fine di cagionare diletto con la varietà, et anche acciò il pittore
dia faggio di molto fapere con vn fol quadro, doiirà ' procurare, che alcuni
de'perfonaggi dipinti (lano con vaghi, e naturali panneggiamenti coperti, altri
m.oftrinonuda la fchiena, altri il petto, chi le braccia, e chi le
gambe,ricordandofi però fempredinon offendere gl'occhi pudichi con nudità
difdiceuolirfimilmente alcuni volti faranno dipinti in profilo sì, che lì
fcorga folola metà, altri colloche-. ranno piegati alquanto, al tri chini,
altri folleuati al cielo : hauendo in ognicofa riguardo alla naturalezza del
fatto, et alla verità delJ:a_, ftoria, a cui non fi deue pregiudicare per
accrcfcere la varietà, coa-=. giongendo inficme cole difparate,e perfonaggi
vifluti in tempi diucrfi: come fanno alcuni che dipingono il Serafico d'AìTìfi
{opra.* il monte caluaiio prefente alla croccfiffìone de' noilro Saluatore 5
allegando p fua difcolpa quel detto trito,nìa da cfiì mal intcfo diOratio,
Viiiori'tus atijiie poetis ^idlihet auiiendi femper fu,it aqua p^oie/ias. Lodo
in oltre che i pittori imitino li poeti nelle loro iperboli, e poe^. tici
ingrandimenti 3 il che potranno fare conia fimilitudine,eparago M m ne, '3«
fic,ouerd conil oontrapofto,come appuntoperlopiufogHono fare ì ppcti: per
cagione di efempio (e tu vorrai far comparire vn huoniQ nano con la
fimilitudine, lo dipingerai in età virile, con la barba, c^ membra grofle:&
apprefso di elio dipingerai vn paggio,0 altro unciullo in età di fette, onero
otto anni, con le membra fottili,e delicate, il quale ecceda più torto che
manchi dell'altezza del nanojo pure potrai poruialato vn cane che lagnagli in
grandezza, o cofe iìmili: et infieme lo potrai far comparir nano per mezzo del
contrapolìo, collocandoui vicini altri huomìni, i quali egli con la mano non
gionga a toccarli la cintata 5 Per quefto contrapofto iperbolico fu lodato
Timan|te,il qualedipingendovn ciclope, che dormiua in vn picciol quadro, vi
fece apprcifo alcuni fatiti, li quali abbracciauano il dito groflb dell*
adormentdto,con jlqual contrapofto, benché la figura del ciclope fof-^
feriftretta inanguftatela,compariua nulkdimeno grandiffima,' cos^ |a bckàdivna
donzella, (piccherà maggiore vicino alla deformità di vn fatiro, ed il candore
di vn volto europeo, poftp al confronto di vn etiope j poiché il grande, ed ii
piccolo, il chiaro, e l'ofcuro, con tutti li ^Itri accidenti, coniparifcono
più, 0 meno dal confronto, e paragone^ ondeaffcrifconoifilofofijche feilcielo,
le delle, la terra, le piante, gì* anirnali, egl'huomini con tutte le altre
cofe che fono nel mondo, fi fa-? ^e|Irro molto maggiori, 0 minori, conferuando
la medefima propor» ^jonc, che hanno al prefente,non comparirebbero ne più
grandi 5 ne-» più piccole di quello, che hora fono. Deue dunque il diligente
Pittore hauer fempre l'occhio al paragone, e proportione de gli oggetti, che
dipinge non folo per di-' lettarecon gl'ingrandimenti iperbolici, come fi
èdctto: ma anche per non incorrere in quegli errori, che molti commettono,
mentre dipin» gono vicini a'ie c?fe, o torri huomini,ocaualii che in altezza le
medefime torri, o gl'alberi vicini formontanoro almeno tanto grandi che per la
porta di dette ca fé entrar non potrebbero, Habbiafi per tanto riguardo alla
proportione, et ordine delle cofe, et anche alla diftanza, che ii fingono
haucre tra di loro ; poiché fé noi fingeremo con la pittura una montagna in
lontananza, potrerno fopra il medefimo quadro far un cane maggiore di ella
montagna, nel che deucfi auuertire di non paflare immediatamente da un eftremo
di uicinanza, alf altro eftremo di lontananza, ma piutoftofidcuono dipingere
altre cole di mezzo, acciò fi veda una degradationedi molte parti, dalla quale
rifulta quel diletteuole inganno, di far creder lontane le cof^-* uicine.
Habbiafi fommo riguardo all'imitatione decoftumi,& alla natura-? lezza 139
lezza delle perfoncjche nella ftoria fi rapprefentano: dando a ciafcuna quelle
membra, quelle veftimenta, quelle attieni, et afFc'tti che gli fono conucneuoli
; poiché farebbe grande errore chi veftiflc Marte con gonna
feminile,eGaninniede diruido faioj o pure fé fi deffero a Rachele le mani di
villano, con le guancie crefpe di rughe, et a Sanfone le braccia, e fianchi
deboli i come anche fé rapprefentaflìmo Salo^ mone a giuocar tra fanciulli ; e
poneflìmo nelle mani di Golia la cetra del paftorelloDauide:difdiceuole farebbe
il vedere Nerone con manfueto afpetto, e con volto modello, o vero il Pio
Coftantino con la-, crudeltà di Mafcntio su la faccia : e non poiTo non
biafìmar quei pittori, i quali dipingono la Beatiflìma Vergine a pie della
croce,totalmente abbandonata perii dolore,e qua fi che disperata ; douendofi
efpri— mere in lei vn dolore grande si,ma coftante,e diuoto^quaKc la_ mo
alprefente^è tanto alto, quanto è la diftanza deireftremità dcll*:^ due detipiu
lujighiiftendendole braccia, eie mani quanto più fiupor*fibile; al qual fpatio
parimente è vguale anche la diftanza..dci& due piedi, slargandoli quanto
più fi può l'vno dall'altro. -ìir;':) '' Secondo, fc alcun huomo slargerà le
braccia, ed infieme i piedi quanto fia poflìbile i n modo, che fi formi come
vna croce, IVrabclico fata il centro di tal croce, fi che poftovn piede del
compaifo ncll'vmbelico,e tirando vn circolo paflcrà per l'eflrcmità tanto delle
mani quanto de* piedi j e tirando quattrolince rette le quali congionghinoj
l'eftremità de'piedi, e delle mani fi formerà nel detto e irculovn perfetto
quadrato. ] « »..». :Il volto è vguale di lunghezza a tutta la mano,
cioè,al!a_, diltanza della giontura della mano con il braccio, fino all'eftre
nid del dito più lungo; e fimilnienre alla profondità, che dal ventre fi llende
fino alla fchiena . queft'ifteflfi lunghezza del volto, o d^lli,. mano è vna
decima parte,o come altri vogliono alquanto più de!! i nona parte di tutta
l'altezza del corpo: la quale nelli iiuomini Jì mezzana ftatura fuoleflere di
trebraccia,o di cinque piedij e mcii», o pure (che è l'ifteffo di (J6, pollici.
.'.biji^aoìsr Quarto, Il deto pollice, la lunghezza dellorecchio,'raIt?7.za
della fronte, la lunghezza del nafo, e la dilUnza dal nafo daljmccicojii fono
tutte trajfe vguali : quindi è,che nel difcgnare vn volto dividiamo la fua altezza
in tre^parti vguali; La prima dall'infiina f:«^d. ce de' capelli fino alla
fommità del nafo ; La feconda dalla fomn^iti. del nafo fino all'infima parte di
efib; La terza da qucfta infima par4 te fino aireftremità del mento; facendo
poi le orecchie dirimpetto al nafo,cd vguali ad elfo in lunghezza. evinto, Se
fi piglia tutta la tefia dal mento fino alla fommità dei capo, quefl:a è
l'ottaua parte di tutto il corpo; e quefta parimente èli doppio della
diftanza^che è tra vn'angolo] dell'occhio airalcro, dico de gli angoli
efteriori . Sefì:0j La lunghezza dell'occhio è vguale allo fpatio, che è tra vn
occhiOje l'altro : fi che la diftanza delli angoli efteriori de gli occhi iì
diuide ^44 diuidein tre parti vguali,due de gli ccchi,& vna tramezzoad c{Tì;e,
tutta queftadiftanza è il doppio del nafo, i'ifìeira lunghezza dell'oc-. chio
vogliono chefiavguale alla bocca; ma in realtà non ho ancora^* ritrouato alcuno
che habbia la bocca fi piccola. Settimo, il foro della narice è la quarta parte
della lun ghciza dell'occhio. Ottauo,dalla forcella fupcrjore del petto fino
alla radice de'capclli,o fommità della fronte, vi è diftanza vgUale al cubito,
et alla hrgherti..f;t Finalmente, riducendo a numeri quelle prohoVlioni, daremo
rilla_. faccia parti i8,tra li due angoli efteriori dclli occhi parti 12. La
kmghezza del nafo parti 6. la lunghezza dell'orecchio parti 6. dalle radici
de'capelli alnafocioè al mezzodelle ciglia parti 6. Dal fcttonaio al mento
parti 6. il pollice parti 6. La lunghezza della bocca parti 4. Dal fottonafo
alla bocca parti due, l'apertura daila narice parci vnaj dalla bocca al mento
parti ^. Il cubito parti 50. il petto parti 50. claiia fommità delia tefta,
alla fommità della forcella iopra il petto parti 56, la lunghezza dell'occhio
parti 4. La diftanza tra l'vn' occhio, e raUro parti 4. dal mento alla fommità
della tefta parti 24.13 mano parti i8. il piede parti 20. tutto il corpo parti
180. Quindi non può liare come bene auuertifce Filandro ciò che dice Vitruuio,
cioè che il petto fia la quarta parte di tutto il corpo. Chi vorrà vedere più
minutamente altre proportioni delle parti del corpo humano legga Alberto
Durero,il quale fcriffe vn intiero volume di quefta materia, a noi baftahauer
numerato le principali,c più neceflaric pervn pittore jfenzafermarfi a
confiderare quanto artiiìcioU fia 145 fia qucfìarimetria,e propoitione, come
quella che,confornie ail'inB» iiitojfapcredcldiuino artefice, che fabricò il
corpo humano, giiilli^ menteliconueniua percilerquefto il più perfetto di tutti
gl'alcri corpi. Onde è poi natoche dalle parti dieflbfi prendanole mifurc di
tutti li altri corpi jdicendofi che il tal corpo è di tanti cubiti, di tanti
palmi, di tanti piedi, di tante dita: e con ragione,poiche la mifura è vna
quantità nota,con cui lì fa con?2(fcerc vn altra quantità ignota jondiL-» non
vi elTcndo quantità alThu^mopiu nota di quella delle fue proprie membra doueua
di cffd feruirju per prima mifura : oltre che, come dice il Filofofo, que'la
cofa, che ilei fuo genere è più perfetta,deue efter mifura di tutte le altre,
che fonone! medefimo genere: che però efsendo rhuomo il più perfetto di tutti i
corpi con ragione Pitagora diflc, che l'huonio era mifura di tutte lecofe.
Quindi è che tutte le opere artificiali fembrano più belle all'hor quando nella
fimetria, e proporticne delle loro parti, hanno qualche fimilitudinec©n la
proportione delle membra humane; e ciò particolarmente viene ofseruaco
nell'architeti tura ciuile ; perche ( Ione parole di Vitruuio nei libro terzo )
tìonpuò f africa alcuna fe»zj* mifura^ e proporticne hauer ragione éUcomponi-r
tnento.)fe prima non haiterà rifpetto^e conjì^eratione fopra la ferace certa
rapici ne dei membri delC huomo ben proportionato : quindi nelle colonne le
bafi fi rafsomiglianoa piedi, i capitelli al capo, il fufto dimezzoal reilante
del corpo humanoj Quindi ofseruò il Villalpandoche il tempio di Salomone con
proportioni a maraviglia belle fi rendca fimile all'ordine delle parti del
corpo humano,chefù il primo tempio fabricato dalle mani diuine, per collocami la
fua propria imagine, che è l'anima noftra immortale: Quindi finalmente per
tralafciare molte altre cofe l'arca fabricata da Noè era in lunghezza 5 oc.
cubiti, in larghezza 50. «d in profondità 50. per tal modo, che la lunghezza
fuperaua fei volte la larghezza,e dieci volte la profunditàjnel medefimomodo
appunto, che habbiamo detto delcorpo hiimano,la cui lunghezza, e \%o^ partila
larghezza 3 o. che fono la iefta parte di 180. e la profondità dal ventre fino
alla fchienarS.. parti, che fono vna decima parte delle medefime i8no
dall'altro, e ciafcuno in tutte quelle forme, che fi vedono differenti in varij
huomini ; poiché alcuni hanno il nafo Ghiacciato, altri gonfio, altri aperto ;
altri aquilino, altri profilato. ^ Alcuni pongono innanzi la bocca fpalancata,
alcuni hanno i labri di €{Taprommenti,altri piegati; in fomma ogni membro ha
non so che di particolare, il quale quando vi è più o meno, fa vna varietà
notabile *47 bile nella fifonomìa di tutto il volto. Di più fi dourà confi
derare ;a_, varietà de'membri, che fonoproprij di ciafcunaetà; poiché altra
forma haueranno quelle di vn fanciullo grofle, e ritorce j altra quelle di vn
vecchio fcarme, fmunte, e fottili ; auuertendo che ne corpi dc'flìnciulli non
fi deueofìeruare efattamente la proportione delle parti di fopra notata ;
efiendo che efiìnon hanno ancora il corpo, e le membri perfette j il che dcuefi
intendere anche de vecchi, ne quali alcuni membri s'incuìuanOjO fi
affotigliano,© in altra maniera fi deformano.Tutce quefle particolarità fi
doneranno diligentemente ofseruare dajla natura, che fola è la perfetta maeftra
di tutte le arti. Quando poi hauercmo fatto alcun profitto nel difegno di
ciafcuna_, di quefte parti, farà meftieri cfercitarfi nel proportionato
accopiamentodiefle difegnando figure intiere, e quelle hora in vna pofitura,
bora in vn altra, fedenti, diritte in pie, giacenti, proftrate,fupinejaItre con
le fpalle riuolte, altre che moftrino il petto j confiderando le diuerfé
attitudini, nel che confifte la principale perfettione del difegno, che però
doureraoferuirfi delle ftatuc, e modelli, fabricandone molte per confiderare
inefleli diuerfifiti,c pofiture. Di più fi deue diligentemente ftudiare
ildiuerfo effetto, che fanno tutte le membra, conforme alii diuerfi affetti
dell'animo, nell'efprimere i quali fi de* porre ogni sforz.o dell'arte eflendo
quelli, che danno la viuezza, e naturalezza alla pittM. ra;c non folo diuerfa
cenuien che fia la pofitura del corpo, e l'atteggiamento dei membri conforme a
diuerfi affetti, ma anche fi de'auueilire, che nell'iftefsa pofitura, et
atteggiamento haurà vn non so che di diuerfo vn huomo cogitabondo, ed il
medefim*huomo quado flà fpcnllerato;fimil mente quando, emefto,e quando è
lieto: quando ripofa, e quando veglia : per efprimere le quali circoftanze, vero
è che gioua molto la varietà di colori, ma anche nel folo difegno di chiari, e
fcuri fi dourannofar campeggiare con vn certo rilcntamcnto,© ftcndimento di
mufcoli, con vn talqual vigore, o franchezza delle membra,con i nei ui più, o
meno ftirati, e diftefi j la qual cofa per cfsere molto ditfi^ cilc dcuefi con
maggior diligenza, et accuratezza maneggiare, ferucndofi non folo del naturale,
ma anche facendo molto ftudio nel!'* adotomia per conofcere i diuerfi effjtti
che moftrano le diuerfe parti del corpo, diftefc,e rallentate da mufcoli, e da
nerui,e per intender doua priiìCÌpiano,c finifcono entrando vno in vn altro :
ma nelJi piegai menti de membri, ftorcimento di vita, e sforzi di tutto il
corpo, fi dolila por molta cura di non far cofa, la qui.l ecceda lapoflìbilità
del naturale i nel che molti peccano ftorcend», e dislogandoi le ofsa in tal
modo, che da quefto folo fi può conofcere cfser quello vn huomo dipinto, 48
pinto,e non viao, perche non grida, e non fpafima per il dolore, che
dourebbefentirne feviuofoflc. Circa di ciò farebbe molco che dire, ma
ofleruofolo chenclli sforzi delia vita, e delie membra ben fpeflb ftanno
nafcofti molti errori, ed innaturalezze, le quali da chi non è bene intendente
difficilmente fi conofcono,perche tali sforzi rapifcono l'occhio con
lanouirà,che cagiona non so qual diletteuole marauiglia : ma anche in quefto,
come fi è detto dell'inuentione, ù àc procurare ben fi la
marauigliaconlanouità,ma però non dee fc olla fi dal poflibile,e dal
verifimile. Per tanto la tefta di chi ftà in piedi non fi volti più in sii, fé
non quanto gì' occhi guardino mezzo il cielo j ne più iì volti da vn lato, fé
non quanto il mento tocchi la fpalla ; il petto non-, fia fi torto che la
fpallaarnui più oltre della dirittura deirvmbilico # Il volto di chi fta fermo
ha riuolto là doue è dirizzato il piede. Se alcuno fi appoggia fopra vnfol
piede, quello flanella linea che chiamano di diretionej le mani rare volte fi
alzino fopra il capo,& il gomito fopra le fpalle,& il piede fopra il
ginocchio. Finalmente giongeremo alla perfettione di qaefta fcienzajSccopiando
in vnfol quadro diuerfità di corpi tanto humani, quanto di nltre-» forti convna
qualche vaga, ed ingegnofa inuentione,nelmodo,ehe fu detto nel capo precedente
jricordandofi della varietà, e fopra tutto d* imitare icoftumi, e proprietà di
ciafcun perfonaggio nel modo, chc^ prefcriue l'arte poetica, trattando dell'
imitatione de coftumi^ auuertendo in oltre di non far perfona che flia otiofaj
ma in ciafcuna.» cfprimer quegli atti, e quegli affetti, che richiede
l'iftoria,© la fauola. Deuo anche ricordare a quelli che fi fentono inclinati
dalla na^ tura a queflo efeixitio, che fi auutziino da principio a difcgnare in
graLde,cio€ conforme al naturale: poiché in vn* imagine pie-» cola ben fpcfso
vi .flanno nafcofli errori grandi ; la doue in vn' imagine grande fi fcopre
ogni benché minimo diffetto j che altri fcolpìfca in vn anello Fetonte tirato
da quattro caualìi, non merita altra lode che di feimezza di mano, acutezza di
vifta, e patienza_* nell'operare, e quefta è più propria de* fcultori, che de
pittori; i quali fc apprenderanno bene il modo di formar imagini grandi,
facilmente poi formeranno ancora le piccole ; la doue coloro, che hanno au-»
uezKa la mano a lauori minuti, rare volte riefcono neigran-di •
?''Q'''-,.'.c..i.^.u za ijiwiii Rcflai-cbbc per vltimo, che io daffi qui le
regole det difegnarcjf in profpcttiua,effendo che ogni quadro de* hauere
determinato.il .:^ì:^^. .•..V---V .-punto-:! 149 punto che chiamano centrico,
ed il punto della diftanza dcirocchio che-k) rimira regolando con queftidue
punti le degrada tioni, e l'altezze de gli oggetti ; ma di ciò mi riferuo a
difcorrerepiua lungo nell'arte maeftra. Hiunque fi farà perfettionato nel
difegno*, ofseruando /(fj^^^tìj^ tutti li precetti infinuati nel precedente
Capo, non.. Cni!r)/ji ritrouerà molta difficoltà nel colorire : nulladimeno
Vh^*liialttijpiu ofciirij e chiamanfi tali fuperficie ricetti de' lumi,/ «ffen
deche pM»t fi tirano {u*l quadro i feiTiplici contorni delire figure, che è la
prima parte de! difegno,e chiamafi circonfcrittio»e; ia cin noa...j(ì vede
altro che la_. linea efì:rema,che tcrmifia,e circondil rogge:t|pdifegnato: poi
offeruando i termini de' chiari, e. d€ fcurji,fi 4J-^inguo"0 eoa varie
Jinee,che diuidono tutto il carpa iurcoufcritto- in varie parti, o
fupcrficie,cheèla feconda parte del difegno: Finalmente quefte fi deuono
riempire de'fuoi proprijlumi, ilchefi faocon femplice chia* ro,e fcuro^o pure
con i colori,iquali fvjnno molto migliore effetto, perche più imitano il
naEurale,e dano vsghezza,e leggiadria al di^ iegno. In quefìo riempire di
colori le fuperficie,& vniucrfalmente nel modo ò\ colorire fideue
confiderare,che fi come i corpi reali fono compofti di quattro elementi, et in
alcune parti l'vno predomina più dell'altro, onde cagiona diuerfo colore: cosi
il Pitcor^^ volendo imitare la Natura fi ferue di quattro colori principali,
che corrifpondono alli quattro elementi, cioè, del color roffo, fia di cinabro,
dilacca,odi minio,che corrifponde al fuoco; del colore azzurro, che rapprefenta
l'aria ; del verde che fi confà aH'aqua, e del cinereo ofcuro,chc fi riferifce
alla terra, e quefti colori contempcra in modo,c he doue 'ì\ ricerca il
predominio di vn elemento iui aumenta il colore a tal elemento corrifpondente:
cosi per efprimere vn volto fanguig no, et accefo di -"degno adopera il
cinabro, ed 151' ed il minia; e colendo far vn fangue fofco vi pone laheca, ma
volendo rapprefentare vn volto timido, freddo, o languente, fi ailicn?.^
dalroflb,e vi aggiongc il cinereo j e cosi dell'altre cole ; Per tanto io lodo
molto, che non vi fia parte per minima ch'ella fia deirimaginc, laquale non iu
formata con tutti quefti quattro colori,fi come non vi è'parte di corpo reale,
la quale non fia mifta di tutti quattro gli elementì; onde quando anche io
hauerò a dipingere vna carnagione bianchtlTìma, aggiongerò alla biacca vn poco
di cinabro, il quale certo è neceflario per cipri mere il fangue, fenza il
quale non può il;arevna_. viua c^rne; ed m oltre vi porrò alquanto di azzurro
oltramsrino, il quale cagiona vn mirabile effetto in tutti i colori, ed in
particoiire.* visto moderatamente nella carnagione, poiché le di vna ccrt'aria,
e lutiìeceldle, chela rende fuauc,e dolce. In oltre, perche inciafcua.. corpo
reale olrre li quattro clementi,de*quali è comporto, euui meicolata la luce, e
doQcqucfta manca, rcfta il corpo ofcuro, e cenebrofo; perciò nella pittura
habbiamo due colori, fvnode quali èfimile alla_. luce,e quefto è la biacca j
TaUro ci efprime le tenebre,e quefto è il ne* grodio(ro,odi fumo, odi carbone,©
di terra nera; poiché, come alcroue dimoftro,aicro non è la luce, che vn puro
candore, e le tenebre vna pura nerezza; onde il puro bianco, e. la femplice
nerezza non fono due colori,ma fono l'eAremità di e(Tì colori, come i punti
fono Tcftremità della lii>ea,'ma non fon linea; noi però perche non habbiamo
ct>fa più bianca della biacca., ne più negra del negro d'elfo; perciò
adoperiamo qucfti due colori per efprimere la luce, e le tenebre ; per tenebre
intendo ancheTombre, che fono priuationedi luce; onde-» doue è maggiore la
priuatione di tal luce, e l'ombre più gagliarde ; iui adoperiamo più quantità
di negro d'olfo,doue è minore adoperiamo con elfo più terra d'ombra, o vi
mefcoliamo altro colore pju, chiaro . Deuefi dunque in ogni oggetto dipinto, e
per confeguenza in ogni colore porre,© la biacca quando fi ha da erprimere vna
parte lucida : òil negro d'olfo quando fi ha da efprimere vna parte priua di
lux:e;,e cofi conforme alk luceminore,o maggiore adoperare più o meno di
biacca, nel che farà maeftralaprattica, conlaquale imparerà aafcitttoa
mefcolarci colori, ne li riufcirà difficile, fé hauerà ben'-intefocif), Qhe fin
bora habbiamo, detto. i > Con wttaciò perche in quefto breue trattato,
pretenda d'i ftfegnare minimamente la pratica del dipingere,non voglio
tralafcÌAc di dire y come io foglia |)rim a di dipingere far varie tinte fopra
la mia. tauoli pigliando con lap,unta del coltello i colori macinati,con
filkliìa punr U vnendoUcd impaftandoli infiemein varie parti della tauola^Pongo
£"!!>•:» da MI da vna parte vb poco di biacca fchietta,fenza
mcfcolamento di altro colore, la quale mi ferua perdarefopra la Pittura i
fomtìii chiarij ed in vn altra parte collocano va poco di negro di ofso,
parimente fchietto per le ombre maggiori, e per le minori della terra di ombrai
li altri colori non li adopro mai rchieEti,fe pure non douefsero feruire per
fare qualche panneggiamento,ma ne faccio varie tinte, e mezze tinte, con varij
mefcolamenti, e prima faccio vna tinta di azzurro cltramarino,pigliando del
meno perfetto, con vn poco di biacca,della quale mi feruo per vnire con quafi
tutte le altre tinte, poi con il cinabro,© vero terra rofsavn ita con biacca,
faccio tre tinte vna più carica dell'altra 5 e quefte mi fcruono per la carnagione
5 in modo però, ckc non le adopro mai fole, ma vi aggiango vn poco d'vn altra
tinta fatta di biacca, e di laccai e più lacca vi metto doue la carne fi deue
efprimcre più fanguigna ; ma doue la carne dourà cflere meno fanguigna, e più
pallidaifparamio la lacca, et adopro la tinta di cinabro me» carica jfempre
Peronella carnagione adopro vn poco della fopradetta tinta di azzurre, e he
riefce mirabilmente. Faccio in oltre tre alcreche fi chiamano mezze tinte, con
biacca, e terra d'ombra in tal modo, che l'vnafia più chiara dell'altra,
auertendo che nella più chiara ogni poca quantitàdi terra d'ombra è
fufficicnte, e quando voglio vna tinta più ofcura,vi aggiongovnpocodinegro
dioffo; quelle mezze tinte di terra d'ombra feruono anch'effe per la carnagione,e
particolarmente le più chiare, le quali non fi deuono adoperare femplici,ma
mefcolarui vn poco delle tinte rofsc,e della tinta di azzurro^ nell'ombre della
carnagione, cioè in quelle parti che fono meno illuminate, aggiongafì alle
mezze tinte più ofcurevn poco di tinta fatta con la lacci, poiché quefta fa vn
color carneo ofcuro,cnori s* ifparamii l'azzurloperchc anche in qucfto luogo fa
la carnagione fuauiffima, e delicata. Deuonfi dunque con la punta del coltello
fare fopra la tauola tutte le foprad€ttetinte,e mezze tinte per mezzo della
biacca, fi che ciafcuna tinta fìadi vn color folovnito alla biacca che lo fa
più chiaro quanto più vi fé neponejpofcia ne! dipingere^iideue con il penello
pigliare vn poco di vna,& vn poco di vn altra mcfcolandole infìeme conforme
al bifogno,e far /Indio che effe tinte tutte nel metterle in», opera fi
auuicinino più alla carne naturale, e vera che fia pofTìbile, Ma perche non fi
può fapere in qual luogo debbafi porre l'vna, et ia_. qual altro vn altra,
fenza la cognitione dei lumi diucrfi, che diuerfainente ferifcono gl'oggetti
che v^ogliamo dipingere, perciò flimo necc ffario difcorrere in quefto luogo
alcuna cofa intorno ai lumi 3 Poiché dalla '5-5 dalb retta intelligenza di
quefti dipende tutta queft'arte: Molte cofe farebbero degne da ofleruarfiin
quefta materia, ma che io in quefto luogo pretendo dinfegnare piutofto la
prattica del dipingere, che la fcienza fpeculatiua de colori,& altre cofe
ali' opcica appartenenti, toccherò folo breuemente alcune oferuationi,che molto
potranno gio uarc a chi l'hauerà bene intefe. Primieramente fi oflerui dal
pittore il luogo, in cui dourà cflfere collocata lafua opera j come, fé farà vn
quadro, che debba porfiinaLui luogo detcrminato di vna fala,o chiefa, veda da
qual parte,edinqual modofia percflfcre illuminato j feda vn lato, fé in faccia,
leda alto, o in altra manierale dopo tal notitia non potendo, come farebbe bene
dipingerla nel proprio Ioco,dipinga lafua figura in modo che i chiari fianoda
quella medefima parte,dalla quale dourà hauere il lume : e quella parte della
figura che farà più rileuata, e più vicina al iumo quella facciaficon chiaro
maggiore di tutte le altre,dando poi alla pittura gl'altri chiaridi grado in
grado minori, conforme alla maggiore lontananzadal lume, et al rileuar delle
partii in tal modo, che vna fola parte della pittura fia quella,che habbia il
primo, e maggior chiaro; dopo la quale le altre habbianoichiaii minori, piu,o
meno, con* forme il fitoj cofi fé il lume veniri da alto a battere
immediatamente nella fronte dell'hucmo dipinto, quefta da quella parte che è
ferita dal lume habbia il primo, e maggior chiaro, pofciala guancia,© nafo
h:ibbia vn chiaro poco minore, e dopoqucftiIafpalla,c cofì di mano in_.r mano
fino alle gambe, le quali per effer più lontane dal lume,chefifuppone fcendere
da alto, douranno hauer minori chiari di tutte le altre parti fuperiori,&
al lume più proIKìme. i Secondariamente, habbiafi riguardo che ciò che fi è.
detto, deuefì intendere di quelle parti, le quali fono ferite perpendicolarmente,
cioè, ad angoli retti, o vogliamo dire direttamente dal lume; poiché quelle,
che fono ferite obliquamente, e con angoli ottufi, ancor che foflbro più vicine
al lume,deuono però effer più chiare,mafideue con-; temperare IVnacofa con l'altra;
quindi è, che le parti piurileuatefi fanno per ordinario più chiare, perche per
lo più riceuono il lume piu^ direttamente; diffi per lo più, perche alle volte,
conforme alle diuerfe pofiture, lo riceuono più direttamente le parti meno
rileuatcy onde, fi fanno più chiare ; come quando il lume ferendo obliquamente
la faccia, ferifce direttamente, e perpendicolarmente vn lata del nafo,e lo
rende più chiaro di quello che fia il filo del medcfimo, 'benché quefto filo
fia piurilcuato^mafe il lume ferirà diretta in ente il volto, all'hora il filo
del nafo farà quello, che hauerà il mas^ìor; laro. Q^ q In H4 In tetto luogo
oflerulfi che, fi come vn raggio di lume itott pucb ferire perpendicolarmente
vna fuperftcic, fé non in vn punro folo j cosi il maggior chiaro di ciafeuna
delle molte fuperficie del corpo di* pinco, donerà effere in quel fol punto,
che viene ferito perpendica* Iarmenteda.1 lume; e quanto più obliquainenre il
lume fcrifce le parti più lontane da quel punto, tanto meno chiare doueranno
farfi,*cd in-fquefto confitte la dcgradaiione de'colori dal maggior
chiaro,finoal maggiore orfcuca». Imperciocbe deuono degradare conforme alla_,
maggiore, o minore obliquità del raggio, fu ppofta la medefima lonrananz,adel
medcfimo.Che fé poi la parte più obliquamente ferita-* dallume,iarà anche più
lontana da eifojmaggiore donerà effere la degradationejma fé vnapaiKte farà
ferita pia obliquamente di vn altra, equ '.Ila farà più vicina allume di
quefta,fi douerà compcnfare la minor chiarezza nata; percaufa. deli*Qbliquttà,conlachiarezza
nata per la vicinanza del lirmc^ Quarto ofseruifi,che in qucfta degradatione
de* chiari, et ofcuri, o vogÌi;im,o dire de lumi^& ombre c«^fifte tutta la
fbrza del colorire, ed il rikuare delle parti; et acciò non rileuino con
afprezza, tra il maggior chiaro, ed il maggiore ofcuro,fideuono degradare
fuauemcnt^-» ed infenfibilmentei colori; poiché in quefta infenfibile
degradatione confitte la dolcezza del colorire,^c(ì fugge ogni afpcrità,la
quale otten* de l'occhio ogni qua! voha fi fa palfaggio immediatamente da vn
eftremo all'altro; che però anche gl'iftefiì contorni, ne quali pare che fi
debba pattare immediataméte dal maggior chiaro al maggiore ofcuro, fideuono
fare co vna certa fuauità sfumati j fi che teraperino quell'immediato pattaggiodivn
eftremo all'altro. Quando poi il chiaro è pofto in mezzodì vna fuperficie, e
vifonodue degradationi verfo l'ofcuro, dall'vna, cdall'ahra parte ; all'hora ne
rifulta quell* effetto, che chia» mafitondeggiare; poiché la parte di mezzo
come quella che è più chiara rileua più dell'altre, le quali declinando
dall'vna, e dalKaltra parte all'ofcurojfi moftranomeno
rileuatesì,chcpirchericeuino il lume-» obliquamente, come appunto fanno le
parti laterali di vn corpo tonda ferito nel mezzo dal lume. Quinto notifi che
vna delle principali Iodi de! artefice è ch'egli nella difpofitione de chiari,e
de fcuri dia tal forza alla pittura, che riIcui qaantofia poffibile,.e per così
dire fi fpicchi fuori del quadro; per ottenere la qual cofa, oltre la predetta
intelligenza de lumi, dourà offeruaie quel precetto, che danno molti, et
èintefo da pochi, mentrc«# quelli dicono chcfidcue vfare molto parcamente la
biacca, e quefti Rimano che della quantitàdi eflà fi parli ; poiché cerco c^
che la quantità *5? tiiià della biacca necefifària a dipingere vn volto è molto
maggiore tU tufta la quantità dclii altri colori, che a tal funtjone fi
adoperano; &l viiiucrfalmente nel colorire rare voltefi adopera colore, a:
cui no»: fi, vnifca la biacca, come quella che tempera tutti icolori,in quel
n>od0j, che fa la luce fopra i corpi da efla illuminati . Il fenfo dunque di
tal precetto fi è, che in ni un luogo della pittura fi veda la purabiaccai
tolrt tone quei pùnto,chcè ferito perpendicolarmente dal lume più vicino^;
etche tutte le altre parti vadino con i debiti modi, e coni veri compartimenti
de lumi degradando vcrfo l'ofcuro, caricando poi Tombr^.^, accio al confronto
di queftefpjecando maggiormente i chiari) la pittura riceua
forz,ad'ini^annarchiia m.ira,e far credere eh* ella, sia rile-» uata dal
quadro, fsn oq Sefto, deuefi oflfcruare rintcnfionedcllumc,chc douerà
i'Iuminare la.Pittura,cioè a dire fé il luogo, nel quale deue eflere il
qiiadrQ,habbia lume gagliardo, o debole, e come dicono viuo,o mortoj poicht^
conforpie alla diuerfità del piaggiore,o minor lume, doueran no eflere
maggiori, o minori i chiari,egIifcuridellaPittura,con reciproca prò*
portione,cioè a dire, fé il lume vero farà debole, e morto, la Pittura-* douerà
haucre i tuoi lumi finti, cioè i fuoi chiari,viui, e ga^jliardi ; ma
ieillumefarà viuoe potente,(arannoi chiari della Pittura alquanto più lieboli,
e moderaci j e ]a ragione fi è, perche il lume vero.,cbe:ièrifce la
Pitturajèquellojchcriflettendofi all'occhio infieme con il lumefintOjchc è il
chiaro della Pittura, concorrono ambi vniti a fQrmare la_» viflra: ondequefla
che fi offende con gl'cltremijnon può tolcrare due lami ambi troppo chiari,e
viui j ne li piace che ambi fia no poppo dcr bolicmorti: onde
perdilettarcrocehiofideuc conteraperarc il viua del lume vero, con il morto del
finto, ed il morto di quello coni il Viuodi quefto. Che fé il quadro foOc già
dipinto, e fi cercafle vn luogo per collocamelo, fi douerà hauereil medefimo
rifpettQ,che fé i colori del quadro fono molto viui, e chiari, fi ponga ad vn
lume-» moderato j 8c all'incontro, fé i chiari faranno dcboli,fe lidiavn lume
piujviuo. Settimo, ho oflèruatOjche quando il lume fcrifce vn corpo Hfcioi
C.luftro,lo moftra molto più chiaro di que-io che faccia
vnahracojfpforaenluftro,e pulito; e particolarmence quella parte,che è ferita
perpendicolarmente dal lume fi moftra lucidiffima all'occhio ; ilche fi può
vedere in vna palla di crifbllo pulita, et anche nella luce de noftri oc; chij
: ond'è,chequella parte dell'occhio, la quaL è ferita dal lume dit rettamente
nella pittura fi efprimecon vn punto di pura biacea^5.chc
la^dimoftra.Iucidiffima eTengafi dunque per regola in materia de'lu». mi, mi,
che nel colorire fi deuono vfare maggiori chiari in quelle parti, che verremo
éfprimere più tcrfe-yc pulite^ come fé vorremo dipingere vna carnagione
Jifcia,e luftrajdoucremo farla più chiara, benché àciò pofcia aiuti anche molto
veramente la fuperfìcicjche colorica della tela fia ben lifcia,e dipinta con
colori ben macinati, alli quali alcuni aggiongono in fine certa Vernice, di cui
diremo apprcfso,--ichc però nell'efprimere quefti lumi rifleffi douremo
tingerli alquanto del colore del corpo da cui fi riflettono, ma deu' eflere vna
tintura leggieriflìma, e deueficiò pratticare con deftrezza,c ne luoghi
opportuni, che cosi cagionerà vn effetto Ict'giadro, mentre Tocchi© non folo
conofce, che quel chiaro è vn-* lume riflefso, ma anche comprende da qual corpo
venghi riflet— Cuto. Nono,per dare alla pittura què chiari, e quei fcuri,che
fono conuenelioli,ed in quelle parti che li richiedono, deuremo prima
determinare VJU. 157^ vnluo^G fuori ddlapittura^dal quale doueremo
imaginar{ì,che vcngi> il lume a ferirla,e pofcia collocare il quadro, che
uogliamo dipingerci invn tal fico uicino ad una Feneftra,che il lume entrando
per efsa_».'i lo ferifca in quel modo,che noi delìdcriamo più uiuamcnce,o meno,
: da unlato,o in faccia, o da altoje tal fico e riceuimcnto di lume hab-.i bJa
il quadro,mentre fi dipinge qual deue hauere dopo che farà dipin» WfQ collocata
ai deftinaco luogo; circa diche non lafcieròdi dire,> che quelle pitture,
che riceuono il lume da alto acquiftano una noa^ so qua! gratia,e leggiadria
fopra le altre, come ben fi ofifcrua ne uiui oggetti,neIla Ritonda di Roma,che
per ordinarie fifonomic chefiano, in quel loco coi lume alto apparifeono
bellifTimcj Sempre però o(feruifijche dobbiamo fuporre, che il lumevcnghi da vn
fol punto, e quindi fi fparga a ferire tutta la pittura,dal che nafcc la
diucrfità dei chiari, conforme le diucrfe parti, che vn tal punto riguardano j
ne folo fi dourà determinare il punto, da cui viene il lume, ma il punto, dal
quale l'occhio dourà mirare la pittura, poiché conforme al diuerfo fito
dell*occhio,i chiari appariranno in diuerfa parte; comefipuò ofl"er-«i
uarcncl rimirare vna ftatua, la quale filando immota, e riceuendo femprc
vnmcdcfimolume da vna medefima parte, fé l'occhio peròfimuouc, e da diuerfo
fito la rimira, vedrà i e hiari del lume, che la ferifce, itu. diuerfi
luoghi.Finalmente perbene intendere quefti lumi,giouerà molto rauueA7.arfi a
dipingere di notte a lume di lucerna, poiché eifcRdo quefto vn lume debole,fi
canofcono in cflb più notabilmente le degradationi poltre che ci viene da vnfol
puneo, ciò che non patiamo fpcrimentaredi giorno, benché anchedigiornodobbiamo
procurare di riceuer il lume da vna piccola feneftrella, perche in tal modo
meglio li fcorge la diuerfa illuminatione delie parti direttamente ouero
obHquamence ferite dal himergiouerà ancora Teflerc ita rfi nel ritrarre le
i\i£ue,e qualfivogliaaltro corpo dal fuo naturale; ma fopra tutto ci ap«
porterà grande vtilità il dipingere dal naturale varie forti di frutti, come
anche vccelli, cani, lepri, e fimiii. cole; la ragione fi è perche i frutti
fiori,ecofefimili hanno colori molto viuaci, ne quali percuotendo il lume moftra
più difliintamente la diucrfità dei chiari, e de gli fcuri ; Oltre a che nel
dipingere li detti oggetti fi prende vna certa franchez- za nell'operarc,che
molto gioua, ed inanimifce; Tal Francezz.a,e faci- lità nafce da quefto, che
nel dipingere le dette cole habbiamo grande libertà, e licenza di variare,
facendo foglie, fiori, frutti qui più, e la me- no carichi di colore, glVni con
vna, altri con vn altra diuerfa figura : Quefto precetto di elTercitarfi in
dipingere fiorijC frutti dal naturale fi ofserui come vn gran fegrcco di
qucft'arte^vn valente maeftra delia R r quale I5t qu^leametmolto locommendaua
per molte ragforii,ma principal- mente per la poco auanti accennata di far
venire in cognitione de i lumi, dalla quale notjtia perche dipende tutta l'arte
di bendifporrf^ i e dori) perciò ho voluto auucrtire quefte poche cofe^ ma
molto fo- ftantiali in quella materia. ^.'r-^yii Refta per fine di quefto capo
che fi diano alcune altre regole parti» colari, e pratiche per il colorito,
oltre le già accennate da principio; e già che con
rintrapoftodifcorfodeluinihabbiamoperdircori inter- meflb il colorire, voglio
qui auuertire,che quandoè ftato intermefibil laiioio,e pofcia fi ripiglia a
dipingere il quadro, li cui colori fiano già afciutti,e fecchi, acciò corra
meglio il peneilo^fideuevgnerc prima il luogo doue fi vuole fcguitar la
pittura, o rittocar il fatto, con oglio di lino cotto, cioè in cui fiaftatò
poftodueonciedi litargiro per ogni li- bra dioglio,e rifcaldato fino che
incominci a bollire, la quarvntio- ne non nuoce altrimenti alla pittura, come
alcuni ftimanoj& il pro- fitto è, che breuemente fecca, yolendiD» l'oblio
(loxj cotto tempo aliai a rafciugarfi, .-"z vi'iìr Prima di formar alcun
difegno fopra il quadro, quello deue hauere la faa imprimitura, non folo fc il
quadro farà di tela, ma ancora fé fijt di legno,o verodi rame, fopra il quale
foglionfifare ì piccoli ritratti; quefta imprimitura confifte in coprire il
quadro con alcun colore,che fuolcflerc di terra d'ombra ben macinata, con
vnpoco di biacca, e»^ terra rofla, con oglio di lino j quefta macinata alquanto
più foda, e meno liquida de gl'altri colori, fi ftende fopra il quadro cenvn
coltel- lo largo,procurandochefiaftefa,vgualmente in tutcele parti,e fotti- le
i alcuni dopo eiTer afciiicta, vene ftendono dell'altra iìno alla terz.a^
fiata; il che a me non piace j poiché, riufcendo troppo grofla altera molto i
colori, che pofcia fé li danno fopra, mentre li fucchia, e^ l'imbeue in modo,
che partecipano del colore dell'imprimitura.* medefima. Acciò i coleri fi
mantengano vini jfideuono dar fopra il quadro più volte replicando i'iftcflb
colore fopra il primo; ed in oltre i colori fi deuono caricare alquanto più del
naturale; come nel colorire le guan- cie,e fimili parti di cinabro, e di lacca fi
ecceda alquanto facendoli più roffi ài quello che conuenga alla carnagione
naturale; imperciochc dopo qualche fpatio di tempo fi vanno moderando, e
mortificando ri- ducendofi al fuo douere; altrimenti reftarebbe il volto troppo
pal- lido, e fmorto. Molta induftria ha ni ad vfare dal Pittore nel difporre
fopra il fuo quadro gl'oggetti particolari coni loro propri], e naturali colori
itu» modo, hf9 modo, che vn colore in Vicinante dell'altro faccia fpiccarc,e
rileua- re tutte fe' parti jlmpcrcioche i tolori ofcuri, e profondi fanno
fpicca- re maggiormente i colori chiari, che li fono vicini ; quindi Ce noi vo-
gliamo che vna teftafpicchi, e rileuidifporcmoi colori intorno ad eip^. in
maniera tale,che la parte più chiara habbia vicino a fé alcun* og» getto, o contorno
di colore ofcpro, e fofco j come all'incontro la parte ombreggiata, &ofcura
dourà hauere vicino alcun* oggetto alquanto più chiaro j il quale fé farà
difpofto in modo, che riceua il lume dalla parte oppofta, e lo rifì - tta nella
parte ombrofa della tefta, vn tal lunie rifleflb cagionerà vn belliffimo
effetto, temperando alquanto l'ombra., di quella parte della tefta, che non può
rieeuere il lume di retto j Per cagionare fimili effetti, giouerà feruirfi
delli panneggiamenti formati con quelli colori che faranno più proportionati ;
poiché fiamo in libèf-' tàdi dare al panneggiamento quel colore, che più ci
aggradajc poten- dolo far fcorrere in quelle parti che a noi piace, procuraremo
di con^ durlo in modo, che i colori di effo feruano a far fpiccare le parti
me-,fb' .'0 ni r f\n♦ [VE fono li principali modi, con i quali fogliamo
dipinge- re,!* vno che chiamano dipingere a frefco/altro a oglio. Il primo modo
fu in vfo anticamente, auanti che fofle ritrouato l'altro di dipingere a oglio,
inuentione venuta^ da Fiandra, e ritrouata in Arlemrlaqualeha aggiorno molto di
v'agOjcdiluftro alla pittura, poiché riefce delicata; e fi vCilì communemente
fopi a la tela, la quale fi conferua lunghiffimo tempo fenxa chefi fmarrifchino
i colori,! quali più torto con l'inuecchiare pi- gliano delicatezzaniaggiore j
la doue il dipingere a tempera (cofi chiamato, pcilchei colori fi ftcmperano
con aqua^ fi faceua anticamen- te fopratauole di legno, le quali con lunghezza
di tempo fi tarlano, benché mantengono la viuezza de* colori, che fi conferua
più che fopra la tela, douei colori fonoftempcrati con Foglio ; oltre che
tiefce mol- to più commodo il portare, e maneggiare le tele potendofi piegare,
e leggiermente muouere; horafiè quafidel tutto tralafciato il dipingere fopra
le tauolej& anche le pitture a frefco, fi fannofopraleteie,tol-' tone
quando fiamo neceffitati a dipingere fopta il muro. Per tanto volendo dipingere
a guazzo fopra la tela, o cartone, fé li dà prima_> fopra l'imprimitura di
creta temprata con colla di ritagli, fopra la quale dopoché farà afciutta fi
mettono i colori macinati con aqua, e ftemperaticon la niedefima colkdi
riragli, ouero con la tempera fat- ta con oua. Ma fé noi voremo dipingere fopra
il muro,dourcmo far- lo fin tanto che il muro è ancora irefco della calce, pei
ò con colori ftemprati con Taqua pura, e terre fenza adoperar biacca, lacca,
cinabro, e altri minerali, feruendofi invece di biacca, di Calcc,oiie-' re
bianco fanto, Ciafcuna di qOefte due maniere di dipingere fi può vfare in.» tré
modi, che fi diftinguono dal diucrfo maneggiare, che fi fa il pennello in
lauorare ; 11 primo più vfitato, e commune è lenendo ',ì\ che fi fa con mettere
ciafcun colore a fuo luogo, t^ poi con vn altro pennello, che ha netfo,c fenza
tinta, congion- gendo le parti cftreme dclli due colori vicini > acciò
vnendofi nfieme JnCieme non cagionino vna certa arprezza, che offenderebbe roc-
chio, fé vcdeflevn colore porto immediatamente vicino all'ahrojfen- no di
pittura, e di difegno, non fi ap- plicano al tediofo lauoro di ricamo, onde
quefto refta fole nelle mani di donne, che poco, o niente intendono le regole
di buon difegno, ne fanno le cofe neceffarie alla pittura ; nulladimeno Nicolò
della Foggia di»Marfiglia a giorni no.ftfi, è ftato mirabilifiìmo, et fi vidde
va ritratto di Papa Vrbano Vili, fatto di ricamo naruralifiìmo, che non eccedea
di grandezza vno fpatio ottangolare, per metter in vnanelio, e donato a eflb
Pontefice > cofa veramente degna d'amiratione. Simili alle imagini di ricamo
fono quelle dclli Arazzi, cofi chiamati da Arazza doue prima fi lauorarono, e
fc ne fanno non folo di lana^ma di feta ancora, che riefcono molto più belli, e
quando fiano fatti coii buon difegno, e pofti indebita diftanza dall'occhio
fanno vn bdllif- fimo effetto ; ed io direi che gl'arazzi paragonati alU ricami
^siano co- me le pitture grandi fatte a ogiio sii la tela, in riguardo alle
iraagitii fat- te a punta di pennello. Inuentione molto più antica è ftata
quella di far lHmagini.a-Tnafa;loo e si fanno come ogn'vn sa adoperando in vece
di colori piccioli minuz- zoli di pietre pretiofe, o marmi di varij colori, o
fmalti, intrecciando insieme le minute particelle, ed vnendole in modo, che
formino vna fuperficie piana rapprefentante in buona form^a di difegn^o, e
regola di pittura alcun* imagine di floria, o d'altra cofa. Molte di qjiefte te
me vedo- vedono lauorate dalli antichi, come in S. Marco di Venetia, in Roma,
ic altroue, le quali però (ono di iauoro affai groflb, e che richiede mol- ta
diftanza acciò non fi conofc a quel difetto, che prouiene dal noii^ cflerben
temperati i colori a riguardo della groffezza delle pietre che le compongono 5
ma delle più moderne alcune fono fatte con pietre» cofi minute, che in molta
vicinanza non fi diftinguono, e fembrano pit- tore su la tela,fe non che hanno
i colori più luftri, e più viuaci,com«-» quella di S, Michele Archangelo in S.
Pietro di R.oma,difegno del Caualier Giufeppc d'Arpino, opera veramente
Angolare in tal gc- ner feixa del marmo. Finalmente a tutte le predette
inuentioni io qui ne aggiongerò vna mia, di fare, che le pitture comparifchino
delicati/lime, ed in_* modo, che non fi conofca douc, ed in qual modo fiano
dipinte. Si dee dunque auuertire, che tanto più delicate comparifcono le
pitture, quanto più vguale, e iifcia riefce la loro fuperficie,- ond*è,che
alcuni Pittori, quando hanno compira alcuna pittura.^, vi danno fopra vna
Vernice,che viene a fare alquanto più Iifcia,© luftra l'opera; ferue anche a
tale effetto il mettere l'imagine fotto il criftallo,oucro talco, poiché quefto
toglie dall'occhio molto dX T t ine- 166 incgualirà,e roz-ierza della
fupc:ficictk! quadro; ma perche il cri- ftallo,otalco non fi adatta, ed vnifce
totalmente alla pittura, anz.i vi refta di mezzo molto vacuo, perciò non può
dare alla pittura,, quel luftro,eroauità, che li darebbe fé potelle vr.irfi
alla pittura per modo tale, che non vi reftafle parte alcuna diari3,e luo5.fo
tra ef- fa pittura, ed il criltallo . Se dunque Noi dipingeremo fopra il cri-
ftallo,o talco in tal modo che tralparifca rimanine nella faccia oppo-
ftadelmedefimocriftallo,come ho fatto io in alcune mie pitture pic- cole,
quefìe compariranno dclicariffime, ed i colori per effer imme- diatamentevniti
fopra il criftallo ('che vuol' e0cr pulitiflìmo d'ambe le parti) aquiftaranno
vna foauità marauigliofa; ma vn tal modo riefce molto arduo per due ragioni;
rv^na,perc he i colori fopra il cri- fìallo pulito non fcorrono, ne fi vnifcono
fxicilmente ; L'altra, che molto più ardua rende rimprefa,è che il primo
colore, che fi dà fopra jlcriftallojè quello che trafparifce; che però fé non è
pollo a fijo luo- go non fi può più emendar l'errore con metteruene fopra
dell'altro; onde chi vele dipingere in quella forma,
conuienc,ch'e^rhabbia-fran- coildifegno,eche lauori a botte, ouero a punta di
pennello, ma con queftodiu3rio,chequì nellauorarc a punta conuicne adoperare
anco labiacca,acciò non virefti parre'di Vetio,che non fia coperta di co-
lore,ciòche riefce molto più diflìcile del lauoro a punta di pennello fopra la
carta pecora, doue il candor della carta ferue di biacca. Perciò ho procurato
di rirrouare j! modo di fare, che vn im:)gine_-* già dipinta fopra carta
pecora, o lopravna tauola,o tela,fi vnifca,e{i attacchi alcriftallo totalmente,
fi che non vi refti aria alcuna tra mez- xo.Faccio qucfto métrc la pittura è
ancor frefca. intenerendo maggior- mente i colori con far penetrar per la
tauola,o cartapecora alcun li- quore, che intenerifca i colori, lafciando in
tanto m fopprefia la pittu- ra fopra il criftallo, acciò preniutauifopra,fiv2da
attaccando ad eifoj poiché dopo che farà bene attaccata, ed vniti i colori al
criftallo, liac- candofi la carta deftramente reftu la fuperBcie della pittura
vnica al crifìiallo, con l'imagine imprefla perfettamente, conforme fi dcfidera
. Nel che quando fi operi con tutta diligenza riefce opera veramente-» degna,
riufcendo però meglio fopra il criftallo, che fopra il talco, perche la
profondità del criftallo li da vn non so che più di luftro e delicato» Hor per
aggiongere all'opera maggiore marau!glia,dopo che fa- ranno afciugati i colori
pofti fopra il criftallo, dipingeremo fopra_, quelli medefimivn altra imagine
totalmente dsuerfa dalla prima,fiche mirandofi la faccia del criftallo, che
none dipinta trafparifca per efia cfìfa laprimaimigine^e mirandofi l'altra
faccia fi veda la feconda, n_^ tutto varia dall'altra. Ouero dipingeremo
dueimagini che trafpan'fcano fopra àviz diii?rfi criftaDi, e poi vniremotucce
due le faccie dipince di detti crifiilli j quali incaftreremo cofi vniti in vna
cornice, acciò fembri va cri- llallo folo crafparente intorno alla pittura \
poiché in tal modo d.iiiVna parte comparirà un imaginc, e dall' altra un altra
diuerfa,e munì di effe farà fopra la fuperficie, cofa che renderà marauiglia a
quelli ch^_> non fanno Tartificio, Con un altro artiticio più facile potremo
dare molta delicarf2za_, air imagine ponendoui fopra il talcojouero crftillo in
mode, che non uireftiariadi mezzo. Dopo che farà afciutta la
pttrur?.,^ilt>;.ll• peraremodella gomma netti (lima in aqua limpida,ediquefta
gamni alquanto denfa copriremo la pittura ftendendouela fopra coiìefc foffe
vernice, e mentre è ancor tenera ui metteremo fopra il r ileo pimen- douelo
fopra fintanto chefia aIIìugatalagomma,euirefti attic ato j così la gomma uerrà
a riempire ogni uacuo tra il talco, e la piruura_, come fé foffe unica
immediatamente, e dipinta fopra il talco, o criftallo. Quanto poi al modo di
difcgnare anch'egli è moìco vario, poiché alcuni difegnano con la penna, e con
l'inchioftro, e ciò in due modi. Il primo è di quelli, che lauorano
minutamente^ tratteggiando, e formando difegni, in tutto fimili alle carte
flam- pate in rame. Il fecondo di quelli, che mieftri nell'arce coi pochiflìmi
tratti di penna formano vn difegno di molte figure, nelle quali benché non vi
fia delicatezza alcuna, comparifce nulla di- meno vna gran forza di difegno
nclli atteggiamenti, e viua natu- ralezza delle cofe rapprefentate, ne! che fu
molto eccellente il Can- giafi,Luca per nome, e Genouefc,di cui ho veduto vn
tal difegno ap« preffo air lUuftrifs. Sig. Cauaglicr Celfo Lana inrendente non
folo di pittura,ma anche di fcoltura,di fortificatione, d'ailronomij,ed in ogni
forte di effercitio virtuofo fempre spplicatiflìmo. Altri difegnano comunemente
con lapis roffo, o piombino, nel qual modo meglio fpiccano i chiari, e gli
fcuri, e lo sfumare dell om- bre j e queftomododidifegnare è neccffario, che
fia bene intefo pri- ma, e pratticato da quelli, che vogliono applicarfialla
pittura 5 poi- che chi faprà ben difporrei chiari e gli fcuri rie! difegno in
carta„., non ritrouerà poi molta difficoltà in adoperare i colori fopra la_.
tela. Anche l'intaglio in rame è vna forte di difegno, nel che non dcuo 16$
deuo tralafciare di auuertire grriuagIiatorì,e quelli che formano di- fegni per
intaglio di que]rerrorc,chc fi vede in moltifsìme carte, nelle quali fi vedono
i personaggi operare con la mano finiftra,e pofte alla dcftra quelle cofe, che
dourcbbero eflere collocate alla finiftra parte; il che è effetto della ftampa,
che muta fopra la carta il fito delle figure, che fono intagliate nel rame j
perciò nel rame fi deuono ia» tagliare con fito contrario. S'intaglia anche il
rame con aqua forte, inuentione molto bella è facile de' moderni, fi dà al rame
la Vernice, e dopo efler afciuga- ta,s*imprime nella Vernice vna fottil punta
di ferro, che penetri fino z\ rame, vi fi mette poi lopra l'aqua forte, che
penetra in quei luoi ghi douenon è la Vernice, e lafcià impreflb il difegnoj ma
fé noi vorremo, che qualche parte del rame refti meno bagnata dall'aqua forte,
come quella che nell'Imagini rapprefenta vna lontananza di paefe, ongeremo
l'intaglio con vn poco di feuo, il quale diminuirà Is^ for^a ali aqua forte. %
*S4^ rca^* j»f^' *¥^* ^* nf'^* A^H' *Y4' *fe'9!*" *ì^ •JCftp ryC'»
"/sii «^9k9 ^i» ft*?*» «>fèìU «>^^ ««^s» e>^L’ARTE MAESTRA OUH'^
K " e particolarmente perche il V^tro concauo diuarica, e difvnifce i
raggi j oltre, che fi vedrebbero roucfci, poiché nella decuflatione de* raggi
171 raggi il dcftrodiuenta fmiftro, e rinfcriore fi fa fuperiore, et all'in- contro
• Si pone dunque qucfto Vetro concauo vicino airocchio, acciò che i raggi, i
quali iì vnifcono in vn 'cono,o piramide troppo acuta, fi diuertifcano da
taIevnione,e fi dilatino si, che la luce cosi fparfa,c dilatata fi pofla
foffrire dall'occhio^ e di più, accio che li raggi mcdefimi,i quali di nuouo
firenfrangono negli vmori dell'occhio, non fi vnifcano prima di arriu.ire al
fondo dcirocchio, Qyefto Vetro concauo deue parimente cfiere più, o meno \on-n,
tano dal punto delP vnjone deVaggi, conforme alla pupilla dell oc- chio di chi
rimira j poiché fé la pupilla farà più tu.Tiida,e sferica, come fuorcflere dei
giouaniper l'abbondanza di vmido, all'hora U diftanza del Vetro concauo dal
punto deU'vnione, de* eflere mag^ giorc,cioè,efler meno diftante vn Vetro
dall'altrojonde il cannochiale de accorciarfi j all'incontro fi de* allongare
quando la pupilla è meno gonfia e tumida, come fuol'eflere quella de Vecchi,
per mancanza di vmido, il che fi potrebbe facilnientedimoftrare con i
fondamenti deU Toptica, Li feconda cofa, che fi de oflcruare nella fabrica d\
quefto ftrumento, e che a proportione della lunghezza di eflb crefca anche lo
fpatio aperto del Vetro obbicttiuo,per il quale entrano i raggi con le fpccie
de gli oggetti, Ciò fi fa comodamente, coprendo l'eftre- mità del Vetro con vn
cartoncino, il quale hahhia vn foro tondo nel mezzo della grandezza predetta j
la qual regola e molto importante, edaeffa depcnde molto il vedere l'oggetto
chiaro, e diftinto]; poiché fé il foro, et apertura del Vetro farà troppo
grande comparirà 'con- fufo, et ofcuro ; e la ragione è, perche non tutti li
raggi dopo la re- frattionc fatta dal Vetro conu;^(ro,fi vnifcono nel medefimo
punto; «• come fi vede nella figura fcguente ; poiché gl'cftremi rags;! A A fi
y J^ vnifcono più prei^odi quello,che facciano li raggi B3, cioè qneliifi
voifcono in D,e quelH in E, e fimilmente i rag^i B più prcfto, fi vnifcono che
li raggi C, poiché qucfìi fi vnifcono in F,e la ragionec, perche li raggi
eftremi vengono a^ ferire più obliquamente la fuper- ficie sferica ABCCBA, m^
gl'altri CC la ferifcono meno obliqua- mente^ onde meno, anche fi refrangono, e
confeguencemente fi lien- dono più lontani prima di vnirfi nel punto F. Se
dunque poneremo il Vetro concauo nel luogo. GG, quefto. non riceuerà altri
raggi primaiche fi vnifchino, e fi decu(fino, che li CC, poiché li raggi A A,
è: BB fi decufiinojed vriifcono in D, et in E auanti al Vetro concauo Gj
conuerrà dunque dar adito, et am- mettere nel tubo li foli raggi CC,con
gl'altri di mezzo, impedendo l'- in-. ingrefTo a gli altri con ricoprire
reftrcmità AB, AB (Eel Vetro j altri- mcnte li raggi A,B, dopoché faranno
decuffati in D, et E, confon- derebbero in tal luogo le fpecie de gli oggetti,
che feco portano, eie portano confufe all'occhio pofto vicino al Vetro G. •
Giouerà dunque molto oiTeruare vna proportione conuenicnte, nel che auuerto,che
non fi poflbno afTegnare proportioni certe, It^ quali feruano in ogni calo, ed
in ogni circoftanza;anii in due cafi la proportione fi dourà alterare . Primieramente
per ragione del Vetro conueffo; poiché s'egli haurà Sgura Ipérbolicaj all'hora
il forame, 5c apertura dourà eÌTerc molto più grande, come dimollre-» remojne
folo quando i Vetri hanno figura Iperbolica, ma anche_^ quando la figura
sferica farà più efattamente fatta ; poiché in tal cafo pochi fono li raggi
inutili,che fi dcuono impedire, onde l'apertura pò-, tra eflere maggiore ; ma
fé il Vetro farà lauorato male, conuerrà fare l'apertura più ftretta.
Secondariamente, per ragione dell'illumina- tione dell'oggetto ; poiché quando
l'oggetto è affai illuminato dee l'apertura del Vetro cffcr minore; ma
particolarmente annulla de ef- fere quando noi miriamo le ftelle più chiare, le
quali altrimenti non fipofibno vedere cfattamerite, perche i raggi, che rifplendono
intor-. noallall:ellai^^ombranola vita; oltre che fanno, che il corpo di efsa
ftella comparifca più grande, nel che molti hanno errato nel deter- minare la
grandezza del Sole,e dell'altre ftelle, e pianeti; e ciò auuìe- ne
particolarmente in Mercurio, ed in Marte, come che fono pianeti più
fcintillanti; intorno alche vedafiHeuelio nella fua Selenografia, et il P.
Niicolò Zucchi nella fìlofofia optica parte prima cap. i.fe'"-'^ nuouo
refrangendofi dalli medefirai vmori, conforme la maggiore, o._ ' minore
conuefiità loro in O, et in P, dopo tale refrattione co.iJj'^,^'*f! ! v»yV
corrano finalmente in Q, fuperficie deÙ4 Retina,.ij^^ J Efsendoche dunque non
tutti gl'occhi, e pupille hanno la' me- defima figura,e conuefi^tà, per tutti
gl'occhi non ferue vgualmente i-i X X bene bene il mcdefimo Vetro toncauo j
Quefto folo fi ofseruì, che fé il Vetro oculare ùlÙ meno concauQ, e come dicono
più clo^c»/, rapprcfcntcrà l oggetto più chiaro, ma anche più piccolo, e con*
fcgucntcmentc il cannocchiale farà più corto -, all'incontro fc farà pitt
concauOjC come dicono più acuto, farà bensipiu grandi gl'o^^ getti? ma
i"cno chiari, ed il cannocchiale fari più lun^o, perche il Vetro più
concauo, più anche dilata li raggi, onde per non dilatarli iroppo dourà riceuere
folo quelli, che più fono riftrettiie tali fono quelli che fi vnifcono pi"
lontani dal Vetro conuefso . Serua dun» que di auuifo,che non fi de
accomu^odare la lunghezza del can- ^occhiale al Vetro j ma fi de cercare vn
Vetro concauo propor- tionatoalla lunghezza del cannocchiale già Inabilita,
cioè, alquanto minore del fcmidiametro della conueffità del Vetro ©bbiettiuo ;
e fé in tal diftanza vn conuefso della mcdefiitia conuedìtà richiederà vn
concauo più acuto dell'altro farà fegno di maggior perfettionc-» del medefimo
con^eflo, poiché f^rà più grande l'oggetto, fenzM ofcurarlo. Ordinariamente fi
potremo feruire della Tauola féguente, in cui fono determinate le proportioni
tra il diametro del conuefso, et il diametro del concauo, conforme ne ha
Infeguato l'ifperienza-p e J^unghezza del diametro dclconucffo I 2 o. 5^ 12
> 2. 24 3 4 5 C. 7 8 > 2. 4 II i. 41 28 2.56 51 > 2. Io > 2.43 29
> S.57 IPt Lunghezza del d'jamctiCi delconcaao 5 0. 3^ II 2, 20 »3 — > I,
28 > > I. 49 1-57 17 2. 35) 2. i^ Conueffo14 IS 16 1 20 > 2.45 1
Concaua 2. 27 2. 3 I 5 5 V 342. 37 i5 -i 3° 2.58 Conueffo 3rl > ^•47 %%. r (
2. 5 « 14 l6 i ^7 i. 5 5 1 Concauo 5 ' a. 45 5 a»^* 5 > 1. 5 3 i- 54 1 '' Li
175 JLi numeri della lunghezza del diametro del Vetro conuefsp rap. prelentano
palmi, li quali fi fuppongonodiuifi in iz,oncie,e ciafcua oncia in 60. minuti,
onde poi li numeri della lunghezza del dia^ metro del Vetro concauo fignificano
le dette oncie, et i minuti 5 siche ad vn Vetro conuefso di diametro di vn
palmo, corrifpoodQ vn concauo di diametro di oncie o. minuti $6, Doue fi
fuppone, che tanto il Vetro concauo, quanto il conueflb fia lauorato d'ambe le
partiima fé il concauo farà lauorato davna parte fola, e dair'altra refterà
piano, all'hora il diametro della concauità dourà cflere l^^, metà mmore. Circa
di che fi noti, che nulla importa che il concauo fia tale d'ambe le parti,
poiché fa l'ifteflb effetto vn concauo di dia- metro dj vn oncia,Iauorato da
vna parte foia, ed vn altro concauo di diametro di due oncie lauorato da tutte
due le parti, non cosi riefce nel conueflb,poichc fé farà di due palmi il
diametro della conueffità, cflendo lauorato da vna parte fola, porterà il
cannocchiale lungo due palmi; ma fé farà lauorato da tutte due le parti porterà
il cannochiale lungo fol vn palmo. Quinto. Si dee diligentemente auuertire,che
le parti del can^ nocchialc, che s "inferifcono Tvna nell'altra, nel modo,
eh t^ poi inregnaremo,fiano talmente ftrette,ed vnite infieme,che non vi redi
feffura alcuna, per cui poffa entr:^re la luce; la quale non dourà poter
penetrare per altra parte, che per l'apertura de i Vetri, altra- mente
confonderà le fpecie deU*oggetto,che entrano per il Vetro, fucr cedendo il
medcfimo, che in vna camera ofcurata,alla cui feneftra fia vn picciolo forame,
per il quale entrino le fpecie degli oggetti, doue fé fi ammette altra
luccjfubito fi confondono fimagini di detti oggetti . Sefto. Gioua molto per
vedere l'oggetto chiaro,e diftinto met- tere nelPeftrema parte di ciafcuna
canna del canocchiale va circo-» lo di cartone; e quefti circoli deuono effere
aperti nel mezzo con tanta apertura, che riceuano folo i raggi dell'oggettoje
le linee, che paffano per reftreme parti dell'apertura del Ve!;ro concauo, e
del Vetro conueffo pailGno medefimamente per l'eftreme parti dell'aper- tura di
tali circoli, si che dopo che hauremo detcrminate l'aperture del Vetro
concauo,e del conueffo infieme con tutta la lunghezza del
cannocchialcsinferiremo nelle canne dieffo gli altri circoli dimezzo con detta
proportione, i quali fanno quefto effetto, che impedifco- no li raggi,e
fpecie,che: dalle parti laterali entrano per il Vetro con- ueffo, acciò quefte
non arriuino all'occhio, poiché confonderebbero le fpecie dciroggctto, che fi
vede; Per quefto medefimo effetto gio- uerà '7» uerà che le canne fiano larghe
» ancorché il cannocchiale fìa corco : poiché nell'ampiezza di effe fi
debiliteranno, e fi perderanno le mede- Sme fpecie de gli oggetti ftranieri.
Settimo,per impedire maggiormente tali fpecie de gli oggetti late- rali, acciò
non entrino per il vetro conueffo, metteremo effo vetro non
totalmenteinfinedella canna, ma alquanto più indentro, acciò i lati cfìremidi
effa canna impedifcano d'ogn'intorno l'entrata a tutte le altre, fpecie, fuori
che a quelle dell'oggetto che fi può fcoprire con tale can- nocchiale : ouero
potremo ancora auanti al vetro conueffo ncll't iberna parte del tubo due, otre
diti lontano da effo vetro mettere vn circolo di cartone con tanta apertura,
che fia fufficicnte ad introdurre le fole-» fpecie dell'oggetto vifibile; nel qualcafo
non faranno neceffarij altri circoli nel mezzo del cannocchiale, ma in ciò fare
fi de'auuertire di non ofcurare troppo effe vetro cbbiettiuo, poiché non
rapprefentareb- be l'oggetto chiaramente : onde all'hora fi porremo feruire di
quella-, regola,quado vedremo che il cannocchiale rapprefenta l'oggetto trop-
po chiaro, e con qualche luce colorita a modo di Iride j poiché per to- gliere
queft'iride è vnico il rimedio predetto, non procedendo tal iride da altro che
dalla luce colorata co la fpecie de gli altii oggetti che in- fieme fi
confondono.,:o,-,i.r 1 Ottauo, il vetro concauo de' effer collocato in luogo
ofcuro quanto più fia poffibile,* e l'occhio di chi rimira de' effere in luogo
parimente ofcuro, altrimenti^ fé foffe cfpoflo al fole poco,o niente potrebbe
dif- cernere deiroggetto, e quefta regola è di grande confideratione,& è
vniuerfale per ogni forte di cannocchiale, e per ogni conditione di occhic, et
anche per vedere le cofe piccole con il microfcopio; come.* vniuerfali
parimente fono per ogni forte di cannocchiale le regole quinta, fefta,efettima
precedenti. Giouerà dunque molto tingere di color nero tutta quella parte del
tubo, che è intorno al vetro concauo, e vicina ull'occhio, e collocare effo
vetro alquanto indentro nella can- na. Queft'ifteffo c'infegnò la natura nella
fìruttura dell'occhiojpoiche intornoairvmor criftallino, che rapprefenta il
uetro,pofe la tonaca.^ detca uuea di color fofco, e denfa, acciò in tal modo la
uirtu uifiua,e gli fpiriti uiforij non fi diffipaffero:e farà meglio a nchora
tinger di nero tutta la canna nella parte interiore. Nono, Si dèfapere,che con
li cannocchiali breui fi fcopre inJ vnafola occhiata maggior fito a proportione
della minore lunghez- za^ ma quanto più oggetto,c fpatio fi fcopre tanto
minoreèladiftanza acuìpoffono diftinguere,e far comparire l'oggetto grande.
Cosi di due cannocchiali vno di due palmije l'altro di quattro/c quello.
difcerj la ragione è, perche per miraredavicino,comerièdetto,ri de allun- gare
il cannocchiale; e queftoallungandofii raggi fanno angolo mi- nore,e
perconfeguenzala punta del cono rad iofo,eirendo più picco- Ja,e
riftretta,piccola anche de eflere l'apertura del Vetro perlaquale dee pafiare.
Refta hora d'infegnare il modo di lauorare i Vetri, e formare le canne nelle quali
fi deuono inferire; per il che diamo le fe^uenti re- gole, I. Si deue far
fcicita di criftallo, il quale non habbia pori, nc^ bollc,ma fia denfo,e netto
quanto farà poffibilejcome fuol eflere il cri- ftallo di Venetia, con cui fi
lauorano gli Specchi, o altro fatto artificio- famente; Etauuertafi di pigliare
crifhl!o,in cui non fiano certe vene, overoonde,le quali nai'cono dal difetto
de gli artefici nello ftenderlo inlaftre; poiché tali onde molto più che i pori
turbano le fpecie,^^ confondono le refrattioni; perciò fi pigli criflallo,che
fialauorato, e luftro, per poter prima di fare la fatica conofcere {e inefla vi
fono bolle,e vene, che impedifcano il buon' effetto del cannocchial^-j-: Alcuni
adoprano il criftallo disiente, per efler più chiaro, ma però C^li ha yn altro
difetto, che fa minore rcfrattione del criftallo di Ve- netia,dalla qual minore
refrattionc nafce,che ingrandifce manco gl'- oggetti 5 oltreché non è facile il
ritrouare criftallo di Monte,che fia fenza vene,ed inegualità; Altri fanno de!
criftallo con arte partico- lare,e per farlo chiaro vi pongono molto di fale
Alcalino foda; ma que- fti criftalli per l'ecceflo del Tale fogliono fudare,cd
invmidcndo fi appannano,onde ogni volta che vogliamo adoperare il cannocchiale
conuiene Icuare vìa 1 Vetri dalle canne,e nettarli; e per ordinario an- che
quefti fogliono fare minor refrattionc, il qual fecondo difetto è molto
coufiderabile; anzi perciò alcuni eleggono Vetro ordinario, benché alquanto
fcuro, perche efllcndo più denfofa maggiore refrat- tione;c per confeguenza
ingrolTa più l'oggetto. Si de* ancora auuer- tire che il vetro, o criftallo non
habbia colore alcuno ; ne anche de* eficre troppo chiaro, poiché è inditio di
non eflere molto denfo, oltre che rapprefenta gl'oggetti debbolmente,& alle
volte con iride,de* dunque eflere di vna certa chiarezza, e nettezza denfa,e fé
tira alquan- to al color d'aria, oceleftc farà buoniflìmo effetto,
particolarmente nel vetro oggettiuo. Suol anche eflere ip.ditio di buon
criftallo, che men- tre fi contorna con ferrOjO forbice (ì fpezzi in particelle
minute; ma_* quando fi rompe in parti grofie,moft radi eflere imperfetto, e fi
mani- fefta i8t fetta in cflc rofcurìtà, o il color verde del crifl:allo,o
altro 5 che fé non appariranno tali colori, ma più tofto vna cerca ofcurità
tenue, e rap. prefenterà le lettere fcrittefopra la carta viuacemence, con
colore più nero di quello che fono, e con vn certo diletto dall'occhio, e
vagherà, fappiafi che è criftallo ottimo per il noftro effetto. Auuertafiin
oltre, che il criftallo per lauorareil cócauo nonhabbia alcun poro, o macchia
nel mezzo j poiché iui concorrendo vnici tutti li raggi delle fpecie
dell'oggetto, fi perturberebbero molto, facendo refrattione irrego!ata,e
confufa; onde meglio farebbe il concauo ado- perare criftallo di Monte, o altro
criftallo chiaro, ancorché non fofl'e molto denfo,poiche fé per tal ragione
farà poca refrattione, fi potrà fare alquanto più concauo, onde non ne nafcerà
altro inconue- nientt^ . Dopo, che hauremo fatto elettione di ottimo criftallo,
con- uiene tagliarlo in parti quadre,e poi contornarlo, e rifondarlo perfet-
tamente prima con vn ferro, o forbice fatta a tale effètto, poi fopra la moIa,o
ruota, acciò venga ben tondo, incontrandolo con vna carta rondata con il
compafso.Per tagliarlo in pezzi quadri fi fegna con fmeriglio,ocon vna punta di
diamante,o altra pietra pretiofa j ma fé il Vetro toffe troppo groflb, e ciò
non baftafìe per tagliarlo, dopo che rhauerai fegnato con la pietra, toccherai
eflì fcgni, e righe con vn_. ferro infocato.Onero accenderai vn filoimbeuuto di
fojfo, e difte- fofopra il Vetro, doue vuoi tagliarlo, e ciò farai più volte
nel medtv fimo luogo, fino che h^bbia bene concepito il calore, poijvi
ftenderai fopra vn altro filo bagnato di aqua fredda. IH. Il Vetro, particolarmente
l'oggettiuo, non fia troppo fottile, anzi fia alquanto groflb, maflime quando
dourà feruire pfer cannoc- chiale lungo; e più groflb fia quanto più è chFaro,
e mcn denfo; poiché efsendo grofso h maggiore refrattione; onde fi può com^
penfare nel criftallo chiaro di Monte? o altro, la poca refrattione-* con la
maggiore grc)fi*ezza. Il Vetro fia ben piano, in modo, che non fia più grofso
dall'- vaa, che dall'altra parte ; anzi ne meno de cfsere più denfo in vn
luogo, che nell'altro, acciò le refrattioni vengano ordinatamentc-^j perciò fi
potranno fare alcuni anelli di ferro, o di rame, alti tanto quanto dourà efsere
la grofsezza del v^etroji quali douranno efsere lauorati efsattainenie al
torno, acciò vna parte non fia più alta deli% altra 5 in quefti anelli farai
infondere da Vetrari il criftallo lique- fatto, e fubito lo premeranno di lopra
con vns kftra piana, procu- rando che fia premuto vgualmente, acciò non rcfti
più denfo, o qrof- fo x8» fo da vna parte che dalPaltra ; dal che ne rìfulta
anche queftj commo- ditàjchefi fparamia la fatica di tondare il
criftallo,venendo in tal for- ma perfettamente tondo : ma conuieneauuertirc
cheli detti anelli fia- no alquanto più lirghi nella parte di fopra, per doue
fi mette dentro il vetro, acciò fi poffa facilmente cauar fuori, e mettcruenc
dell* altro j (imilmcnte per Ichifare la fatica di lauorare le lentijche fono
vetri mol- to conueflì, come diremo appreflb, potremo fare anelli, che nel fon-
do fiano alquanto concaui, acciò il uetro, che ui s'infonderà prenda_* forma
conueffa. Auuertafi finalmente di far infondere il criftallo molti giorni dopo,
che il criftallo è Lìazo nella fornace, acciò fia ben cotto, e purgato. V. La
maggiore difficoltà di tutte le altre confitte nel lauorare i piat- ti,ouero
forme, fopra le quali fi lauoranopofciaiuetri, dandoli figura conuefl^a fopra
li piatti concaui, e la figura concaua fopra li piatti con- ueflì, ouero fopra
palle, o mezze palle rotonde : li uetri conueffi,e par- ticolarmente quelli,
che hanno poca conuefiìta, cioè una piccola por- tione di una gran sfera fono
più difficili da lauorare che gl'altri: onde perciò fi richiedono piatti molto
perfettive fappiafi che dalla pcrfct- tione del piatto nafce la perfettione del
uetro, poiché fé il piatto non-, ha forma sferica perfetta, non la può
communicare al uetro, che fo- pra lui fi lauora ; per quefto pongafi fomma
induftria nel lauoro di detti piatti. Alcuni li lauorano in quello modo.
Prendono vna pertica, o afta di- ritta di tanta lunghezza, quanta vogliono che
fia quella del cannoc- chiale jvn capo di effa formano in modo che l'altro fi
pofia girare, e muouerc per ogni lato, fi che fcrua come di compafio. In quefta
parte mobile fermano vna punta di ferro, con la quale girandofi come fa la
punta del compaffodifegnano fopra vna lamina di ferro, odi ramc^ vna
portionediarco,qualetagliano,econlalimalo riducono in modo, che fia
perfettamente sferico j pofcia quellurco medefimo, o vero vn-^ altro di ferro
tagliato all'ifteffo modello formano a modo di lima ; eoa quefta lima danno la
forma ad vn modello di piatto fatto di legno,con il qual modello fanno poi la
forma di creta, nella quale fi fa il gitto del siietallo,e queftoè il piatto
concauo, fopra cui fi lauorano i vetri con- uedijò vero conueflb fé fia per i
vetri concaui i ma prima con la mede-f fima lima di ferro fatta a modo di arco
sferico, fi perfettiona toglien- do da eflb ogni inegualità, che hauefle
contratto con il gitto. Qual me- tallo fia migliore per quefto effetto
l'infegnerà adognVno la propria-, ifpericnia, ordinariamente fi adoprano di
bronzo, ouero di rame j e fi fiolTono fere anche di ferro ; Io nel lauorare le
lenti ? perche in tal fat- tura turafi de* lograre molto vetro, onde fi
logrerebbc molto anche la for- ma, con pericolo di perdere la perfetta (uà figura,
perciò le difrozzo prima in vna forma di piombo, e pofciale finifcodi
perfettionare in-, vn altra fimile di bronzo, o di rame, la quale quando mi
auucdo chs_^ habbia pcrfa la figura, glie la dò con l'arco di ferro fatto a
limale quefli* arco fatto a lima io adopro folo per le piccole forme da
lauorare le-» lenti: nelle quali forme non vi è molta difficoltà, ne fi ricerca
fom- ma efattezza, come nelle forme grandi, e di molto diametro 5 ne il
predetto modo della fagma tagliata con la pertica, riefcc ficura ed efatta.
Perciò meglio farebbe fare in quell'altro modo da me taluolta vfato
felicemente, Attaccafivna pertica diritta al uolto di una camera.*, ouero ad un
traue, o altra cofa immobile, e uuole attaccarfi non con., una fune, ma con
anelli di ferro, acciò non fi pofsa allungare, ne fcor- tare : All'altro capo
della pertica metto vn ferro fatto à modo di pic- colo fcalpello tagliente
nella punta j ciò fatto prendcfi il piatto di mc- ta|lo,acui vuolfi darela
forma concaua, e fi colloca direttamente fot- to la pertica pendente in aria in
tal modo, chela punta dei ferro pofta in capo alla pertica ferifca il centro
del piatto, il quale vuol' efler fer- mato ftabilmentc incaftrandoloin
vnatauola,o incollandolo fopra_. vna pietra sì, che nonfipoffa muouere^airhorafivà
mouendo intorno la pertica in modo, che la punta di ferro vada rodendo il
piatto, fino che gl'haurà data la portione di quella sfera, di cui la pertica
viene^ ad effereil femidiametrojSt accioche fi polla meglio girare la perti- ca
fenza che fi alteri la di lei luughezza, meglio farà fare, che in capo habbia
vna palla,© mezza palla rotunda, e quefta s'inferirà in vn anel- lo tondo, e
concauoamodo di vn' altra mezza palla coricaua sì, che quella in quella
mouendofi la pertica faccia il fuo effetto, ^_^ la palla fia come il centro, da
cui prende il moto la medefima pertica.^ • Ma lafciando ogn'altro modo come
laboriofo, impetfetto,& efpofio a molti pericoli di errore ;paleferò in
cuefto luogo vnmodo ficuriffi- mojcfattiffimo, e facile, con cui potremo fare
piatti per cannocchiali di cento, e più palmi fenza pericolo di errore alcuno:
Quello artificio tenuto fin bora fegreto, non voglio tralafciaredipalefarloper
publico vtilc J benché forfi a tal* vno non piacerà che io l'habbia palefato;
ma fc alcuno il quale forfiè flato il primo inuentore di quello artificio, l'ha
voluto tenere nafccftojiochefenza faperlodalui,o da altri l'ho ritrouato, poflb
publicarlo come cofa mia propria : deuo benfi però darne anche lode a chi mi ha
aiutato a perfettionarloj e ridurlo facil- % z mente i8z Hicntealhpratticajcioè
al Sig. Francefco Simonetta Ingegnere, «_, matematico molto intendente del
Sereniflìmo Sig, Duca di Parma, il quale nel mcdefimo tempo che io in Roma ;
haueua penfato in Parma_. quello artificio fenza che Tvno fapeire nulla
dell'altro^ onde poi l'anno 1660, giontoioinparmaje difcorrendoìconefib
lui,rJtrouai che il •enio conforme hauea portati ambidue ad vna medefima
inuentione? Quale hora è pratticata da quefto gentilhuomo con ogni perfettione,
facendo egli piatti per ogni forte di cannocchiale con ogni eccellen- za, e
maeftria. E so elfer hoggidì pratticata ancora da altri,© efli Thab- biano
ntrouatadafcmedefimi,o l'habbianorifaputadaalcunia quali io rhocommunicatajnel
che mi dichiaro di non volere pregiudicare ad alcuno nella gloria di tale
inuentione, effendo cofa frequente cho-» piudVno s'incontri a ritrouarQ
fpecolando,o prattic^ndo vna, cofa_r. medefima.^ « Prendafi il piatto di
metallo rotondato, e piano, overo alquanto battuto, $r incauato, conforme al
maggior confano, che fé li vuol dare, e per finirlo di perfettionare,e darli
perfetta figura fi incaftra fortemente in vn capo di vn legno tondo, e cosi
fermo fi fta- bilifce fnpra vn torno in aria, in modo che fi giri nel fno
centro; e per farlo girare feguitamente fempre da vna parte fi potrà ac-
commodare vna ruota, che girandofi col premere di vn pierr nr ^nr^fy "*f
o^JÌ X. Il vetro oggiettiuo de' eflère groflb, o fottllc conforme la lun-
ghezza del cannocchiale, e eonucflìtà,che fé li vuol dare 5 e quanto più lungo
farà il cannocchiale, tanto più groffo de* eflere il vetro ^ rna_, %, è
difficile il determinare qual regola, e proportione s'habbia da ofler- uarej
poiché non ogni vetro è vgualmente denfo, o chiaro, e perciò vno fa più
refrattione, e l'altro meno j onde i vetri meno denfi deono pigliarli anche più
groflì, acciò la poca refrattione, che nafce dalla_, rarità, fia compenfata
dalla groflfezza. lotenendo vna viadi mezzo of- feruo quella proportione j
piglio dodici gradi di quel circolo (che fi fuppone diuifo al folito in $ 60,
gradi ) di cui effer dee la conuclTìtà del vetro ; come nella portione di
circolo A D B, fimile al quale cfler dec«* la conuellìtà del vetro; piglio
dodici gradi cioè da A fino a B,e vi tiro fotto vna linea ACBjpoi faccio che la
groffezza del uctro fia_, tanta, quanta è la diftanza CD duplicata, cioè tanta
quanta è la Imea ig'-vv^T DE in modojche fé il uetro nella conuellìtifofìe 12.
gradi, e filano- - raffe d'ambe le parti, nell'cllrcma circonferenza refterebbe
confumata dall'arena tutta la fua groflfezza, e finirebbe in un taglio. XI.
Sopra tutto fi de' hauer riguardo alla grandezza del uetro; poi- che fé bene
poca parte di eflb de* reftare fcoperta per riceuere i ra"^. gi de gli
oggetti ; nulladimeno moftra Tifperienza che facendoli pic- coli non prendono
perfettamente la figura del piatto, onde fi deono fare molto più grandi di
quello che porti l'apertura loro nel cannoc- chiale ; poiché lauorati, e
luftrati che fiano,fe non li vorremo sì grandi potremo poi impiccolirli; e non
rincrefca ad alcunola maggior fatica, che fiproua inlanorare,e luftrare i vetri
più grandi, poiché verrà ri- compenfata dalla perfettionedel vetro che riufcirà
fenza paragone^ megliore : come ho imparato dall' efpcrienza: Io non faccio
vetro di 12. palmi che non fia largo almeno 4. oncie,cioè vn terzo di palmo, ed
i vetri di 20. palmi li tengo larghi mezzo palmo; che peròadopro piatti affai
grandi, doucndo quelli eflere tre in quattro volte più lar^^hi del vetro nel
loro diametro; onde anche auuiene che meglio confer- uinola loro figura concaua
perfetti^ . Dopo che fono lauorati, e puliti li vetri fi deono inferire nelle
canne; circa le quali oltre lecofe già accennate difopra fide'auuerti- re di
farle leggieri, acciò non fi pieghino facilmente perii pefo ; ma nondeuono però
eflere tanto fottiIi,che vi penetri, e trafparif- ca la luce; di più non folo
conuiene in ogni maniera impedire ogni adito alla luce, facendo che vna canna
vadiben ftretta con l'altra»,, ma »>» ina anche gìoucrà per di dentro darle
color neroi Giouerà ancora^ fare le canne in modo che fiano alquanto più Jarghe
nella rvl cima che nel fondo, poiché cofi Icorrerano facilmen^ te, e diftcfe
che fiano la parte larga, vnendofi con la ftrctta fi ftringeranno forrement^^
fenza pericolo che fi pieghino, o vacillino. !Oìt)nt)n; : ^tlli céinnocchìali
dì due^ o fin 'vetri conuef/f. I fogHono fare cannocchiali fenza vetro
concauo,ponen- do vicino all'occhio, o poco da eflb lontano come di- remo vna,
o più lenti, cioè vetri conueflì di poca sfera ; e benché li cannocchiali con
vna fola lente vicina all'- occhio rapprefentino gl'oggetti riuoltati al
contrario; fi vfano però per mirare le macchie della luna, del fole, e le altre
ftelle, quali nulla rileua che la parte deftra comparifca dalla finiftra. Per
tan- to fi fanno con quefte regole. I. La lentefcèconuelTa d'ambe le parti
dceftarc dentro la canna_. vicina all'occhio quanto è ilfemidiametro di effa
lente ; ma fé è con- ueflada vna parte fola dee fìare lontana dall'occhio il
doppio, cioè quanto è tutto il diametro. IL Al diametro del vetro oggettiuo dee
corrifpondere quello della lente; poichei vetri obbiettiuì di maggior diametro
richiedonoanche vna lente di diametro maggiore con vna tal quale proporrione;
nel che fi de* fapere, che tanto più grandi fi rapprefenteranno gl'oggetti,
quanto la lente farà di minor sfera, e di più breue diametro; ma quan- to più
grandi farà gl'oggetti, tanto più ofcuri compariranno, et all'in- contro la
lente di maggior sferali rapprefenterà più chiari,ma più pic- coli. La ragione
di queftoè perche ciò che apparifce più grandc,app2- rifce tale perche fi
mirafottovn maggior angolo, come dimoftra Top- tica;ma quelle cofé che fi
vedono fottomaggiorangolo, fi vedono più ofcuramente, perche eflendo l'angolo
grande, i raggi vifuali che_» deuono riempire eflo angolo, fi diffipano troppo,
onde perdono della fua forza, viuacità, e vigore, che riteneuano e&ndo
vniti in vn angolo minore-^. Quale debba eflere la proportione della lente con
il vetro cbbietti- uo non fi può facilmente determinare, poiché quanto più
perfetta farà la figura sferica deirobbiettiuo, tanto più gagliarda, cioè di
minori;^ sfera potrà cflcre la lente, onde anche da ciò fi conofce la
perfettiono del vetro obbicttiuo, che fi poifa accompagnare con vna lente gagliar-
da, e nulladimeno con ingrandire maggiormente roggctto,lo rappre- fenti però
affai chiaro. Quando vn vetro obbiettiuodi cannocchiale-^ C e e lungo »54 lungo
1 o. palmi fi pofTa accompagnare con vna lente che fia di femi- diametro vna
fefta parte fola diva palmOjfide'ftimare molto perfet- to, ed io ne ho lauorati
alcuni di que/h natura 5 fi che rapprcfentano l'oggetto fefianta volte più
grande di quello che comparifca all'occhio nudo. Poiché fi de* fapere che la
grandezza apparente dell'oggetto lontanomiratocontalecannocchiale, paragonata
alla grandezza ap- parente del medefimo mirato fenza cannocchiale, ha la
medcfima pro- portione, che è tra il diametro dell'obbiettiuo, ed il diametro
della len- 5e,fi che efiendo vna fefta parte di vn palmo, a io. palmi come i.a
6q, tuie èfimilmentela proportione dell'ingrandimento. Quindi èche fé vn
cannocchiale il doppio più lungo cioè di 20. palmi fi accompagnaf- fe con vna
lente di diametro pirimence al doppio cioè di vna terza par- te divn palmo,
quefto cannocchiale benché il doppio più lungo, non_* rapprefenterebbe niente
più grande Toggecto di quello che faccia l'al- tro; che però non deecrefcereil
diametro della lente a quella propor- tion,checrefceil diametro
dell'obbiettiuo, ma molto meno. La ragione poi per la quale l'iftciTa lente,
che ferue bene ad vn ob- bicinuodi lo.palmi nonferuaad vn altrodi 20. palmi, è
perche di quanto più lungodiam.ctro,e i! vetro, tanto piuingrandifce a propor-
tione gl'oggetti, i quali non comparifcono grandi per altro fé non per- che fi
vedono fottovn angolo maggiore; e confeguentemente conmi^ nor quantità di raggi
in ciafcun ponto dell' imagine,!a quale quanto più grande fi forma, fi forma
parimente più debbole, e meno viuace, come fi vede nelle imagini tramandate da
tali vetri obbiettiui,poftiad vn forame di vna feneftra in camera ofcura:
Quindi èche fefiaccom- pagnafle conTobbiettiuo di 20. palmi l'iftefla lentcchc
ferue perl'ob- bieitiuo di lo. palmi fi formerebbero l'imagini delli oggetti
troppo dtbboli,& ofcure; che però fi accompagna vna lente di maggior dia-
metro, la quale formi Timagini più chiare benché più piccole ; conuie- neperò
notare che l'imagini più grandi formate da vn vetro obbicttiua U.g.di 10. palmi
non fono il doppio più debboli di quelle che fi for- rnano da unuetro
obbiettiuodi io. palmi, perche la maggior quantità di ra^^ich' entrano per
l'apertura maggiore del vetro di 20. palmi compcnlala debbolezzajonde fé
l'apertura del vetro di 10. palmi po- tefle eflcre il doppio più grande di
quella del vetro di io. palmi sì,che tutti iraggsche entra{reroperefl3,fi
vnifl'ero a formare l'imagine, co» me fi vnifcono quelli eh' entrano per
l'apertura il doppio minore del vctrodi lo. palmi, l'imagine fi formerebbe il
doppio più grande, c-^ nuUadimeno ritenerebbe l'iftcfla chiarezza, e viuacità
jonde fi potreb- be adoperare l'ifteifa lente, che ferue per il vetro di 10.
palmi j ma_. per- Ii>5 perche non fi può dare tant' apertura al vetro, che
tutti h" raggi che per cfla entrano vengano ad vnirfi nella formatione dell'imagine,
perciò fi deecompenfarela minore apertura, con la lente di maggior diametro:
Pertanto fi dourà ofleruare quefta regola, che nel cannocchiale più lungo
quanto l'apertura del veftro è minor di quello che dourebbe effe. re a
proportione della lunghezza, tanto maggiore fia il diametro della_, lente à
proportione del diametro della lente del cannocchiale minore, v.g. fia vn vetro
di cannocchiale di i ©.palmi, con apertura di vn oncia, C con vna lente di due
oncie di diametro, il quale riefca perfetto : oc vn altro vetro di 20. palmi
non pofl'a vnire perfettamente i raggi con aper- tura maggiore di vn oncia è
mezza, fi che manchi vna mezz'oncia alla proportione della lunghezza, la lente
dourà efiere di 5, oncie. Nel che però fi auuerta che quando dico vn oncia,o vn
oncia,c mez- za di apertura del vetro non fi de' intendere vn oncia di diametro
in lunghezza,ma in ampiezza difuperficie, eflendoche la fupcrficie non crefcc
con la proportione del diametro, ma con proportione ma^aio- re,cioè con la
proportione de' quadrati del diametro ; come dimoftra Euclide. Ciò che fi detto
del diametro della lente s'intenda ancora del diametro delconcauo, quando
quefl:o fi adopra invece di quella. Didì che la proportione della grandezza
apparéte con il canocchia- le, alla grandezza apparente fenza cannocchiale, e
la medefima ch?_-» quella del diametro del vetro obbiettiuo al diametro della
lentejil che fide'intendere quando l'oggetto ftia lontano dal vetro obbiettiuo
del cannocchiale foltanto,quanto è il diametro, onero fcmidiametrodeija
conuefiìtà del medefimo vetro, cioè quando l'oggetto è lontano dal ve- tro
quanto è il foco delvetromedefimo^nel qual cafo il cannocchiale fa l'effetto di
microfcopio : ma in maggiore dilhnza l'oggetto non com- parifce ingrandito con
la medefima proportione, ancor che cale fia la proportione de gli angpli,che
fanno i raggi, li quali vengono dall'eflire- me parti dell'oggetto al punto
della villa, la ragione è perche la gran- dezza apparente dell'oggetto, non fi
de'mifurare dall'angolo, de i rag^^i efì:remi dell'oggetto formato
nell'occhiojma dal angolo, de'medefimi « raggi dopochefi fono refratti da gli
umori dell'occhio medefimo i il che per non eifer fì:ato auuertito da molti, è
fl:ato occafionedi errore nel determinare la grandezza apparente de gii oggetti
; fia v. g, l'oggetto r-- AB prima vicino all'occhio C, l'angolo che determina
la grandezza ;f^_J^^* apparente non è l'angolo AC B,- ilchefi
prouamanifeftamcntecon-, l'ifperienza.-poiche pofto rifieflb oggetto AB al
doppio più lontano dall'occhiojcioè in GH,farà necefìariamente TangoloGCH il
dop- pio minore dell'angolo A C B, onde dourebbe l'oggetto medefimo com- pa-
196 parire il doppio più piccolo ^ e pure rifpenenza moftra, che Ce io miro
vg.vn vetro di vna fencftra prima in diftanza dicinquepaffijC poi in diftanza
di dieci paflì, in quefta feconda diftanza non mi comparirà ildoppjo più
piccolo j anzi mi comparirà poco minore di prima-. • La grandezza dunque
apparente fi dcEermina,da gl'angoli de'mcdefimi raoc^i dopoché fi fono refratti
nell'occhio, cioè dall'angolo F CE for- mato dalli raggi A CE, BCF, dopo che fi
fono decufifati, e refratti, e dall'angiolo DCI formato dalli raggi C CI, HCD,
fimiimente de- cufTsti, e refratti ; e perche l'angolo F C E, non è il doppio
maggiora-» dell'angolo DCl,benchefia formatoda raggi, che vengono dall' og-
oettoil doppio più vicinojperciò l'oggetto ancorché più vicino al dop- pio non
comparifce al doppio più grande 3 La ragione poi per la quale
quell'an^olojchedourebbe efiere al doppio più grande non Io fia, de* pende da
varie cofe,quali farebbe cofa lunga il fpiegarlejOnde mi rifer- uo a parlarne
nell'optica. i Per bora bafìii fapereche laproportionedegli angoli fatti da
raggi eftrcmi deiroggetto,ed vniti fenza refrattione all'occhio, non èia me-
defima con la proportione della grandezza apparente, e per confe- ouenxa è
falfa la regola vniuerfaie jche anche nell'ingrandimento óeK- oggetto fatto dal
cannocchiale fia la medefima proportione tra Ia-appIicheremo effo cannocchiale
con il Ve- tro cbbiettiuo al forame della feneftra,e porremo al fuo luogo la
terza lente fola,facendopafl3re per il Vetro obbiettiuo, et per cfla lente le
imagini de gl'oggetti pofti incontro alla feneftra, e collocheremo die- tro
alla lente vna carta,laquale fé farà vicina alla lente, riceuerà ì^l^ imagini
rouefciate ; ma fé fi andrà allontanando, il cerchietta delle imagini fi andrà
impiccolendo, fino chela carta fia lontana daeffa lcnte,tantoquancoè ildi lei
femidiamctroj, ed in qucfta dif- tanza farà vn piccioHffimo cerchietto, e
quafivn punto di luce vi-*. i E e e uif- 202 uifsima,ch'è quel punto, in cui fi
colloca l'occhio, mirancio per dee-' to cannocchiale di vna fola lente.
Allontanando poi maggiormente. la carta,di nuouo s'incomincierà ad ingrandire
il cerchietto, con den- tro l'imagini radrizzate.- fegno euidente,che fi
radrizzano in quel punto di luce intenfa,ouefivnirconoiraggi,efidecufl'anoj e
quanto più fi allontanerà la carta, più longo fi farà il cerchietto,e
s'ingrandi- ranno le imagini,ma perderanno ancora della fua chiareiz,a,c
viuacirà; punque collocheremo la feconda lente in quella diflanza dalla ter-
za, ncìla,'quale diitanza comparifcono le imagini radrizzate in vn_* cerchietto
di competente grandezza, nel quale fiano aflai chiarc,e viuejlat]ualediftanza
farà il duplicato femidiametro della terza lente, o alquanto meno. Di nuouo poi
collocheremo la carta dietro a ^'■^"'.^.quefta feconda lente,e vedremo in
cfìa le imagini parimente radriz- " ^''zate con quefta varietà peròjche in
vicinanza alia detta feconda lente,comparirannochiare»maconfufe;nia in maggiore
diftanza di quello,chefia ilfemidiametro della lente, compariranno difìiinte,
t_j qui doue fono più diftinte, e chiare fi de collocare la prima lente ocu-
lare di quella grandezza, che farà il cerchietto di.efìefopra lacarca, dietro
alla quale prima lente collocando la cartaio diftanza del femi- diametro,
vedremo vn altro piccolo punto di luce, doue fide'col- locare l'occhio,
vncndofi ini le imagini. Ciò fi dichiara nelia^ prefente figura 5 nella quale
il Vetro oggettiuo AB, riceue le ima- gini con i raggi CE, DF,
iqualifidecufsano,cfirouefcianonel- Tentrare per l'apertura dicfso Vetro sì,
che roggetto deliro vedeCi alla parte finiftra,comc è manifefto nelle imagini,
che fi vedono rap- prelentate nella carta pofta dietro ad elfo Vetro, quando
quefì:a fi applica iolo al forame della camera ofcurata ; fi riccuono dun- que
le imagini rouefciatc nella terza lente FÉ, e perciò met- tendo la carta vicina
ad efla lente tra il punto G, e la medcfir ma lente fi vedono rouefciate,fino a
tanto, che vnendofi tutti li raggi di efi^ nel punto G, fi raddrizzano, e fi
riceuono diritte-» nella lente H I, e perche i raggi di cfle fi dilatarebbero
in L, et M, perciò la feconda lente HI, li reftringe in N, et O, doue parimente
dirizzate fi riceuono nella prima lente NO, e quefta le finifce di vnire nel
punto P, poco auanti al quale fi colloca l'occhio, il quale le vede, come fé
fofsero nella fuperfi^ eie della lente NO, e perciò le vede diritte 5 so che
altri altra- mente fpiegano il modo, con cui operano quefti Vetri nel cannoc-
chiale, ma qui non voglio prendere, ed impugnare l'altrui opinioni, poiché io
non procedo con dimoftrationi geometriche, il che mi ri^ feruo 205 feruodi fare
nella mia optica; ma folo con le ragioni fìfiche cauate^ dairifperienza che
cofi m'infegna. Chi bene intende queft* effetto de i detti vetri ( e
l'intenderà più facilmente chi gli applicherà al forame della feneftra come fi
è detto) potrà difporre le lenti non a cafo, come fanno la maggior parte ài
quelli che fabricano cannocchiali, ma con arte ed in modo tale, che faranno gì
oggetti molto più grandi, con vedere infiemc molto fito . Poiché auuertirà
prima che la lente F E vuol cfìer collocata lontana.^ dal vetro obbiettiuo in
quel fito, e diibnza poco maggiore, nella quale i'imagini cheentrano per eff^
vetro obbiettiuo applicato al forame, fi vedono più chiarc,ediftintej il che
farà il femidiametrodi elfo vetro obbiettiuo. Dourà parimente effer larga acciò
riceua I'imagini di mol- ti oggetti, poiché cofi il cannocchiale vedrà maggior
quantità di o^;- getti,cioè tutti quellijdelli quali fi riceuonoleimagini m
ella tcrz,a_. lente F E j purché tutte venghino tramandate alle altre lenti ; e
perche fé la lente F E fofie troppo conuefìa ingrandirebbe ben sì, ma non rra-
mandarcbbe tutte le imagini alla feconda lente, ma folo parte di elle, e quefte
affai ofcure; perciò fi de' fare di minore conueflìtà, cioè di maggior diametro
delle altre, acciò i raggi FI, EH non fi dilatino troppo in modo, che non fi
poffano riceuere tutte le imagini nella fe- conda lente MI, la quale vuole
efler pofta difiante dal punto G,in_. cuifiriuoltano,e fi raddrizzano
I'imagini, tanto, quanto è il proprio femidiametro, e dourà effere tanto larga,
quanto è il cerchietto delì l^ imagini in quella diftanza, acciò non fi perda
niuna imagine di quella che riceue la terza lente, ma tutte fi tramandino
raddrizzate alla fe- conda, e quefta feconda lente HI, de' effere conueffa
tanto, quanto bafta perrefì:ringere i raggi GH,GI (i quali andrebbero a
termina- re inL,&i\'f,) e portarli nella prima lente in N,& O,onde
neanche dourà effere troppo conueffa altramenteli rellringerebbe troppo, ^^ per
confeguenza impiccolirebbe le imagini, fi che de'cffere taie,chei raggi H O, IN
fi vadano più tofto dilatando che reftringendo, e ter- minino in vna lente O N,
tanto larga quanto bafta a riceuere tutte le dette imagini, acciò ne anche
queih ne perda alcuna; e perche,come fi è detto più volte 5 gl'oggetti
comparifcono comefefoffcro in quefta prima lente oculare, perciò dourà effere
molto più conueffa delle altre; poiché in tal modo vnirà i raggi in maggior
vicinanza cioè inP,e per confeguenza l'angolo OPN farà maggiore; onde anche
maggior^»^ comparirà l'oggetto, il quale tanto più grande rafìembra, quanto è
maggiore l'angolo fotte cui fi vede. Nclchefipuò ofseruare che I«^ due
lentivicine all'occhio fanno l'effetto del microfcopio,ingranden-;^ do 204 do
le fpecie,che fi riceuono nell.i terza lente. • Auuertafi finalmente che le
lenti fiano di criftallo chiariilìmo, e» candido^e più fottilechefia
poffibilcje particolarmente )a lente ocu- lare de'hauere quefteducconditioni j
ma la lente di mezzo potrà efiere alquanto meno chiaraje di colore leggiermente
auuinato, par- ticolarmente quando il criftallo dell'obbiettiuo fofle aflai chiaro,
ma quando quefto fofle, come de'efìcre di colore auuinato, tutte le lenti
deuono eflcre di criftallo chiariftìmo,come quello di monte. Oltre alle tre
lenti fé ne poflbno aggiongere delle altre, e ciò in_. vari) modi, ma perche
dalla moltitudine di efie poca vtilità fi può ottenere; perciò io non ftimo,
che fia bene l'vfarle particolar- mente,perche incorreremo facilmente in alcuni
difetti difficili ad eui- tarfi nella moltiplicatione delle lenti : Ben sì io
ho efperimentato mol- lo gioueMoleTaggiongereyn fecondo Vetro obbiettiuo poco
lontano dal primo sì,chefiano due Vetri obbiettiuij&vna lentc,ouero anche
tre lentijpoiche quefta difpofitione di cinque Vetri abbreuia il can-
nochiale,ritiene in gran parte la mcdefima grandezza l'oggetto, c-^ comparifce
più chiaro: Dcuefi dunque fare vn Vetro obbiettiuo, il quale fia di minor
diametro de!ralrro,ela difterenia de'efterelaquin^ ta,ola quarta parte; per
cfempio fei'vno è di cinque paimi,raitro fi de* fare di quattro in circa; poi
quello di cinque fi de' mettere neireftre-. mo del cannocchialcjche miri
l*oggetto,e l'altro di quattro palmi 11 de' collocare più dentro nel
cannocchiale, o meno 5 conforme li di- uerfi efifetti,che pretendiamo, poiché
fé defideriamo vedere l'oggetto chiaro, e piccolo auuicineremo maggiormente edì
due Vetri obbiet-' tiuijfe vorremo che rapprefenti l'oggetto grandc,e meno
chiaro, gli allontanaremo;auuercendojche quando allontaneremo vn obbiettiuo
dall'altro, douremo auuicinarelelcntiad eflì obbicttiui,& all'incon-
troquando auuicineremo gl'obbiettiai tra di loro, douremo allonta- nare da
edile lenti. Auuertafi anchcjchcla lunghezza del cannocchiale farà motto mi-
nore di quello che farebbejfe vi fofle il folo primo obbiettiuo,che mira
l'oggetto. Di più, tal hora due Vetri cbbiertiui lauorati fopra vn medefimo
piatto fono atti a quefto effetto,quando dal modo di lauorarli vno rie-. fce di
alquanto maggiore diametro dell'altro. Notoancora,chequeftj due obbiettiui
fanno belliffìmo effetto nei cannocchiali aflTai lunghi, poiché il difetto de'
Vetri, che hanno afsai lungo diametro, confifte in non vnire bene i raggi
;& vn tale difetto viene corretto dall'altro Vetro di minore diametro,come
fi vedrà me-» olio 205 Balle le cofe, che fi diranno apprefso. Finalmente deuo
auuertire,che nelli cannocchiali di molti Vetri fi vfi molta diligenza in fare,
che la faccia di vn Vetro riguardi dirit- tamente Taltra, e non fiano ftorte,
ma Tvna efattamente parallela-, all'altra ; altrimenti il cannocchiale
rapprefenterà l'oggetto ofcura- mcnte per la confufione delle refrattioni.
Refta difcorrere de* cannocchiali ditrce più Vetri, parte de qua- li fiano
concaui,e parte conueflì; e primieramente fappiafi, che Ia_, inedefima
inuentione poc * anzi accennata di feruirfi di due Verri conueflì obbiettiui,
fa ottimo effetto anche nel cannocchiale ordina- rio con il Vetro oculare
concauo^ siche qual fi voglia cannocchiale ordinario di due Vetri,vno concauo,
l'altro conuefso fi può molto per- fettionare con aggiongere vn altro conueflb
poco lontano dal primo, edi alquanto minore diametro j poiché in tal modo il
cannocchiale^ riufcirà afsai più breue,e farà Toggetto più chiaro,abbracciando
mag- gior fico 5 e fi può allongare, et accorciare, conforme defideriamo vedere
gl'oggetti grandi, e meno chiari, overo più chiari, e pic- coli. 2. Mi piace di
riferire in quefto luogo vn altra inuentione, che confifte in fapere collocare
vn Vetro concauo circa il mezzo de! can- nocchiale ordinariosì, che fiano due
Vetri concaui jauertendo, che il concauo,che fi mette no dal capo,ma più dentro
nella canna de'cfsere disferaalsaigrande, cioè, poco concauo ^poiché in tal
modo non di- uaricarà li raggi trafmefseli dal Vetro obbiettiuo, ma folo
impedirà chefivnifcano troppo prefto,e portandoli più lontani gli vnirà tutti
infiemej ladoue prima quelli,che entrauano perle parti eilreme del Vetro fi
vniuano troppo prefto,e prima de gl'altri, e nella mcdefima maniera potremo
feruirfi di fimili Vetri concaui anche ne gl'ahri can- nocchiali con le lentijO
con due Vetri obbiettiui^ e di più porremo cor- reggere il medefimo difetto,
che hanno le lenti di non vnire tutti i rag- gi nella medefima diftanxa, con
metterui auantio dopo alcuno di quefti Vetri concaui, auuertendo, che vuole
efsere proportionatifsi- mo alla conuefsità di auellojdi cui vogliamo correCTocre
il difetto, nel che anche fi de'«faperc,che collocando quefto concauo dopo il
Vetro obbiettiuo, il cannocchiale riefce notabilmente più lungo j e fé nt«>
può facilmente intendere la ragione dalle cofe predette. ponendo la fuperficie
conuefli verfo l'oggetto vnirà i raggi in diftanza diuerfa da quello, che farà
ponendo verfo l'oggetto la_, fupcrfìcie concaua, o meno conuefsa, o piana». ;
Quindi riefce difficile il determinare precifamente la diftanza del foco dei
Vetri sferici 5 aggiongafi, che i Vetri piu denfi, e b:n_, cotti fanno maggiore
refrattione, si che vnifconoi raggia minore di- ftanzajonde non effendo tutti
li Vetri vgualmente denfi,non fi può fa- pere precifamente la quantità
dell'angolo della refrattione, potendo eflere in alcuni piu, in alcuni meno
della terza parte dell'angolo dell'-^ incidenza . Quanto è maggiore la
refrattione,tanto megliore riefce il Vetro, poiché minore fuario di refrattione
vi ètra i raggi vicini al- rafse,edi raggi da efso lontani, si che poi tutti fi
vnifcono quafiaU'if- tcfsa diftanza, Hor per fapere pratticamente la diftanza
del foco di ciafcua Vetro fi pofsono ofseruare varie maniere. 11 primo modo
affai co- mune perii Vetri conuefsi è,efporli alla luce del Solere facendo paf-
farepereflìifuoi raggi,ofreruare a qual diftanza fi vnifcano in vn mi^ nor
cerchietto di viuitfima lucej poiché tal vnione di raggi la dous fi fi, quiui
fi dice efler il foco del Vetro conueffo; fi de* però notaresche ne'Vetri di
grande sfera riefce difficile il difcernere qual fii quel fico piu,o meno
diftante,nel quale fi faccia la maggior vnione,poiche tali Vetri non vnifcono
tutti i raggi in si piccol cerchio, come fanno li Vetri di sfera minore, 2.
Pongafi vn lume dietro al Vetro in tal diftanza, che i raggi di elfo penetrando
per il Vetro efcano dall'altra parte paralleli, termi- nandofi in alcun piano
oppofto ne riftretti,ne dilatati, ma con vn cer- chio di luce vgualea'la
grandezza del Vetro j percioche tal diftanza del lume del Vetro, fé quefto farà
conueflo d'ambe le parti, farà il fe- mìdiametroj e fé conueflbda vna fol parte
dall'altra piano, farà il diametro, e comunque fia farà fempre la diftanza del
foco; Quefto modo parimente riefce piu efatto nelle lenti, et -altri Vetri di
non molta sfera; e fi de'auuertirejcheriufcirà meglio,fe illumefarà molto
pìccolojouero applicato ad vn piccolo forame. 3. Si metta l'occhio lontano dal
Vetro conueflo pofto dirimpetto ad oggetti lontani; e quando l'occhio farà
arriuaco a tal lontanan- za dalVetro,che mirando perefib gl'oggetti lontani fé
gli confondano: totalmcnte,fappiafi che tal diftanza è fito dell'occhio e
quella del focoj Que- io8 Quefta regola però non fcrueper i uìiopi, poiché
quefti ponendo in^ tal fico, o poco da eflb lontano l'occhio fenza altro vetro
concauo, ^^ fcnza lente, vedono gl'oggetti diftinti ed ingranditi, come altri
li vedo- no con il cannocchiale perfetto di due vetri, cofa offeruata
nouamente, e deonad'efiere notata come nuoua,efinfjolare, 4. Si efponga al fole
il vetro, e fi faccia riflettere il lume in vn pia- no oppoftocheftiatràil
vctro,edilfo!ejfi vadaauuicinando,o allon- tanando il vetro da elfo piano fin
tantoché i raggi rifleflì dalla fuperfi- cie di dietro dal vetro fi vnifcano in
detto piano in vn cerchietto di luce, più piccolo che farà podìbile, poiché la diftanza
del vetro dai piano farà la quarta parte del diametro della fuperfìcie di
dietro al ve- tro, che riflette tal lume, come fé fofl'e fpccchio concauo,onde
fé il ve- tro haurà rifìefl'acenueflìtà, anche dall'altra parte tal diftanza
farà la metà della diftanza del foco, ma fé dall'altra parte farà piano, farà
folo la quarta parte. Nella lenteèpiu facile conofcere quanta fia la diftanza
del foco non folo con le regole infegnate di fopra, particolarmente con efporlc
a rag8;i del fole, ouero ad vn lume lontano acciò i raggi fiano paralleli fé
non perfettamente almeno proflìn5amentc,& offeruarea che diftan- za gli
vnifcCjCcon por l'occhio in fito in cui fi confondono gl'oggetti lontani: ma di
più con por l'occhio aflai vicino alla lente, e quefta fo- pra vn libro
allontanandola da efibfmo che i caratteri fi vedano più ingranditi, e più
chiari che fia poflìbile; poiché tal diftanza del!a_. lente da quei caratteri,
e la diftanza del foco. Secondo fi ponga vn lu- me tral'occhio, e lalente,ed il
lume fi vada auuicinando allalcntc_j, fintantoché fi veda riflettere dalla
fuperfìcie concaua oppofta deila_» lente, vn lume rouefciato che fporga fuori
della lente quafi in aria_^ verfo l'occhio, et arriui fino al lume vero, poiché
tal diftanza del lume dalla lente, farà la metà del femidiametrocioè del foco.
Per faperpoiil foco, o come altri Io chiamano il contrafoco de' ve- tri concaui
fi miri con l'occhio vicino per il vetro vn oggetto fino che comparifca il
doppio minore, per efempiofino che due vetri di vna feneftra comparifcano in
tanto ipatio, quanto vn folo a loro vi- cino jimpercioche la diftanza del vetro
dall'oggetto farà quella del foco . La feconda regola aflegnata di fopra per i
vetri conueflì vale an- cora per i concaui. 5. Vn altra inuentione molto vtile
nel lauoro deVetri obbiettiui per cannocchiali afìfai lunghi, è il
congiongerein eflì la figura conca- ua conia conuefla,in modo tale, che eflendo
la conueftìtà portionc-» di minor sfera, e la concauità di sfera maggiore
facciano Teftetto di vetro Io9 vetro conueflfo, con il quale artificio noi
potremo lauorarc vetri (opra piatti di pochi palmi di diametro, li quali con
tutto ciò feruano per cannocchiali longhidìmijcome fé foflerolauorati fbpra
piatti di grà- diflìmo diametro: e con ciò euitaremo quella grande difficoltà,
che fi ritrouanel dare la figura perfetta conuefla alli vetri di lungho dia-
metro : oltre che fé la concauità di vna faccia del vetro haurà vna_j
conueniente proportioneconla conuefifìtà dell'altra faccia, partorirà ottimo
effetto di vriire i raggi molto meglio, che fé fofle conueflfo dall' vna, e
dall'altra parte. Nel che accade, che quanto minore farà la_. differenza
de'diametnY purché il concauofia fempredi maggior dia- metro ) tanto più lungo
riufcirà il cannocchiale,come fé il vetro foiT?^ lauorato fopra piatti di
lunghiflìmo diametro. Quefti vetri conuellb concaui,foggiaciono però ad vna
imperfettione notabile, et è ch«_/ non fé li può dare apertura maggiore di
quella, che porterebbe fé foflfe folo conueffo con l'ifteffa conue{Iìtà,onde
riceuono pochi raggi a proportione della lunghezza del cannocchiale,onde
fimagini fi ingran- difcono ben sì, ma reflano debboli 5 feruiranno nulladimeno
per li og- getti celefli, quando il uctro ricerca poca apertura, Refla per fine
di quello capo di dire alcuna cofa delli cannochiall, con i quali fi mirano gì*
oggetti con tutti e due gl'occhi che per ciò adimandiamo binoculi. Elfendo
dunque cofa certa che quando noi miriamo alcun* oggetto con ambi gl'occhi lo
vediamo più chiaro, particolarmente in molta diftanza, feguita che facendo noi
vn can- nocchiale con il quale fi poffa rapprefentare Toggetto a tutti due gl'-
occhi, non folo ci comparirà più chiaro, ma faremo meno fa— tica_j . Si farà
dunque in quefta, o altra fimil forma -, fabricheremo vn tubo di cartone di
figura ouata, e di tale larghezzasche applicato a gli oc- chi gli abbracci
ambidue j nel margine della parte fuperiore fi ta^li vn arco che copra, e fi
adatti allafronce,e nel margine inferiore fi fcaui in modo, che fé li pofìTa
comodamente addattarc il nafo j e gl'occhi re- fl:are nel fuo fito fempre
immobili, riguardando direttamente i verri obbiettiui 5 Pofcia collocherai
nell'altro cflremo del tubo,o cannoc-. chiale due vetri obbiettiui, li quali
deuonoeflfere di vna mcdefima lun- ghezza di diametro, e l'vno totalmente
fimile all'altro nella fua fi^^ura conueflfajfimilmente collocherai vicino a
grocchi due vetri concaui ; ouero due lenti, o anche fei come ne cannocchiali
di quattro vetri, Ci che fiano come due cannocchiali in vnoj ma quefti vicini a
gli occhi dcuono effere collocati con taldifl:anza,che il centro loro
coirilponda G g g efat- N efattamente al centro della pupilla de gli occhi j
ali* incontro li due vetri obbietti dcDono eflere tra di fé al quanto più
vicini, o meno conforme la lontananza del l'oggetto, e he vogliamo guardare ^
poiché in maggiore uicinanza dell'oggetto^anch'eflì deuono eflere più uicinì
tra dì fé ; acciò in tal modo i raggi uifuali d'ambidue gl'oc-? chi ipaffando
per li uetri obbiettiui,uadano a termina? re nel mcdefimo oggetto; onde douremo
addat- tare li detti uetri obbiettiui in modo, che conforme al bifogno fi
poffano auuici» nare più, e meno tra di loro, . ^n qual modo ft pojfa cono/are
fé i/// Vetro fiA perfetta^ mente lauorato, etiandio fen'^a farne l*ifùerien7a
con il Cannocchiale* \A perfetdone del Vetro, e del fuo efatto lauoro, meglio
fi conofce con Tifperienza del cannocchiale mede- fimo j nulladimeno potremo
conofcerla affai bent-^ anche fenza cannocchiale, che però accennerò come fé ne
potiamo certificare nellVnOjC nell'altro modo. Primieramente la perfettionc del
Vetro, ( parlo deli obbiettiuo per eflcrc in elfo la difficoltà maggiore^ fi
conofcerà congiongendolo in vn cannocchiale con vn Vetro concauo al modo
ordinario, poiché quanto più acuto comporterà il detto concauo,tanto più
perfetto farà il Vetro ì l'ifteflo fi può far con vna lente, la quale quanto
farà più ga. gliarda,cioè,di minor diametro, fegno farà che il Vetro fia
migliore, purché non perda di chiarezza j il concauo però dà inditio più cer-
to della bontà del Vetro. Di più, nel far quefte proue non douremo contentarfi
di mirare oggetti grandi,benche lontani ; ma douremo pia toftodirizzare il
cannocchiale verfo vn foglio di carta Rampata, con diuerficaratteri,altripiu
grandi, altri più piccoli, e pofta in vna mo- derata diftanzadi 80. overo 100.
o più pafsi,& offeruare fé tali ca- ratteri fi poffano leggere
diflintamente, e fé comparifcano ben ter- minati,fenza confufione
verunajpoichedaciòfiha ini^allibilmciite la bontà del Vetro, e del cannocchiale.
Terzo, fi conofce ancora la detta bontà del Vetro,fe li potremo dare vna
apertura grande sì, che entrando per effo maggior quantità di raggi
rapprcfentino l'oggetto più chiaro, e nulladimeno dif^into, e senza
abbagliamento di luce_j; poiché l'eccessiva chiarezza fi può fempre mai
temperare con adoperare vna lente più gagliarda, che imgrandirà maggiormente
l'ogetto, ma quell'abbagliamento nato dalla coniufion^? de'raggi, ch^ non fi
vnifcono all'ifteflo punto, nó fi può leuare fcnoucó refì:ringere l'apertura
del Vetro, impedendo l'ingreffo alli raggi più lontani dal centro del Vetro, i
quali facendo refrattione maggiore degl'aitri, non fi vanno ad vnirc inficmc
con eflì, onde più tolto li confondono, con pregiuditio dell'occhio. Si
de’notare che nelle proue, e paragoni de’cannocchiali, più ageuolmente con vn
cannocchiale leggeremo vn carattere grosso mezzo dito in diftanza di mezzo
miglio, che vn carattere grosso vn dito in diftanza di vn miglio, e ciò per due
capi. Primo, perche la rarefatatione de raggi delli comi radiofi di ciascun
punto dell'oggectOj cresce non a proportionc della diftanza, ma a proportione
della superfìci^ delle sferCj di cui le diftanze fono i diametri, si che i
raggi in doppia diftanza faranno quattro volte più rari, mentre fi
diuaricanojonde ancorché l'ingrandimento cresca a proportione della miaore
diftanza, cresce però più reciprocamente la chiarezza. Secondo, perche ia_*
niaggior distanza fifrapongono più vapori dell'aria, che impediscono la vista
distinta; e particolarmente nell’uso de’cannocchiali lunghi, i quali
ingrandendo molto ogni piccolo oggetto, fanno che comparifcino ancora nell'aria
di mezzo i vapori, i quali perche stanno in vn continuo moto, e bollore, come
fi vede in effetto, perciò eoo», tale agitatione perturbano molto la vista
distinta, e tranquilla degli oggetti. Chi poi volefse conofcere fé alcun Vetro
obbiettiuo fia ben lauoratOj fenza farne prona con il cannocchiale, ciò potrà
ottenere in uarij modi. Primo, faremo paflare per il Vetro oppofto al Sole li
di lui raggi sjjche l'unione di efli uada a terminarfi in un piano pofto a
dirimpetto, e fé a proportione della diftanza del foco questi faranno uniti in
tal modo, che formino un cerchietto di luce piccolo nel piano, il quale
cerchietto sìa perfettamente rotondo, e di più le parti eftreme fiano ben
contornate, e terminate, fenza penumbra, ed in tutto il cerchietto la luce ha
ugualmente viva, farà segno della bontà del vetroj che fcpoi fi vede fte il
cerchietto di luce con le conditioni predette, ma non fofle nel mezzo
dell'ombra cagionata dal Vetro, mapiu tofto da vn lato, ciò è segno – NOTE THAT
TERZI USES “SEGNO” WITHOUT BURDENING THE PROSE WITHOUT ANYTHING TO DO WITH -FY,
as in SIGNI-fy -- che il vetro sia ben lauorato, ma che lalaftra del Vecro è
piu groiTa da una parte, ch5_-»dall'altra, il che fa peftìmo effetto. Secondo,
si ponga il vetro incontro a gli oggetti lontani, poi si metta l'occhio nel
foco del vetro tra effo, e gl'oggetti, e fi uedranno le imagini di tali oggetti
assai piccole, le quali quando il vetro farà ben lavorato, compariranno
diftinte, e con la loro douuta proportione, senza storcimento, o altro difetto.
Terzo, fi fermi il vetro incapo di un assé sì, che fi poffa girare in torno,
come fopra un torno in aria, ft^ poco lontano da eftb fi stenda un filo
sottile, che corrisponda al centro, e diametro del vetro j poi con Tocchivo
alzato, & abbaffato fi oflerui 1’ombra, o iraagine del detto filo nel
vetro, la quale sé si manterrà sempre parallela al filo medesimo mentre il
vetro si gira farà buon segno, Finalmente ottimo, e sicurissimo è il modo
seguente. SI accenda vn lume in vna camera oscura, e pofto il vetro in alcun
luogo dirimpetto al lume, fi tenga rocchio vicino al lume medefimoj e fi vada
allontanando il lume insieme coll'occhio dal vetro fin tanto, che corrifponda
al foco della superficie concaua jche riflette il lume dalla parte di dietro al
vetro all'occhio ifteflb, che farà la diltanza di vna quarti. parte di tutto il
diametro, © poco più, in tal fito fi oflerui il vetro con., il lume rifleflbed
vniconel punto dell'occhio, che però fi de'tener fermo ed immobile in quel
punto deUVnione de'raggi riflefiì j poiché fé vedraflì il vetro tutto ripieno,
e pregno di vna luce viua, ed vniforme, che non ondeggi, ncfia mescolata con
ombre, farà ottimo inditio INDIZIO – again use of SEGNO or INDIZIO without the
need to qualify with -fy -- della perfetta figura del vetro da quella parte che
riflette il lume, che è la, parte di dietro, la quale in tal refleflione fa
l'effetto dello fpecchio concavo: mafemouendo al quanto il lume, e l'occhio si
vedrà ondeggiare quella luce nel vetro, ovvero reftarui qualche ombra con luce
ineguale, e non vniforme, © fenza riempire tutto il vetro, farà – SARA non FARA
-- segno chiaro che non fia lauorato bene da quella parte j l'ifteflofi farà
dell'altra parte: cdin tal modo non folo conofceremo fé il vetro abbia la
figura perfetta: ma di più s'accorgeremo fé fia stato ben spoltigiiato, e ben
pulito, percio che comparifce in eflbimbeuuto in tal modo di luce, ogni minimo
segno d’asprezza, (3i righe, di onde, & altri difetti, ofiano
dell'artefice, o della natura – cf. GRICE SEGNO DELLA NATURA O NATURALE, SEGNO
DELL’ARTEFICE -- , epafta del vetro, a tal segno, che si conosce fé fia ftato
lavorato con arena grossa, o confpokiglio fino, dalle righs.,», e ruidezzeche
fempre piu, o meno comparifcono, ancorché fia finiffimamente lauorato 3 cofa
veramente degna da sperimentarsi, e di non-a poca vtilitàe. Ddli mtcrofcofu. l
come con il cannocchiale fi aiuta l'occhio a vedere gl'oggetti, li quali
auuegnache grandi, non però fipofono chiaramente difcernere a cagione della
loro lontananza, cosi è ftato ritrouato vn altro ftrumento, che chiamano
microfcopio, il qualifiche l'occhione gli oggetti vicini pofla difcernere
moltiflìmecofe, le quali per la loro picciolew^ fuggono la vifta ordinaria.
Quindi è>chc facendo effetti fimilijma oppofti a quelli del cannocchiale, fi
fabrica anche in modo fimile, ma contrario» Primo, Il cannocchiale rapprefenta
maggiori gli oggetti lon- canijqu^ntQ maggiore è il diametro della conueffità
del Vetro obbiettiuo; et airoppofto il microfcopio rapprefenta maggiori
gl'oggetti vicini, quanto è minore il diametro della conaeflità delle lenti,
delle quali è comporto, 2. Li lente obbiettlua del microfcopio non de'efìere
pia lontana dall'oggetto di quello, che fia il femidiametro della conueflìtà di
effi ientej ladoue il cannocchiale dc'hauerc l'oggetto affai lontano Nelli
cannocchiali di due Vetri conueffi, cioè, dell'obbiettiuo con vna lente oculare
fi pone il Vetro più conueflb, cioè la lente vicina all'occhio, ed il Vetro
meno conueflb lontano dall'occhio 5 nel microfcf>pio,che fuol efiere di due
lenti, fi colloca la lente meno conuefi"a vicina all’occhio, e la più
conuefla, e di minor sfera lontana dall’Occhio, e vicina all'oggetto. 4. li
cannocchiale fi pone incontro all'oggetto 5 il microfcopio fi, pone fopra
l'oggetto. Venendo dunque alla prattica di formare quefto ftrumento fi
de’fapcre, che Cebeneli mic'rofcopij più perfettifi fogliono fare di due Ienti,
vna lente fola però fa l'effetto, che noi cerchiamo d'ingrandire le cofe
picciole j e tanto maggiormente le ingrandifce, quanto la lente è più conuefla,
cioè parte di minor sfera j anzi anche vna intiera sfera di cristallo, overo
vn'ampolla rotonda piena d'aqua chiara fa il medefimoj ma Ih qucftp cafo
l'oggetto vuol porfi immediatamcntc fotto la palla, o sfera sì, chc Ja
tocchi^la doue la lente de’ftare lontana dall'oggetto tanto, quanto è il
fcmidiametro della fua conuefiìtà? Volendofi dunque feruire di vna fola lente
potremo fabricarc^lo ftrumento in vno delli due modi leguenti, Faremo vna
piccola cannetta di lamina di ottone, o cofa fimile, tanto ìarga, che vi entri
dentro la Jente, cioè quanto è l'iride dell occhio noftrOjO anche più piccola,
e lunga quanto ? il femidiametro della medefima lente. Quella cannetta farà
chiufa da vna parte, in modo però che vi refti nel mezzo vn picciol foro, fopra
il qualc pofi immediatamente la lente, dall'altra parte vicina all'occhio
reitera apertii, e farà loftentata da tre, o quattro piedi, in tal modo però,
che fi pofla alzare, & abbalfare, cioè auuicinare, o allontanare
dall'oggetto, che fi pone direttamente focto quel piccol foro, fopra cui pofa
la lente,come fi vede nella figura,nella quale A B, rapprefenta la cannetta CD,
i piedi chela foftenca no B, il piccolo forame fopra cui dentro la canna fi
pofa la lente, in modo tale, che l'oggetto E, pofto fotto alla lente, la lente
mede- fima, e l'occhio pollo in A, ftiano in retta linea . Poiché
all'hora/^'/V^r* fi pone l'occhio in A5&
auuicinafiapocoapoco,overoallontanafila^-^^-^' cannetta dall'oggetto E, pofto
fopra il piano di vna tauola, fino che fi difcerna l'oggetto chiaro, e grande
pliche fuccederà quando la_* lente farà tanto lontana dall'oggetto, quanto è il
femidiametro della medefima . Il fecondo modo di accommodare vna fola lente,
che ferua per microfcopio è quello, che fi vede nella figura, in cui fi
rapprefentayr^v^^- vn piccolo piede di legno con vn cerchietto, overo forame
nella_»XLll. parte fuperiore, nel qual forame fi colloca la lente: per il piede
forato nel mezzo paflfa vn legnetto a trauerfo, il quale eflendo parimenti^
forato da vn capo pafsa per il foro vn altro legnetto nella cui fommità, è vna
morfetta fatta di filo di ferro, o di altra materia atta a ftrin- gerc,&
afferrare vna mofca, vna fogIia,o altra fimile materia, che fi mira coll'occhio
pofto dall'altra parte della lente, Quefti microfcopij di vna fola lente
ingrandifcono l'oggetto mol- to meno di quello che facciano i microfcopij
formati di due,o più lenti nel moclo,che diremo appreffojma hanno però
vn'auuantaggio fopra gl*altri, che fi pyò vedere in vna occhiata vn'intiera
mofca, ra- gno, o altro fimile oggetto, ladoue con i microfcopij di due,o più
Vetri appena fi può vedere tutto il capo di una mofca, ouero un'intiero pulice
3 fé pure la lente oculare non è grandifiìma . I mi- 11^ I nnicrofcopij di due
lenti fono però ftimatl megliori, perche rap* prefentano gl'oggetti di gran
lunga maggiori sì, che vn capello tali*» Fiora comparifcecome vnagrofla funere
fì fabricano in c^uefto modo^ ripigliano due lenti di crifìallo Iauoi'ate,e
pulite come fi è infegnato di fopra 5 vna de' efler piccola, e conuefìa sì, che
il femidiametro della conueflìtà fia poco più, 0 meno della groflezza di vn
dito j e quefta fi accomoda immediatamente fopra l'oggetto che vogliamo
rimirar^-;, ponendola invn picciol tubo, q cannetta, come è la defcritta
poc'an- zi 5 l'altra lente de* effere affai più larga, et anche meno
conueffa,ia^ tal modojchc ii femidiametro fia di einquc,fei, o più dita in
groffezza 5 e quefta fi mette invn altro tubo di cartone, il quale fi connette
infie" mecon l'altra cannetta piccola in modo però,che fi poffa alzare, et
abballare, acciò fia più, o menolontana dalla lente piccola pofta nella parte
inferiore j finalmente nella parte fuperiorc dei tubo è vn piccol buco tanto
lontano dalla lente grande, quanto è il femidiametro delia medefima : al qual
forame fi auuicina l'occhio, che perle due lenti mira l'oggetto poftoui fotto :
ma quefto forame ancora de* poterfi hof più hor meno allontanare dalla lente.
Deuono dunque effere almeno quattro tubi conneffì infieme, come Fioura^^'O^^s.
la figura. Il primo B C piccolo, nel fondo del quale fta la lente XJLIII.
piccola, et ha vn piccol forame B fopra l'oggetto A. Il fecondo è C D conneffo
immobilmente con il primo, ma molto più largo, e lungo : Il terzo E F inferito
fopra il fecondo C D in modo, che fi poffa alzare, et abbaffarc, fopra del
quale fi colloca la lente FF: Il quarto è GH inferito fimilmente fopra il terzo,
e mobile 2 nella fommità del qual^-» vi è il forame I a cui fi applica l'occhio
per vedere l'oggetto A. circa il che fi de' auuertire. Primo, che l'oggetto fi
rapprefenta all'occhio rouefciatOje la ragio- ne è perche nella lente oculare
FF fi riceuonoi raggi con le immagini dell'oggetto dopo che già fi fono
decuffati dalla lente B ; onde fé defi- deriamo di vedere l'oggetto radrizzato,
conuienc aggiongere vicino all'occhio vn altra lente nella medcfima forma, che
fi ò detta delli can- nocchiali di più lenti: e cofi potiamo aggiongere anche
la quarta, e la quinta, a noftro piacere. Secondo, quanto più conueffa,e di
minor diametro farà la lente infe-^ riore vicina all'oggetto, tanto piq piccola
parte di effo oggetto fifcorgej ma altretanto comparifce più grande j la
ragione è manifefta, perche-» /"iffamcome fi vede nella figura,la lente A
di minore diametro de' /lare mena XUV.loritana dall'oggetto BC di quello che
fij la lente D dall'oggetto E F, cffendochc la difianz,a
de'^ffertanta,quantoèilfemidiametro-.Quindi è ^^7 è che la lente A non può
tramandare alla lente G le imagini dell^.^ parti eftrcmcB,& C delloggetto
BC^ poiché tali imagini cadono fuori della lente G come moftra la linea I L.
doue che la lente D e(ren> do più lontana dall'oggetto E F, e refrangendo
meno i raggi rappre- senta tutto l'oggetto EF, e ne porta le imagini nella
lente H vicina», all'occhio ; efìTcndo chejcome fi è detto altroue,tanto
oggetto fi vede^ quanto è quello, l'imagini del quale fi rapprefentano nella
lente vicina all'occhio j dal che auuiene, che quando fi vedono poche parti
dell'og- getto, quelle comparifcono più grandi, perche occupano tutta Tarn-.
piez.za della lente oculare; ma quando nella medefima ampiezza della ftefia
lente fi reftringono l'imagini di tutte le parti deH'oggettOjnecelTa- riamente
comparifcono più piccole. 5. Si de' fapere,chc tanto più grande comparifce
ToggcttOjquan- topiu fi allontana vna lente dall'altra; ma fi vede meno
chiaro,e fé ne fcoprc minor parte : la ragione è, perche la lente oculare efscndo
più lontana dall'altra riccue lefpecie più diuaricate,e confeguente- mente più
ingrandite ; ond* è, che anche minor parte di oggetto rap- prefentinoj valendo
fempre quella regola vniuerfale, che quando in vna lente medefima fi vedono
l'imagini di molte parti dell'oggetto, cife compaiono più piccole,&
all'incontro grandi, quando fono po- che 5 impercioche invn medefimo
fpatio,& ampiezza della lente, non fi pofl'ono dipingere molte cofe,e tutte
grandi. Quindi fi deduce inqual modo fi pofla accrcfcere o la grandezza, o la
moltitudine de gl'oggetti . Si accrefce la grandezza in due modi. Il primo con
adoperare lenti di minore sfera . Il fecondo con allon- tanare maggiormente vna
lente dall'altra; ma perche in quefto allon- tanar delle lenti l'oggetto comparifce
men chiaro, perciò farà meglio feruirfi del primo modo. La moltitudine de gli
oggetti,© delle parti di vn folo oggetto, acciò fi fcopra tutta in vna fola
vifta,fi accrefce con feruirfi di lenti di maggior sfcra,e meno tra fé
diftanti; ma perche, come fièdetto,quanto più fi auuicinano le lcnti,overo
queftefonodi maggior sfera, tanto minore comparifee l'oggetto; perciò volendo
vedere molte parti dell'oggetto,'ed infieme grandi non v'è altro ri- mediojche
feruirfi di vna lente oculare affai grande, in cui fi pollano riceucre molte
imaginijc quelle grandi; ma fi de'auuertire,che non fi poifono fare lenti molto
larghe, le quali fiano di poca sfera, onde conuiene farle di sfera maggiore, e
perche l'oggetto comparifca gran- de, fi deuono collocare lontane dalla lente
obbiettiua, la quale anch'- cfla dourà efiere di sfera non troppo piccola,
poiché fi de'auertire, 4. Che vuolfiofferuare vna certa proportione,tra la
diftanza del- I i i le ii8 le due Ienti,c la grandezza delle mcdcfimej
impcrcioche quanto faja minore il diametro della lente obbicttiua,tanto più
vicina douràefìere alla lente oculare,poicheeflendo lontanai raggi troppo
diuaricandofi dalla lente obbiettiua di poca sfera,cadercbbero fuori della
lente,e rap prefentarebbero l'oggetto ofcuro. 5. Per ingrandire l'oggetto,
fenza ofcurarlo fi potrà aggion- gerevna terza lente vicina
airocchio,laqualefia di maggior sfera del- la fecondajpoiche in tal modo non
folo (i radrizzeranno le imagini, ma compariranno anche maggiori, con
allontanare le lenti oculari dall*- obbiettiuajoueroconfare,che quefta
obbiettiua fia di minore sfera. Anzi dicojche l'ottimo modo di fare
ilmicrofcopio, e ofiTeruare Hf- teffe regole, che habbiamo date nella fabrica
delli cannocchiali di molte lentiimaalrouefciojcioè fare che nel microfcopiole
lenti più vicine all'occhio vadano crefcendo non folo io ampieiza, ma anche in
grandezza di sfera con la medefima proportione, con la quale nel cannocchiale
habbiamo detto, che deuono andarfi diminuendo, et ef- fere di minor sfera
quelle che fono più all'occhio vicine j fi che per nor- ma dclIi microfcopij
potranno feruire le regole medefime, che habbia- mo dato nelli cannocchiali di
più lenti : Auuertp folo in ordine alla-. proportione,che de' hauere la lente
obbiettiua con la lente oculare > efler ottima quella di i, à i o, cioè fé
la lente obbiettiua è nel fuo diamc*^ tro di (re tninuci di vn palmo la lentQ
oculare farà di 30. minuti. . 21$ % ^'ofidt n^fcano le imperfettioni àeU
cannoechUUjedinqttal modo (ì fo^a Untare II rimedio. IVali fiano le imperfettioni,
che neccflariamcntc nafcono ne*cannocchiali compoftidi vn obbiettiuo conuello
sfe- rico, e di vn'oculare concauo, ouero di vn* obbiettiuo fimilmente conueflb
sferico con vna,o più lenti oculari fi fono potute ofleruare dalle cofc dette
di fopra.Primic- ramente al vetro obbiettiuo non fi può dare fé non vna certa
determi- nata apertura, ond'è che entrando pochi raggi, fé noi vogliamo ado-
prare vna lente gagliarda, ouero vn concauo molto acuto,mentre que-
ftiingrandifconoroggetto,lorapprefentanolanguidamente,perlafcar- fezza de i
raggi. Secondo dando ali* obbiettiuo apertura maggiore en- trano ben sì molti
raggi, onde rapprefentano l'oegecto chiaro, anche con lente gagliarda, ma
abbagliato,e confufo,perche non tutti que'rag- £;i, ch'entrano perii vetro,
vanno ad vnirfiordinatamente.Terzo quan- do vogliamo far comparir grande
l'oggetto, con vfarevna lente più gagliarda, ci fi rapprefenta più ofcuro : ne
lo potiamo hauer più chiaro, che non ci compaia più piccolo vQuartoadoprando vn
cannocchiale il doppio più lungo dell'altro, non perciò potiamo vedere
l'oggetto co l'iftefla chiarciza,&al doppio più grande. Quinto li
cannocchiali più lunghi benché ingrandifcano maggiormente l'oggetto,
nulladimeno non lo rapprefentano mai sì diftinto, e ben terminato come fanno i
pic- coli. Sefto li cannocchiali con le lenti fanno che fi fcopra molto cam- po
in vna fola occhiata, ma non terminano sì bene la vifta^come fan- no i
cannocchiali ordinari] con il concauo femplice. In fomma 1«-» perfettioni del
cannocchiale, che fono ingrandire l'oggetto, farlo ve- der chiaramente, farlo
comparire diftinto, e precifo fenz,a confufione, o abbagliamento di luce, e
fcoprirein vna fol vifta molti oggetti,fono perfettioni tali, che riefce
impofTìbileil congiongerle infieme in gra- do eccelente, non che perfetto,
nelli cannocchiali, che nel modo hog- eidì vfatofifabricano. Quindi acciò
ogn*vno pofsa tentare qualche ftrada di ridurli a mag- gior pcrfettione, e
sfuggire ifudetti difettijèneceffario prima conof- cere quale ne fiala prima, e
nera origine, quale procurerò di moftrarc tanto più volcntierijqaatttOjche
nonèftatafe non in parte oflferuata^ da altri ;&:a/jiche acciò meglio fi
pofTano intendere le ragioni dellt-* cofegià lopra accennate; siche dopo hauer
fcopcrto l'origine del ma- f'.'1e,potr£mo additarnieglio laftrada per
ifcanfarlo.Si debbono dun- que prima fapere alcune cofe comunemente riceuutejC
che da noi fi di- moftreranBo nella fcicnza optica. Primo, Si fiippone
comunemente, che i raggi pafì'ando dall*- >F;^«r da ciafcun punto
deiroggetto,non vengono realmente paralleli, ne (i polTono prendere per tali,
come fi fuppone nella quinta fuppoficione; poiché fé bene l'angolojche fanno
nel punto deiroggetto,dacui{ì pir- tono,èpiccoli{Iìm;),&acutiinni,&infe
ftelTo non è confiderabile-», cagioni però fenfibiie.e notabile varietà
ne'fuoieff.-tcijciò fi proui manifeftamentej poiché mirando con vn medefimo
cannocchiale, vicino al qual punto N, benché alquanto più lontano fi termina-
ranno ranno ancora i raggi più vicini all'aflfe tra AB, (la dunque AB la metà
dell'apertura del Vetro nel cannocchiale ordinario,siche li rag- gio BN con
tutti gì' altri, che cadono tra AB vadano ad vnirli quafiadvn medefimo punto N,
che però come vtili fi ammettono, ma gl'altri CH, DL, come inutili, anzi noc'ui
fi efcludono co- prendo la parte BD del Vetro. Per fare, che ancor quefti, li
quali andando in L, et H farebbero nociui,fiano vtili, e vadano con_. gl'altri
in N collocheremo vn Vetro KM conueflb-concauo poco auanti all'vnione di edì
raggi CHjDL, ilquale fia forato nel mez- zo, acciò per tal forame padì
liberamente il raggio BN, con gl'altri tra AB, i quali per efl'er vtili, ed
vnendofi tutti quafi in vn fol pun- to N, uon fi deuono alterare. La conueflìtà
del Vetro KM, per fuggire le molte refrattioni farà riuoltata verfo il Vetro
obbiettiuo,e farà di tanto femidiametro, che li raggi CG, DI, vi cadano fopra^
perpendicolarmente 5 ma perche facendo diuerfo angolo non tutti ponno cadere
perpendicolari, fi faccia almeno che vi cada perpen- dicolarmente il raggio CG,
poiché gl'altri, che faranno tra FG, e tra Gì, pochiffimo fi fcofteranno dal
cadere perpendicolari fo- pra la conue/Iìtà IcM, che però penetreranno fenza
refrattiont-* per il Vetro, fino all' altra fuperfìcie concaua in S, e Q^ Per
fare, che il raggio CG cada perpendicolare,fi notidoue vada ad vuirfi con
rafse,cioè, in H, polche HG daurà efifereil femidia- metro della conuellìtà K
M, La concauità poi RT dourà effer tanta, che il medefimo raggio CGS, il quale
fenza refrattione andrebbe in H, vfcendo dalla detta toncauità vada a
terminarfi in N, infieme con gl'altri, ììchti fi otterrà, fé tirata vna linea
da S in N mifureremo l'angolo HSN, e faremo vn altro angolo H S V, tirando la
linea SV, il quale fia il doppio maggiore di eflb HSN, poiché VS farà il
femidiametro del- la concauità RT. Ma forfi farà meglio far vn altro
concauo-conueflb, ilquale fi pon- ga con la parte concaua verfo il Vetro
obbiettiuo, e conia conucfsa.^ verfo la lente, e collocato fimilmente auanti
airinterfecatione d«^ raggi CH, DL. fi determinerà la conueflìtà KM dalla
diftanza dd^'^^'''^ Vetro dal punto N, poiché quanta farà efla diftanza V, g.
NV,^^^* altretanto dourà efiere il diametro della conueflìtà KM, la conca-
uitàpoi fi determinerà dalla dif>anza del punto H doue il raggio CG
s'interfeca con l'afse j onde quanta è la diftanza HV, aJtretanto farà il
diametro della concauità RT. Poiché in. quefto modo il rag^ |io CG,per la
lo.fuppofitione^refrangendofi nel vetro fi farà conia N n n pri- 254 prima
rerattionc parallelo airaffc A N, fi che poi arriuando alla fuper- ficie
conuefla K M, nel vfcire farà la feconda rcfratcione, con la qua- le perla
fefta fuppofitione verrà a tcrminarfi in JNjj eflendoche N V, e il diametro
della conaellìtà K M- H ragie poi DI3 cadendo nel ve- tro in I con maggior
angolo d'inclinationcj farà ancora maggiore^ refrattione di quelloche faccia il
raggio CG, conforme è neceflario acciò vada a terminarfi anch' egli in N. vero
è però che non ne farà tanca che bafti per arriuareprecifamcntc fino in Nj nulladimeno
vi arriuerà fi vicino, che ancor tal raggio potrà e0er vtile, y.. Da ciò fi
vede che potiamo far guadagno di tanti raggi quanti fono l-Xll ^wellijche
penetrano per la parte concaua del vetro ABCD, la>* doue prima fole quelli
erano vtilij che penetrauano per il fora- me E, Vn altro modo per ottenere Ti
ftefla vnione de" raggi laterali con i _.. raggi ch'entrano vicini
al'aife, può eflere il feguente. Sia il vetro ob-, £,J''bicttiuokD,ildi
cuifocofia inGjCioèil punto doue vanno ad vnirfi tutti li raggi che cadono tra
A, B con l'iftefio raggio AG perchedun- que i raggi laterali CFjDEjfi
vnifconocon l'afle AG lontano dal foco G> verfo Tobbiettiuo cioè in E, et F,
faremo che ancora il ng- gioBG inficmecon gl'altri, li quali cadono tra AB, et
andrebbero ad vnirfi in G50 poco più lontano, faremo dico che vengano ad vnirfi
più vicinij cioè tra E, et F infieme, con i laterali. Ciò fi potrà ottener^--»
per mezzo di vn vetro conuefloHlsil quale riceuafoloi raggi di mez- zo tra LjC
B, recando libero il paflb a gl'altri laterali d'intorno, e per- ciò fare
cingeremo all'intorno il vetro H I con vna fottilifiìma laminet- ladi ftrrojin
cuifiano fermati tre, o quattro altri filetti fottili di ferro AjBjCjCon i
quili fi appf>ggi fopra vn cerchietto dentro \^ canna del cannocchiale sì,
che refti fofpefo, rimanendo libero il vano ABC, tra, » il vetro 5 et il
cerchietto fopra cui fi appoggiano que'tre ferretti :f flf^il vetroHIj douendo
far pochiffima akeratione de' ra^gi per por- ' tarli da Gjin Ejdourà perciò
hauerevnaconueflìtà di grandidìma-* portione disferaja proportione
deirobbiettiuoj onde per più facilità fi potrà vfare vn piano conueflb,^ouero
anche unconMefso concauo, in modo però chela conueJ(Iìtàfia alquanto maggiore
della concauità, cioè portione di sfera minore, conforme le regole di fopra
noratej ne alcuno tema cheque* filetti, e cerchietto di ferro,che fi frapongono
irà rocchio, e robbiettiuo,fiano perturbare punto la uifta 5 poichc-» cflendo
lontani dal foco della lente oculare, ne pur fi potranno difcer- nere, e chi
noi crede ne taccia meco l'efperienza. Della fgf^ra de' Vetri Iperbolica,
^liptica, e Parabolica. A ciò che fi è detto fin hora, e da quello che fi dirà
nella parte Optica deirArteMaeftra,con il confenfodi tutti li Matematici fi
deduce, che la figura sferica ne* Vetri,non è tanto atta per vnire i raggi come
è la figura Ipf'rbolica,rEplitica,e la Parabolica j poiché queftc.^ vnifcono i
raggi in vn folo punto, o fia fpatio menomiflìmo j dal che_^ fi raccogIie,cheli
Vetrijiquali hanno alcuuadi quefte tre fioure,fono opportuniflìmiperil noftro
intento di fabricare i cannocchiali j poi- che dalla figura sferica molti raggi
fi vnifconOjC fi decuflano prima^ di arriuare al Vetro oculare, onde quefti
invece di giouare allavifta le apportano nocumento confondendo le fpetie
degliogaecti; All'- incontro i Vetri lperbolici,Eliptici,o parabolici vnifcono
tutti i ra^oi di vn medefimo punto dell'oggetto in vn minimo punto nel cannoc-
chiale sì, che iui la luce vnita riefce viuaciflìma.j dal che fe^uitajche
lavifta dell'oggetto fia molto chiara,e non folo nonviealcunrapojo ^he la
perturbi, ma tutti fono vtili,e coneorrono. a perfettionarla . AggioDgafi,che
potiamo lafciar apertole fcoperto tutto, quanto è am- pio il VetrO} che haurà
fimile figura,e far\o grande in modo, che pofla riccuere molte fpecie
deiroggetto,poic|5,e ninno ài quefti raggi impe- difce TaltrOjma tutti afiìeme
concorrono in vn medefimo punto, il che gioua grandemente non folo a far vedere
l'oggetto, più chiaro, e più grande,ma anche a (coprire molto maggiore fpatio
con vna fola oc- chiata; in tal modo che fefipotefle forrxiare vn Vetro
obbiettiuo con la perfetta figura Iperbolica, o fimile, farebbe effetti
marauicrliofi ed incomparabilmente meoliori di quello, che fanno i Vetri
sferici ordinarli. So che alcuni hanno condannate quefte figure delle fetrioni
co- niche} dicendo primieramente efier difficiliffimo, e quafijmpofifìbile il
lauorare i Vetri con simili figure, le quali fé non si fanno esattiflmainente,
confondono ì raggijC le specie degl’ooggetti 5 poiché tali figure hanno
infiniti centri, ed infinite circonferenze, e l'errare in vilj folo, èvn perdei
e tutta l'opera. Aggiongono, che nelli vetri obbiet»tivi ^$6 tiui 4i
cannocchiale, che non sia piccolifTìmOj è insensibile la ó'y verfità j che è tra
la figura sferkajC le altre nominate, che nascono dalla settione del cono 3ondcconfiftendo
Ia cosa in un picciolifsimo fuario, riefce imposibile nella pratcica toccare il
punto, A questi rispondocfler tanta la perfettione della figura iperbolica – H.
P. Grice IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor --, e altre sirnilij che una di esse di un sol
palmo di diametro, farà megliore effetto
di un altro vetro obbiettivo di dieci, e quindeci palmi j
Hor una figura iperbolica – H. P. GRICE: IPERBOLE: Every nice girl loves
a sailor -- di un sol palmo di diametro, è notabilmente diversa da una figura
sferica similmente di un palmo, e per conseguenza non farà impossibile a farla,
purché noi fiserviamo di perfetti ihumenti, quali descriuerò appre(ì'oj &
ancorché non fofle perfettissima, dico che non perciò fi confonderanno le specicj ficome no si confondono dal vetro
sferico in modo, che impedisca la vistaj – cf. H. P. GRICE and W. J. WARNOCK,
‘VISA’ -- benche il vetro sferico confondai raggi decufiati, con quelli che non
sono ancora decufsati. Certo è che alcuni vetri lavorati in piatti sferici,
perche talvolta nel lavorarli prendono alquanto della figura iperbolica – H. P.
GRICE IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor -- ,© simile, perciò riescono
molto megliori, e contrasegno n'è il richiedere un altro vetro oculare piu concavo,
il quale con la maggiore divaricatione de’raggi ricompensi la maggior unione
fatta dal vetro obbiettivo 3 ed in oltre si prova che tali vetri, i quali s’accofìano
alquanto alla figura iperbolica – H. P. GRICE IPERBOLE: Every nice girl loves a
sailor -- si pofibno lasciar più aperti,
a ricevere maggior quantità di raggi, senza pregiudicio jil che non avviene
nelii vetri semplicemente sferici – come gl’occhi di Grice – “spherical like
Grice’s eyes.” – THE SENSES OF THE MARTIANS – THE VISION OF THE MARTIANS – Four
eyes, with no exactly spherical eyes -- Secondariamente oppongono, che tal unione
di raggi in un sol punto non solo non può esser utile, ma di più è nociva
all'occhio – o gl’occhi di H. P. GRICE --, -- For eschatological problems I
will have to consider BOTH eyes as one simple organ -- il quale non può soffrire
una luce cosi intensaj e che perciò noi poniamo vicino all'occhio o gl’occhi di
H. P. Grice il vetro concavo per difunire, e difgregare que’raggi unitij che pròdunqucjdicon'efsijunirli
in un punto, fé poi necessariainente si devono difgregare. A questo rispondo
prima indirettamente, dicendo che nel canchiale di piu lenti, senza alcun vetro
concavo, si fa dalla lente vicina all’occhio o gl’occhi una fohissima unione de’raggi,
e pure tal unione non solo impediffc la vista – H. P. GRICE and G. J. WARNOCK,
VISION --, ma anzi l’aiuta molto. Di più, i cannocchiali piccoli – think John
Lennon -- sono megliori de’cannocchiali lunghi, parlando a proportione, cioè, a
dire un cannocchiale di sei palmi dovrebbe ingrandire l'oggetto al doppio di un
altro cannocchiale di tre palmi, e pure non lo fa, il che non procede d’altro, fe
non perche i vetri di cannocchiale piccolo essendo piu convessi uniscono meglio
i raggi; onde chi potesse far un vetro di trenta palmi di diametro, il quale
unifcei raggi SÌ perfettamente come vn vetro di un palmo, esso vetro in un cannocchiale
di trenta palmi ingrandirebbe l'oggetto trenta volte più di quello che fa il
cannocchiale d’un palmo j la dove per ordinario un canocchiale di 50 palmi ingrandisce l'oggettOj solo cinque, o sei
volte più di queIlo, che faccia un altro cannocchiale di un palmo. Finalmente, come
ho accennato di sopra si vede per isperienza
che di due vetri lavorati sopra il medesinio piatto concavo sferico felVno
prenderà alquanto di figura iperbolica – H. P. GRICE IPERBOLE: Every nice girl
loves a sailor --,ed unirà meglio i raggi di quello che faccia l’altro, ingrandirà
molto più l'oggettojC lo farà più chiaro – GRICE: “So ‘clear’ is essentially
PHYSICAL – cf. my remarks on ‘grow --,e scoprirà maggior paefcjcon tutto ché il
cannocchiale non fia, piu longo; onde, che quello cannocchiale, che unifce
meglio i raggi richieda poi un vetro oculare più concavo, per maggiormente divaricarlijciò
non fa ehe con quella forte unione de’raggi non renda 1'effetto megliore; e
perciò devesì ritrovare altra ragione per la quale riadoperai! vetro concavo
vicino all'occhio, la quale non è precisamcnte
per difgregare i raggi, altrimenti non riuscirebbero i cannocchiali con le
lenti, ne’quali l'unione de’raggi è molto maggiore, e pure non vi è vetro concavo,
che li diradi. Siche rispondendo direttamente dico che si adopra il vetro concavo
vicino all'occhio per far si che i raggi non si uniscano fuori dell’occhio, ma
dentro di esso in quella parte dove prodìmamente si forma la uiilaj come s'intende meglio nel trattato
dell’optica – H. P. GRICE and G. J. WARNOCK, VISION, VISVM, and the EYE. Resta
dunque manifesto quanto sia per ^iouare l'inventione delle figure fudctcc,
mentre anche la figura sferica, sole alquanto aceoftandolì ad esse fa effetto
notabilifiìmamente mogi iorcj Pere io tra molti strumenti da me a questo fifle
inventati, ne descriucrò due solij come più facili, e che pollbno ridurfi
utilmente alla prattica. Sii vn afta dirittifsima AL, che neliVftrema parte A
hjbbia vnitovna palla tonda di ferro, o di legno Cj Sia inoltre vn
le^no/'^v^y;. DE, formato immobilmente
in luogo altoj ed in mezzo a queffoLXI v' Icgftofia vn buco per il quale entri
Tedrema parte A dell'afta, c«» nella parte di sopra ila incauato sfericamente si, che vi pofi sopra la palla
C, la quale insieme con l'asta pendei ntc Ci possa girare, nvintenendofi sempre
nel medesimo centro, nel quale stando immobile, l'altra parte estrema L descriuerà
una portione di figura sferica. NH; direttamente sotto l'asta, sia collocato un
piatto sferico concauo, sopra il quale si fogliono laborare i vetri ma sia il
diametro della concavità con debita
proportione minore del diametro dell'asta, come e la concauiti sferica PQO, il
di cui centro è in R, nell'estrema parte L dell'asta lì atcachi il vetro IL, in
modo tale che il centro di cfso corrirpcnda al centro del piatto, il quale si
dourà collocare in (Ito piano orizontalc, vfando ogni diligenza, che non pieghi
piii da vna partCj chc dall'altra, ma sia posto perfettamente in piano, e direttamente a perpendicolo sotto il centro
della palla Cj poiché in quelle due cofe confifte tutta la perfettione j ciò
fatto fi vada girando, e mouendo l'afta con il vetro sopra il piatto sottoposto,
il quale coll'arena s'anderà logorando j e perche nell’accostarsi alle parti estreme,
P, ed O del piatto, cioè alla circonferenza quefte faranno piu eleuate, essendo
detto piatto di minor diametro dell'asta,
perciò il vetro nella circonferenza refterà più logorato, che nel mezzo,
prendendo figura atta al nostro fine, cioè, di sectione conica; come potrei
dimostrare con i fondamenti della geometria. E perche di mano in mano, che il vetro
si va logorando fi de'andare accoftando al piatto, acciò confricandofi con efib
fi finifca di logorare, t* prendere la fiigura douuta; per qucfto faremo entrare nella partc»^ìuperiore A dell'afta vn
ferro fatto a vite vnito alla palla, siche riuolgendo efsa vite 1'afta fi vada
abbafsando quanto farà di bisogno. Il secondo modo di dare alli vetri la figura
iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR -- è il feguente. Si pianti immobile in vn luogo
alto vn piatto conveflb ABC jnmodo che ftia infito orizontale, fotto a
quefto piatto direttamente ^i^fene ponga
vn altro parimente in fitoorizontale, il quale abbia figura concava, e quanto
più fi può simile alla DEF, che è figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL
LOVES A SAILOR; la quale per farla perfetta, si prenderà vn afta BGE, la quale
fia tonda, e paffi per vn forame tondo e fottile in modo che lo riempia conia
fui groflezza, e quefto forame fia non
nel mezzo dell'afta, ma nella parte superiore in vna proportionata distanza,
conforme alla diversità della figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A
SAILOR, che desideriamo più, o meno concava; Sia dunque quello forame in G
formato immobilmente in, modo che ftia in retta linea col centro B, del piatto
convesso ABC, e col centro E dell'altro piatto, che de’ ricevere la figura iperbolica
– GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR: nell’estrema parte dell'asta B fia vn
bottoncino di ferro, che entri a vite nell'afta, acciò fi pofìfi allungare, ed
abbreuiare; nell'altro estremo E fia vn altro bottoncino intagliato a modo di
lima atto a rodere il piatto sottoposto jftando le cose dispofte nel detto modo
fé noi moveremo l'afta girando la lima E
fopra il piatto DEF, e facendo che Teftrema parte fuperiore B rada
fempre il piatto conueflb ABC, il detto piatto inferiore prenderà perfettamente
la figura iperbolica, come si vede dalle linee CD, BE, IM, LN, AF, le quali rappresentano l'asta, secondo i
varij fitiche prende nel mouerla intorno, e per ogni parte del piatto. Altri
ftrumentl fi pofsono fare, defcritti da altri Autori, e particolarmente da CARTESIO
jC dal Reità per lauorare i vetri iperbolici, nia perche con effinófi poflbno
lavorare fé no con mantenerli sempre in vn medefimo centro, il che riefce
difficiliffimo, e la forma perde predo la fua figura j perciò ho ftimato di
tralafciarli, ed appigliarmi alli due modi fudetti. Deuo folo auuertire che il
Vetro fé haurà da vna parte figura Iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A
SAILOR -- dall'altra dourà efler piano, acciò riceuendo nella parte piana i
raggi paralleli gii vnifca in vn fol punto; ma fé da vna parte haurà figura
Eliptica – cf. GRICE ELLISSI --,
dall'altra parte dourà efler concauo con tale concauità sferica, che il
centro fia nel foco dell'Elipfi – GRICE ELLISI ED IMPLICATURA --, acciò i raggi
paralleli entrando pella parte eliptica,
dopo la refrattione, nell'vfcire pella parte concaua, non facciano altra
refrattione, e concorrano tutti ad eflb centro. Finalmente fi auuerta, che,
come fi difse di fopra, ! raggì, che vengono da punti dell'oggetto, fanno
angolo in eflb punto, onde non vengono paralieli, e per confeguenza, il vetro iperbolico,
o eliptico non li potrà mai vnire perfettamente in vn fol punto nuiladimeno perche dagl'oggetti assai lontani
i raggi fanno sì poco angoio, che poco pregiudica all'effetto defiderato, e
dall'altro centro viene rimediato al difetto principale del vetro sferico
conueflb, mentre in quefto gl'angoli d'inclinatione non fono vguali, come fono
nel vetro eliptico, o iperbolico, Quindi segue che tali vetri siano per giouare
grandemente, benchc non arriuino a tutta
la perfettione di queircffetto, che si cerca, cioè, di vnire i raggi ad
vn fol punto; Quefìia totale perfettione non e poflìbile ad ottenerfi in quaHi
voglia distanza dell'oggetto, poiché dipendendo da rmaggiorej O minor angolo, che
fanno i raggi del punto obbiettiuo piuvicino, o più lontano, fevn vetro vnirà
tutti i raggi di vn punto lontano, non potrà vnire tutti i raogi del medefimo
punto vicino, ed all'incontro, fé vnirà
quelli di vn punto vicino non potrà vnire quelli del punto lontano, che perciò
dobbiamo contentarfi di haoer rimediato al difetto principale nato dalla diversità
dell'angolo d'inclinatione, che fanno i raggi più vicini, e più lontani dall’afse.
DeH^'vfo dei Cannocchiali, e dn Micro fcopij.
j^EllilTima è Tempre ftara
ftimatar inuentione dcl Cannocichiale, non
tanto perii dilettOjquamo per l'vtilitàj che apporta, e che può
apportare, le quali perche confiflono nei faperio vsare, tratterò in questo
luogo in qual modo si adoperi, mostraiìdo varie cose, alle quali può feiuire, non
tutte considerate dagl'altri. Egh è dunque vtile si nella guerra, come nella
pacej e primieramefite nella guerra serve per osservare tutti gl'andamenti dell’inimico, €fpiareleattioni, e le perfoncj cosi per mezzo del cannocchiale effendo ftato
riconofciuto il Duca Francesco di Modena, che fi era in»citrato sotto la città
di Cremona gli fu tirato un colpo col cannone, da cui rcftòvccifo il marchese Villa, che gli stava
a lato. Può anche servire per leggere di notte lettere di segreto nella piazza
assediata, o fuori, come ricfpiegato nel terzo capo di queft'Opera. Di più,
non iblo lì potrà numerare quanti fianoi
pezzi di alcuna batteria scoperta, qu3nti i soIdati, ma anche fi potranno
vedere quelli che dinafcofto fi auuicinano per riconofcere i posti: e questi
all'incontro senza mettersi a pericolo con troppo auuicinarfi li potranno riconofcere da lontano con il
cannocchiale. In oltre dico, che con il cannocchiale noi potremo misurare
l'altezza delle mura, le distanze de’baluardi, la lunghezza delle Joro
faccie, e delle cortine, c5 tutto ciò che prattica la trigonometria; il che
potrà servire anche in altre occasioni, quando vorremo sapere le altezze, o diftanae
d'alcune cafe, ofiti a quali non fi potiamo accodare. Questa cosa che da altri
ch'io sappia non è stata osseruata/i potrà facilmente pratticare in quello
modo. Fabricato, che avremo il noftro cannGcchiale,
che fé farà di quattro vetri farà megliore, perche scopre piu spatio osserveremo
quanto spatio scopra in vna fola occhiata, mirando alcun'oggetto lontano venti
pafsij e questa misuri^» dello spatio, che si vede in vna fola occhiata la
noteremo fopra la canna del cannocchiale, tirandoui fopra vna linea, e
diftinguendola con li fuoi numeri; l'iftefso faremo ofseruando quanto fpatio fcopra in diftanza di trenta pafsi,
poiché come fi è detto, fcoprirà maggiore fpatio, e quefto pure lo noteremo
fopra il cannocchiale, facendo il medefimo delle dirtanze maggiori, cioè, di
50. di 40. di 50. di cento pafsi &c. et in tal modo haueremo preparato vn
cannocchiale geo-metrico; del quale quando fi vorremo feruirc per fapere per
cagione di erempio, raltezza di vna Torre, delIa quale ci (la nota la
diftanza_,j in tal diftanza la mireremo con il canocchiale, et oiTerueremo
quanta^ parte fi fc opra diefla invna occhiata, dal che raccoglieremo quanto
lìa alta. Sia per efempio vn cannocchiale^he in diftanza di cento
pafsiicopravno fpatio di venti piedi, e mirifi la Torre in tal diftanza di
cento pafsi; fc dunque fi fcopre in vna fola occhiata tutta la Torre, e
non piu, fcgnoè, chequefta è alta venti
piedi foli, ma fé non fi fcopre tutta lì ofìTerui quante occhiate vi vogliano
per fcoprirla tutta; e fé in due fi fcopre farà alta 40.piedi, fé in tre 60. ma
fé in mezza occhiata Ci fcoprilfe, farebbealtafolo dieci piedi jrifteffo fi
deue intendere della diftanza tra vn luogo e l'altro, i quali fiano lontani da
noi, come farebbe la lunghezza di vna
cortina, © diftanza tra due baluardi.
Quando poi ci farà nota l'altezza di alcuna cofa, o diftanza tra due cofe
lontane; Quindi conofceremo ficeuerfa la lontananza, che hanno da noi dalli
numeri che haueremo notati nel cannocchiale. Ma quando noi dcfideraflìmo di
fapere l'altezza di airi cuna cofa, quale non potiamo fapere, quanto fia
diftante da, noi; ed infieme la diftanza di vna cofa, quale non fappiamo quanta fia grande; e io conofceremo con fare
due offeruationi in due diihnze vna maggiore dell'alcraj come fi fuol fare con
gl'altri ftrumcntÉ altimetri. Sia V. g. la Torre AB, mirata dalluogo D, con vn
Cannocchiatc, che in diftanza di joo.pallìfcopravno fpatio di 6©. piedi; c»>
fupponiamo che in vna occhiata fi vedano due terze parti della Torre, cioèjda
B, fino a C, fi ritiraremo lontani fin
tanto, che il cannocchiale fcopra tutta la Torre, il che fuccedcrà nel fito E,
ciò fatto mì-Fi^ura fureremo la diftanza, che è tra il fito primo D, et il fecondo
Eyf-XVj. quale fupponiamo che fia 100. palli: Se dunque cento paffi di maggior
diftanza ci fanno fcoprirevn terzo di più della Torre, fecrno €, che la
diftanza tutta fia di tre volte centopa{lì, e perche nelli numeri fegnati fopra il cannocchiale ritrouo che in
diitanza di^oo.paffi fcoprò lo fpatio di
lontane; e quefto modo non più pratticato, ne auuertito da altri, ch'io fappia,
è fondato nel principio vniuerfale acuì s'appocroi-i rurta la Trigonometria,
cioè, nella propordone de' lati delli due triangoli Ooo: EBA, BBA, e DBC,
poiché tale è la proportione del lato DB, al lato BC, quale è quella del lato
EB, allato BA, come dimoftra Euclide.
Ciò che fi è detto dell’vfo Trigonometrico del cannocchiale fi può incendere di
qualunque maniera cgli fia fabricato;
rna quando fm fornito di vna, o più lenti in vece del concauo oculare, riufcirà molto più efatto il modo, che qui
foggiongo. Si formi di metallo vn cerchictto, ed in eflbfifaccjavn foro, o più tofto vna fenellrella quadra ABCD,
tagliandone tutta la laftra di Eucl. che
li due triangoli ABR, di. HGR fono proportionali, e per confeguenza anche li
triangoli SBR, e TGR, onde farà come R,S, diftanza dell'oggetco dall'obbiecciuo
a S B mecà dell’oggecco, cosi TR diftanza. dell'obbiettiuo da fili del
cerchietto a TG metà della diftanza de' fili niedefimi, e per confeguenza come
RS, ad
AB, ciocia diftanzau deiroggetto, alla grandezza di tutto l'oggetto, cosi la diftanza TR a tutta
la diftanza GH de*fili. Diuidafi dunque tutta la diftanza TR in parti vguali
alli gradi notati ne' lati del cerchietto, e poniamo, che quefta diftanza del
cerchietto dall'obbiettiuo fiano looo.dique'gradi, delli qaali HG, cioè, la
diftanza de'fili nel cerchietto fia folo 5. farà dunque come looo. a 5. così la
dìftanza nota RS, qualt-j» fuppongaii di ^ooo.
paffi alla grandezza AB, che fi cerca, cioè, paffi 10. et all'incontro
fé hanremo nota la grandezza dell'oggetto AB di paffi 10. faremo come GH, a TR,
cioè, come 5. a 1000, cosi AB IO. ai RS 2000. Che fé poi non ci farà nota ne la
diftanza ne la grandezza dell'oggetto, douremo o0eruare l'oggetto medefimo in
due diihnz^ diuerfe, poiché in maggior dìftanza 1'ifteifo oggetto manderà
i raggi cftremi tra due fili paralleli
del cerchietto, li quali faranno meno diftantì tra difcjche quando era in minor
diftanza; onde dalla.^diffjreH^La delle due diftanze de'fili nella prìma, e
feconda ofleruatione, e dalia diftania de' luoghi, ne' squali fi fono fatte le
due olferuationi deiroggcttoj conforme le regole della Trigonometria hauremo la
diftanza dell'oggetto, ed infieme la fua grandezza, T vna, e l'altra delle quali prima erano
ignote. In particolare potremo mifurare l'altezza di alcun Monte, con vna fola
oìleruatione, purché in cima di effovi fu vnoggettodi nota grandezza, poiché
mirandolo fapremo la diftanza di elfo nella lìnea, che chiamano Ipotenufa,
dalla quale infieme con l'angolo, che è facile a prendcrfi con l'inclinatione
del cannocchiale medefimo hauremo ambii
lati del triangolo, vno de*quali è la diftanza del Monte j e l'altro
l'altezza perpendicolare. Quefta inuentione riufcirà diletteuole, ed vtile, non
folo per mifurare Je diftanze, e grandezze de gli oggetti terreni j ma molto
più psr deterrr\inare efattamente li diametri de'Pianeti, quando (oao. apogei,
o quando fono perigei j benché ài ciò io mi riferuo a parlarne altroue, doue
fpiegarò alcuni nuoui modi dirinueniriJ^
con maggiore accuratezza tutte le fudette mifure per mezzo dei cannocchiale. Ma
fingolarmente ci giouerà per determinare la grandezza deU le macchie del Sole,
e della Luna, il fitOjC la lontananza, che hanno. Tvna dall'altrajovero dal
Limbo del Pianeta, le diftanze de'fatelliti di Gioue da Gioue medefimo, e tra
fé fteflì, et altre cofe fimili j per il quir le effetto ci giouerà lofccndere nel vano del cerchietto
fudetto molti fili tutti equidiftantì, e tra di fé paralleli, intrecciandoli
poi con altri fili di trauerfo sì, che formino come vna rete di molti
quadretti, per li quali paflando i raggi vifuali nel mirare, V.g la Luna,
quefta., ci comparirà reticolata in quel modo, che fi fogliono reticolare da’Pittori
le imagini, di cui vogliano cauare il difegno onde formando poi in carta vna fimile figura
reticolata, ci farà faciliffimo il collocare ciafcuna macchia a iuo luogo, e
iicauarc vn perfetto difegno della faccia lunare. Deuefi però auuertire che a
cagione della maggiore o minore diftanza deiroggettOj che firimiraj quefto
tramanda i fuoi raggi al V^etro obbicrtiuo, piu o meno proffimi all' cflere
parallelo, e perciò fanno maggiore, o minore
refrattionc nel Vccro mcdefimo, dal chenafcejchc non crefca la
dilatatione dell'angolo HRG, a proporcione della maggiore vicinanza
dell'oggetto j siche la regola fopradctta è foggetta a qualche diffetto; ma
quefto è si leggiero ne'cannocchiali Junglii, particolarmente quando fi
ofleruano oggetti molto lontanijche fa può facilmente auere in conto di nulla,
particolarmente perche. alJaproportionc,
che và diminucndo(ì la refrattione, e la dilatation« dcirangolo R del triangolo
HRG, fi abbreuia ancora il cannocchiale per vedere diftintamente i medefimi
oggetti lontani; si che la bafe HO del triangolo, che è la diftanza de'fili,
riafcirebbe maggiore del douere, ma accoftandofi all'angolo R, con lo
raccorciamcnto del cannocchiale, riefce proportiouata. Quando però per maggiore ficurczza, & efattezza noi
voleflìmo conservare iempre Tif- tcfsa
lunghezza del cannocchiale, cioè, l'iftefla diftanza delì'obbiettiuo dal
cerchietto, si potrebbe correggere quel poco di fuario della maggioreje minore
refrattione, poiché tal refrattione va diminuendofi nelle maggiori, e mag{»iori
diftanze a quel modo, che fi vanno diminuendo ifeni de gl'archi a proportione
del feno totale. Finalmente auuertafi che
nellVfo di quefto cerchietto fi de'vfare grandiffima diligenza nel mifurare le
diftanze delli due fili paralleli, per i quali padano i raggi eftrcmi
dell'oggetto j onde i gradi, ne’quali fono diuifii lati del cerchietto douranno
elTere per^tramentc vguali, efegnaticon ogni diligenza; e perche lo piu delle
volte accadere, che ofieruando li diametri de' Pianeti, o grandezze di altri oggetti, li fili tra quali
ci comparifce tutto 1’oggetto non cadano precifamént?_> fopra il finc, o
fopra il principio di alcun grado, ma fopra vna piccola partedieflo; douremo
certjficarfi quanta fia quella parte a proportione di tutto vn grado intiero;
il che non fi può fare con quella efattez;, Che nell'Aceto vi è vn buHicame di
Vermi, i quali fi vedono chiaramente con
quefto ftrumento guizzare come piccole anguille; come parimente nel
latte quando incomincia ad inacidirfi, ed anche lìcl formaggio, -"'i Nel sangue corrotto,© infetto per
qualche malatiafi fono offeruati fimili Vermi con modo particolare; poiché fi
vedono gl'occhi de'Vermi medefimi, li quali fé fono neri, fi è prouato
perifperienza., che il male è mortale j
Dalle quali oflferuationi fi può
probabilmente arguirc che non fi corrompa, © putrefaccia alcuna cofa, che
infiema«» non fiano fimili vermi nella cosa putrefatta; onde anche nell'aria
corrotta per cagione di pelle ilima il noftro Kirchero, che vi fiano tali vermi,
i quali riceuuti in noi, mentre refpiriamo quell'aria ci cómu," nichinovna
fimile infettione. In vn piccioliffimo granello, © femenza ài papauero'ton il
m^i croicopiofi fono numerate 48.faccie
fatte tutte a fei angoli. In alcuni femi di cedro, e di Limoni tagliati per
mezzo io ho ol-T feruato non senza stupore
vn intiera pianta di cedro col tronco, f(}-j glie, e frutti; onde. fi può
credere, che in tuttele femenze vi fia com 'j: 7 n Moltiffime altre ofieruationi fi poffono
farc-nonfiDlo-nellé* parti dei gl'Animali, ma anche nell'Erbe^ nelle piante,
nei minerali, daiie quali) potrà
riceuere gran lume la naturale filosofia, come fi vedrà nella... noftr'Arte Maeftra., raa. sopra ogaalir.a. cof^ ci può gionafi^jaiìnedi;, C,fe vorremo tirare
due alere linee, che abbiano tra di sé la medesima proportionc, e fianofolo v,
g. vna_. cinquantcfima parte di effe
linee date applicheremo le punte del coni- paffo fotto il microscopio, e
parallele alla linea AB fin tanto che
cora- parifchanp ftcfe quanio è la medesima line», qucft'apcrtura, di cotnpaiTo
farà vna Iineaj l'iftefìTo fi faccia con la linea CD5&
haurcmo l'altra linea: con la medefima proportione tra loro, c'hanno le
due linee date^ma ac^ cioche la maggiore delle date alla maggiore, che fi
cerca, e la minore alla minore abbiano la proportione di 50. a i.fi dourà
allontanare, o vero auuicinare vna lente
del microscopio airaltra, fin tanto, chc Toggetto s'ingrandifca precifamente
cinquanta volte. Ma molto più facilmente
potremo ottenere le medesime cose dette di sopra, ed altre, che s'accenneranno
appr€Ìro, fe aggiongeremo al microscopio vna reticella Ornile a quellajche fi è
spiegata di sopra nell’uso del canocchialej. Quefta fi farà in vn cerchio tondo
tanto largo nella fua apcrcurajche i
raggi visuali estremi tocchino l'orlo interno di cfia sì, che egli termini la
grantjezza del campo apparente, e si collocherà dietro alla lente oculare nel
foro di eflarln quefto modo fchifaremo quella difficoltà che s'incontra
(^maflìme da quelli che non fono molto auuezzi) nel mirare con gl'occhi due
oggetti diuerfij vno reale con l'occhio fuori del microfcopio, e l'altro apparente coll'occhio sopra'l microscopio.
Sia v.g. la linea, ovvero un grado piccolo AB di alcun quadrante, ed in efìo
vna parte piccolifTima AC, e fi
defideri fapere quale proportione abbia efìa particella AC con tutto il
grado, o linea A85V,g. quante fcf-
fantefime parti, overo minuti di tutto il grado. Si accomodi il microscopio
con tali lentisC con tale diftanza traloro, che
ingrandifca Icliìiee fefsantavokejC fi faccia la reticella divisa in sei parti, si
che ad vna corrifpondano lo.minutijoueroin
i2.siche ad ogn'vna ne cornfpondano
cinque. Posto il microscopio sopra quel grado AB, e particella di efso AC, fi
oiTerui in quanti fili della reticella
venga compreso tutto il grado F'tgura^j^^Q^ in quanti la particella AC, &
hauremoia proportione, clie fi cer- J.XXII^2.
y^g^ Cg jytjQ
]| grado AB prenderà tuico il campo di 1 2. partijcicè,
ii fi c J
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I oì:z 22.,i,iu^i" ii4iT!>itUii|iiiiiuii;»ii l'^V'i
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de’Terzi. Keyword: lingua universale, grammatica ragionata. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Terzi.”Terzi.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tessitore:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Vico di
Tessitore – filosofia campagnese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza
(Napoli). Abstract. Keywords: Cuoco.
Grice: “Cuoco argues that Plato is really an Italian!” -- Filosofo napoletano.
Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Grice: “If there’s Oxonian dialectic and Athenian dialectic [la
scuola d’Atene], there is, to follow Tessitore, the ‘scuola napoletana.’” Si laurea in giurisprudenza -- la sua tesi
ricevette dignità di stampa -- a Napoli, allievo di PIOVANI -- è libero docente
per meriti eccezionali in filosofia del diritto, e professore. Insegna storia
delle dottrine politiche; quindi, in poi, storia della filosofia. Preside della
facoltà di magistero dell'università degli studi di Salerno. Preside della facoltà
di lettere e filosofia dell'università Federico II di Napoli, della quale è
stato anche rettore. Socio dell'Accademia dell'Arcadia col nome di Echione
Cineriano. È inoltre socio nazionale dell'Accademia dei lincei e di numerose
altr’accademie. Diregge il Centro di studi vichiani del CNR e fa parte del consiglio
scientifico dello stesso centro. Presidente della Fondazione Piovani per gli studi vichiani e del consorzio
inter-universitario Civiltà del mediterraneo. Presidente del comitato tecnico scientifico
della fondazione Amato onlus; socio dell'Istituto per l'Oriente Nallino di Roma;
vicepresidente della fondazione Cortese. Siede inoltre nel consiglio direttivo
dell'istituto italiano per gli studi storici fondato da CROE. È stato
componente del consiglio scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana
Treccani. Membro del consiglio universitario nazionale, in cui è stato
presidente del comitato di lettere, lingue e magistero, vice presidente della
Fondazione teatro di S. Carlo, componente del consiglio generale della fondazione
Banco di Napoli, del Consiglio direttivo e vice presidente della CRUI, la
Conferenza permanente dei Rettori delle Università italiane; cavaliere di gran
croce dell'Ordine al merito della Repubblica. Senatore della Repubblica italiana
nelle file dei Democratici di Sinistra L'Ulivo e deputato nelle file del
L'Ulivo. Medaglia d'oro della Scuola dell'arte e della cultura e della Scienza
e della cultura. Autore di molti saggi -- ai quali sono stati assegnati numerosi premi. Saggi:
Aspetti del neo-guelfismo napoletano, Morano, Napoli; Crisi e trasformazioni
dello STATO: recerche sul pensiero gius-pubblicistico italiano, Morano, Napoli;
Fondamenti della filosofia politica, Morano, Napoli, La storia dell’idee, Monnier,
Firenze, Profilo dello storicismo politico, POMBA, Torino, Lo storicismo, Laterza,
Roma, Meinecke, Laterza, Roma; Filosofia, storia e politica in CUOCO (si veda),
Marco, Lungro); Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Storia e
Letteratura, Roma; Interpretazione dello storicismo, Scuola Normale, Pisa; Contributi
alla storiografia arabo-islamica Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); La
mia Napoli. Frammenti di ricordi e di pensieri (Grimaldi, Napoli); Letture
quotidiane, Editoriale scientifica, Napoli, che raccolgono articoli di giornali
quotidiani. Trittico Anti-hegeliano da Dilthey a Weber. Contributo alla teoria
dello storicismo (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; Da CUOCO (si veda) a
Weber. Contributi alla storia dello storicismo, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma. Fonda il “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, Archivio
di Storia della Cultura, Civiltà del Mediterraneo, pontaniana. unina. Curriculum
su filosofia. unina. Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Fulvio Tessitore. Tessitore. Keywords: Cuoco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tessitore,” per H. P. Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Testa:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della nemica fortuna
– la scuola di Tidone – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Tidone). Abstract. Keywords: implicatura, nemica
fortuna. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Tidone, Piacenza,
Emilia-Romagna. Rifiuta la cattedra filosofica a Pisa e prefere lavorare a
Parma, divenendone presidente dell'area filosofica. Deputato al parlamento
sabaudo. T. Storia di un povero pretazzuolo di Fausto Chiesa, pubblicato
dalla libreria Romagnosi di Piacenza. Treccani Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Alfonso Testa. Testa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Testa” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Thaulero:
la ragione conversazionale e il problema d’una antropologia filosofica; o, l’implicatura
conversazionale dell’autorità ed il risentimento – la scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Roma). Abstract.
Keywords: autorita e risentimento. Grice: “We loved Strawson’s “Freedom and
resentment,” since it spoke to a generation – not exactly mine!” -- Filosofo romano.
Filosofo lazio. Filosofo italiano. Abruzzese, figlio del barone Carlo, nobile
di Chieti e patrizio teramano. Consigue la maturità classica al liceo Massimo
di Roma. Si iscrive alla Sapienza di Roma, dove si laurea a pieni voti con una
tesi in filosofia del diritto, “Una metodologia del diritto”, sotto VECCHIO
come relatore, e ottenne il diploma di perfezionamento con lode in filosofia
del diritto nella scuola di perfezionamento di filosofia del diritto a Roma,
con la tesi “La ‘fictio juris’ in Bartolo da Sassoferrato”, con SFORZA come
relatore. Assistente volontario di PERTICONE, ordinario di storia contemporanea
a scienze politiche, usufruì di una borsa della Humboldt-Stiftung che gli
consente studiare in Germania per approfondire sulla problematica del valore. STURZO
gli affida insieme ad Addio la direzione del “Bollettino di Sociologia”, poi
divenuto “Sociologia”, divenendo uno dei maggiori collaboratori dell'istituto
creato dal fondatore del partito popolare italiano. Inviato al congresso di sociologia
di Amsterdam e fra i fondatori della Società italiana di scienze sociali.
Consigue la libera docenza in filosofia morale e ricopre vari incarichi presso Salerno.
Vince il concorso a cattedra per filosofia morale del magistero di Salerno.
Muore in un incidente automobilistico. Gli è stata intitolata la scuola di
Cologna Spiaggia a Roseto degli Abruzzi. Altri saggi: “Società e cultura”
(Giuffré, Milano); “Il mare ha voce, ha voce il vento” (Storia e Letteratura,
Roma); “Il darsi dell'origine nell'esperienza sociale e religiosa” (Studium,
Roma); “Intorno al concetto di sociologia generale”, “Sociologia: Bollettino
dell'Istituto Sturzo” (A. Giuffré, Milano); “Il problema del risentimento” – “Sociologia:
Bollettino dell'Istituto Sturzo” (Giuffré, Milano); “Scienze sociali e sociologia”
– “Sociologia: bollettino dell'Istituto Sturzo” (Giuffré, Milano); “La
Sociologia storicista” – “Sociologia: bollettino dell'Istituto Sturzo” (A. Giuffré,
Milano); “Razionalità e storia” (Civitas); “L'autorità” (“Sociologia”); “Il
problema dell'autorità” -- Convegno di Cultura Europea, Bolzano; “Conoscenza e
sociologia” -- in “Rivista di Sociologia”, Appunti per la settimana sociale dei
cattolici d'Italia, in Rivista di Sociologia; “Sociologia religiosa”, in “Rivista
di Sociologia,” “Cristianesimo e storia”, in “Rivista di Sociologia”, “Pregiudizio
e religione”, “Rivista di Sociologia”,
Roma, “Metafisica della scienza e sociologia” – “Rivista di Sociologia”,
Roma, “Analisi culturale ed ecumenismo” – “Rivista di Sociologia”, Roma, Religione
e pregiudizio” (Cappelli, Bologna); “Il problema di un'antropologia filosofica”,
Rivista di Sociologia, Guida, Napoli, Corso
di lezioni ciclostilate, con la traduzione, in appendice, di un saggio di
Scheler. Religione e pregiudizio. Analisi di contenuto dei libri cattolici di
insegnamento religioso in Italia (Cappelli, Bologna); “Nota introduttiva a Hartmann”,
Etica -- Fenomenologia dei costumi, in Esperienze’ “Osservazioni in margine ad
una ricerca su pregiudizio e religione”, in Rivista di sociologia; “Prospettive
culturali e sociologiche dell'impegno sociale” -- relazione tenuta alla
Consulta dei Movimenti Effettive e Seniores della Gioventù di Azione Cattolica;
“Un nuovo indirizzo storiografico nella analisi della struttura socio-economica”
-- relazione tenuta in occasione del convegno Rozzi e l'agricoltura, Teramo, promosso
dal Centro di Studi Storici Abruzzo Teramano, in Rivista di Sociologia; Riflessione
sull'Università televisiva, in Informazione Radio TV. Studi, documenti e
notizie, Speciale Televisione e Istruzione, RAI, Sociologia ed esperienza
religiosa e politica Ricerche di Storia sociale e religiosa. Discendente del beato
Johannes Thauler. Il Tempo, V. Mathieu, Salerno, Rosa, Seconda Attesa, Vicenza,
Rosa, La storia che non passa: diario politico, Mannelli, T. Vincenzo
Filippone-Thaulero. Thaulero. Keywords: autorita e risentimento. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Thaulero” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tiberiano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del mio tutore Priscilliano –
Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: Storia della
filosofia italiana. Priscilliano’s followers. Filosofo italiano. He moves to Baetica. He is a follower of
Priscilliano, writing a number of essays in defence of Priscilliano’s extremely
weird views!
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Tiberio: la ragione conversazionale
del filosofo principe – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Roma). Abstract.
Keywords. Philosophers whose name began with TH in Latin but changed the TH to
T in Italian. Filosofo italiano. Principe. He takes a serious interest in
philosophy, and is especially drawn to the Scesi, as he calls it. His tutors are
Teodoro and Trasillo. Grice: “What surprises me is that both Tiberio, Teodoro,
and Trasillo bear names that start with a T. But Strawson knows better: ‘The T
in Theodoro is vulgar Italian, not Latin, or Greek!”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tiberio: la ragione
conversazionale della filosofia e l’implicatura conversazionale dell’anti-filosofia
– Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: not the prince. Not
the prince. This one writes on philosophical subjects. Grice: “It would have
been a good thing if the OTHER one did!” – Luigi Speranza, “Grice e Tiberio”.
Tiberio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tilgher:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’orecchie
dell’aquila -- il relativismo filosofico – la scuola di Resina -- filosofia campagnese --
filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Resìna). Abstract. Keywords: le orecchie dell’aquila,
lo spccio del bestione trionfante. Filosofo napoletano. Filosofo campanese.
Filosofo italiano. Resina, Ercolano, Napoli, Campania. Nato da padre vetraio Tedesco,
vive a Roma dove e amico e collaboratore di BUONAIUTI, studioso di storia del
cristianesimo ed esponente del modernismo italiano. Lavora come bibliotecario ad
Alessandrina e collabora ad alcuni giornali -- tra gli altri, Il Mondo e il
Popolo di Roma -- molti dei quali vennero poi soppressi dal regime fascista
(“unsurprisingly” – Grice). I suoi principali saggi sono: “La crisi mondiale”,
“Estetica”; e “La filosofia delle morali”, nella quale delinea la sua originale
visione individualistica. Collabora al giornale satirico “Il Becco giallo”. E tra
i firmatari del manifesto degli intellettuali – o filosofi -- anti-fascisti,
redatto da CROCE (“or his secretary, rather – full of typos!” – Grice). Da
ricordare, anche, tra i suoi diversi saggi anti-fascisti, “la stroncatura di GENTILE”,
che, soprattutto nell'ironico e irriverente sotto-titolo, esprime un
dissacrante giudizio sulla propaganda con l'eloquente frase, di ascendenza
bruniana – si veda: BRUNO -- “Lo spaccio del bestione trionfante”. Opera anche
come critico letterario e teatrale. E tra i primi a notare l'originalità del
teatro pirandelliano (PIRANDELLO, si veda), nonostante i tentativi di
contestazione da parte del regime fascista.
In ambito filosofico, afferma che non esiste una scienza morale unica
bensì una pluralità di morali che emergono da un fondo caotico in virtù di
un'iniziativa che in parte è creatrice di valori e in parte effetto di
coincidenze casuali, anche se fortunate. In lui ri-affiora il dualismo manicheo
di bene e di male, ribelle a ogni composizione dialettica propria a ogni
comodo, quanto illusorio e superficiale ottimismo. Considera mitico,
utopistico, il concetto del progresso che non considera come altrettanto reali
"il regresso, la caduta e la colpa".
Nella nota “Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra”, oltre a
suoi saggi include brani tratti dai saggi di ALIOTTA, BUONAIUTI, EVOLA,
MARTINETTI, MIGNONE, NOBILE, E RENSI. A Ercolano gli è stato intitolato l'istituto
d'istruzione superiore, non inferiore, -- “as Gentile would have preferred” –
Grice. Altri saggi: “Arte, conoscenza e realtà” (Torino, Bocca); “Teoria del pragmatismo
trascendentale” – alla APEL (Torino, Bocca); “Filosofi antichi” (Todi, Atanor);
“La crisi mondiale”, “Saggi di socialismo e marxismo” (Bologna, Zanichelli);
“Voci del tempo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Relativisti
contemporanei” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Studi sul teatro
contemporaneo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Ricognizioni, Roma,
Libreria di Scienza e Lettere); “La scena e la vita” – cf. Shakespeare: for all
the world’s a stage -- (Roma, Libreria di Scienza e Lettere); “Lo spaccio del bestione
trionfante: stroncatura di GENTILE. Un libro per filosofi” – GENTILE: SI VEDA (Torino,
Gobetti); con un saggio di Negri, La Mandragora, prefazione di Turi (Roma,
Storia e Letteratura); “La visione greca della vita” (Roma, Libreria di Scienza
e Lettere, Giordano); “Saggi di etica e di filosofia del diritto” (Torino,
Bocca); “Homo FABER” – cf. APPIO (Roma, Libreria di Scienza e Lettere, col
titolo “Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale, Firenze Libri);
“La poesia dialettale napoletana” – “typical work of a German, as he was!”
(Grice) (Roma, Libreria di scienza e lettere), “Estetica” (Roma, Libreria di scienza
e lettere); Etica di Goethe, (Roma, Maglione); Filosofi e Moralisti – Grice:
For Nowell-Smith, philosophers ARE moralists! --, Roma, Libreria di Scienza e Lettere);
“Studi di poetica” (Roma, Libreria di Scienza e Lettere); Cristo e Noi, Grice:
“His real name wasn’t Christ, but Jesus” (Modena, Guanda); “Critica dello storicismo”
(Modena, Guanda); Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra (Modena,
Guanda) – si veda: EVOLA, MARTINETTI, ecc. ; “Filosofia delle Morali” (Roma,
Libreria di scienza e lettere); “Moralità: punti di vista sulla vita e
sull'uomo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Le orecchie dell'aquila: studio
sulle fonti dell'attualismo di Gentile” (Roma, Religio); “La filosofia di LEOPARDI
[minore]” (Roma, Religio); Raoul Bruni, (Torino, Aragno) -- con l'aggiunta di
altri scritti leopardiani mai riuniti in volume; “Il casualismo critico” (Roma, Bardi); “Mistiche
nuove e Mistiche antiche” – cf. SCUOLA DI MISTICA FASCISTA (Roma, Bardi);
“Tempo nostro” (Roma, Bardi); “Diario politico” (Roma, Atlantica); “Marxismo, socialismo
borghesia (Firenze Libri); Carteggio CROCE-T., Tarquini (Bologna, Mulino); “PIRANDELLO,
con testi di GRAMSCI” (Pisa, Scuola Normale Superiore); Einstein, Trappetti e
Secci, Dalia Edizioni, La Stampa di Torino. Redazione, “Spaccio della bestia trionfante” è un saggio del
BRUNO, costituita da III dialoghi di argomento morale, pubblicata a Londra. Le “bestie
trionfanti” sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali
-- è necessario ‘spacciarle’, ovvero cacciarle dal cielo in quanto
rappresentano vecchi vizi che occorre sostituire con moderne virtù. Una nota
dell'OVRA su un presunto tentativo di contestare PIRANDELLO (si veda) nella
tournée in Argentina si riferisce una grave dichiarazione confidenziale fatta
dal noto letterato anti-fascista a CASSINELLI, dichiarazione che rileva non
solo l'animosità biliosa di T. contro PIRANDELLO ma anche e soprattutto un
piano pre-stabilito da oltre III mesi da rinnegati contro degl’italiani che si
apprestano a far conoscere ai nostri co-nazionali in Argentina, le ultime
novità letterarie degli autori italiani. Sedita, “PIRANDELLO, l'a-politico
spiato” (Belfagor), che riproduce la nota, sottolinea l'enfasi negativa con cui
in essa si presenta il noto letterato anti-fascista T. e con cui ci si sofferma
soprattutto sul suo perdurante odioso atteggiamento di sfida e di ribellione al
fascismo. E significativo, alla luce degli studi di CANALI, che il tramite tra
la polizia politica e T. sia stato CASSINELLI. CASSINELLI divenne amico di PIRANDELLO,
che ne parla con deferenza in due lettere all’Abba. Dizionario Biografico degli
Italiani Rensi, Frammenti d’una
filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte” (Napoli, Orthotes);
Istituto d'Istruzione Superiore T., su tilgher Grana, T. critico, in,
Letteratura italiana. I critici, V,
Marzorati, Milano; R. Laz., Enciclopedia ItalianaII Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, T. com'era, Napoli, Edizioni del delfino, Buonaiuti
Modernismo teologico Manifesto degli intellettuali antifascisti Traccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Adriano
Tilgher. Tilgher. Keywords: le orecchie dell'aquila, lo spaccio del bestione
trionfante. Refs.: Luigi Speranza, ‘Grice e Tilgher’ – The Swimming-Pool
Library. Tilgher.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timagora: la ragione
conversazionale dell’orto di Roma e l’implicatura conversazionale -- Roma –
filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Grupo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: Orto. Grie: “I lay the
cause of the emergence of Reealism at Oxford – with Cook, Prichard, and company
– as a reaction to Walter Pater’s infamous Epicureanism!” Filosofo italiano.
Orto. Cited by CICERONE. Grice: “I would say that Cicerone should every sign of
being a closet Epicureian. He knew them ALL!” Keywords: Orto. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Timagora.” Timagora.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timagora: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tutelage in
Italian philosophy – Roma – la scuola di Gela -- filosofia italiana -- Grice
italo – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Gela).
Abstract. Keywords: tutelage in Italian philosophy. Grice: “In Ancient Rome, it
was mainly emperors who had a philosophy tutor; I was happy to have a Scotsman,
Hadie, as mine!” Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Gela, Caltanissetta,
Sicilia. A pupil of Teofrasto and Stilpo. Grice: “Not a good pupil, apparently,
since he needed TWO tutors. I rather would die than having to endure my four
years at Oxford under TWO tutors: Hardie was MORE than enough!” – Keywords:
tutelage in Italian philosophy
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timarato: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della legislazione di Locri –
principe filosofo – Roma – la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: Cuoco. Grice: “Cuoco was
fascinated with Southern Italy, and called Plato a Southern Italian, almost!”
-- Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. A
Pythagorean cited by Giamblico, pupil of Pythagoras himself. T. achieves great
eminence as a law-giver at Locri. However, Giamblico says exactly the same
thing about a *Timares* of Locri, which is either a remarkable coincidence or a
mistake (“but can’t be both” – Grice). The latter is perhaps more likely, as on
both occasions Giamblico links Timares with Zaleucus – implying (“or
implicating” – Grice) they are the same person. Keywords: Cuoco.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timare: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della legislazione di Locri –
il principe filosofo -- Roma – la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: justice, moral justice,
political justice, politico-LEGAL justice. The legal and the law. Filosofo calabrese.
Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorean, cited by
Giamblico – and an important law-giver in Locri. Some scholars think that
Giamblico or someone else made a mistake and that ‘Timares of Locri’ should
read ‘Timeo of Locri.’ As Plato nowhere describes Timeo specifically as a law-giver,
the identification is at best inconclusive. However, Timares does seem to be
the same person as *Timaratus* of Locri – “if you’ve heard of him.” Grice.
Keywords: the laws of Locri. Timare.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timarida: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della provvidenza divinamente
decadente -- Roma – la scuola di Taranto -- filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Taranto). Abstract. Keywords. il providente. Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A pupil of Pythagoras himself, as cited by
Giamblico. He is mentioned in a work by Androcide in which Timarida is shown as
a strong believer in divine providence. Grice: “Which is possibly the source
for Vico – the ONLY *OTHER* philosopher *I* know who believes in ‘provvidenza
divina’ – Keyword: provvidenza. “Note that the ‘divine’ is decorative, since
pro-videnza has more to do with fore-sight!” – Grice. Keywords: Cuoco, la
filosofia italica.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timasio: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei sibariti – Roma – la scuola
di Sibari. filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Sibari) Abstract.
Keywords: Sibarian dialetic. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Sibari, Cassano,
Calabria. A Pythagorean – cited by Giamblico – “‘Check other references,’
Strawson told me. I ignored him!”. Grice: Giamblico – although not an Italian
his self, knew his Italy, since Sibari is hardly considered a philosopical
centre – as Oxford is – but Timasio made one of it!”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timeo: la ragione
conversazionale di Crotone e l’implicatura conversazionale dei suoi filiali -- Roma
– filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Crotone). Abstract. Keywords: Crotone. Filosofo
italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico. Grice:
“Giamblico knew his Italy; he refused to call Sicily part of Italy – but then
he referred to Grosse Griechland, as the Germans call it, not as Italy, either!
Anyway, this Timeo was Italy-born, in Crotone, which the old Italiots called
‘Crotona,’ since a city must end with an -a, not an -e. Grice: “Timeo should
not be confused with Timeo, Plato’s tutor – nor with Timeo, Empedocle’s – or
Girgenti’s – pupil! Keywords: Crotone e i suoi filiali.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timeo: la ragione
conversazionale a Roma e l’implicatura conversazionale della filosofia italiana
– la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- Grice italo-- Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: Cierone. Grice:
“At Oxford, philosophy is not taught as an independent subject, but towards the
completion of your B. A. Lit. Hum. with philosophy being offered upon
completion of your first five terms. That was when I was introduced to Tully!”
-- Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. T. is
the lead character in a dialogue by Plato, named, of course after him. T. is
described as rich, a sometime holder of high office, and a philosopher of
considerable accomplishment – “which, by Plato’s standards, means a lot” –
Grice. According to CICERONE, Plato meets Timeo and studies with him – “or
*under* him, as the Greeks have it.” – Grice. In the dialogue, Timeo expounds a
theory of how the natural world came into existence – “even if nobody asked
him!” – Grice. CICERONE describes Timeo as a Pythagorean – “But everybody
except himself was a Pythagorean for Cicerone!” – Grice. Giamblico in fact
describes two men named Timeo as Pythagoreans (“But he wasn’t wearing glasses!”
– Grice. His works are considered apocryphal – “but that is a complimentary
epithet at Oxford, as Strawson well knows!” Grice: “Timeo puts Locri on the
philosophical map!” Grice: But of course Cuoco is right and Pythagoras himself
was possibly from Locri!” – Grice. Keywords: CICERONE.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timeo: all’isola -- la
ragione conversazionale dell’Etna e l’implicatura conversazionale della filosofia
-- Roma – la scuola di Taorimina -- filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Grice italico -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Taormina). Abstract. Keywords: Girgenti. Grice: “Philosophers don’t
call William of Ockham William; they call him Ockham. Similarly at Bologna,
they don’t call Empedocle di Girgenti Empedocle, but ‘Girgenti’! – I argued
back that there were probably more Williams at Ockham than Empedocles at
Girgenti, but the Bolognese are too logical to be dissuaded so easily!” -- Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Taormina, Sicilia. (“Or should we say Sicilian?”
– Grice). A historian, and a source used by Diogene Laerzio in his account of
Empedocle di Girgenti. Grice: “If Diogene used Timeo as a source, it means that
Diogene was two-steps removed from the Etna, whereas Timeo almost fell into
it!”. Keywords: Girgenti.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timossi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della prammatica del
ragionare – la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Grice
italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Genova).
Abstract. Keywords: ragionare. Grice wonders what is ‘to reason’. He argues
that the reasoner, usually an utterer, must believe that p, and must believe
that c – where p and c stand for premise and conclusion. He must further intend
that c follows from p, in an almost causal way. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Genova, Liguria. Studia a Genova. Svolge attività di ricerca e di
insegnamento seminariale presso l'ateneo genovese. I suoi principali interessi
sono rivolti alle cosiddette questioni di frontiera, che riguardano la
filosofia, la teologia, la storia della scienza, l'epistemologia e la
religione. In questo ambito, si propone di dimostrare la possibilità di una
metafisica cognitiva e in particolare di una rinnovata teologia naturale o
filosofica che proceda dai rivoluzionari risultati e dalle conoscenze della
scienza contemporanea. È inoltre noto, come l’alievo di Grice, A. G. N.
Flew, per i suoi studi critici sull'ateismo. Studioso di logica, ha pubblicato
uno dei manuali introduttivi più letti in Italia: "Imparare a ragionare.
Un manuale di logica", Marietti). Presidente del Consiglio scientifico
della scuola internazionale superiore per la ricerca inter-disciplinare; membro
del comitato di gestione della fondazione Compagnia di S. Paolo di Torino.
Academia ligure di scienze e lettere. Altri saggi: “Dio è possibile? Il
problema dell'esistenza di un'entità superiore” (Padova, Muzzio); “Dio e la
scienza moderna: il dilemma della prima mossa” (Milano, Mondadori); “Prove
logiche dell'esistenza di Dio d'Aosta a Gödel: storia critica dell'argomento
ontologico” (Milano, Marietti); “L'illusione dell'ateismo: perché la scienza
non nega Dio” (Cinisello Balsamo, S. Paolo); Imparare a ragionare: un manuale
di logica” (Milano, Marietti); “Decidere di credere: ragionevolezza della fede”
(Cinisello Balsamo, S. Paolo); “Nel segno del nulla: critica dell'ateismo” (Torino,
Lindau); “Perché crediamo in Dio: le ragioni della fede" (Cinisello
Balsamo, S. Paolo); “Credere per scommessa: la sfida di Pascal tra matematica e
fede” (Bologna, Marietti, Centro Editoriale Dehoniano. Timossi. Keywords:
ragionare, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Timossi” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tincari:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del ivstvm qvia ivssvm
– Roma -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. IVSTVM. Filosofo italiano. Persio.
Philosopher of law, Bergamo. When it comes to moral Justice δίκαιον and Scepticism, the claim that what Grice is
presenting is a reconstruction of Socrates' original defense of moral justice δίκαιον rests on my utilisation of some of Socrates' leading
ideas, notably on the idea that the presence of moral justice δίκαιον in a subject x depends upon a feature or features of
components of x, that the relevant feature or features of the components is
that individually each of them fulfills its role or plays its part, whatever
that role or part may happen to be (or, perhaps better, taken all together,
their overall state is one which realizes most fully their various separate
roles), that in satisfying this condition, they, the components, enable x to
realize the special and peculiar virtue of excellence ANDREIA or virtvs of the
type to which x essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as
a good or well-conditioned T (where "T" refers to the type in
question), and this in turn, if membership of T, or U, for universalia, if you
wish to forget about Russell,consists in being a soul, ensures that the life of
x is happy, in an appropriate sense of "happy." Grice’s account also
resembles the original account given by Socrates in that it deploys the notion
of analogy which is a prominent ingredient in Socrates' story, though it seeks
to improve on Socrates' presentation by making it clear just why the notion of
analogy should be brought into this discussion, and by making its appearance
something more than an expository convenience. Grice’s presentation seeks also
to link the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely with
the concept of moral injustice non δίκαιον but more centrally and more
directly with the more widely applicable concept of what one might call
"health." This change carries with it an increase in the number of
stages to be considered from two (the political and the moral) to three (the
PHYSIOLOGICAL, the political, and the moral). Grice’s presentation also
introduces the suggestion that the very same factors which determine whether a
particular entity x, belonging to a certain type T, merits the accolade of
being a T which is healthy, well-conditioned, or in good shape, also by their
presence (in lower degrees) determine the difference between the existence or
survival of x, rather than its non-existence, or non-survival, or lack of
operancy. The same features, for example, which at the physiological stage
determine whether a body is or is not well-conditioned, also determine by their
appearance or non-appearance in lower degrees whether that body does or does
not exist or survive, i. e. collapses instead. This example in fact calls for a
more careful formulation. Grice proceeds to a more detailed discussion of the
three stages recognized in his account. The complications are considerable, and
intelligibility of presentation may call for omissions and convenient
distortions. At Stage 1, the physiological stage, there appear a number of
different items or types of item, viz.: physiological things, such as
human and animal bodies -- ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs. These will include both distinct types of
d-component or organ, like the Liver and the Heart, and distinct instances or
tokens of these types, like GRICE’S liver and
GRICE’S heart, or GRICE’s liver and STRAWSON’s heart. Entry will distribute a number of
different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For
these purposes, sets of teeth and pairs of human legs will have to count as
each a single organ. Functional
properties of physiological components or organs. These correspond to the jobs or
functions which the various organs crucially fulfill in the life of the -thing
or body to which they belong, such as walking, eating, achieving, and
digestion. For convenient oversimplification I assume that each organ has
just one functional property, which will be variable in degree. (d)
Certain properties of -things (bodies) ("global properties") which
will be dependent on the functional properties exhibited by the arrays of
physiological components or organs which belong to the things in question. The
properties under this head which presently concern me are two in number: one,
which will not be variable in degree, will be the property of existence or
survival, which will depend on the array of physiological components belonging
to a particular d-thing achieving a minimal level with respect to the
functional properties of the members of the array, that is to say, a level
which is sufficient to ensure that the array of physiological components
continues to exhibit some positive degree of the functional properties of that
array. The other -thing property which concerns Grice is one which will be
variable in degree; it is the property of well-being, or well-being as a -thing
of the sort to which it belongs. Maximal well-being will depend on an optimal
combined exemplification of the functional properties of a -thing's
physiological components. The higher levels of this latter property are
commonly known as "bodily health" (with-out qualification), or as
"bodily healthiness." At all levels the phrase "bodily
health" may be used to signify the dimension within which variation takes
place between one level and another. (3) Before I embark on a
consideration of the details of subsequent stages, perhaps I should amplify the
account of my intended proce-dure, including the general structure of my
strategy for the characterization and defense of moral justice. The items
involved in the stage 1 (physiological entities or bodies, their components or
organs, the functional properties, and certain overall features of bodies, such
as existence and being in good shape, which are dependent on the functional
properties of organs) exist or are exemplified quite naturally and without the
aid of analogy at this level. The stage therefore may be regarded as providing
paradigms which may be put to work in the specification of related items which
appear in subsequent stages and into the constitution of which analogy does
enter. (b) Those members of the list of items, mentioned in 3(a) as appearing
in later stages, which are properties as distinct from things, may be specified
in two different ways. One way will be to make use of abstract nouns or phrases
which are peculiar and special to properties belonging to that stage, and which
do not incorporate any reference to more generic properties specifications of
which are found also at stages other than the one to which the property under
discussion itself belongs. The other way is to build the specifications from
what at least seem to be more generic properties, together with a
differentiating feature which singles out the particular stage at which the
specified properties apply. Leaving on one side for a moment the second mode of
specification, I shall comment briefly on the first. This may be expected to
yield for us, at the political stage, such properties as those expressed by the
phrases "political justice" and "political existence," and
by whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this
or that part of a state on which the global properties of political justice and
political existence will depend. Again, at the psychological stage, the
first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions
for the psychological properties of moral justice and psychological existence,
and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may
be) on which the presence of moral justice and psychological existence will
depend. It will be noted that more than one important issue has so far been
passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice
might be different specifications of a more general feature for which the name
"justice," without added qualification, might be appropriate; I have
left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded,
as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way,
perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the
question of the objects of reference of the phrase "parts of the soul."
Such matters obviously cannot be indefinitely left on one side. (c) I
turn now to the considerably more complicated second mode of specification of
the relevant range of properties. As already re-marked, this mode of
specification will incorporate references to seemingly generic properties the
appearance of which are not restricted to just one stage, a fact which perhaps
entitles us to talk here about "multistage" epithets (predicates) and
properties. Examples of second-mode specification will be such epithets as
"is in good shape as a body" and "is in good shape as a
state," both of which incorporate the more generic epithet "is in
good shape" which seemingly applies to objects belonging to different
stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such
"holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different
stages, there will also be "meristic" epithets, like "part"
itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main
suggestions is that the multistage epithets which are characteristically
embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind
of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may
remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled
with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical
application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly
important in view of the fact that it is also one of my contentions that there
will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by
use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second
mode. It should be observed that although I have claimed that there are
two different modes of property-specification, I have not claimed that for each
individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen
of each mode of specification will be available for use; it may be that in
certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode
specification, or that a first-mode specification can be made available only
via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode
specification. Since in my view most of the difficulties experienced by
philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts
about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps
which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to
favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can
make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications
are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the
onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should
also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode
and first-mode specifications might make a substantial contribution to two
distinct philosophical questions, namely: (i) whether it is sometimes
true that description presupposes valuation (since second-mode specification
seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to
go); whether it is sometimes or always true that valuation presupposes
Teleology or Finality, since second-mode specifications characteristically
introduce references to functions and purposes. (d) I shall now
recapitulate the main features which I am supposing to attach to first-mode and
second-mode specifications, with a view to raising some further questions about
the two modes: Properties which will be specified, when one uses
first-mode specifications by single-stage epithets (properties like bodily
health, political justice, and, perhaps controversially, moral justice) may
also be specified by the use of second-mode specifications which will
incorporate references to seemingly multistage properties such as wellbeing and
existence. The property of bodily health, for example, may also be referred to
as the property of well-being as a physiological entity, the property of political
justice as the property of well-being as a political entity (or state), and the
property of moral justice (perhaps) as the property of well-being as a
psychological entity or soul. The global properties of well-being as this
or that type of entity will depend on a maximal (or optimal) degree of
fulfillment, by the various parts of the subjects of those global properties,
of a sequence of meristic properties associated with the jobs or functions of
those (iii) The very same meristic properties on which the various forms
of well-being depend will also determine, at a lower degree of realiza-tion,
the difference between the existence and the nonexistence of the entities which
inhabit a particular stage. (iv) It might be possible, by a move which would
be akin to that of "Ramsification," to redescribe the things
which inhabit a certain stage, their components or parts, the jobs or functions
of such com-ponents, the property of well-being and the property of existence
as being just those items which, in a certain realm, are analogical coun
terparts to the prime items, in the physiological realm, respectively, of
bodies, organs, bodily functions, health, and life (survival). (v) These
proposals might achieve a combination of generalizationand justification
(validation) of the items to which they relate, given the assumption that the
proposed redescriptions are semantically and alethically acceptable.
Among the questions which most immediately clamor for consideration will be the
following: Question 1: How are we to validate my intuitive judgment that
second-mode specifications which involve multistage epithets will always, or at
least sometimes, be analogical in character? Question 2 is: How are we to
elucidate the phrase used in (iv) "in a certain realm"?
(Question 3: How is it to be shown that the proposed redescriptions are not
merely semantically but also alethically acceptable? I will take these
questions in turn. Question 1 calls for the justification of a thesis which,
without offering arguments in its support, I suggested as being correct, namely
that if there are multistage epithets, that is to say, epithets which apply
sometimes to objects belonging to one stage and also sometimes to objects
belonging to another stage, the application of such an epithet to one, and
possibly to both, of these segments of its extension must be analogical rather
than literal. It seems to me that, before such a thesis can be defended or
justified, it needs to be emended, since as it stands it seems most unlikely to
be true. Consider first the epithet "healthy"; there would, I think,
be intuitive support for the idea that when we talk, for example, of "a
healthy mind in a healthy body," at least one of these applications of the
epithet "healthy" must be analogical rather than literal, since
only a body can be said to be literally healthy. But if we turn to the
epithets "sound" and "in good order," though I think
there will be intuitive support for the idea that both bodies and minds may be
said to be sound or to be in good order, and indeed for the idea that bodies
and minds can truly be said to be sound or in good order just in case they can
truly be said to be healthy, there will not, I think, be intuitive support for
the idea that the application of the epithets "sound" and
"in good order" to either bodies or minds, or to both, is analogical
rather than literal. I would in fact be inclined to regard the application of
each of these epithets to both kinds of entity as being literal. I would
suggest that the needed emendation, while it allowed that the literal
application of epithets may straddle the division between its applicability to
subjects that belong to one stage and to subjects that belong to another, would
insist that, when such literal cross-stageapplications occur, they depend upon
prior cross-stage applications of some other epithet, where one or even both of
the segments of application are analogical rather than literal. How
should the emended thesis be supported? My idea would be that the barriers
separating the applications of an epithet to objects belonging to one stage
from its application to objects belonging to another will in fact be
category-barriers, and that there are good grounds for supposing that objects
which differ from one another in category cannot genuinely possess common
properties, and so cannot ultimately, at the most fundamental level, be items
to which a single epithet will literally and nonanalogically apply. If objects
x and y are categorically debarred from sharing a single property, then they
are also debarred from falling, literally and nonanalogically, within the range
of application of an epithet whose function is to signify just that property.
There is nothing to prevent a body and a mind from being, each of them,
literally in good order, provided that the condition needed for being literally
in good order is that of being either literally healthy (in the case of a body)
or (in the case of a mind) (analogically speaking) healthy. Perhaps the first
matter to which we should attend in an endeavor to form a clear conception of
(for ex-ample) the place of being (analogically speaking) healthy, a feature
which may attach to minds, within a generalized notion of being in good order,
or (perhaps) of being healthy, is the consideration that the question whether
the application of a certain epithet to certain things is literal or
analogical, is by no means the same question as the question whether its
application to those things is or is not to be taken seriously. It may, for
example, remain an importantly serious question whether Mill is properly to be
regarded as a friend of the working classes long after it has been decided
that, if the epithet "friend of the working classes" does apply
to Mill, it applies to him analogically rather than literally; it does not
apply to him in at all the same kind of way as that in which the epithet
"friend of Mr. Gladstone" may have applied or, perhaps, failed to
apply to him. The question whether a particular person is in good shape may be
a question an important aspect of which is expressed by the question "Is
his mind (analogically speaking) healthy?"; if so, given that the first
question is, as it may be, one to be taken seriously, the same would be true of
the second question. A second consideration, which we should not allow
ourselves to lose sight of, is one which has already been briefly mentioned in
thefirst part of this essay. We are operating in an area in which, not
infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle would have
called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of seemingly
distinct kinds of items, and by a number of features each of which is special
to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed the way
we talk —we shall be led to suppose that these features are all specifications
of some more general feature which is manifested, with specific variations,
throughout the range formed by the kinds in question, a putative general
feature for which ordinary language may even provide us with a candidate's
name. Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to suppose that
the members of this range of special features have a common explana-tion, a
further general feature which accounts for the first general feature, and also,
with the aid of specific variations, for the original range of special
features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures
which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which
the world lays before us. In the present case, the application of this method
would be to a range of items which includes bodies, states, and, perhaps, souls
and also to such special features of these items as, respectively, bodily
health, political justice [dikaion, ivstvm], and (perhaps) moral justice
[dikaion, ivstvm]. Unfortunately, at this point, we encounter a major
difficulty. The items which are the subjects to which the members of the range
of special features attach, namely bodies, states, and souls, insofar as they
are genuine objects at all, seem plainly to belong to different categories from
one another. These categorial differences would be such as to preclude, if
widely received views about categories are to be accepted, the possibility that
there are any properties which are shared by items which differ from one
another with respect to the kinds to which they belong. It looks, then, as if
the possibility that there is a ‘generic’ property of which the special
properties are differentiations, and the possibility that there is a further
‘generic’ property which serves to account for the first generic property, have
both been eliminated. Grice in fact does not attempt to set out a theory of
categories which would carry this consequence, and it would certainly be
necessary to attempt to fill this lacuna. But the prospects that this
undertaking would remove the difficulty do not at first sight seem encouraging.
If, then, we are not to abandon all hope of rational solution, we shall be
forced to do one of three things. Relinquish the idea of applying here
procedures for descriptionand explanation which are operative in examples which
are not bedeviled by category difference. Argue that the category
differences which seem only too prominent on the present occasion are only
apparent and not real. Devise a less restrictive theory of the effect of
category differences on the sharing of properties. In the light of these
problems, we should obviously be at pains to consider whether attention to the
notion of analogical application would have any chance of providing
relief. Grice proposes to leave this problem on one side for a moment,
returning to consideration of it at a later point; immediately, Girce then
addresses himself to a possible response to the suggestion that the question
whether the possible application of a given epithet to a certain subject is an
issue which it is proper to take seriously, is quite distinct from the question
whether such application, if it existed, would be analogical or literal. The
response would be that the distinction between the two questions does not have
to be a simple black-or-white matter. It might be that, while the fact that, if
such application existed at all, it would be an analogical application is not a
universal obstacle to the idea that the application is one which should be
taken seriously, it is also not true that there is no connection between the
two questions. If the inquiry into the application of the epithet is one of a
certain sort or one which is conducted with certain purposes in view, then the
idea that such application would be analogical stands in the way of the idea
that the application is one to be taken seriously. If, however, the character
and purposes of the inquiry are of some other sort, the two questions may be
treated as distinct. It might, for example, be held that if the inquiry
about the application of an epithet is one which aims at reaching scientific
truth, at laying bare the true nature of reality, the fact that the application
of the epithet would be analogical conflicts with the idea that it should be
taken seriously. If, however, the inquirer's concern is not with scientific
truth but rather with the acceptability, either in general or in a particular
case, of some practical principle, or principle of conduct, the two questions
may be treated as distinct. Something like this "halfway" position is
perhaps discernible in Kant. In, for example, his claim that an idea of pure reason,
with regard to which no transcendental proof is available, Kant admits of a "regulative,"
but not of "constitutive" employment, a suggestion which is perhaps
repeated in his demand for a non-dogmatic kind of teleology, a teleology which
somehow guides our steps without adding to our stock of beliefs. The situation,
however, is vastly complicated by the fact that the notion of what is
"practical" is susceptible to more than one interpretation. On a
wider interpretation, any principle or PRECEPT would count as practical, provided
that it relates to questions about how one should proceed. On a second
interpretation of "practical," only those examples of a principle or precept
which is "practical" in the first sense will count as
"practical" which relate not just to some form of procedure, but to
procedure in the world of action OR WILLINGNESS as distinct from procedure in
the world of thought OR JUDGINGS. An imperative which is practical in the
second and narrower interpretation or sense will, as Kant himself seems to have
thought, include this or that imperative which tells us how to act. Such
interpretation of an imperative will not include an imperative which tells us
how to think – or judge – cf. virtue etpistemics. Such an imperative will be
concerned with the conduct of the business of life, but not with the conduct of
the business of thought. This ambiguity leaves a principle or precept which
concerns conduct of the business of thought in a somewhat indeterminate
position. Such a principle or precept will be practical in the wider sense, since
it is concerned with questions about how we should conduct ourselves. However,
what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other, when
we observe that the conduct such a principle or precept prescribes is conduct
which is specifically involved in arriving at this or that decision about this
or that scientific truth and the nature of reality. For Grice, the issue is
made even more complicated by the fact that he has instinctive sympathy toward
the idea that a so-called transcendental proof should be thought of as really
consisting in the reasoned presentation of the necessity, in inquiries about
knowledge and the world, of thinking about the world in certain very general
ways. This view-point would introduce interconnections between what we are to
believe or judge and how we are to proceed – or will -- which will be by no
means easy to accommodate. Grice returns ten to discussion of the quandary
which he propounded a little while ago, and the severe limitations on
explanation seemingly imposed by category-differences between features which
need to be explained. As he sees it, Grice’s task is to provide a somewhat more
formalised characterisation of the phenomenon of analogical application than
has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical or ‘semantic,’ in termsof
the ‘modes of signifying’ -- characterization, which will at the same time be
one which both preserves those category-differences and their consequential
features, and at the same time avoids undue restrictions on the application of
standard procedures for the construction of an eschatological explanation. This
may seem like a tall order, but Grice thinks it can be met. Let us first look
at the notion of instantiation and at one or two related notions. If one is informed
that x instantiates y -- that x is an instance of y --, and also that y
specifies z --that y is a specification of z, that being y is a way of being z,
that y is a form of z --, one is entitled to infer that x instantiates z. If,
however, instead of being informed that y specifies z, one is informed that y
instantiates z, the situation is different. One cannot infer from the
information that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z.
The relation of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue,
and blue specifies colour, it looks as if azure must specify colour. Let us now
define a relation of "sub-instantiation"; x will sub-instantiate z
just in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y
instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque
representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y,
then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x
instantiates y, x belongs to a level which is one step lower than that of y,
and that if x sub-instantiates y, x belongs to a level which is now TWO steps
lower than that of y. Now it seems natural to suppose that, when a number of
more specialized explanations are brought under a single more general and so
more comprehensive explanation, this is achieved through representing the
various features, which are separately accounted for in the original
specialized explanations, as being different specifications of a single more
general feature. If, however, we were entitled to say that the crucial relation
connecting the more specialized explicanda with a generalized explicandum is
not, or at least is not in those cases in which the specialized explicanda are
categorically different from one another, that of specification but rather of
sub-instantiation, we shall be able to avoid the uncomfortable conclusion that
the admissibility of generalized explicanda involves the admissibility of the
idea that categorically different subject items may be instances of common
properties. An item need not, indeed perhaps cannot, instantiate that which it
sub-instantiates. To conclude his treatment of the quandary, Grice feels
he needs to show, as best as he can, that a systematic replacement of
references to the relation of specification by references to the relation of
instantiation would have no ill effect on the standard procedure for generalizing
a set of specialized explanations, with which we have provided ourselves, of
the presence of discriminated specialized properties. To fulfill this
undertaking, Grice considers two cases. One involves the application of a procedure
for generalization which is characterized in terms which involve reference to
the relation of specification, and the other in which all references to
specification are replaced by references to additional and
"higher-level" occurrences of the relation of instantiation. In
the first, case, Grice starts with a group of particulars -- x, through x, --,
with regard to each of which we are informed that it possesses property D; and
with two further groups of particulars -- y, through Ym and z, through z, -- instantiating,
respectively, properties E and F. The generalization procedure begins when we
find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and z,
through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or
legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. We next
find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way 1,
respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and C
and F, specify in way 3, respectively, P and Q (iv) We are now, it seems,
in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in a
corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for
example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to
say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing
as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am
consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has
in fact been achieved. Case I1. Case Il begins to differ from Case I only
when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and
D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect
that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q;
and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase
"first-group instance" either the phrase "second-group
instance" or "third-group instance" will be made in what we say
about properties B and E and properties C and F. Though I would not claim
to have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference
between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of
legitimacy of the procedure for generalization with which Grice is currently concerned.
The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be quite
un-affected. If he is right in this suggestion I shall, I think, have succeeded
in providing what was mentioned in Part I of this essay as a desideratum,
namely a development of a concept of affinity, which would be less impeded by
category-barriers than the more familiar notion of similitude. Grice then turns
briefly to question Q2. This is the question how to interpret the expression
"in respect to a certain realm" within such phrases as in "an
analogical extension, in a certain realm, of the property of health – SANITAS
--, in the primary physiological realm to which animal and human bodies are
central." Grice should make clear the problem of ambiguity which prompts
this question. There is one way of looking at things, one conception, according
to which there is a certain realm, which is that to which souls are central,
and into which there is projected an analogical extension of the property of
health or SANITAS. In this conception the notion of a soul is logically PRIOR
to the notion of the psychological realm to which souls are central, and both
are logically prior to the property which is the analogical extension of the
property of health or SANITAS, which in the primary physiological realm is the
property of bodies. But there is another conception which might particularly
appeal to those who regard a soul as being, initially at least, somewhat
dubious entity, according to which a soul is introduced into the psychological
realm to be the subjects or bearers of a property in that realm which is an
analogical extension of the property of health, or SANITAS, which in the
physiological realm belongs to the body, not the soul. According to this
conception, fairly plainly, the conception of a soul is logically POSTERIOR both
to the notion of the psychological realm and to the analogical extension of the
property of health, SANITAS, which exists in that realm. MENS SANA IN CORPORE
SANO. Question 2 is in effect an accusation. It suggests that the two
conceptions are mutually inconsistent, since a soul cannot be at one and the
same time both logically prior to and logically posterior to both the concept
of the realm to which it is supposedly
central and to a certain property, analogous to bodily health – CORPUS SANVM --
which exists in that world. It further suggests that Socrates (or neo-Socrates)
need both of these conceptions, but, of course, cannot have both of
them. To meet this objection, Grice suggests that a promising line to take
would be to deny that we start with a certain realm, the psychological realm,
the nature of which is determined either by the subject-items, namely a soul,
which is central to it, or by the properties, such as a certain analogue of
bodily health, or SANITAS – CORPUS SANVM -- which characterize things in it;
and that we then proceed at a later point to add to it the remaining members of
these two classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of
the elements in the primary physiological realm, a soul which is analogue of a body,
and a class of properties one of which is an analogue of bodily health, SANITAS,
CORPVS SANVM -- and call the realm to which these analogues belong the
psychological realm. In this way the incoherence covertly imputed by question
Q2 will be dissolved, since neither of these psychological elements – a soul and
properties like the analogue of bodily health, SANITAS, CORPUS SANVM -- will be logically prior to the other. What in fact has been done is to introduce,
first, a double analogical extension of two types of items which belong to the
primary physiological realm and, second, the notion of a psychological realm
for use in a convenient way of talking about what has initially been
done. No doubt more than this will need to be said in a full treatment of
the topic. But perhaps for present purposes, which are primarily directed
toward defusing a certain criticism, what has been said will be
sufficient. When it comes to the prospects for ethical theory, Question 3
might be expanded in the following way. We can imagine ourselves encountering
someone who addresses us in the following way: "You have certainly
achieved something. There is one class of philosophers who would be inclined to
deny that the notion of moral justice, δίκαιον, can be regarded as an
acceptable and legitimate concept, because there is no way in which the
intuitive idea of moral justice, δίκαιον, can be coherently presented in a
rigorous manner. What you have said has shown that such a philosopher's
position is untenable; for you have shown that if we allow the possibility of
representing moral justice, δίκαιον, as a certain sort of analogical extension
of a basic notion, namely health, which is a property of bodies, items which
belong to a basic or primary realm of objects, you have succeeded in
characterizing in a sufficiently articulated way the possession of moral
justice, δίκαιον, to which the philosopher in question is opposed on the
grounds of its incoherence. That is no small achievement, but it is not,
nevertheless, from your point of view, good enough. For there will be another
class of philosophers who find no incoherence in the notion of moral justice,
δίκαιον, but claim that lack of incoherence is a necessary condition but not a
sufficient condition for accepting moral justice, δίκαιον, as a genuine feature
of anything in the world. The uses that we make of our characterizations of
moral justice, δίκαιον, and other such items must be as part of an as it were
encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents of the
rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one contains
everything which the other contains together with something which the other
does not contain, while the other account contains nothing beyond a certain
part of what the first account contains, it will be rational, in selecting the
optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger volume, unless
it can be shown that what is contained in the larger volume but omitted in the
smaller one is something which should be present in a comprehensive picture of
the rational world. To be fit for inclusion in an account of the rational
world, a contribution must be not only coherent but also something which is
needed. This demand you have not fulfilled." To this critic Grice
should be inclined to reply in the following manner. "I agree with you
that more is required to justify the incorporation of moral justice, δίκαιον,
within the conceptual furniture of the world than a demonstration that the
notion of moral justice, δίκαιον, is one which is capable of being coherently
and rigorously presented; and I agree that I have not met this additional
demand, in whatsoever it may consist. But I think it can be met; and indeed I
think I can not only say what is required in order to meet it but also bring
off the undertaking of actually meeting it. The required supplementation will, I
suggest, involve two elements. First, a demonstration of the value, in some
appropriate sense of "value," of the presence in the world of moral
justice, and second, a demonstration that it is, again in the same ap.
propriate sense, up to us whether or not the notion of moral justice does have
application in the world." I shall now enlarge upon the two ingredients of
this proposed response. First Supplementation. A person who is concerned
about the realization in the world of moral or political justice, δίκαιον, will
encounter at a number of points alternative options relating to such
realization which he may have to take into account. The number of such options
will vary according to whether a "two-concept" view or a
"one-concept" view is taken of justice, δίκαιον; the number will be
larger if a two-concept view is taken, and I shall begin with that
possibility. On a two-concept view, there will be two properties the
realization of which has to be considered, moral justice δίκαιον and political
justice δίκαιον. One who is concerned about the application of these
properties, and who is unhampered by any sceptical reservations, will have to
consider the application of each of these properties to a particular
individual, standardly himself, and also to a general subject-item, such as a
particular totality of individuals each of whom might consider the application
to himself as an individual of each of the initial properties. There will also
be a variety of distinct motivational appeals which the application of one of
these forms of justice, δίκαιον, has to a particular subject-item, the
consequential appeal of that realization (e.g. its payoff), or both. If we go
beyond Plato, we might have to add such forms of motivational appeal as that
which arises from subscriptions to some principle governing the realization of
the initial property. On a one-concept view the initial array of options
will be considerably reduced, though it is perhaps questionable whether such
reduction will correspond to any reduction in genuinely distinct and authentic
options. On the assumption that it would not, Grice temporarily goes along with
the idea that a one-concept view is the correct one. On this view a distinction
between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will reappear
as the difference between concern for the application of a single property,
that of justice, δίκαιον, when it is motivated by the intrinsic appeal of its
realization in a given subject-item (one might perhaps say its moral appeal) or
alternatively, when it is motivated by the idea of the consequence of such a
realization (one might say by its political appeal). One should perhaps be
careful to allow that the idea that a single concept or property may exert
different forms of motivational appeal does not carry with it the idea that one
and the same body of precepts will reflect that concern, regardless of the
question whether the motivational foundation is moral or political. It is
crucially important to recognize that situations which are only subtly
different from one another may exert quite different forms of motivational
appeal. Nothing has so far been said to rule out the possibility that while
Socrates and other such persons may each be concerned that people in general
should value the realization of justice, δίκαιον,in themselves because of its
intrinsic appeal, that is to say, for moral reasons, nevertheless their concern
that people in general should value for moral reasons the realization in
themselves of justice, δίκαιον, is based at least in part on consequential or
political grounds rather than on any intrinsic or moral appeal. It is possible
to be concerned that people be sensitive to the moral appeal of being just,
δίκαιον, and at the same time for that concern to be at least partly founded on
political rather than on moral considerations. If that is so, then the concern
for a widespread realization of moral justice, δίκαιον, might itself have a
non-moral foundation, as Prichard attempted at Oxford with his duty and
interest, repr. by Urmson. Such considerations as these might be sufficient to
ensure that the realization of moral justice in a community is of value to that
community. This value might consist in the fact that if themembers of a
community are morally concerned for the realization of justice, δίκαιον, in
themselves, their manifestation of socially acceptable behavior will not be
dependent on the real or threatened operations of law-enforcers, to the
advantage of all. Second Supplementation. If we were to leave things as
they are at the end of the first supplementation, though we should perhaps have
shown that the realization of moral justice in the world was of value to
inhabitants of the world and possibly also absolutely, we should not have
escaped the suggestion that this alone is not adequate to our needs; it would
leave open the possibility that all one could do would be to pray that moral
justice, δίκαιον, is realized in the world, and then when we have found out
whether this is or is not the case, to jubilate or to wail as the case might
be. To make good our defense of moral justice, we should need to be able to
show that in some sense the realizability of moral justice in the world is up
to us. At this point it seems to me we move away from the territory of Socrates
and Plato and nearer to the territory of Kant; it also seems to me that at this
point the problems become immensely more difficult, and partly because of that,
I shall not attempt to devise here a solution to them, but only to provide a
few hints about how such a solution might be attained. As we have been
interpreting the notion of moral justice, δίκαιον, its realizability is an idea
which is very close to that of the validity of morality; and if we were to
follow Kant's lead, we should be on our way to a supposition which is close to
his idea that the validity of morality depends upon the self-imposition of law,
an idea which, though obscure, seems to suggest that what secures the validity
of Morality is something which, in some sense or other of the word "do,"
is something that we ourselves do, and so perhaps in some sense or other
"could," we could avoid doing. What kind of "doing" this
might be, and how it might be expected to support Morality, to my mind remain
shrouded in darkness even after one has read what Kant has to say; there seems
little reason to expect that it would closely resemble the kind of doing with
which we are familiar in the ordinary conduct of life. There is also important
uncertainty about the proper interpretation of the word "could"; it
might refer to some kind of psychological or natural possibility, something
which some would be inclined to call a kind of causal possibility; or it might
refer to some kind of "rational" possi-bility, the existence of which
would require the availability of a reason or possible reason for doing
whatever is said to be rationally possible. Not everything which is
psychologically possible is also rationallypossible; and I think it might be
strategically advantageous if it could be held that the Kantian view assigns
psychological possibility but not rational possibility to the avoidance of the
institutive act which underlies morality; but whether this is Kant's view, and
how, if it is his view, it is to be made good, are problems which I do not know
how to solve. When it comes to The Republic and Philosophical Eschatology,
Grice presents what he sees as the background to the reconstructed debate
between Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps between neo-Thrasymachus
and neo-Socrates. Neo-Thrasymachus is a Minimalist and a Naturalist who has
affinities with Hume – and his name is Nozick; he rejects the concept of moral
justice, δίκαιον, on the grounds that it would be at one and the same time a
non-natural and psychologistic feature and also an evaluative feature. At this
point we may suppose that neo-Socrates, who is not committed to any form of
Naturalism, will have retorted to neo-Thrasymachus that a blanket rejection of
psychologistic and evaluative features will totally undermine philosophy. This
part of the debate is not recorded, but we may imagine neo-Thrasymachus to have
responded that neo-Socrates is in no better shape; for he can make sense of the
notion of moral justice, δίκαιον, only by representing it as a special case of
a favourable feature, namely well-being, which spans category-barriers between
radically different sorts of entities, such as a body, a political state, or a
person. But neo-Socrates himself will be committed to holding a view of
universals which will prohibit any such crossing of category-barriers by a
single universal. To this charge neo-Socrates may resort to two forms of
defense, one less radical than the other. The less radical form would involve
the claim that while there have to be category-barriers, these do not have to
be as severe and restrictive as the accusation suggests. The more radical
form of defense would refrain from relying on a more permissive account of
category-barriers even though it allowed that such increased permissiveness
would be in order. It would rely rather on a distinction between concepts which
may span category-barriers, whether these are more or less severe in nature,
and universals which may not span such barriers. A closely parallel distinction
between an expression's having a single
meaning and its being used to ‘signify’ a single universal can, Grice thinks,
be found in Aristotle. Vide Grice, “Aristottle on the multiplicity of
being” and the three modes of unification of universalia via recursion – the
logically developing series, the focus, or the analogy or proportion. This
distinction would be made possible by making concepts rest ona foundation of
affinities as distinct from the foundation of similarities which underlies
universals; affinities may, while similarities may not, be characterizable
purely in analogical terms. The working out of such a distinction would be one
of a variety of concerns which would be the province of a special discipline of
philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance
of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion
would permit generalization and explanation to cross category-barriers and
would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against
neo-Socrates and his favored notion of moral justice, δίκαιον. At some level of
reinterpretation, then, Socrates's appeal to an analogy between the soul and
Mussolini’s Italian state, say, would be at least partly aimed at showing that
the concept of Moral Justice, δίκαιον, which Thrasymachus would like to banish
as theoretically unintelligible, is analogically linked with the concept of
bodily health, admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate
concept, in such a way that, despite radical categorial differences between the
two concepts, if the concept of bodily health is intelligible, the concept of
Moral Justice, δίκαιον, is also intelligible. However, to exhibit Moral
Justice as a feature which is really applicable to items in the world, such as
persons and actions, more is needed than to show that its ascription to such
items is free from incoherence. It will be necessary to show that such
ascription, if it were allowed, would serve a point or purpose, and also that
it is in some important way up to us to ensure that such ascription is admis
sible. The fulfillment of the last undertaking might force us to leav the
territory of Socrates and Plato and to enter that of Kant, or even worse, if we
follow Gentile, Hegel! Persio Tincari. Tincari. Keywords: iustum quia
iussum, Bergamo, Pergamo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tincari” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tirannio: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale del lizio di Roma – Roma – HIRSVTVS -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. categorie sintatiche –
categorie morfo-sintatiche – Brutus said that Cato’s dog, Fidus, is hirsutus,
meaning ‘hairy-coated.’ NOMEN ADIECTIVVM. Etymology From Middle English
adjectif, adjective, from Old French adjectif, from Latin adiectivus, from
adiciō + -īvus, from ad- (“to, towards, at”) + iaciō (“throw”). Grice: Brutus
used the adjectival hirsutus to refer to his friend Cato’s dog. The Latin word
adiectivus in turn was a calque of Ancient Greek ἐπιθετικόν, “added, a
derivative of the compound verb ἐπιτίθημι, from which also comes epithet. Filosofo
italiano. Primarily a grammarian. Friend of CICERONE – he held the seminars in
his own house. He made copies of a number of works of Aristotle which might
otherwise have been lost. Grice: “Cicerone found it boring that everytime he
would pay a visit to Tirannio, he was copying some old Greek manuscript!”
Grice: “I wouldn’t call Tirannio a sophist: his at-homes were, like mine, free
of charge!” Keywords: grammatica filosofica, lizio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tirseno: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della tesi di Cuoco – Roma – la
scuola di Sibari -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo --
By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Sibari). Abstract. Keywords. Cuoco. Sibari,
Cassano, Cosenza, Calabria Filosofo italiano. Pythagorean according to
Giamblico. Grice: Giamblico knew his Italy. But he didn’t know what Cuoco knew.
If Tirseno was philosophising in Sibari, it means there was an atmosphere for
philosophical inquiries in these parts of Italy way before Pythagoras called
himself an Etrurian! “Grice e Tirseno” -- Keywords: Cuoco. Tirseno.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tisia: FILOSOFIA
SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale dell’argomento del probabile e del desirabile –
Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Siracusa). Abstract. Keywords. probability and
desirability. Etimologia di probabile – probabile – Latin probare – provare – che
puo provarsi Cicerone – probabile – probabile est id, quod fere fieri solet,
aut quod in opinione positum est, aut quod habet in se ad haec quandam
similitudine, sive id falsum est, sive verum – Cic. Inv. Siracusa, Sicilia. Filosofo
italiano. (“Or should we say, Sicilian?” – Grice). A pioneer of rhetoric, T.
emphasises the importance of an appeal to the probable in an argument. He was
the tutor of Gorgia di Leonzio. Grice: “I took my inspiration for my Prob. vs.
Des. – probability versus desirability – not so much from Davidson (that’s
boring!) but from Tisia di Siracusa. As a tutor, I can identify, because at
Oxford, I was always regarded as Strawson’s tutor – as Tisia was Gorgia’s one!
Only that Gorgia travelled all the way from Leonzio to Siracusa to get tutored,
whereas Strawson met me on common ground! Keywords: probability, the probable,
argument. Tisia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tito: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della clemenza del principe
filosofo – Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: clemenza, la
clemenza del filosofo re. L’imperatore Tito, famoso per la sua clemenza
(Mozart, La clemenza di Tito). Il suo filosofo favorito e Musonio – il principe
filosofo. INTERLOCUTORI TITO Vespasiano,
imperatore di Roma TENORE VITELLIA, figlia dell'imperatore Vitellio SOPRANO
SERVILIA, sorella di Sesto, amante d'Annio SOPRANO SESTO, amico di Tito, amante
di Vitellia SOPRANO ANNIO, amico di Sesto, amante di Servilia SOPRANO PUBLIO,
prefetto del pretorio BASSO Chorus: Senatori, Patrizi, Legati, Pretoriani,
Littori, Popolo. Luogo: Roma. Epoca: Impero. Atto primo La clemenza di Tito
ATTO Ouverture Allegro (do maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2
fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. Scena prima Appartamenti di Vitellia.
Vitellia, Sesto. Recitativo, continuo VITELLIA Ma che? sempre l'istesso, Sesto,
a dirmi verrai? So che sedotto fu Lentulo da te; che i suoi seguaci son pronti
già; che il Campidoglio acceso darà moto a un tumulto. Io tutto questo già
mille volte udii: la mia vendetta mai non veggo però. S'aspetta forse che Tito
a Berenice in faccia mia offra d'amor insano l'usurpato mio trono, e la sua
mano? Parla, di', che s'attende? SESTO Dio! VITELLIA Sospiri? SESTO Pensaci
meglio, oh cara, pensaci meglio. Ah, non togliamo in Tito la sua delizia al
mondo, il padre a Roma, l'amico a noi. VITELLIA Dunque a vantarmi in faccia venisti
il mio nemico? e più non pensi che questo eroe clemente un soglio usurpò dal
suo tolto al mio padre? Che mi ingannò, che mi sedusse, (e questo è il suo
fallo maggior) quasi ad amarlo? E poi, perfido! e poi di nuovo al Tebro
richiamar Berenice! Una rivale avesse scelta almeno degna di me fra le beltà di
Roma: ma una barbara, Sesto, un'esule antepormi, una regina! SESTO Ah,
principessa, tu sei gelosa. VITELLIA Io! 4 / 38 www.librettidopera.it C. T.
Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo SESTO Sì. VITELLIA Gelosa io sono, se
non soffro un disprezzo? SESTO Eppur... VITELLIA Eppur non hai cor
d'acquistarmi. SESTO Io son... VITELLIA Tu sei sciolto d'ogni promessa. A me
non manca più degno esecutor dell'odio mio. SESTO Sentimi! VITELLIA Intesi
assai. SESTO Fermati! VITELLIA Addio. SESTO Ah, Vitellia, ah, mio nume, non
partir! Dove vai? Perdonami, ti credo, io m'ingannai. [N. 1 Duetto] Andante
(fa maggiore) / Allegro Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Come
ti piace imponi: regola i moti miei. Il mio destin tu sei; tutto farò per te.
VITELLIA Prima che il sol tramonti, estinto io vo' l'indegno. Sai ch'egli
usurpa un regno che in sorte il ciel mi diè. SESTO Già il tuo furor m'accende.
VITELLIA Ebben, che più s'attende? SESTO Un dolce sguardo almeno sia premio
alla mia fé! VITELLIA E SESTO Fan mille affetti insieme battaglia in me
spietata. Un'alma lacerata più della mia non v'è. www.librettidopera.it 5 / 38
Atto primo La clemenza di Tito Scena seconda Annio, detti. Recitativo, continuo
ANNIO Amico, il passo affretta, cesare a sé ti chiama. VITELLIA Ah, non perdete
questi brevi momenti. A Berenice Tito gli usurpa. ANNIO Ingiustamente oltraggi,
Vitellia, il nostro eroe: Tito ha l'impero e del mondo, e di sé. Già per suo
cenno Berenice partì. SESTO Come? VITELLIA Che dici? ANNIO Voi stupite a
ragion. Roma ne piange, di maraviglia, e di piacer. Io stesso quasi no 'l
credo: ed io fui presente, o Vitellia, al grande addio. VITELLIA (Oh speranze!)
Sesto, sospendi d'eseguire i miei cenni. Il colpo ancora non è maturo. SESTO E
tu non vuoi ch'io vegga!... ch'io mi lagni, oh crudele!... VITELLIA Or che
vedesti? Di che ti puoi lagnar? SESTO Di nulla! (Oh dio! chi provò mai tormento
eguale al mio!) [N. 2 Aria] Larghetto (sol maggiore) / Allegro Archi, 2
flauti, 2 fagotti, 2 corni. VITELLIA Deh, se piacer mi vuoi, lascia i sospetti
tuoi; non mi stancar con questo molesto dubitar. Chi ciecamente crede, impegna
a serbar fede; chi sempre inganni aspetta, alletta ad ingannar. (parte) 6 / 38
www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo Scena terza
Annio, Sesto. Recitativo, continuo ANNIO Amico, ecco il momento di rendermi
felice. All'amor mio Servilia promettesti. Altro non manca che d'augusto
l'assenso. Ora da lui impetrarlo potresti. SESTO Ogni tua brama, Annio, m'è
legge. Impaziente anch'io questo nuovo legame, Annio, desio. [N. 3 Duettino]
Andante (do maggiore) Archi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. ANNIO E SESTO
Deh, prendi un dolce amplesso, amico mio fedel; e ognor per me lo stesso ti
serbi amico il ciel. (partono) Scena quarta Parte del foro romano
magnificamente adornato d'archi, obelischi, e trofei; in faccia aspetto
esteriore del Campidoglio, e magnifica strada per cui vi si ascende. Coro,
Publio, Annio, Tito, Sesto. [N. 4 Marcia] Maestoso (mi bemolle maggiore)
Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani.
Publio, Senatori romani, e i Legati delle province soggette, destinati a
presentare al senato gli annui imposti tributi. Tito, preceduto da Littori, seguìto
da Pretoriani, e circondato da numeroso Popolo, scende dal Campidoglio.
www.librettidopera.it 7 / 38 Atto primo La clemenza di Tito [N. 5 Coro]
Allegro (mi bemolle maggiore) Archi, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2
corni. CORO Serbate, oh dèi custodi della romana sorte, in Tito il giusto, il
forte, l'onor di nostra età. Nel fine del coro suddetto, Annio e Sesto da
diverse parti. Recitativo, continuo PUBLIO (a Tito) Te «della patria il padre»
oggi appella il senato: e mai più giusto non fu ne' suoi decreti, oh invitto
augusto. ANNIO Eccelso tempio ti destina il senato; e là si vuole, che fra
divini onori anche il nume di Tito il Tebro adori. PUBLIO Quei tesori, che
vedi, all'opra consacriam. Tito non sdegni questi del nostro amor pubblici
segni. TITO Romani, udite: oltre l'usato terribile il Vesuvio ardenti fiumi
dalle fauci eruttò; scosse le rupi, riempié di ruine i campi intorno e le città
vicine. Le desolate genti fuggendo van; ma la miseria opprime quei che al foco
avanzar. Serva quell'oro di tanti afflitti a riparar lo scempio. Questo, o
romani, è fabbricarmi il tempio. ANNIO Oh, vero eroe! PUBLIO Quanto di te
minori tutti i premi son mai tutte le lodi! TITO Basta, basta, oh miei fidi.
Sesto a me s'avvicini; Annio non parta; ogn'altro s'allontani. (si ritirano
tutti fuori dell'atrio, e vi rimangono Tito, Sesto ed Annio) N. 5 Coro,
ripresa CORO Serbate, oh dèi custodi della romana sorte, in Tito il giusto, il
forte, l'onor di nostra età. 8 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A.
Mozart, 1791 Atto primo N. 4 Marcia, ripresa Recitativo, continuo ANNIO
(Adesso, o Sesto, parla per me.) SESTO Come, signor, potesti la tua bella
regina?... TITO Ah, Sesto amico, che terribil momento! Io non credei... basta;
ho vinto; partì. Tolgasi adesso a Roma ogni sospetto di vederla mia sposa. Una
sua figlia vuol veder sul mio soglio, e appagarla convien. Giacché l'amore
scelse invano i miei lacci, io vo', che almeno l'amicizia li scelga. Al tuo
s'unisca, Sesto, il cesareo sangue. Oggi mia sposa sarà la tua germana. SESTO
Servilia! TITO Appunto. ANNIO (Oh, me infelice!) SESTO (Oh dèi! Annio è
perduto.) TITO Udisti? che dici? non rispondi? SESTO Tito!... ANNIO Augusto,
conosco di Sesto il cor. Ma tu consiglio da lui prender non déi. Come potresti
sposa elegger più degna dell'impero, e di te? Virtù, bellezza, tutto è in
Servilia. Io le conobbi in volto ch'era nata a regnar. De' miei presagi
l'adempimento è questo. SESTO (Annio parla così? Sogno, o son desto!) TITO
Ebbene, recane a lei, Annio, tu la novella; e tu mi segui, amato Sesto; e
queste tue dubbiezze deponi. Avrai tal parte tu ancor nel soglio, e tanto
t'innalzerò, che resterà ben poco dello spazio infinito, che frapposer gli dèi
fra Sesto, e Tito. www.librettidopera.it 9 / 38 Atto primo La clemenza di Tito
SESTO Questo è troppo, oh signor. Modera almeno, se ingrati non ci vuoi,
modera, augusto, i benefici tuoi. TITO Ma che? (Se mi negate che benefico io
sia, che mi lasciate?) [N. 6 Aria] Andante (sol maggiore) Archi, 2 flauti, 2
fagotti, 2 corni. TITO Del più sublime soglio l'unico frutto è questo: tutto è
tormento il resto, e tutto è servitù. Che avrei, se ancor perdessi le sole ore
felici ch'ho nel giovar gli oppressi, nel sollevar gli amici, nel dispensar
tesori al merto, e alla virtù? (parte con Sesto) Scena quinta Annio, Servilia.
Recitativo, continuo ANNIO Non ci pentiam. D'un generoso amante era questo il
dover. Mio cor, deponi le tenerezze antiche. È tua sovrana chi fu l'idolo tuo.
Cambiar conviene in rispetto l'amore. Eccola. Oh dèi! Mai non parve sì bella
agli occhi miei. SERVILIA Mio ben... ANNIO Taci, Servilia. Ora è delitto il
chiamarmi così. SERVILIA Perché? ANNIO Ti scelse cesare (che martir!) per sua
consorte. A te (morir mi sento), a te m'impose di recarne l'avviso (oh pena!),
ed io... io fui... (parlar non posso)... augusta, addio! SERVILIA Come!
fermati. Io sposa di cesare? E perché? 10 / 38 www.librettidopera.it C. T.
Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo ANNIO Perché non trova beltà, virtù che
sia più degna d'un impero, anima... oh stelle! Che dirò? Lascia, augusta, deh
lasciami partir. SERVILIA Così confusa abbandonarmi vuoi? Spiegati; dimmi: come
fu? per qual via?... ANNIO Mi perdo s'io non parto, anima mia. [N. 7 Duetto]
Andante (la maggiore) Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti. ANNIO Ah, perdona al
primo affetto questo accento sconsigliato: colpa fu del labbro usato a così
chiamarti ognor. SERVILIA Ah, tu fosti il primo oggetto, che finor fedel amai;
e tu l'ultimo sarai ch'abbia nido in questo cor. ANNIO Cari accenti del mio
bene. SERVILIA Oh mia dolce, cara speme. SERVILIA E ANNIO Più che ascolto i
sensi tuoi, in me cresce più l'ardor. Quando un'alma è all'altra unita, qual
piacere un cor risente! Ah, si tronchi dalla vita tutto quel che non è amor.
(partono) Scena sesta Ritiro delizioso nel soggiorno imperiale sul colle
Palatino. Tito, Publio. Recitativo, continuo TITO Che mi rechi in quel foglio?
PUBLIO I nomi ei chiude de' rei che osar con temerari accenti de' cesari già
spenti la memoria oltraggiar. www.librettidopera.it 11 / 38 Atto primo La
clemenza di Tito TITO Barbara inchiesta, che agli estinti non giova, e
somministra mille strade alla frode d'insidiar gl'innocenti! PUBLIO Ma v'è,
signor, chi lacerate ardisce anche il tuo nome. TITO E che perciò? se 'l mosse
leggerezza; no 'l curo; se follia, lo compiango; se ragion, gli son grato; e se
in lui sono impeti di malizia, io gli perdono. PUBLIO Almen... Scena settima
Tito, Publio, Servilia. SERVILIA Di Tito al piè... TITO Servilia! Augusta!
SERVILIA Ah! signor, sì gran nome non darmi ancora. Odimi prima. Io deggio
palesarti un arcan. (Publio si ritira) TITO Parla... SERVILIA Il core, signor,
non è più mio. Già da gran tempo Annio me lo rapì. Valor che basti, non ho per
obliarlo. Anche dal trono il solito sentiero farebbe a mio dispetto il mio
pensiero. So che oppormi è delitto d'un cesare al voler; ma tutto almeno sia
noto al mio sovrano: poi, se mi vuoi sua sposa, ecco la mano. TITO Grazie, o
numi dei ciel! Pur si ritrova chi s'avventuri a dispiacer col vero. Alla
grandezza tua la propria pace Annio pospone! Tu ricusi un trono per essergli
fedele! Ed io dovrei turbar fiamme sì belle! Ah, non produce sentimenti sì rei
di Tito il core. Sgombra ogni tema. Io voglio stringer nodo sì degno, e n'abbia
poi cittadini la patria eguali a voi. 12 / 38 www.librettidopera.it C. T.
Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo [N. 8 Aria] Allegro (re maggiore)
Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. TITO Ah, se fosse intorno al trono ogni cor
così sincero non tormento un vasto impero, ma saria felicità. Non dovrebbero i
regnanti tollerar sì grave affanno, per distinguer dall'inganno l'insidiata
verità. (parte) Scena ottava Servilia, poi Vitellia. Recitativo, continuo
SERVILIA Felice me! VITELLIA Posso alla mia sovrana offrir del mio rispetto i
primi omaggi? Posso adorar quel volto, per cui d'amor ferito, ha perduto il
riposo il cor di Tito? SERVILIA Non esser meco irata; forse la regia destra è a
te serbata. (parte) Scena nona Vitellia, poi Sesto. VITELLIA Ancor mi
schernisce? Questo soffrir degg'io vergognoso disprezzo? Ah, con qual fasto qui
mi lascia costei! Barbaro Tito! Ti parea dunque poco Berenice antepormi? Io
dunque sono l'ultima de' viventi. Ah, trema ingrato! Trema d'avermi offesa.
Oggi il tuo sangue... SESTO Mia vita. VITELLIA Ebben, che rechi? Il Campidoglio
è acceso? è incenerito? Lentulo dove sta? Tito è punito? www.librettidopera.it
13 / 38 Atto primo La clemenza di Tito SESTO Nulla intrapresi ancor. VITELLIA
Nulla! e sì franco mi torni innanzi? SESTO È tuo comando il sospendere il
colpo. VITELLIA E non udisti i miei novelli oltraggi? D'altri stimoli hai
d'uopo? Sappi, che Tito amai, che del mio cor l'acquisto ei t'impedì; che se
rimane in vita, si può pentir; ch'io ritornar potrei (non mi fido di me) forse
ad amarlo. Or va', se non ti muove desio di gloria, ambizione, amore; se
tolleri un rivale, che usurpò, che contrasta, che involar potrà gli affetti
miei, degli uomini 'l più vil dirò che sei. SESTO Quante vie d'assalirmi!
Basta, basta non più, già m'inspirasti, Vitellia, il tuo furore. Arder vedrai
fra poco il Campidoglio; e quest'acciaro nel sen di Tito... VITELLIA Ed or che
pensi? Dunque corri; che fai? Perché non parti? [N. 9 Aria] Adagio (si
bemolle maggiore) / Allegro Archi, 2 oboe, clarinetto solo, 2 fagotti, 2 corni.
SESTO Parto; ma tu ben mio, meco ritorna in pace; sarò qual più ti piace, quel
che vorrai farò. Guardami, e tutto oblio, e a vendicarti io volo; a questo sguardo
solo da me sì penserà. Ah, qual poter, oh dèi! donaste alla beltà. (parte) 14 /
38 www.librettidopera.it Mazzolà MozartVitellia, poi Publio ed Annio.
Recitativo, continuo VITELLIA Vedrai, Tito, vedrai, che alfin sì vile questo
volto non è. Basta a sedurti gli amici almen, se ad invaghirti è poco. Ti
pentirai... PUBLIO Tu qui, Vitellia? Ah, corri: va Tito alle tue stanze. ANNIO
Vitellia, il passo affretta, cesare di te cerca. VITELLIA Cesare! PUBLIO Ancor
no 'l sai? Sua consorte ti elesse. ANNIO Tu sei la nostra augusta; ed il primo
omaggio già da noi ti si rende. PUBLIO Ah, principessa, andiam: cesare attende.
[N. 10 Terzetto] Allegro (sol maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti, 2
corni. VITELLIA Vengo... aspettate... Sesto!... Ahimè!... Sesto!... è
partito?... Oh sdegno mio funesto! Oh insano mio furor! Che angustia, che
tormento! Io gelo, oh dio! d'orror. PUBLIO E ANNIO Oh come un gran contento,
come confonde un cor. (partono) www.librettidopera.it 15 / 38 Atto primo La
clemenza di Tito Scena undicesima Campidoglio, come prima. Sesto solo, indi
Annio, Servilia, Publio, Vitellia. [N. 11 Recitativo accompagnato] Allegro
assai (do maggiore) / Andante / Allegro assai Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2
corni. SESTO Oh dèi, che smania è questa! Che tumulto ho nel cor! Palpito,
agghiaccio: m'incammino, m'arresto: ogn'aura, ogn'ombra mi fa tremare. Io non
credea, che fosse sì difficile impresa esser malvagio. Ma compirla convien.
Almen si vada con valor a perir. Valore! E come può averne un traditor? Sesto
infelice, tu traditor! Che orribil nome! Eppure t'affretti a meritarlo. E chi
tradisci? Il più grande, il più giusto, il più clemente principe della terra, a
cui tu devi quanto puoi, quanto sei. Bella mercede gli rendi in vero! Ei
t'innalzò per farti il carnefice suo. M'inghiotta il suolo prima ch'io tal
divenga. Ah, non ho core, Vitellia, a secondar gli sdegni tui: morrei prima del
colpo in faccia a lui. Si desta nel Campidoglio un incendio che a poco a poco
va crescendo. SESTO S'impedisca... ma come, arde già il Campidoglio. Un gran
tumulto io sento d'armi, e d'armati; ahi! tardo è il pentimento. [N. 12
Quintetto con coro] Allegro (mi bemolle maggiore) / Andante Archi, 2 flauti, 2
oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. SESTO Deh,
conservate, oh dèi, a Roma il suo splendor, o almeno i giorni miei coi suoi
troncate ancor. ANNIO Amico, dove vai? SESTO Io vado... lo saprai oh dio, per
mio rossor. (ascende frettoloso nel Campidoglio) ANNIO Io Sesto non intendo...
ma qui Servilia viene.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto
primo SERVILIA Ah, che tumulto orrendo! ANNIO Fuggi di qua mio bene. SERVILIA
Si teme che l'incendio non sia dal caso nato, ma con peggior disegno ad arte
suscitato. CORO in distanza Ah!... PUBLIO V'è in Roma una congiura, per Tito
ahimè pavento; di questo tradimento chi mai sarà l'autor. CORO in distanza
Ah!... SERVILIA, ANNIO E PUBLIO Le grida ahimè ch'io sento mi fan gelar
d'orror. Scena dodicesima Vitellia entra. Allegro (do minore) Archi, 2 flauti,
2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. CORO in distanza
Ah!... VITELLIA Chi per pietade oh dio! m'addita dov'è Sesto? (In odio a me son
io ed ho di me terror.) CORO in distanza Ah!... ah!... SERVILIA, ANNIO E PUBLIO
Di questo tradimento chi mai sarà l'autor. CORO in distanza Ah!... ah!...
VITELLIA, SERVILIA, ANNIO E PUBLIO Le grida ahimè ch'io sento mi fan gelar
d'orror. (Sesto scende dal Campidoglio) www.librettidopera.it 17 / 38 Atto
primo La clemenza di Tito Scena tredicesima Sesto. SESTO (Ah, dove mai
m'ascondo? Apriti, oh terra, inghiottimi, e nel tuo sen profondo rinserra un
traditor.) VITELLIA Sesto! SESTO Da me che vuoi? VITELLIA Quai sguardi vibri
intorno? SESTO Mi fa terror il giorno. VITELLIA Tito?... SESTO La nobil alma
versò dal sen trafitto. SERVILIA, ANNIO, PUBLIO Qual destra rea macchiarsi poté
d'un tal delitto? SESTO Fu l'uom più scellerato, l'orror della natura, fu...
VITELLIA Taci forsennato, deh, non ti palesar. Andante (do maggiore) Archi, 2
flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. VITELLIA,
SERVILIA, SESTO, ANNIO E PUBLIO Ah dunque l'astro è spento, di pace apportator.
TUTTI E CORO Oh nero tradimento, oh giorno di dolor! 18 / 38 librettidopera.it
C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo ATTO SECONDO Scena prima
Ritiro delizioso nel soggiorno imperiale sul colle Palatino. Annio, Sesto.
Recitativo, continuo ANNIO Sesto, come tu credi, augusto non perì. Calma il tuo
duolo; in questo punto ei torna illeso dal tumulto. SESTO Oh dèi pietosi! oh,
caro prence! oh, dolce amico! Ah, lascia che a questo sen... ma non
m'inganni?... ANNIO Io merto sì poca fé? Dunque tu stesso a lui corri, e 'l
vedrai. SESTO Ch'io mi presenti a Tito dopo averlo tradito? ANNIO Tu lo
tradisti? SESTO Io del tumulto, io sono il primo autor. ANNIO Sesto è infedele!
SESTO Amico, m'ha perduto un istante. Addio. M'involo alla patria per sempre.
Ricordati di me. Tito difendi da nuove insidie. Io vo ramingo, afflitto a
pianger fra le selve il mio delitto. ANNIO Fermati; oh dèi! pensiamo...
incolpan molti di questo incendio il caso; e la congiura non è certa finora...
SESTO Ebben, che vuoi? ANNIO Che tu non parta ancora. www.librettidopera.it 19
/ 38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 13 Aria] Allegretto (sol maggiore)
Archi. ANNIO Torna di Tito a lato: torna, e l'error passato con replicate
emenda prove di fedeltà. L'acerbo tuo dolore è segno manifesto, che di virtù
nel core l'immagine ti sta. (parte) Scena seconda Sesto, poi Vitellia.
Recitativo, continuo SESTO Partir deggio, o restar? Io non ho mente per
distinguer consigli. VITELLIA Sesto, fuggi, conserva la tua vita, e 'l mio
onor. Tu sei perduto, se alcun ti scopre, e se scoperto sei, pubblico è il mio
segreto. SESTO In questo seno sepolto resterà. Nessuno il seppe: tacendolo
morrò. Scena terza Publio con Guardie e detti. PUBLIO Sesto! SESTO Che chiedi?
PUBLIO La tua spada. SESTO E perché? PUBLIO Colui, che cinto delle spoglie
regali agli occhi tuoi, cadde trafitto al suolo, ed ingannato dall'apparenza tu
credesti Tito, era Lentulo; il colpo la vita a lui non tolse, il resto intendi.
Vieni. 20 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto
secondo VITELLIA (Oh, colpo fatale!) SESTO (dà la spada) Al fin, tiranna...
PUBLIO Sesto, partir conviene. È già raccolto per udirti il senato; e non
poss'io differir di condurti. SESTO Ingrata, addio! Scena quarta Detti. [N. 14
Terzetto] Andantino (si bemolle maggiore) / Allegretto Archi, 2 oboe, 2
fagotti, 2 corni. SESTO Se al volto mai ti senti lieve aura che s'aggiri, gli
estremi miei sospiri quell'alito sarà. VITELLIA (Per me vien tratto a morte:
ah, dove mai m'ascondo! Fra poco noto al mondo il fallo mio sarà.) PUBLIO
Vieni... SESTO (a Publio) Ti seguo... (a Vitellia) Addio. VITELLIA (a Sesto)
Senti... mi perdo... oh dio! (a Publio) Che crudeltà! SESTO (a Vitellia, in
atto di partire) Rammenta chi t'adora in questo stato ancora. Mercede al mio
dolore sia almen la tua pietà. VITELLIA (Mi lacerano il core rimorso, orror,
spavento! Quel che nell'alma io sento di duol morir mi fa.) PUBLIO (L'acerbo
amaro pianto, che da' suoi lumi piove, l'anima mi commuove, ma vana è la
pietà!) www.librettidopera.it 21 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito Publio e
Sesto partono con le Guardie, e Vitellia dalla parte opposta. Scena quinta Gran
sala destinata alle pubbliche udienze. Trono, sedia e tavolino. Tito, Publio,
Patrizi, Pretoriani e Popolo. [N. 15 Coro] Andante (fa maggiore) Archi, 2
flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. CORO Ah, grazie si rendano al sommo
fattor, che in Tito del trono salvò lo splendor. TITO Ah no, sventurato non
sono cotanto, se in Roma il mio fato si trova compianto se voti per Tito si
formano ancor. Recitativo, continuo PUBLIO È tutto colà d'intorno alla festiva
arena il popolo raccolto; e non s'attende che la presenza tua. TITO Andremo,
Publio, fra poco. Io non avrei riposo, se di Sesto il destino pria non sapessi.
Avrà il senato omai le sue discolpe udite; avrà scoperto, vedrai, ch'egli è
innocente; e non dovrebbe tardar molto l'avviso. Va'! chiedi che si fa, che si
attende? Io voglio tutto saper pria di partir. PUBLIO Vado; ma temo di non
tornar nunzio felice. TITO E puoi creder Sesto infedele? Io dal mio core il suo
misuro; e un impossibil parmi ch'egli m'abbia tradito. PUBLIO Ma, signor, non
han tutti il cor di Tito. 22 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà [N. 16 Aria] Allegretto (do maggiore)
Archi, 2 oboe, 2 corni. PUBLIO Tardi s'avvede d'un tradimento chi mai di fede
mancar non sa. Un cor verace, pieno d'onore, non è portento, se ogn'altro core
crede incapace d'infedeltà. (parte) Scena sesta Tito, poi Annio. Recitativo,
continuo TITO No, così scellerato il mio Sesto non credo. Tanto cambiarsi
un'alma non potrebbe. TITO Annio, che rechi? L'innocenza di Sesto? Consolami!
ANNIO Signor! pietà per lui ad implorar io vengo. Scena settima Detti, Publio
con foglio. PUBLIO Cesare, no 'l diss'io. Sesto è l'autore della trama crudel.
TITO Publio, ed è vero? PUBLIO Purtroppo; ei di sua bocca tutto affermò. Co'
complici il senato alle fiere il condanna. Ecco il decreto terribile, ma
giusto; (dà il foglio a Tito) né vi manca, o signor, che il nome augusto. TITO
Onnipossenti dèi! (si getta sedere) www.librettidopera.it 23 / 38 Atto secondo
La clemenza di Tito ANNIO Ah, pietoso monarca... (inginocchiandosi) TITO Annio,
per ora lasciami in pace. (Annio si leva) PUBLIO Alla gran pompa unite sai che
le genti omai... TITO Lo so, partite! ANNIO Deh, perdona, s'io parlo in favor
d'un insano. Della mia cara sposa egli è germano. [N. 17 Aria] Andante (fa
maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. ANNIO Tu fosti tradito: ei degno è
di morte, ma il core di Tito pur lascia sperar. Deh prendi consiglio, signor,
dal tuo core: il nostro dolore ti degna mirar. (Publio ed Annio partono) Scena
ottava Tito solo a sedere. Recitativo accompagnato Allegro Archi. TITO Che
orror! che tradimento! Che nera infedeltà! Fingersi amico, essermi sempre al
fianco, ogni momento esiger dal mio core qualche prova d'amore; e starmi
intanto preparando la morte! Ed io sospendo ancor la pena? e la sentenza non
segno?... Ah! sì, lo scellerato mora! (prende la penna per sottoscrivere e poi
s'arresta) Mora!... ma senza udirlo mando Sesto a morir? Sì, già l'intese
abbastanza il senato. E s'egli avesse qualche arcano a svelarmi? Olà! (depone
la penna, intanto entra una guardia) 24 / 38 www.librettidopera.it C. T.
Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo TITO (S'ascolti, e poi vada al
supplizio.) A me si guidi Sesto. (la guardia parte) TITO È pur di chi regna
infelice il destino! (s'alza) A noi si nega ciò che a' più bassi è dato. In
mezzo al bosco quel villanel mendico, a cui circonda ruvida lana il rozzo
fianco, a cui è mal fido riparo dall'ingiurie del ciel tugurio informe, placido
i sonni dorme, passa tranquillo i dì, molto non brama, sa chi l'odia e chi
l'ama, unito o solo torna sicuro alla foresta, al monte, e vede il core
ciascheduno in fronte. Scena nona Publio e Tito. Recitativo, continuo TITO Ma,
Publio, ancora Sesto non viene. PUBLIO Ad eseguire il cenno già volaro i
custodi. TITO Io non comprendo un sì lungo tardar. PUBLIO Pochi momenti sono
scorsi, o signor. TITO Vanne tu stesso; affrettalo. PUBLIO Ubbidisco. (nel
partire) I tuoi littori veggonsi comparir: Sesto dovrebbe non molto esser
lontano. Eccolo. TITO Ingrato! All'udir che s'appressa, già mi parla a suo pro
l'affetto antico. Ma no; trovi il suo prence e non l'amico. (siede e si compone
in atto di maestà) www.librettidopera.it 25 / 38 Atto secondo La clemenza di
Tito Scena decima Tito, Publio, Sesto e Custodi. Sesto entrato appena, si
ferma. [N. 18 Terzetto] Larghetto (mi bemolle maggiore) / Allegro Archi, 2
flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. SESTO (Quello di Tito è il volto! Ah
dove, oh stelle! è andata la sua dolcezza usata! Or ei mi fa tremar!) TITO
(Eterni dèi! di Sesto dunque il sembiante è questo! Oh come può un delitto un
volto trasformar!) PUBLIO (Mille diversi affetti in Tito guerra fanno. S'ei
prova un tale affanno, lo seguita ad amar.) TITO Avvicinati! SESTO (Oh voce che
piombami sul core.) TITO Non odi? SESTO (Di sudore mi sento oh dio bagnar! Non
può chi more non può di più penar.) TITO E PUBLIO (Palpita il traditore, né gli
occhi ardisce alzar.) Recitativo, continuo TITO (E pur mi fa pietà.) Publio,
custodi, lasciatemi con lui. (Publio e le guardie partono) SESTO (No, di quel
volto non ho costanza a sostener l'impero.) 26 / 38 www.librettidopera.it C. T.
Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo TITO (rimasto solo con Sesto, depone
l'aria maestosa) Ah! Sesto, è dunque vero? Dunque vuoi la mia morte? E in che
t'offese il tuo prence, il tuo padre, il tuo benefattor? Se Tito augusto hai
potuto obliar, di Tito amico come non ti sovvenne? Il premio è questo della
tenera cura ch'ebbe sempre di te? Di chi fidarmi in avvenir potrò, se giunse,
oh dèi! anche Sesto a tradirmi? E lo potesti? E il cor te lo sofferse? SESTO
(prorompe in un dirottissimo pianto e se gli getta a' piedi) Ah, Tito! ah, mio
clementissimo prence! Non più, non più. Se tu veder potessi questo misero cor,
spergiuro, ingrato, pur ti farei pietà. Tutte ho su gli occhi, tutte le colpe
mie; tutti rammento i benefizi tuoi: soffrir non posso né l'idea di me stesso,
né la presenza tua. Quel sacro volto, la voce tua, la tua clemenza istessa
diventò mio supplizio. Affretta almeno, affretta il mio morir. Toglimi presto
questa vita infedel; lascia ch'io versi, se pietoso esser vuoi, questo perfido
sangue a' piedi tuoi. TITO Sorgi, infelice! (Sesto si leva) TITO (Il contenersi
è pena a quel tenero pianto.) Or vedi a quale lagrimevole stato un delitto
riduce, una sfrenata avidità d'impero! E che sperasti di trovar mai nel trono?
Il sommo forse d'ogni contento? Ah! sconsigliato, osserva quai frutti io ne
raccolgo; e bramalo, se puoi. SESTO No, questa brama non fu che mi sedusse.
TITO Dunque che fu? SESTO La debolezza mia, la mia fatalità. TITO Più chiaro
almeno spiegati. www.librettidopera.it 27 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito
SESTO Oh dio! non posso. TITO Odimi, oh Sesto; siam soli; il tuo sovrano non è
presente. Apri il tuo core a Tito; confidati all'amico. In contraccambio almeno
d'amicizia lo chiedo. SESTO (Ecco una nuova specie di pena! o dispiacere a
Tito, o Vitellia accusar.) TITO (incomincia a turbarsi) Dubiti ancora? SESTO
Signore... sappi dunque... TITO Parla una volta: che mi volevi dir? SESTO Ch'io
son l'oggetto dell'ira degli dèi; che la mia sorte non ho più forza a tollerar;
ch'io stesso traditor mi confesso, empio mi chiamo; ch'io merito la morte, e
ch'io la bramo. TITO Sconoscente! e l'avrai. Custodi! il reo toglietemi
d'innanzi. (alle guardie, che saranno uscite) SESTO Il bacio estremo su quella
invitta man. TITO (senza guardarlo) Parti; non è più tempo, or tuo giudice sono.
SESTO Ah, sia questo, signor, l'ultimo dono. [N. 19 Rondò] Adagio (la
maggiore) / Allegro / Più allegro Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni.
SESTO Deh, per questo istante solo ti ricorda il primo amor. Che morir mi fa di
duolo il tuo sdegno il tuo rigor. Di pietade indegno è vero, sol spirar io deggio
orror. Pur saresti men severo, se vedessi questo cor. Continua nella pagina
seguente. 28 / 38 www.librettidopera.it Mazzolà / Mozart SESTO Disperato vado a morte; ma il morir non
mi spaventa. Il pensiero mi tormenta che fui teco un traditor! (Tanto affanno
soffre un core, né si more di dolor!) (parte) Scena undicesima Tito solo.
Recitativo, continuo TITO Ove s'intendesse mai più contumace infedeltà? Deggio
alla mia negletta disprezzata clemenza una vendetta. Vendetta!... il cor di
Tito tali sensi produce?... Eh viva... invano parlan dunque le leggi? (siede)
Sesto è reo; Sesto mora. (sottoscrive) Ma dunque faccio sì gran forza al mio
cor. Né almen sicuro sarò ch'altri l'approvi? Ah, non si lasci il solito
cammin... (lacera il foglio) Viva l'amico! Benché infedele. E se accusarmi il
mondo vuol pur di qualche errore, m'accusi di pietà (getta il foglio lacerato)
non di rigore. Scena dodicesima Tito, Publio. TITO Publio! PUBLIO Cesare. TITO
Andiamo al popolo, che attende. PUBLIO E Sesto? TITO E Sesto, venga all'arena
ancor. www.librettidopera.it 29 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito PUBLIO
Dunque il suo fato?... TITO Sì, Publio, è già deciso. PUBLIO (Oh, sventurato!)
[N. 20 Aria] Allegro (si bemolle maggiore) / Andantino / Allegro Archi, 2
flauti, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. TITO Se all'impero, amici dèi, necessario è
un cor severo, o togliete a me l'impero, o a me date un altro cor. Se la fé de'
regni miei coll'amor non assicuro, d'una fede non mi curo che sia frutto del
timor. (parte, seguìto da Publio) Scena tredicesima Vitellia, uscendo dalla
porta opposta, richiama Publio, che seguiva Tito. VITELLIA Publio, ascolta.
PUBLIO (in atto di partire) Perdona; deggio a cesare appresso andar... VITELLIA
Dove? PUBLIO (come sopra) All'arena. VITELLIA E Sesto? PUBLIO Anch'esso.
VITELLIA Dunque morrà? PUBLIO (come sopra) Pur troppo. VITELLIA (Ahimè!) Con
Tito Sesto ha parlato? PUBLIO E lungamente. VITELLIA E sai quel ch'ei dicesse?
PUBLIO No. Solo con lui restar cesare volle: escluso io fui. (parte) 30 /
librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo Scena
quattordicesima Vitellia, e poi Servilia e Annio da diverse parti. VITELLIA Non
giova lusingarsi; Sesto già mi scoperse: a Publio istesso si conosce sul volto.
Ei non fu mai con me sì ritenuto; ei fugge; ei teme di restar meco. Ah!
secondato avessi gl'impulsi del mio cor. Per tempo a Tito dovea svelarmi e
confessar l'errore. Sempre in bocca d'un reo, che la detesta, scema d'orror la
colpa. Or questo ancora tardi saria. Seppe il delitto augusto, e non da me.
Questa ragione istessa fa più grave... SERVILIA Ah, Vitellia! ANNIO Ah,
principessa! SERVILIA Il misero germano... ANNIO Il caro amico... SERVILIA È
condotto a morir. VITELLIA Ma che posso per lui? SERVILIA Tutto, a' tuoi
prieghi Tito lo donerà. ANNIO Non può negarlo alla novella augusta. VITELLIA
Annio, non sono augusta ancor. ANNIO Pria che tramonti il sole Tito sarà tuo
sposo. Or, me presente, per le pompe festive il cenno ei diede. VITELLIA
(Dunque Sesto ha taciuto! oh amore! oh fede!) Annio, Servilia, andiam. (Ma dove
corro così senza pensar?) Partite amici, vi seguirò. www.librettidopera.it 31 /
38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 21 Aria] Tempo di minuetto (re
maggiore) Archi, flauto, oboe, fagotto, corno. SERVILIA S'altro che lacrime per
lui non tenti, tutto il tuo piangere non gioverà. A questa inutile pietà che
senti, oh quanto è simile la crudeltà. (parte) Scena quindicesima Vitellia
sola. [N. 22 Recitativo accompagnato] Allegro (re maggiore) Archi. VITELLIA
Ecco il punto, o Vitellia, d'esaminar la tua costanza: avrai valor che basti a
rimirar esangue il Sesto tuo fedel? Sesto, che t'ama più della vita sua? Che
per tua colpa divenne reo? Che t'ubbidì crudele? Che ingiusta t'adorò? Che in
faccia a morte sì gran fede ti serba, e tu frattanto non ignota a te stessa,
andrai tranquilla al talamo d'augusto? Ah, mi vedrei sempre Sesto d'intorno; e
l'aure, e i sassi temerei che loquaci mi scoprissero a Tito. A' piedi suoi
vadasi il tutto a palesar. Si scemi il delitto di Sesto, se scusar non si può,
col fallo mio. D'impero e d'imenei, speranze, addio. librettidopera.it C. T.
Mazzolà Mozart, Atto secondo [N. 23 Rondò] Larghetto (fa maggiore) / Allegro
/ Andante maestoso Archi, flauto, 2 oboe, corno di bassetto, 2 fagotti, 2
corni, 2 trombe, timpani. VITELLIA Non più di fiori vaghe catene discenda Imene
ad intrecciar. Stretta fra barbare aspre ritorte veggo la morte ver me avanzar.
Infelice! qual orrore! Ah, di me che si dirà? Chi vedesse il mio dolore, pur
avria di me pietà. (parte) Scena sedicesima Luogo magnifico, che introduce a
vasto anfiteatro, da cui per diversi archi scopresi la parte interna. Si
vedranno già nell'arena i complici della congiura condannati alle fiere. Nel
tempo che si canta il coro, preceduto da' Littori, circondato da' Senatori, e
Patrizi romani, e seguìto da' Pretoriani, esce Tito, e dopo Annio e Servilia da
diverse parti. [N. 24 Coro] Andante maestoso (sol maggiore) Archi, 2 flauti,
2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. CORO Che del ciel, che degli dèi
tu il pensier, l'amor tu sei, grand'eroe, nel giro angusto si mostrò di questo
dì. Ma cagion di meraviglia non è già, felice augusto, che gli dèi chi lor
somiglia custodiscano così. www.librettidopera.it 33 / 38 Atto secondo La
clemenza di Tito Recitativo, continuo TITO Pria che principio a' lieti
spettacoli si dia, custodi, innanzi conducetemi il reo. (Più di perdono speme
ei non ha: quanto aspettato meno, più caro esser gli dée.) ANNIO Pietà,
signore! SERVILIA Signor, pietà! TITO Se a chiederla venite per Sesto, è tardi.
È il suo destin deciso. ANNIO E sì tranquillo in viso lo condanni a morir?
SERVILIA Di Tito il core come il dolce perdé costume antico? TITO Ei
s'appressa: tacete! SERVILIA Oh Sesto! ANNIO Oh amico! Scena diciassettesima
Tito, Publio e Sesto fra Littori, Annio e Servilia, poi Vitellia. TITO Sesto,
de' tuoi delitti tu sai la serie, e sai qual pena ti si dée. Roma sconvolta,
l'offesa maestà, le leggi offese, l'amicizia tradita, il mondo, il cielo
voglion la morte tua. De' tradimenti sai pur ch'io son l'unico oggetto; or
senti. VITELLIA (entrando frettolosa) Eccoti, eccelso augusto, (s'inginocchia)
eccoti al piè la più confusa... TITO Ah sorgi, che fai? che brami? VITELLIA Io
ti conduco innanzi l'autor dell'empia trama. TITO Ov'è? Chi mai preparò tante
insidie al viver mio? VITELLIA No 'l crederai. TITO Perché? librettidopera.it
Mazzolà / Mozart, VITELLIA Perché son io. TITO Tu ancora! SESTO E SERVILIA Oh,
stelle! ANNIO E PUBLIO Oh, numi! TITO E quanti mai, quanti siete a tradirmi?
VITELLIA Io la più rea son di ciascuno; io meditai la trama; il più fedele
amico io ti sedussi; io del suo cieco amore a tuo danno abusai. TITO Ma del tuo
sdegno chi fu cagion? VITELLIA La tua bontà. Credei che questa fosse amor. La
destra e 'l trono da te sperava in dono, e poi negletta restai due volte, e
procurai vendetta. [N. 25 Recitativo accompagnato] Allegro (re minore) Archi.
TITO Ma che giorno è mai questo! al punto stesso che assolvo un reo, ne scopro
un altro! E quando troverò, giusti numi! un'anima fedel? Congiuran gli astri,
cred'io, per obbligarmi a mio dispetto, a diventar crudel. No! non avranno
questo trionfo. A sostener la gara già m'impegnò la mia virtù. Vediamo se più
costante sia l'altrui perfidia o la clemenza mia. Olà! Sesto si sciolga: abbian
di nuovo Lentulo e suoi seguaci e vita, e libertà. Sia noto a Roma ch'io son lo
stesso, e ch'io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio. www.librettidopera.it 35
/ 38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 26 Sestetto con coro] Allegretto
(do maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2
trombe, timpani. SESTO Tu, è ver, m'assolvi, augusto; ma non m'assolve il core,
che piangerà l'errore, finché memoria avrà. TITO Il vero pentimento, di cui tu
sei capace, val più d'una verace costante fedeltà. VITELLIA, SERVILIA E ANNIO
Oh generoso! oh grande! E chi mai giunse a tanto? Mi trae dagli occhi il pianto
l'eccelsa tua bontà. TUTTI E CORO (senza Tito) Eterni dèi, vegliate sui sacri
giorni suoi, a Roma in lui serbate la sua felicità. TITO Troncate, eterni dèi,
troncate i giorni miei, quel dì che il ben di Roma mia cura non sarà. C. T.
Mazzolà Mozart Interlocutori Atto Ouverture Scena Duetto Scena
Aria Scena Duettino Scena Marcia
Coro Aria Scen Duetto Scena Scena Aria Scena
Scena Aria Scena Terzetto Scena Recitativo accompagnato]. .16
[N. 12 Quintetto con coro Scena Scena Atto Scena Aria Scena Scena
Scena Terzetto Scena Coro Aria Scena sestaScena Aria Scena Scena Scena
Terzetto RondòScena Aria Scena Scena Aria Scena Recitativo accompagnato Rondò
Scena sedicesima Coro Scena Recitativo accompagnato Sestetto con coro Brani
significativi La clemenza di Tito BRANI SIGNIFICATIVI Deh,
conservate, oh dèi (Sesto e Annio) Non più di fiori (Vitellia) Parto; ma tu ben
mio (Sesto) 14Tito Vespasiano. Tito. Keywords: principe filosofo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Tito: la clemenza della clemenza” -- Tito.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Toderini:
la ragione conversazionale di Roma e l’implicatura conversazionale dei sue
colonie – la scuola di Venezia – filosofia veneziana -- filosofia veneta -- filosofia
italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming Pool Library, Villa Speranza (Venezia). Abstract. Keywords. filosofia coloniale -- Flosofo
veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Discende dai
conti palatini Gagliardis dalla Volta. Letterato, pubblica “Letteratura turchesca”
(Venezia, Tosti), frutto della sua permanenza a Costantinopoli, la prima
trattazione occidentale di storia della letteratu turca.Tra gl’altri scritti,
in particolare di erudizione e di filosofia morale, si ricordano la filosofia
frankliniana delle punte preservatrici dal fulmine, particolarmente applicata
alle polveriere, alle navi, e a Santa Barbara in mare e “L'onesto uomo; ovvero,
saggi di morale filosofia dai principii della ragione”. È ricordato in “I Dogi
di Venezia nella vita pubblica e private” di Mosto, Giunti Martello. La
Dogaressa Pisana muore con gran dolore del Doge circa le hore ventidue colta da
una gagliarda convulsione al petto et abbattuta dalla lunga penosa malattia
sofferta. Per tutti i tre giorni di esposizione si conserva così fresca e
rubiconda nel volto che sembrava anziché morta assorta in un dolce riposo. È
solennemente tumulata ai S.S. Giovanni e Paolo nella tomba comune dei Mocenigo.
Il doge la segue dopo IX giorni di malattia in seguito a un’infezione
determinata da una risipola alla gamba sinistra. Ai solenni funerali fatti alla
sua statua ai S.S. Giovanni e Paolo venne commemorato da Berti ed a quelli
fattigli dalla scuola di S. Rocco, cui apparteneva, da T.. Cfr. Le sue opere
registrate dal «Sistema Bibliotecario Nazionale». Giambattista Toderini. Toderini.
Keywords: filosofia coloniale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Toderini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tocco:
la ragione conversazionale di Hardie -- e l’implicatura conversazionale dei rendiconti
della ragione conversazionale – la scuola di Catanzaro -- filosofia calabrese
-- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Catanzaro). Abstract. Grice used to say that he admired Hardie’s
masterpiece on Plato but had to WORK with Hardie’s notes on Aristotle. The
implicature is that you cannot do both. In Italy, he who does Plato is Tocco! Keywords:
Grice, Hardie, Tocco, ragione teoretica o alethica, ragione prattica – Grice’s
aequi-vocality thesis – the uni-vocality of an expression – “or, if
‘multi-vocal’ or ‘pluri-vocal,’ it is so across the divide – STILL ONE SENSE! Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Catanzaro, Calabria. Studia a Napoli con SPAVENTA
(si veda) e a Bologna, con FIORENTINO (si veda). Insegna a Roma, Pisa e
Firenze. Si pose nelle sue “Ricerche platoniche” (Catanzaro) il problema della
cronologia degli scritti platonici. Nella sua monografia su BRUNO (si veda)
nega che il filosofo di Nola potesse essere considerato un martire del libero
pensiero, quanto piuttosto l'interprete dei nuovi bisogni di razionalizzazione
delle teorie filosofiche, in linea con l'impulso delle ricerche scientifiche in
atto ai suoi tempi. Contribuisce alla pubblicazione dei saggi di BRUNO,
individuandone tre fasi di sviluppo: una fase neo-platonica, una fase
pan-teistica e una atomistica. Sostenitore del neo-kantismo, rifiuta ogni
costruzione metafisica e privilegia le esigenze della ragione pratica. Altri
saggi: “L'eresia nel Medioevo” (Firenze); “BRUNO” R. Istituto di Studi
Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze; “Le fonti più recenti della
filosofia del BRUNO”, "Rendiconti della R. Accad. dei Lincei. Classe di
scienze morali, storiche e filologiche", “Le opere inedite di BRUNO”
(Accademia di scienze morali e politiche della Società Reale, Napoli); Studi
francescani (Napoli); Studi kantiani (Palermo). Ferrari, I dati
dell'esperienza. Il neo-kantismo nella filosofia italiana” (Firenze, Olschki);
Raio, Lezioni su Kant” (Napoli, Liguori); Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. | al A | A f È pe°, al tea” \ | i A | Ca ù
| A; |, & ‘| } ; È Pa ALÌ P | SI Ì ro Adi K | s° î, n 9 ù, '# è _ LI PR ù
lio Ma LI TL? o I, "N A VI da i - I P air" d La È ala alt | Ù "
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Pabha S sa LAP Li | e ' o” f A 3 | DÀ x MI ; | ki L) Pala A = i è Barvard
College Librarp From the CONSTANTIUS FUND Bequeathed by | Evangelinus
Apostolides Sophocles Tutor and Professor of Greek 1842-1883 For Greek, Latin,
and Arabic Literature FELICE TOCCO PROFESSORE DI STORIA DELLA FILOSOFIA
NELL'UNIVERSITÀ DI Pisà CATANZARO i STADILIMENTO TIPOGRAFICO DI V. ASTURI |
PIAZZA CAVOUR NOMENO 3. 18706. sd by \a1O0OLIC O. RICERCHE PLATONICHE. T.
PROFESSORE DI STORIA DELLA FILOSOFIA © NELL'UNIVERSITÀ DI PISA CATANZARO
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI ASTURI PIAZZA CAVOUR. ARD COLI LitsnagN gx. Il
Sofista, il Parmenide ed il Filebo sono senza alcun dubbio i dialoghi più
oscuri ad intendere, e più difficili a classificare. I due primi sopratutto offrono
notevoli differenze dagl’altri dialoghi, non solo per la novità della dottrina,
ma benanehe per la sottigliezza del pensiero e l’aridità della forma. Alcune
volte ti abbarbagliano lampi di una dottrina profonda; ma il più sovente trovi
deduzioni così artifiziose, che mal sai comprendere come il severo castigatore
del Sofisti accolga in sè tanta parte dei loro errori. Di quì nacque spontaneo
il dubbio non sleno apocrifi questi scritti, in cul non resta traccia delle
splendide forme del Fedro, del Convito, della Repubblica. Molti critici di
valore sostennero questa opinione, e chi negò l’autenticità al solo Parmenide,
chi al Parmenide ed al Sofista insieme, e non mancò infine chi comprendesse
nella condanna perfino il Filebo. Ma queste negazioni non furono accettate
dalla maggior parte dei dotti, e ben presto sorséro difese vigorose, e si
escogitarono varie ipotesi pet colmare le lacune, e conciliare le discrepanze.
Se non che a parer mio mentre la difesa fu felice, e riuscì a mettere fuori di
dubbio l’autenticità di questi dialoghi, non toccò pari fortuna alle ipotesi
esplicative, che tutte offrono difficoltà gravissime. Epperò io ardisco di
esporre un'ipotesi nuova, che patmi sfugga gli ostacoli, in cui ruppero le
precedenti. Se essa sia da adottare, o almeno meriti l’onore di una severa di-
scussione, giudichi il Lettore. Catanzaro. ESPOSIZIONE DEL SOFISTA. Socrate ')
dimanda allo straniero interlocutore se nel suo paese per Sofista, Politico e
Filosofo s' intenda la stessa cosa, ovvero se questi tre nomi corrispondano a
tre oggetti diversi. Non è molto facile rispondere a questa dimanda, perchè
sebbene tutti ammettano correre molta differenza tra il Sofista, il Politico e
il Filosofo, pure non è age- vole il determinare ove la differenza stia,
stantechè uno dei termini, il Sofista, ha natura sì diversa e mutevole e si
mostra sotto tanti aspetti, da richiedersi abilità non comune ad afferrare e
fissare il valor suo. Che cosa è dun- que il Sofista? Lo straniero pregato da
Socrate si mette a questa ricerca, e innanzi tutto descrive il metodo che 4) Il
Sofista, com’ è noto, fa seguito al Teeteto. In questo. dialogo, dopo.una lunga
ed intraleiata discussione sul concetto. della scienza, Socrate tronca il
discorso colle parole viv pèu où armavtartov por, cis Thv. tav faerdéws arodv
ini. thv Meditov ypaphv, du pe yeyparmta:: dndtu di, dè Sebdwps, despo radcv
araviduev. E Teodoro e Tee- teto tengono l’ invito, e l'indomani vanno da
Socrate, menando seco. per giunta uno straniero. Nel principio del Sofista
FTeo- doro, ‘alludendo. alle uliime pargle del Teeteto dice: nerd riv xi
duodogiav, db. Zabipareg, Muoten aùrol; re nogpiros. Al Sofista poi tien dietro
il Politico, il quale ultimo dialogo ricorda il primo 6 s' ha da seguire. Per
definire una cosa, sia pure l’arte del pescatore all’ amo, bisogna riaddurla ad
un genere, e per via di accurate suddivisioni percorrere tutta la serie delle
specie che nel genere sì racchiudono, per trovare quella in cui è compresa la
cosa da definire. Così diremo dell’ arte del pescatore all’amo, essere ella tra
le arti acquisitive, acquìsitiva non per contratto ma per violenza, e con
violenza non aperta ma subdola, ed esercitata non su oggetti inanimati, ma
sugli animali; e propriamente sugli animali acquatici. E questi animali non si
prendono senza offenderlì, eome nella pesca alle reti, ma ferendoli; non di
giorno ma di notte, alla luce delle fiaccole; e non percuo- tendoli dall’alto
in basso, come sì usa coi tridenti, ma solle- vandoli dal basso in alto con un
gancio, che s' infigge nelle mascelle. In simil guisa sì può trovare una buona
definizione del .Sofista. Perchè la Sofistica anche essa è una specie di
caccia, come la pesca all’amo, caccia di animali terrestri e per giunta
addimesticati, e propriamente della specie u- mana e, tra questa, dei giovani
più ricchi e nobili, cuì il Sofista alletta colla lusinga della scienza per
ricavarne il proprio vantaggio o la mercede in denaro.) Ma se per questa parte
la Sofistica ci sembrava doversi annoverare tra le arti acquisitive per
violenza, risguardata da un al- nelle parole 258. A Searrite pèv odv abrés te
cuvimfia ydts did I6yon ec, In tutti e tre questi dialoghi intervengono in
parte gli stessi interlocutori, Teodoro, Teeteto, Socrate. Nel Sofista vi si
ag- giunge uno straniero di Elea, e nel Politico, oltre a questi Socrate
juniore. È netevole che in questi ultimi due dialoghi Socrate fa da spettatore,
e }a parte principale invece è soste- nuta dallo straniero d' Elea, il quale
parla in tone dommatico, e lungi dal ricavare dalla mente stessa del suo
interlocutore la verità (nel che consiste la majeutica socratica del Teeteto)
gliela presenta bella e trovata, perchè all’interlocutore resti solo
l'assentire o dissentire Grote. Nate . . ù tro aspetto par che si alluoghi
meglio tra le arti, che con- quistano per mutuo consenso. Il Sofista ora ci
apparisce come un trafficante a minuto, che compra discorsi e co- noscenze per
rivenderle di città in città al migliore offe- rente '). Ma ecco di nuovo il
Sofista mostrare un’ altra fac- cia, e secondo questa non dobbiamo più classare
la sua arte tra le acquisitive per mutuo consenso, ma tra quelle che acquistano
per forza, forza non adoperata di soppiatto, come ci pareva nella prima definizione,
ma palese ed aperta. Se- nonchè le armi di cui il Sofista si vale sono le
parole, e la lotta a cui si esercita è la disputa, fatta privatamente non
innanzi ad un tribunale, e sempre collo scopo di pro- cacciarsi danaro #).
Secondo le diverse analogie adunque il Sofista talvolta sembra un cacciatore,
talvolta un merciaio ambulante, tal- volta infine un lottatore. Ma non sono con
questo esauri- te le forme che può prendere questo Proteo. Qual’ è il ri-
sultato che ottiene il Sofista nelle sue dispute? Quello di confondere l’
avversario, e di mostrargli come fosse vana la pretesa di sapere quello che in
fatto non sa. Que- sta presunzione dell’ ignoranza è il peggior male che vizii
l’anima, soffocandone il bisogno della seria ricerca. Ed in questo senso la Sofistica,
che ne libera da sì gran male, può rassomigliarsi all’ arte del crivellatore
che cerne il grano dal loglio , e Platone di mal animo è costretto a confessare
essere il Sofista per questo verso una specie di purificatore , sebbene presto
soggiunga corrervi tra l’ uno e l’altro la stessa analogia e la stessa
differenza, che in- tercede tra il cane ed il lupo).. v. 2390 D xa cò Deyygov
Mexréoy ds dea peylera xo KUPLOTATA Tv ua Fhpaeoy tomi. 3 Considerata a tal
guisa l’ arte dei Sofisti non differisce gran | fatto in fondo della famosa
ironia socratica !), ma Platone. s° affretta a ritogliere loro l'onore concessa.
I Sofisti nella lorp disputa non tralasciago nessuna scienza od rie.
‘cominciare dalle cose divine ed invisibili sino alle cause del nascere e del
perire, alla legislazione, alla morale, alla politica, tutto presta argomento
ai loro di- scorsi. Ma egli è mai possibile che un uomo possa nel con- tempo
essere parimenti esperto in scienze così disparate? L'apparenza d del sapere,
non la scienza vera essì posseggono, e la Sofistica. per tal guisa entra nel
novero dejle arti imita- tive, ma ‘di quelle che non riproducono esattamente le
co- se, ‘eopiandole come sono, sibbene guastandole e trasfor- mandole in
fantasime “i; (t%v dh pàvtagpa dI oùa cixéva ars p- Tagopnma rigva . Ma qui ‘sì
presenta una grave difficoltà, che tocca i più astrusi problemi della metafisica
di ‘quel tempo. Che cosa È il ‘simulacro? È T apparenza bugiarda d'un 0g etto
ve- ro. Il simulacro dunque è tutt'altro dell'oggetto che rap presenta , e
rispetto a questo può benissimo dirsi che non sia). In generale ogni discorso
falso, essendo ’ lo opposto della verità, racchiude in sè i il non essere (non
vero). Ma” come è possibile pensare il non essere 9 Non ci ricor- diamo i°
versi del divino Parmenide, che vietavano di pen- sire al non essere, ‘come
impossibile a concepire? E Par- menide non avea torto , perchè la mente, quando
pensa il non essere, vacilla e sì confonde. Da ‘una parte al non essere non
possiamo attribuire nessun predicato, neanco il più generale; non la realtà,
non il numero; € per. questo verso il non essere è impensabile: ed
inesprimibile. 2) 232 C— 236 D. 2 V. Hegel. Geschichte der. Philos, II. in SUA
| è Da ut’ altra pirte diderido il non esséré, gli attribuiamo purè l’unità; e
nei medesimi giudizii surrifériti è impensa- bile è inesprimibile gli
predichidino puré una entità #. Non è questa una contraddizione ? Ma sébbene il
idheetto ‘del rion essere sia così oscuro, dobbiamo tuttavia studiarlo me-
glio, perchè tolto di mezzo il non-essere, è tolta, lo ri- petiamo, la
possibilità dell'apparenza, dell’ingaritio e dello errore ; ed un Sofista, al
quale voi ritiproveraste la sua ante mensognéra, vi potrebbe accusare di noh
sapere quel che diciate’, perchè non è fattibile pensare ed e- sprimeré il
falso. Oecorre duntjue rifarsi da capo, ed industriarsi a provare contro li
sentenza di Parmenide, che il rion essere per certi rispetti sia al pari
dell’es- sere, e per certi altri non sia?) Ma per comprendere la natura del non
essere fa d' uopo studiare |’ altro terrilinè correlativo, l'essere. Che cosa è
l'essere, o megliò qual’ è il sostrato, che permane costante nell’ incessatite
movi- mento delle cose? Se ci fatciamo a studiare le risposte. che dettero i
filosofi antisocratici; scorgeremo di leggieri che l'essere non offre minori
difficoltà, ed è un ednccettò non meno oscuro del non essere *). Vi. sono
alcuni che ammettono, i principii di tutte le cose essere ot tre, br due come
il caldo ed il freddo, ovvèro l’umido e l’asciutto. Ma a costoro possiamo
dimandare: il caldo ed il freddo sbno entrambi i veri esseri, oppure è tale uno
solo di essî? Se sì atttmette questa seconda ipotesi, allora l’ essere non è
duplice, ma uno. Se sono entrambi, si può: dimandare: l’esseré che loro si
predica è tutt'uno con essi,’ o ne è . 76v toù rarpòs Mappévidov \6yov
avayuaior npiv dpuvopivo fora Pacaditivv rad fabea dar té te uh dv ds fori vato
ti xai tè dv aù mal dg ob fari mo. | 3) 243 C. 40 separato-? Se separato,
abbiamo tre principii non più due, vale a dire l'essere, il caldo, ed il
freddo; se poi è tutt'uno, il caldo ed il freddo si uniffeano in un concetto
superiore, quello dell'essere, e così l'essere è di nuovo uno '). Vediamo ora
se mieglio s' appongano quelli che, core Senofane e Parmenide, sostengono
l’unità dell’ essere. In- nanzì tutto è strano che mentre voi ammettete l’unità
del- l'essere, -lo chiamiate poi con due nomi Essere ed'uno?). Dippiù l'essere,
secondo la stessa testimonianza di Parme- nide, sì può considerare come una
sfera od un tutto. Se è tutto, ha in'sè parti, come a dire, il principio, il
mezzo, il fine, e la sua unità non è pura, come quella del sem- plice,.ma
derivata. Il tutto, unificando le parti, partecipa dell'unità, ma nòn è l’unità
stessa. Di quì l'essere non è uno. Se poi si negasse il tutto, si negherebbe la
genera- zione , perchè le cose nascono quando le parti divise sì riuniscone in
un tutto 3). Ma se si contraddicono tanto quelli che in grazia della
moltiplicità negano l’unità, tanto gli altri che in grazia dell'unità negano la
molteplicità, vediamo se meglio rie- scano quelli che, conciliando le due
posizioni, ammettono insieme e l'uno e i molti, o per dirla più ‘chiaramente,
quelli che ammettono molte unità originarie. ‘.Fra costoro bisogna distinguere
quelli che, come gli Ato- misti, tengono queste unità primitive per atomi
materia- li, e quelli che le hanno per entità o forme ideali. I primi non
conoscono altro se non la materia, e tutto quello che non si-può percepire coi
sensi, lo negano affatto. Ma 1) 243 D — 244 B. 2) 244 GC. 3) 245 D. Quest’
argomento non colpirebbe gli Eleatici, i quali non temevano per fermo di negare
la generazione e GUAS siasi movimento. di " dimandiamo a costoro l’anima,
la giustizia non sono pur qualcosa di reale? E passi per l’anima, ma
la'giustizia si può considerare come qualcosa di corporeo? E frattanto si può
dubitare che la giustizia sia, mentre per la sua pre- senza l'anima nostra
acquista un dato abito, che smette affatto quando ella s’allontana? 1). Se la
giustizia è quella appunto che rende l’anima giusta, è certo una realtà,
imperocchè ciò che ha la po- tenza o di fare o di patire qualche cosa, esiste
in verità, anzi l'essere non è altro se non la potenza stessa ?). Da questa
definizione lo straniero trae partito per com- battere l’altra scuola -di filosofi,
che riconoscono alle unità primitive un’entità ideale, ma, per opporle al mondo
della generazione, negano loro la facoltà di agire o di patire 3). Se la cosa
stesse così, queste idee non potrebbero neanco essere conosciute, perchè il
conoscere e |’ essere conosciuto non sono anch'esse un’ azione e passione? Ed
anche negato che l'essere conosciuto sia un patire, non cessa per questo
l’assurdo di rifiutare alle idee, che sono le vere realtà, la vita, l’anima, il
movimento e l’ intel- ligenza 4). Affermando l’esistenza delle idee abbiamo
-conciliato la prima opposizione dell'uno e dei molti, affermando ora che sono
vive ed operose, concilieremo un’ altra : opposizione, che ebbe pur luogo nella
filosofia antesocratica, vale a dire tra coloro che negavano 11 movimento, ed
attribuivano all’ Essere l’assoluta quiete, e coloro che negavano la quie- te,
e sostenevano che tutto si muova eternamente senza posa. Entrambi, Eraclito e
Zenone, rendevano impossibile 1) 247 A. 2) 247. E cidepar yàp 6pov dpikev tà
dvra, dg fer oÙx &Mlo te iv duvapuc. | 3) 248 C. 4) 248 E. 12 la
conoscenza, la quale non può stare senza l’' intreccio del» moto e della
quiete. Se tutto fosse in continuo moto, il conoscere non avrebbe nessuna
stabilità, ad ogni istante il vero diverrebbe falso e reciprocamente. Se
d'altra parte non ci fosse punto movimento, non ci sarebbe nessuna attività, e
di conserto neanco la conoscitiva 1). Resta dunque fermo che tanto il riposo
quanto il mu- vimento sono. Ma qui si riaffaccia la stessa difficoltà, che |
facevamo a coloro, che ammettono due principii delle cose, quali il caldo ed il
freddo. L'essere è tutt'uno col movi- mento o col riposo, o pure è un concetto
più largo, che entrambi li abbraccia, senza confondersi con nessunos dei due?
Egli è chiaro che l'essere non può confondersi col movimento, perchè in tal
caso il suo opposto, la quiete, non sarebbe. E parimenti non potrebbe
confondersi colla quiete , perchè a tal modo non esisterebbe il movimento. Non
resta dunque se non ammettere l’altra ipotesi che entrambi, il riposo ed il
movimento, partecipino dell'essere senza confondersi con lui. Paragonando
l’idea dell’essere con quella del movimento e del riposo, vi scorgiamo adunque
un rapporto di comunanza. D'altra parte dallo studio dei due concetti di movimento
e riposo raccogliamo che si escludono, vale a dire l'uno non è l’altro, e
l’altro non è l'uno. Epperò il rapporto, che corre tra queste due idee, non è
quello di comunanza sib- bene di esclusione ?). E se di queste tre idee alcune
co- municano fra loro, ed altre si escludono, quello che noi diciamo di queste
tre, possiamo dirlo di tutte le idee. Se si ammettesse una esclusione assoluta
fra le idee, l'una non si potrebbe predicare dell’altra, e cadremmo nell’ er-
rore dei Megarici, ì quali negavano la possibilità del giu- 1) 249 B. 2) 249 E
— 250 E. 13 dizio. Imperocchè non si potrebbe dire secondo loro « So- crate è
buono »; « Socrate è giusto »; ma solo Socrate è Socrate, il buono è buono. Ed
in tal caso non potremmo parlare nè pensare. Per lo contrario se s’ ammettesse
che tutte le idee co- munichino fra di loro, ne seguirebbe potersi il movi-
mento predicare della quiete e viceversa, il che è as- surdo. Resta dunque che
ci sieno parziali rapporti di co- munione, e parziali rapporti di esclusione.
Le idee più ge- nerali, abbracciando le specifiche, si predicano di queste; ma
le idee specifiche tra loro si escludono. È ci vuole una scienza non comune per
iscoprire questi rapporti, scienza che Platone, come è noto, chiama dialettica,
e che in questo luogo definisce per il dividere per generi 1). Potremmo
applicare questo processo dialettico a tutte le idee, ma per non perderci,
soggiunge l’ Eleatico, nella loro moltitudine, scegliamo i generi sommi
(peliotwv iefoptvwv) vale a dire quelli che finora abbiamo discusso: l'essere,
il moto, e la quiete, e le altre non meno necessarie, il me- desimo e il
diverso. Il medesimo non può essere la stessa cosa dell'essere, perchè in tal
caso siccome il movimento e la quiete partecipane entrambi dell'essere, così
pure par- teciperebbero del medesimo, vale a dire sarebbero la stessa cosa. E
tanto meno l’ idea del medesimo potrebbe confon- dersi con quella del movimento
e del riposo. Bisogna dunque considerarla come una idea a parte. Dite lo stesso
del diverso. Il diverso non sì può confondere col- . l'essere, perehè in tal
caso al di fuori del diverso, in cui si esaurirebbe tutto il concetto
dell'essere, non ci sarebbe nessuna altra realtà, mentrecchè il diverso si dice
sempre rispetto a qualche cosa, che stia fuori di lui. dr 41) 253 D. roùro
d'iarw, f te xorvevsiv fvaora divara al dn ud, dra- xolvev vatà qivos
enioraagdta. li 14 . Le cinque .idee generali trattate nel Sofista sono dunque
l'essere, il movimento, il riposo, il medesimo ed il diverso. Esaminiamo ora
ciascuna di queste idee in rapporto con tutte le altre. Togliamo ad esempio 1l
movimento. Per una parte, il movimento partecipando dell’essere, possiamo dire:
egli é; dall’altra, non essendo tutt'uno coll’essere, diciamo non è. Del pari
in quanto è uguale a sè stesso partecipa dell’ idea del medesimo, e in quanto
l’idea del movimento non è tutt'uno con quella del medesimo, non è il mede-
simo. In qnanto non è le altre idee è diverso, e in quanto l' idea del
movimento è tutt'altra di quella del diverso, si può dire: il movimento non è
diverso. E non bisogna, dice lo straniero, meravigliarsi di questo discorso,
perchè i predicati contradittorii non si attribuiscono nello stesso senso. În
generale possiamo dire che ciascuna idèa è e non è, è per rapporto a sè
medesima, non è per rapporto a tutte le altre da cui essa differisce. Ciascuna
idea dun- que racchiude in sè l'Ente che è unico (la sua propria entità) e il
non-ente, che è infinito, cioè di tanto si di- larga, per quante sono le altre
idee da cui quell’ una è distinta '). Qual è. il risultato di sì lungo
ragionamento? È questo solo di aver conosciuto in che consista il non essere.
Il non essere non è l’opposto assoluto dell'essere, il nulla; no, è un altro
essere, che, in quanto si distingue dal primo, non è quello. Il non-ente,
secondo Platone, è il diverso ®). Di quì non c'è nulla di strano che il non
essere esista, e che esista per conseguenza il brutto, l’ ingiusto ed
altrettali. Non perchè queste idee sieno una negazione 1) 256 E. mepì inaotov
Apa tiv eidiv mo)d pév dari td dv, drapov di riad 6 pù dv. 2) 257 B. orérav cò
pù dv dt oUx dvavtiov ti Myopev où vros, &Il' èrepov puòvor, 45 rispetto
alle altre come il bello, il giusto, non per questo cessano di avere una
propria entità: Possiamo dunque ar- ditamente conchiudere contro Parmenide: il
non essere è. E questo non essere, che. in fondo non è se non il diverso,
esiste dappertutto, ed anche i discorsi ne accol- gono una buona parte. Il
discorso non ha luogo se non quando ad un nome s’ accoppia un. verbo. Or quando
noi riuniamo violentemente insieme un nome ed un:..verbo che ripugnano fra
loro, come nel caso di Teeteto vola, ovvero il circolo è quadrato, facciamo un
discorso non corrispon- dente alla realtà delle cose. (Questo discorso non è
vero. E lo stesso possiamo dire del pensiero, il quale non è altro se non un
discorso parlato internamente '). Dopo questa lunga discussione, che. sembra
fatta per intramessa, mentre è la. parte principale del dialogo, Platone
ritorna al. concetto del Sofista. La sofistica, dice- vamo va collocata tra le
arti imitative, e l’arte imitativa. è una specie dell’arte del fare. Ma l’arte
del fare a sua volta si bipartisce nell'arte divina e nell’umana. La divina .
può fare che sia ciò che prima non era?), l’umana poi sta nel comporre di
queste cose create. prodotti artificiali. Ciascuna di queste due arti si
suddivide di nuovo in due altre, vale a dire nella produzione delle cose é. in
quella dei simulacri. L'arte divina crea le cose, minerali, piante, animali ,.
e produce i simulacri, come adire i fantasmi che ci appariscono in sogno, le
ombre che sì veggone nel. fuoco quando vi si projetta l'oscurità, ed infine le
imma- gini che si riflettono negli specchi *), Ed anche nell'arte umana st-ha
da distinguere pure quella che produce le 41) Tedvora piv abrîie repàs dauràv
Yuyfic'dadoyos., 263 E. 2) 266 B. 3) Il passo 266 C. intorno agli specchi è
questo: durdoùv d° ivin’ dv gig oiueidv te xa &Iidrpiov Tepi tà dmurpà nad
deîa cis dv 16 cose, da quella che produce le immagini; come ad esempio
l'architettura serve a fabbricare le case, e la pittura ritrae in tela
l'immagine della casa reale (266 C.). Quest arte produttrice delle immagini era
stata suddivisa di sopra in quelle che fa copie esatte, e nell'altra che
produce pal- lidi simulacri. Quest'ultima anch'essa sì divide in quella in cuì
ci serviamo di strumenti esterni, e nell’ altra, in cuì adoperiamo il nostro
corpo, come quando ci ser- viamo della nostra stessa voce per contraffare
quella di un altro. Quest’ arte l’addimanderemo mimica. E questa mimica può
esser «fatta o conoscendo bene l'oggetto da imitare o non conoscendolo punto.
(Quest ultimo caso ac- cade ad es. a coloro che cercano d'imitare la giustizia,
e si danno per maestri di virtù senza conoscerne l'essenza. La prima imitazione,
cioè quella fatta con scienza la chiameremo istarica (rv dé per imcaripins
iotoperiv ta uiunow). l’altra fatta per ignoranza la chiameremo imitazione
secondo l'opinione (Setopupneertv). E in quest'ultima arte ci sono gl imitatori
semplici o di buona fede, e gli altri che sono ben conti della loro ignoranza,
ma sanno dissimularla, e che possiamo ben dire imitatori ironici. Degl'
imitatori iro- nici alcuni esercitano la loro arte in pubblico e in lunghi
discorsi indirizzati alla moltitudine, gli altri |’ esercitano EuveXSòv tic
fumposdev eitdulas èpaws ivaviiav aladImaw mapiyov etdoc d- mepyatara.. ll
Cousin Sofista p. 318 dice questo passo molto o- scuro. Ma il Martin,
fondandosi sulla teorica platonica, svolta nel Timeo, dei due fuochi, l'uno
proprio del nostro occhio o luce interna, e l'altro fuori di noi o luce
esteriore, lo spiega netta- mente. così: « Quando la luce propria all'organo
(otxstov) s'in- contra sovra una superficie pulita o levigata colla luce esle-
riore, talchè le due luci formino una sola, nasce un'immagine che produce
un'impressione contraria a quella della visione ordinaria. » Cousin ha
malamente interpetrato l’ oèxstov tradu- cendo propre a un corps, errore che
confonde tutto il senso del passo. Martin Etudes sur le Timée II. 158 (nota).
17 privatamente, con discorsi a dialogo, e costringono l’inter- locutore a
contraddirsi. Se 1 primi si chiamano oratori. pubblici, gli altri si hanno a
dire. non saggi, ma imitatori in falso del saggio, in una parola Sofistì 1). 1)
267. 3. 268. D. La tavola seguente riassume questa mi- nuziosa classificazione:
ARTE DEL FARE x_oenLvogy YP9©z<9z°=z—Ò“_Òè_—>2—2—» DIVINA è UMANA N inn
—_r — in? — _asg TC : ì . _|produttrice prcautzice DIORIUEETICE produttrice
|"g: imagini di cosc d’ imagini di Cose che sono: e copie | simulacri vere
prodotti: in re ue cono- igno- scendo | randolo l'oggetto per ST in Tn
ignoranza |ignoranza semplice | ironica: iroia -| ironia csercitata|esercitata
in in pubblico | privato e per e per dicorso | dialugo. 48 CAPITOLO II. CRITICA
DEL SOFISTA. Ecco la trama del Sofista, divenuto celebre per le qui- stioni che
vi si aggruppano. Questo dialogo è autentico, ovvero s' ha da annoverare tra
quelli che falsamente si attribuiscono a Platone? Qual'è lo scopo principale di
esso? E forse la definizione del Sofista, o piuttosto la dottrina del non Ente,
o infine la cosidetta xowovsie delle idee? Quale rapporto ha il Sofista cogli
altri dialoghi platonici, o meglio qual posto conviene al Sofista nello
svolgimento del pensiero platonico? Per ora mi restringerò alla prima
quistione, a quella dell'autenticità, e toccherò delle altre quel tanto che si
riferisce ad essa. In seguito, quando avremo esposto ed esaminato gli altri
dialoghi dialettici, il Frlebo-ed il Parmenide, ci verrà fatto di discutere a
fondo gli altri problemi. . L'autenticità del Sofista venne negata prima dal
Socher ') alle cui dimostrazioni nessuno prestò fede. Lo stesso Ueberweg, che
nella memoria sugli scritti platonici com- batteva vigorosamente l’ autenticità
del Parmenide, dimo- strava con egual forza la schiettezza del Sofista e del
Po- litico 2). Ma di lì a poco la tesi del Socher venne ripresa e sostenuta con
maggior copia di ragioni dallo Schaar- schmidt in due numeri del Rheinisches
Museum ?). A que- sta critica rispose l’ Hayduck, le cui censure vennero re- 4)
Socher Ueber Platon’ s Schriften. Minchen 4820 p. 258-278. 2) Untersuchungen ùber die
Echtheit und Zeitfolge platoni- scher Schriften von Fr. Ueberweg. Wien. 41861. 3) Neue Folge. XVIII. 1-28; XIX
63-96. i ! 19 spiàte dallo Schaarschmidt nel lavoro di maggior lena che
pubblicò sulla « collezione degli scritti platonici » 1). Lo Schaarschmidt
incomincia la sua critica dalle testimo- nianze aristoteliche, che sono di
tanto peso nella quistione dell’autenticità. Nel sesto della Metafisica
Aristotele dice: Platone in un certo senso non a torto stima che la Sofî- stica
tolga ad obbietto 1 non Ente. Perchè i discorsi dei Sofisti si aggirano tutti
intorno all’accidente..... e l'acei- dente sembra non molto si dilunghi dal non
Ente. ?) Questo passo di Aristotele collima a capello col 264. A del Sofista in
eui è detto « .....il Sofista s’invola nella tenebria del non ente, e vi ci si-
adatta, perchè riesca impossibile il diseoprirvelo stante l'oscurità del luogo
» 3). Questo passo di Aristotele è tra quelli, in cui sì adduce il nome di
Platone, tacendo il titolo del dialogo. .Ma è sta- bilito come un criterio
saldo, che allerchè in un passo di questa natura sia ricordata un’ opinione o
una dottrina svolta solo in un determinato dialogo e non in altri, que- sto
dialogo si possa tenere come citato autenticamente da Aristotele, sebbene non
venga nominato. E nel caso nostro non e’ è altro dialogo platonico, del Sofista
in fuori, in cui si discuta la teorica del un dv e .si stabilisca esser questo
l’ oggetto della Sofistica. Si può invero osservare che Aristotele nel riferire
la sentenza platonica usa i pat- sati drafev, tipe, il che vuol dire non avere
egli pre- sente il dialogo, che cita, nel qual caso suole sem- 4) Die Sammlung
der platonischen Scriften von C. Schaar- schmidt. Bonn 1866. 2) Atò IMaray
cpérmov tivà où nane Thy coporizdo mepi cò pù dv tra- Eev. elor qip ot tiv
Foprariv Idyor mepi tò cuuBefnuds... paiverai Yi prò cup- BeBnxdg Fppie n roù
pò évros — Met. VI. 2. 1026. E più chiaramente nella Met. XI. 8. 1064. B. Aeò'
Mary di'xanéòé eîpniie pid tiv go- piethv Tept tò pù dv diarpifieto. 3) ‘0 iv
&fodepiorv ele chv 1ov pù dvros oxorevimita, voiBn rpoda- medpevos avre,
did tò Guoremòv ToÙ térov xarevoiéa: valends. i 2 20 pre usare il presente. Ma
ciò non importa che Aristotele non conosca il dialogo, bensì che citi di
memoria, come fa altre volte della Repubblica e del Timeo 1). Lo Schaarschmidt
non crede che il passo di Aristatele si possa riferire al Sofista, e adduce
molte ragioni, tra le quali io presceglierò questa che mi pare più grave: Ari-
stotele interpetra il pò èv platonico come identico al eu Bea, determinazione
che è affatto ignota ‘all’ autore del Sofista 3). Ma egli è noto che Aristotele
traduce sem- pre «nel suo linguaggio il pensiero platonico , e non parrà strano
che anche in questo caso si valga della sua consueta libertà. Nè mal s’ appose
di scambiare il non Ente del Sofista coll’accidente, come ora dimostreremo. Nel
So- fista il non Ente non è tolto in senso assoluto, ma esprime il rapporto di
diversità tra un concetto ed un altro. Così ad esempio il concetto dell'ente,
differendo dal concetto di moto, non è quello, o per dirla alla platonica, è non
ente rispetto all’altro ®). Il concetto del non ente nasce dunque dal rapporto
di esclusione di ciascuna idea da tutte le altre. Ciascuna idea riguardo a sè
stessa è quello che è, è un ente, riguardo a tutte le altre si distingue da
esse e le nega, è quindi non ente. E come queste altre. idee sono infinite di
numero, così Platone suol dire che ciascuna idea come Ente è una, è lei e non
altra; come non ente poi si trova in tanti rapporti di esclusione, per quante
sono le altre idee da -cui s1 separa, o per dirla col linguaggio 5) V.
Ueberweg. op. cit. p. 153. 2) Schaarschmidt. op. cit. p. 100 e p. 196. 3) 258
D. ‘Hpeîs dé Yodù pévov dg fon tà pù évra dmdetapo, ddià uz tò ctdos è Tuygavei
Gv toù pù bvros atepava eda Thy Y%p Sarkpov qu- ou amodeltavtes ovadv te xat
ARTAREREPATLI pevav inàù mavra tà dvra mpòc @\nXa. Il Grote giustamente mette
in evidenza questo passo del Sofista che riduce il concetto del non-ente a
quello del. diver- so — Opera citata II. 446. | . A platonico « in ciascuna
idea vi ha di molto essere e d’ in- finito non essere » 1). Secondo la mente di
Platone dunque ciò che determina l'idea è l'elemento positivo che in essa si
racchiude; perchè l'elemento negativo, il rapporto di eselu- sione da tutte le
altre idee, non aggiunge nè toglie nulla al suo contenuto. Epperò. questo
rapporto poteva benis- simo essere considerato come accidentale. Io sono un de-
terminato individuo, quali che siano le altre persone con cui per fortuna mi
trovi a contatto *). ‘Ammettiamo per poco che il Sofista non sia platonico, ma
con qual diritto, possiamo -dimandare, Aristotele attri- buisce a Platone la
sentenza che il Sofista si occupi solo del pù è? Schaarschmidt dà due risposte.
La prima che Aristotele abbia potuto ricavare questa sentenza dal vivo
insegnamento del suo maestro, e non bastandogli que- sta supposizione,
congettura abbia potuto altresì rica- varla dal VI. della Repubblica (492, A
494, B). Ivi è detto che ciascuno di questi privati mercenari, che i più
chiamano Sofisti, e pimano loro rivali, non insegnano al- 4) V. passo citato,
pag. 14 nota 1. 2) Il Ragnisco nella sua pregovole Storia Critica delle Ca-
tegorie 1, 206 risolve in altro modo questa difficoltà. Secondo lui il
non-essere del Sofista è precisamente la materia, che è mutabile ed accidentale.
Vedremo a suo luogo che il non-ente del Sofista non sia la stessa cosa della
materia — Qui solo. dirò che a parer mio il Ragnisco esageri alquanto il valore
della dialettica platonica nel Sofista e nel Parmenide, e la raccosti molto
alla dialettica eghelliana. Per Hegel la negazione è in- tima al concelto, e
senza essa non se ne potrebbe determinare il contenuto. Omnis determinatio est
negatio — Per Platone la negazione è affatto esteriore, ed Aristotele poteva
benissimo soggiungere accidentale. Platone dichiara espressamente che uando
parla dell'ente e del non-ente di ogni idea lo, intende in due sensi diversi e
rimprovera colui che dicesse étev qé tu dtepov Sv my radriv tiva pa nad drav
ravrdv dv Erepov, ixetva nad rar dxeivo, (Sophista 259 D.) Allusione che si deé
certamente riferire ad Eraclito. 22 tro se non le stesse opinioni della
moltitudine; e questa chiamano seienza.... Il vero filosofo all’ incontro, che
giu- dica il vero hello, ad es., star da sè e non potersi eonfori- dere colle
cose belle, ed in generala l'essenza trovarti nell’uno e non nel molti, non può
a meno di essere frari- teso e schernito dal popolo '). Il Sofista adunque,
segue lo Sehaarschmidt, in opposizione al filosofo, nen guarda se non
all'apparenza, secondo il costume del volgo, e come l'apparenza è un non ente
rispetto alla vera rbaltà, qual meraviglia che dal passo della Repubblica
Aristotele abbia inferito che l’ arte del Sofista si. versi sul ndan ente? Ma
questa, come si vede, sarebbe stata uria deduzione fatta da Aristotele, mentre
il passo dice chiaramente che Pilar torie stasso si sia servito di questa
caratteristica ?). . Ueberweg al passo citato della Metafisica ne aggiunge un
altro .tolto dal de partibus animalium, il quale con molta probabilità sì può
riferire al Sofista, In questo passo è detto « non conviene spezzare un. genera
upico, comp a dire gli uccelli, in mado cue una. parte di esse si collochi in
una divisione, ed un'altra in una tutta differente. Er- rano così le
Ys7pappévar diaipioss Ove una parte degli uccelli è posta cogli acquatici, ed
un altra in un genere di- verso 3). » Questo passo di Aristotele si .accomoda
bene ad una delle classificazioni del Sofista, secondo la quale ta caccja si
divide in due categorie, quelle degli animali pe- destri e l’altra dei nuotatori.
E quest'ultima sì suddivide in altte due, l'una dei nuotanti nell’arià o
volanti, e l’al- 4) VI. 493 E. | 2) Zeller, Philosophie der Griechen Dritte
Auflage 1874 II. 339. 3) ‘Er dè rrpocsua pù digoràv sxaotov givos, ‘otov tTode
Opvdag Tove pév ev Rin, tods d'év Rig dioupioci, xaddmsp èyovaw gi peypappivar
dar pérers' Eusî yop toùs puiv perà ov ivod tv ovpbaive Tegpnna. ar, toùe d' dv
CINI qivei — De part. anim. Lib. i Cap. o. 23 tra dei nuotanti nell'acqua 1). A
questa etassificazione si può in parte muovere il rimprovero aristotelieo,
perchè le due sottospevie di rriviv xeì vodpor non si escludéno così, che una
parte del genere rrvvòv, vivendo nell'acqua, non entri nel genere &uipu».
Molto più calsanti sarebbero questi rinp- preveri per la classificazione data
nel .Politicus 264 D; ma il risultato perla quistione che ora ei socupa; torna
sem- pre le stessa, petehà l'autenticità del Palitieua kyae dom sè quella del
Sofista, che nel primo dialogo, come dicezamo è testualmente citato ?). Sfortunatamente
però. questo pesto aristolelico non cos- tiene nessuna indicazione sull’autere
delle #iassiou ep però solo can qualche probabilità si può sospettare vhe
Aristotele intenda -parlare di Platone a del Safiata. Molto più chiaro è un
altro passe della Metafisica, citato dall’ Ueberweg e dallo Zeller, passo che
per giunte spande molta luse. sugl’iatendimenti del Sofista. « Parve a taluni,
diee Aristotele, che tutte le cose si debbano gidurre alla unità — vale a dive
all’ Ente. uno ++ se non si nelolga D resista all’argomentare di Parmenide «
non mai ti venrà 4) ZuoIupeio È ap'eò Fardetw dida du Mporeo dv dixp;, cò pelli
mezed Finuc...., Td d' &repgv vevenpoli;... Nevorizp) priv Td piv srsavdp
sguign dep pev, tò d' tvudpov; 220, A. 2) Ueberweg. 153 e segg. Ychaarsctimidt
(Op. cit. 102) sa trarre partito dall'asserzione di Alessandro Afrodiseo, il
quale, sull’autorità di Filopono, dice essersi le yeypappétva: diarpirers ma-
lamente attribuite a Platone. Se dunque, soggiunge, sono spurie queste
yrypappivar Baiptraz, dev'essere sputio eziandio il Sofista, nel quale sono
inserite. A quest’argomento rispose l'Hy duck, ta di cuìè membdria non m'è
riuscito di procacctarmi. Ma so- spetto che TÎà risposta dett'Hayduck sà.k
Stata ‘di Questo tetto= re: Postò ànchè che sià verà l'àsserzione
del’Afrodiséo, que- GIGA vuol dire altro se non che non esista come dire di one
‘utr trattato speciate cot titolo’ ytyp. Uaip. Ma Cid non importa che le
diapidtt del Sofista, e con esse tutto Il dialggo noti sta -pratenico. 0 © | vi
AU fatto di comprendere che il non-ente sia. » Di qui dicevano esser necessario
si dimostri che il non ente sia; co- siochè gli esseri constino dell'essere e
di qualcos’ altro, se pur si voglia an mettere che ne esistano molti. » E più
appresso soggiunge Aristotele: Si pretende anche che il falso sia la stessa
.cosa del non ente, del quale poi insieme all'essere sono costituite le molte
enéità. Per lo che biso- gnerebbe presupporre il falso, a quel modo che i
Geometri presuppongono sia un piede ciò che non è tale 1). Come questo passo
riproduca quasi colle stesse parole alcune profonde considerazioni del Sofista,
il lettore lo può argomentare dall'esposizione che abbiam fatto del dialogo.
Nel 244 D. lo straniero chiede a Teeteto « .di grazia non lo tenga per parricida,
ove egli ardisca di discutere la sen- tenza parmenidea {riferita nel 237. A.) e
dimostrare contro quella che il non ente in certo qual modo esista, come per
converso che.anche l'ente per un rispetto non sia ?). » Che l’altro passo
Aristotelico corrisponda a capello col 240 A del Sofista, da noi già riprodotto
nel corso della nostra esposizione, non bisogna di altra prova 3). Lo
Schaarschmidt a torto crede che questo passo non sì debba riferire al Sofista,
fondandosi sulla speciosa ragione che Aristotele non intenda parlare di
Piatone, bensì dei pla- tonici, come risulta chiaro dalla parola wes che egli
a- dopera 4). Ma Aristotele in tutto il libro XIV. esamina 4) Met. XIV. 2. Su
questo passo ci..accadrà di tornare in altro lupgo. * 2) Mé pe olov marpadota»
Urodaftgc Yipperdai ca. Ti di; 161 cod ra- tpéc Tappevidov Abyov dverpuaior
muiv Guvvopévors dora facavitay xaù fd Cerda c6 te pù sòv We Teri natd ci val
TÒ dv aù mad dg oÙx for Ta. 3) V. anche il 240 C. in cui è detto chiaramente,
essere la mescolanza dell'ente e del non-ente, che si trova nel simula- cro, un
forte motivo per le negazioni della sentenza parme- nidea, secondo la quale
xwvduste roreurnv tivà merdiyda: cova ONÀI tò pù dv cò bvrr val più &roroo.
4) Op. cit. p. 105-6. | n TR “a 5 una nuova fase della dottrina platonica,
secondo la quale le idee si accostano ai numeri pitagorici, e come quelli
racchiudono in sè medesime l’unità e la molteplicità. Non intende dunque
parlare solo dei discepoli, ma dello stesso maestro !). Una sola osservazione
si potrebbe fare coll’ Ueberweg 3 ed è la seguente: mentre nel passo
aristotelico la molte- plicità delle idee sarebbe una conseguenza
dell'esistenza ‘ del ua s»; nel Sofista l’esistenza del pa sv è tratta dalla
mol- teplicità delle idee. Ma l’ Ueberweg stesso non mette molto peso a
quest'osservazione , perchè Aristotele ol- tre al riferirsi al Sofista, avrà
potuto benanco far tesoro delle discussioni, che avean luogo in seno della
scuola, secondo le quali dalla critica del sistema di Parmenide si traeva l’
esistenza del non-ente, e da questa poi la plura- lità degli enti ideali, e la
xowevrie fra di loro. Tutte queste testimonianze aristoteliche, che a vicenda
si rafforzano, mettono fuor di dubbio l'autenticità del So- fista. E questa
dimostrazione basta da sè sola; imperocchè quando l'autorità del più grande
discepolo di Platone ci assicura dell’autenticità di uno scritto platonico,
tutti gli argomenti in contrario, che sì possono ricavare dal suo con- tenuto,
non hanno alcun valore. Poniamo pure che sia riu scito al Socher o allo
Schaarschmidt di dimostrare che le dottrine del Sofista ripugnino alle altre
racchiuse nei .mi- gliori dialoghi platoniei, non dovremmo per questo inferire
che il dialogo sia spurio, ma solo che Platone non sia sempre rimasto fedele
alle sue dottrine. Per non citare che un esempio solo io mi varrò di due dia-
loghi che sono tenuti entrambi autentici dallo Schaarschmidt, 3, Su questo
punto ritorneremo a suo luogo. V. Zeller IL pag. 400. 2) Op. cit. p. 158. 16
voglio dire..ta Repubblica è le Leggi '). Non sono forse pro- fonide le
divergenze tra questi due dialoghi? Mentre nella ‘Repubbkiea l'ideale del
governo è V’assolutismo intedligente, ‘in ewi governa seconde la ragione il
vero filosofo , nelle leggi il miglior governo è quello, in cui vengano contem-
perati gli elementi monatchiei e democratiei. Lì i suprémi gorematori, essendo
la personificazione del vero filosofo, nen hanno bisogno nè di controllo, nè di
leggi scritte; qui si richiede che i varii peteri dello stato s' invigilino a
vi- cenda, e che le leggi, la sola autorità che non muta mai, sieno così
minutè, che le autorità non debbano campletàrle di testa loro, e non facciano
altro se non eseguirle. Nella Repubblica le parti delle virtù, corrispondenti
alle tre parti dell'anime, sono la sapienza, la foriezzà, la temperanza e la
giustizia; nelle Leggi alla sapienza, alla vera virtù filosofica, è sostituita
la prudenza; a questa segue la temperanza , poscia la giustizia, e solo nell’
ultimo luogo è posto il coraggio, che è considerato piuttosto come una dote
naturale, anzichè una virtù. Il posto che nella Re- pubblica éra tenuto con
tanto onore dalla Filosofia, nelle Leggi viene usurpato dalla Religione, e
nedlo stésso inten- dimento l’ onore che vien fatto nella Repubblica alla Dia-
lottica, si trauferisce. nelle Leggi alla Matematica. Nelle Leggi non c'è più
traceia di quelle classi sociali che ri- spondevano alle tre parti dell'anima.
La classe dei filosofi o governatori dello stato è ‘abolita di netto, e vieh
sosti tnita -da vari consigli sdelti per suffragio. Il popolo 0 Stub non è più
quella massa inerte ed inorganica, che nella Repubblica nom ha altio ufficio se
non di lavorare. pet le 4) Op. cit. p. 5 Nur neun Dialoge als unzweifelhaft
echt hetraghtat werden dirfen, nàmlich Phaedrus, Protagoras, Ga- stmahl,
Gorgias, Republik und Timaeus, Theaetet, Phaedo, Geselze, i 27 classi superiori
piorédoras. E si è nobilitato, poichè, af- fidate agli schiavi l'agricoltura e
le arti più vili, eser- cita una parte attiva nella costituzione dello stato,
scegliendo da sè i giudici, e i vouogudexes e i membri del Senato. Nelle Leggi
non si conserva nè la comunanza dei beni, nè quella delle donne, e invece sono
indette pene severe per le in- frazioni contro il dritto di proprietà e della famiglia.
Che più ? Nelle Leggi si dichiara espressamente esservi due sorta di spiriti
quello del bene e quello del male, mentre secondo l'antica dottrina platonica
l’anima era intrinseca- mente buona, e, fra tutti gli esseri, quello che più sì
ac- costava alla natura delle eterne idee. E non la finiremo più, se volessimo
addentrarci in maggiori particolari. Ma che perciò? Basta forse un così aperto
contrasto per mettere in dubbio l’autenticità delle Leggi? Non dobbiamo
piuttosto inferire che la dolorosa esperienza della vita avesse tarpate le ali
all’audace fantasia di Platone, egli fosse venuta meno la robusta fede
nell’onnipotenza della Filosofia, e nella sua attitudine a governare gli Stati?
E che ci vieta di am- mettere del pari nel Sofista e nel Parmenide uria
parziale trasformazione della dottrina platonica? Ma noi non vogliamo valerci
di queste buone ragioni, e volentieri seguiremo lo Schaarschmidt nella critica
in- gegnosa, che ei trae dal contenuto del dialogo, sicuri che questo studio ci
fornirà una più intima conoscenza della opera platonica. Noi non metteremo
molto peso ai dubbi che attinge lo Schaarschmidt dalla stessa introduzione del
dialogo. Se- condo lui, Socrate in questo dialogo è muto spettatore, e rinunzia
alla sua usata arte majeutica, che fa sprigionare il concetto dalla vivace e
drammatica discussione dei casi particolari. Ei si rassegna ad ascoltare la
pesante esposi- zione dell’ Eleate, pel quale la forma dialogica è affatto 28
n. esteriore #1 suo discbrso, e destituita del valore e dele l' iiteresse che
Platone le attribuisce nel Fedro. Ed ariché Teeteto in und mitté è affatto
cangiato. Mentre nel dialogo del suo nome ci si mostra comé giovane di pronto
ingd» gno, che colle sue acute osservazioni e risposte conferiscé allo sviluppo
del dialogo, qui parla a monosillabi, è not fi permette la più lieve
opposizione. Ma chi ci assicura chè Platone non abbiti voluto a disegno dare a
Sotraté tin fiosto secondario in questo dialogo, ove si éntra nei più riposti
penetrali della Metafisica astratta, ed bve si discutono pre+ blemi eosì
lontani dal fare socratico? Anche nel Timeo Socrate è un muto ascoltatore, è
non muove néssuna opposizione al discotso del filosofo pitago- rico. E nel
Tiineo stesso balla forma dialogica sottentra l’espositiva, il the non sembra
fatto a éasò, perché tanto in questo come nell'altro dialogo sono introdotti
filosofi di polso i quali, nél coricetto di Platone, debbono parlare alla lorò
maniétà. Ammessi questa fofma tra meéessario chè Teésteto rispondesse a quel
modo per accomodarsi al de- siderio dello straniero, al quale facea di bisogno
di un interlocutore docile € non molesto '). Nè maggior casò mi sembra debba
farsi dell’altrò argomento dello Schaurschifiidt tratto dalla trivialità ©
dalle incorigruenze delle diarési, 0 classificazioni contenute hel dialogo. Non
dirò col Suse- fvihl che queste classificazioni siero fatte da burla e per
ironia, ma non perchè esse non stieno a fil di logica, nè perchè coritéàgano
gravi errori, giù rilevati da Aristotele, non pet questb dobbiamo drederle
indegne di Platone. In questi giudizi, che portiamo noi moderni sulle opere an-
tiché, dimentichiamo molto facilmente le éondizioni parti» 4) Lo straniero
stesso dice 247 C. Tò pé, è Suupers, @ivroe te val cinviws mposdialezopivo faov
ovrw, Tè repòs AMow ei di pù, rò xad' aurdv. eolari del tempo in cui furono
scmtte. Certamente queste classificazioni a noi moderni, educati per così lunga
pezza al pensiero astratto, sembrano affatto puerili. Rià che sulla ri- gorosa
e severa analisi dei concetti esse par che poggino su vaghe analogie, ed or si
contraddicono trg loro, ed pra imirodueone nelle divisioni elementi estranei,
che ne seon- volgono Vinterna economia. Tuito questo è vero, ma te- niamo bene
a mente, che la ricerca esatta delle forme logiche, lo studio minuto delle loro
leggi e del loro mec- camsmo naeque con Aristotele. In Platone troviamo vaghi
aceenni, che potremmo addimandare piuttosto preparazioni ad una scienza dì là
da venire. È così per ciò che riguarda la classificazione, Platone non solo nel
Sofista, ma benaneo Rel Fedro vuole che sì raccolgano tutti i particolari in
una idea generale, di cui sì possa dare una definizione precisa, e che ottenuto
queste concetto, si degcomponga negli elementi suoi, o per cesì dire, nelle sue
membra, ponendo ben mente di nom mutilarne una parte, come farebbe uno scalco
inesperto '). E questo lavoro di scompesizione non deve cessare fino a che ner
si arrivi all'indecomponibile ?). Be gli preme dunque di definire che arte sia
la Sofistica, non risparmia nessuna fatica di scomporre da diversi lati -il
concetto dell'arte, per trovare #ra le :molte specie che essa racchiu- de,
quella ehe meramente merita il nome di Sefistica. Egli forse: più volte fallirà
all’ intento suo, ma ghe monta? Se wolessimo tenerci a questo criterio rigido,
e rifiutare tutte le opere platoniche in gui accada di scoprire gual- che menda
o sdi logica o di stile, ben pochi dialoghi 1) Fedro PI E. tè Foly xar sidn
divasda riprsw, xay &pdpa, n mipuia, pd pù drugenpaty seen Hspos pndiv vauali
porgeipay pd» APPAIA. 2) Fedrg 277 B. Geiaduefig ge mean ag’ aida pipi rod arms
ci- rica i abiti: | 30 si salverebbero dal naufragio. A questa stregua non sa-
rebbe platonico neanco il Protagora, in cui Socrate fa una lunga e sofistica
interpetrazione di una poesia di Simo- nide '), ed ove campeggia una aperta
contraddizione tra lo scopo del dialogo che è 11 dimostrare, la virtù non
essere insegnabile, e il concetto della virtù, che ivi si confonde affatto
colla scienza ?). Questa contraddizione verrà più tardi risoluta nel Menone, in
cui Platone abbandonerà la schietta dottrina socratica, ed introdurrà una
distinzione importante tra la virtù filosofica e la popolare; ma certo il
Protagora, risguardato come un tutto a-sè, non dovrebbe secondo i criteri dello
Schaarschmidt, essere annoverato nella schiera privilegiata dei nove dialoghi
autentici. Facciamoci ora a discutere le ragioni che lo Schaar- schmidt trae
contro il Sofista dalle contraddizioni che cor- rono tra questo e gli altri
dialoghi di Platone. Il Sofista, già dicemmo, par che si riannodi al Teeteto,
per ragioni non solo di tempo, ma benanco di concetto. Nel Teeteto Platone
traccia con mano maestra i confini tra l'opinione e la scienza. L'opinione può
essere o vera o falsa, la scienza O è vera, o non è punto. In.altre parole la
possibilità del- l'errore è esclusa quando si arrivi alla dimostrazione ri-
gorosa. Per questo werso il possesso della scienza è stabile e sicuro, mentre
quello dell'opinione è incerto e mutevole. Nella scienza la verità si acquista
colla prova severa, nel- l'opinione (quando anche si colga nel segno) colla
fede, che rampolla dall’abito o dal sentimento 3). Ma come è 4) Protagora 342
B. — 347 A. 2) Ivi 361 B. 3) Teet. 187 B. Nel Timeo 54 E. è detto che la
scienza si acquista per via dell’insegnamento, l'opinione mediante la per-
suasione. E questa s’ingenera mediante la rettorica, la quale non sì rivolge
solo alla ragione, ma a tutte le parti affettive dell'anima, e dei sentimenti,
dei pregiudizi e degl’ interessi si fa una leva potente per convincere gli
uditori. V. Gorgia 458 E Teet. 201 A. 3 possibile l’opinione falsa? Colui che
opina falsamente non sostituisce ciò che non è a ciò che è? E come può venir
fatto di pensare ciò che non è, mentre chi pensa ciò che non è non pensa punto?
!). Socrate scioglie questa difficoltà col trasformare il concetto
dell’opinione falsa. L'opinione falsa non sta nel pensare il non ente
assolutamente, ma nello scambio di un ente per un altro. Nell’anima nostra ci
sono alcune tavolette di cera, nelle quali si conservano impresse le immagini
delle cose vedute. Or quando io vedo venire da lontano Socrate e Teeteto, e non
li distinguo bene l'uno dall’altro, e l'immagine della tavoletta che ri-
produceva Socrate la riferisco a Teeteto e viceversa, allora m'inganno nella
ricognizione e scambio l'uno per l’altro *). Secondo questa spiegazione
l'errore non sta nè nella pura sensazione, nè nel pensiero puro, ma nel
rapporto dell'uno coll'altro 8). Ma non possiamo ingannarci anche nel puro
pensiero, per esempio nel calcolo dei numeri? Certo di sì, e l'errore quì nasce
per altra via. Imperocchè l’anima u- mana può essere paragonata a un colombajo,
in cui invece di piccioni sì conservino le conoscenze, e quando come | un
cacciatore inesperto, si scambia una colomba per una altra, o una conoscenza
per un'altra, allora nasce lo errore *). Nel Sofista si ritorna di nuovo sulla
tormentosa quistione della possibilità dell'errore, ma a mente dello
Schaarschmidt se ne dà una soluzione differente da quella del Teeteto. Mentre
nel Teeteto il pù avra dotaze si trasforma nell’aXo 1) Teet. 189 A. ‘O &pa
pù 6v dofator oUdiv dolditer — où palvera — dida pùv è ye pndiv dordtor tè
rmaparav oùdi dotkka. 2) 193 C. xa... rapalidbac rpoofkào tv inatipov dfuv mpòs
Taddd- Tprov onpetor ... tavriv radwv diaudpro. 3) 195 C. Oir' dv raîs
atoHicssiv... oUr'iv taîs Siavotare, dI dv Ta cuvepe. aio ticene npòc dedvocav.
- o 4) 199 A B. R dokgzen, NR Sofista si concede al pò sv una gerta realtà. Nel
Teeteto il pè é» (l'errore) lo s'intende nel senso lo- gicg, cioè come (reale)
separazione dei congetti, che nel giudizio (falao) sono pensati insieme; nel
Spfista al confrariò è mesa metafisicamente, come nen esistenza ‘del pensgto, e
di quì la necessità di ammettere ls del pò «ba !). Ma, se mal non erro, parmi
lo Schaarschmidt in guasto. raffronto. del Teeteto col Sofista ineorra in due
errori. I} primo nel tenere: che la soluzione data nel Teeteto sia intera, e
che Platone se ne accontenti; il secondo che la soluzione del Spfista non rigyerghi
cop quella del Tee- teto. E in quanto al primo punto basta selo leggere il 192.
D. e seg. per convincersene. Ivi Socrate a ragione osserva che tutta la
spiegazione, data dell'errore, che può aver luogo nel pensiero, sta in questo:
che, presuppasta già come . posseduta la conoscenza, si sbagli solo
nell'adoperarla nel caso conereto *). Or non è assurda, soggiunge Sograte, che
l’anima pas» segga già in sè la scienza, e che fraitanta nqn conosca nulla e
‘ponfanda tutto??) e Teefeto risponde ingenua» mente; ghi ci impedisce di
ammettere ghe nell'anima pra- sigta ngn solo la scienza, ma anche l'ignoranza,
e che in quella caccia di cui si è parlato si colga l’una per l'altra e l’altra
per l'una? Allora sì che il: problema è risoluto, ma presppponendo come dato quello
stessa che si fdewga ri- salyere, E Socrate, aggprtosi della vanità di questa
scap- CE Pag | 1) Op. cit. p. 199. 2) Per Platone. che ammetteva came
preesistente nell’ gni- ma la cognizione dell'eterna idee, è nabtrale. ehe
l'errore nan. possa cadere Rella cognizione stegsa, nea aglla ricognizione,
cioè nel riferimentò, di ciò che cade satto.la coscienza, col tipa.ideale, che
+ anima, pegulta. pel fapdo pacase della gua peminiscenga. 3) 199 DI. eroripns
rapayevontns quangi pi tai dvacho padie, dpi ca dè mavra; 8 patoii, rificàlza
il gibvitibtto: ma mb mai essendo noi in possesso tanto Uella stienza quanto
dell'ighotanta, non | s$ippiamo discerierlà l'una dàll’altta, è scambitino la
prima bolla seconda? Non torna più inestricabile arnitora la diffi- coltà di
prima? 1). Ed il giovinètto, vinto, si confessa Hi: sadatto à sgroppare questo
hodo. Né Socràle ti si provà neanche lui, ima toòna di nuovo alla dèfirizione
deltà scienza. Nel Teetéto adurque la Soluzione della difficoltà intorho
all'érrorè non è tcothpitta, 0 per lo manco, sè purè questa soluzioné sia
quella che Platonè tiéhe pet vera, è che meglio risponda alle sue dottrine
metafisiche, tuttavia non sorio tmosse le dubbiezze, e lo scrittore non
ihtendé, per fermo di dissimutarle. Esartiniamo ora l’altro punto. Abbiarno già
dettò ché nel Sofistà il non ente ron è tolto in serbo assoliltò; Hà behsì in
quello di d'fferente, di Glito*). Infeso così il ndr ente itriefviené hut purè
nel regno del sensibile, da ditthe ih quello dellè idée; imperocchè anthé le
ide vetigéinò tàpprésentatò comé tàrite monddi, lè une-fuott delle hltie. Sè
non ché non tutte si escludono ad egual modo, fha albunté in verità ripugnanò
trà lorò, altre si subordinanò èòbrté specie a geritré. E questa relatività è
ld sorgente dello èritte, perchè noi possiamo unitt quelle idéè che si esétu-
dbhé, ò separàre lè altre che s'inchiudono. E lb #t6896 actade dei discorsi. A
quel modb ché delle lette det lalfabtto alcun si adattano benè, cerit le véedli
bllée din- sotadti éd altre no; riella Stessa guisa delli parole altiò eh.
pusnattié fra lotd, dd altre concordano da forshità uh di- scorso 3). E che in
e’ riposta la falsita o la verità dei di- 1) Morspov apgporipas is sidic,
èruoripiiv TE Hel dvertataposimi; dv sidev èrspriv tn oîerai tuv'eivea div
cidev; 200 B. 2) Y, sopra pag. 20 nota 3.2 3) 262 D. 34 scorsi? Quando nel
discorso o diciamo meglio nel giudizio si attribuisce ad un soggetto un
predicato che gli con- venga, il giudizio sarà vero, e falso quando al soggetto
si attribuisce un predicato che gli ripugna '). Non è qui espressa in altre
parole l’aModéra del Teeteto? Possiamo dunque tener per fermo che la voluta
opposizione del So- fista al Teeteto non è vera, che anzi il Sofista per questa
parte compie la dottrina del Teeteto, perchè trova nella relatività delle idee
la fonte dell’errore, che può interve- nire anche nella cerchia del puro
pensiero ‘ Ma se in questo punto non possiamo convenire collo Schaarschmidt,
siamo pienamente d'accordo con lui intorno alle altre opposizioni, che egli con
molta finezza scorge tra il Sofista e il resto dei dialoghi platonici. Le idee
pla- toniche sono le ipostasi dei concetti, che Socrate avea posto come fine
supremo dell'attività scientifica, e che per fermo non poteano avere stanza nel
mondo sensibile, sot- toposto all'eterna vicenda del divenire eracliteo ?). In
quella penombra tra la. poesia e la speculazione, che è il carattere proprio
del filosofare platonico, i concetti si trasformano in entità ideali, le quali,
staccate dalla mente che li pro- duce, e dal mondo che governano, non albergano
nè in cielo nè in terra, non nell'anima nostra, e neanco nello spirito divino;
ma sono in sè medesime, esistono da per sè, sempre uguali a sè medesime,
immutabili ed immu- tate ®). Il politeismo ellenico non è vinto, ma rinasce
nella dottrina platonica sotto una forma più astratta. Ogni idea è una divinità
a sè, chiusa e compiuta in sè medesima; 1) 263 D. 2) Vedi il passo di
Aristotele Met. I. 6. 9841 citato le cento volte degli storici della Filosofia.
3) Il Convito 211 A. dice non essere l’idea del Bello avdi tu Idyoc, oUdé ris
imoriun, ovdi mov dv èv stepw tu, oiov dv ao È dv PM Î Ev odpavò, i Ev To ida,
all'abrò rad'aùrò ped'aitoi povosidà; del Gv. 35 e nessuna dì esse ha maggior
valore delle altre. Ed a ra- gione alcuni storici della Filosofia 1) han
paragonato le idee platoniche alle monadi del Leibnitz e dell’ Herbart,
ciascuna indipendente dalle altre, è ricalcitrante ad ogni comunicazione con
‘esse ?). Secondo questa posizione, di ciascuna idea non si può dire altro se
non « è ciò che è » e quando togliamo l idea come soggetto di un giudizio,
diremo che a questo soggetto non si possa attribuire un predicato diverso da
lui. Così non ci restano se non i giu- dizi identici « il bello è bello, il
bene è bene » e simili 8), Ma d'altra parte le idee platoniche emerse dal
concetto socratico, sebbene vengano rappresentate come entità ideali uniche ed
indivise, le quali ben si potrebbero dire indi- vidui intelligibili, pure,
conservando sempre il carattere del concetto socratico, sono l’universale. Ed
in ciò, secondo il Teeteto, si distingue la conoscenza scientifica dalla per-
cezione, che quella è ristretta a ciascuna delle smgole im- 4) Strùmpell Die
Geschichte der theoretischen Philosophie der Griechen p. 124. i 2) Timeo 52 A.
tò xarà ravrà eidos #yov, dytrmator nad &vasdedpov, oUte ero faurò
siodeybpevov &llo &llodev ovte aUtò cis &Xlo rar idv, &6pa- tov
ecc. Rep. VI. 507 B. INalw aò xeridiav uiav dudetov de peg oÙ- ong tSivtes d
fam Exastov rposayopevoper. 3) Questa dottrina è accennata nel Sofista 251 B.
sùdù yàp avriafbicdar mavri mpoysipov dic &d'ivarov TÀ TE mollà iv nad tò
îv rro)da siva: nai dirov yaipovamv cÙx d@vtes dyadov Vega dvipuror..... xaù
Urrò mesviag hic mmepi gqpomon xriceos rà tabte tedavparier. In questo passo
Platone parla dell’impossibilità di attribuire al soggetto un predicato diverso
da sè, come d'una dottrina non sua, ed in- degna di essere tenuta in quel
favore, che incontrò presso uo- mini, che per povertà di mente ammirano, come
verità profon- da, una arguzia infelice. Questo tono di disprezzo è ta migliore
provà che Platone qui intenda parlare di altri filosofi , i Me- garici per
esempio, tra i quali s'ha da ricordare Stilpone, di cui dice Diog. L. II. 119.
#eys, tèv Afyovra &vSporov siva: (sèretv?) padiva obre ydp cévde Mfjero
odre révde. Ma non si può negarè che a questa stessa conseguenza debba menare
la sfessa feorica di Platone delle idee considerate come unità indipendenti. 36
pressioni con esclusione delle altre, questa le raccoglie tutte in un fascio,-
e scoprendone l'elemento comune, pe- netra addentro nell’essenza della eosa!).
Se dunque le idee sono gli universali, e se gli universali non hanno eguale
estensione, egli è necessario he nelle idee inter- venga un rapporto di subordinazione.
Così togliendo ad esempio le tre idee del Sofista, l’es- sere, la quiete, il
movimento, la prima è al certo più universale delle altre due, perchè tanto la
quiete che il movimento sono; le due seconde poi, come meno generali, non
potendo subordinarsi l'una all'altra, si escludono. Di qui nelle idee
interviene quel rapporto, che nel Sofista vien detto xorvovsia rav ?Yevov, la
cui dimostrazione forma, se- condo il Bonitz, l’ intendimento principale del
dialogo. Se vogliamo riassumere in poche parole l'opposizione tra questi due
modi di considerare le idee, diremo: dall’aspetto on- tologico le idee debbono
essere tenute come individualità, o monadi ideali separate le une dalle altre,
dall’ aspetto logico al contrario sono gli universali, che comunicano e si
subordinano fra di loro secondo la maggiore o minore estensione *). Ma non
soltanto nel Sofista Platone ammette una su- bordinazione delle idee; chè anche
in altri dialoghi, come a dire nella Repubblica, il mondo ideale è ordinato
gerar- chicamente. Se nonchè in questo dialogo il motivo dell’or- 4) Teet. 185
B. oùre yap dr'axotie osta di dewg vi6v Te tò xorvòv dap- Bavarw rep aùriv. 186
D. 'Ev piv &pa toîs madipacwv od, în imeripa dv dè to mepi txgivov
ovidogiopò: ovelas yip xad aindela: svravda pòv, de sorxs, duvariv tlacFa, iusi
d adivarov. Fedro 249 B. «idos ix rodlay idv aloFiaeav sic sv Vogiopò
Euveporpevor. 2) Quest'oscillazione del platonismo suggerisce ad Aristotele una
delle sue gravi obbiezioni Met. XIII. 9. 1086 dare ovpfai- ve oyediv tds ara:
quaes siva. tds xadéiov val TdG ad’ ixaotov. « Si corre il pericolo che le idee
sieno al contempo universali (co- me concetti) ed individuali (come sostanze).
» 37 dinamento non è più logico, ma teolologico. Platone, fido discepolo di
Socrate , parte nelle sue ricerche filosofiche da un motivo etico. I dialoghi
del primo periodo, che vengono detti socratici, come il Liside, il Carmide, il
La- chete, 1’ Eutifrone, l’ Ippia minore, il Protagora trattano argomenti
etici, e tutta la filosofia platonica, fino nelle più ardite speculazioni, è
penetrata da un elevato sentimento morale. Il disprezzo del mondo sensibile; la
finezza nel deridere la volgarità della vita, e il disdegno nel flagel- larne
le brutture; l’inquieto desio nel vagheggiare l'ideale, e l'arte squisita nel
colorirlo, sono tratti spiccati della filo- sofia platonica. E quest’ indirizzo
etico ed idealistico separa nettamente la filosofia di Socrate e Platone dalle
prece- denti. Chè se in queste dove più, dove meno predomina l'intuizione meccanica
del mondo, in quelle per contrap- posto la vince di gran lunga la teolologica.
E così profonda è questa differenza, che nel Fedone Socrate non intende
risparmiare nessuno dei filosofi anteriori, neanche Anassa- gora, il quale non
sapendo cavare quel partito, che dovea, dal concetto del fine, non lo adoprava
se non in quei casì disperati, in cui non gli riesciva di determinare le cause
effi- cienti ').. Platone non merita certamente questo rimprovero, che anzi,
dove gli si porga il destro, s’ industria di svelare la finalità della natura,
a grave discapito della spiegazione scientifica. Così nel Timeo vi dice che la
forma del mondo debba essere sferica, perchè a questo immenso animale, che deve
in sè contenere tutti gli altri, la figura più conve- ‘ niente sembra essere
quella che racchiude in sè tutte le figure. E questa è la forma orbicolare, la
più perfetta e la più eguale a sè stessa di tutte le forme. E parimenti .la
testa dell’uomo è pure un corpo sferico ad imita- zione della forma
dell'universo *). Il collo poi rassomiglia 4) Fedone 97 B. 99 D. 2) Tim. 33 Be
44 D. 98 un istma, che serve ad unire la sede dell’anima razionale con quella
dell'anima mortale, ed essendo quest'ultima divisa in due, in una parte
superiore o Svpòc e in un' infe- riore 0 teSupyrizò», gli Dei frapposero fra le
dimore di en- trambe il diaframma, pari a quello steccato ché serve a dividere
gli appartamenti delle donne da quelli degli uomini 5). Secondo questa
intuizione il mondo è adunque una eatena continua di mezzi e di fini, fatto ad
immagine delle eterne idee, che ora vengono considerate come i supremi mo-
delli o paradimmi delle cose ?). E come in questa catena non tutti i fini hanno
lo stesso valore, perchè alcuni sono mezzi per fini superiori e così di
seguito, lo stesso certa- mente deve accadere per gli eterni archetipi. E per
tal guisa si spiega come nella Repubblica Platone abbia messo a capo di tutte
le idee, quella dell'ultimo fine, o del sommo Bene, che a simiglianza del Sole,
non solo illumina ma riscalda e vivifica tutte le cose ?). Per dirla con
Platone, la ragione della supremazia del Bene è raechiusa tutta . nel celebre
passo del Timeo. « L'autore di tutte le cose, essendo buono, e non potendo
perciò accogliere invidia di sorta, volle che tutto rassomigliasse, per quanto
era pos- sibile, a lui medesimo *. » Ma certamente la subordinazione delle
idee, presupposta dalla Teolologia, non può essere la stessa di quella, che ri-
chiede la Logica. Considerate le idee dell'aspetto logico, 4) Tim. 69 E. Il
fegato serve a riflettere in sè, come in uno specchio, i pevsieri dell'anima
razionale, e così nascono le im- magini, secondo le quali si governa la
concupiscenza (71 B). La milza serve per raccogliere nel suo tessuto spugnoso
tutte le impurità che appannano il cristallo del fegato (72 C). 2). Tim. 29 A,
ci piv dà xadé; deri dda è xéepoc d te Inpuevpyò; d- yatdc, Îhiov, cis mpòs tè
didtor (mapadsiyue) #Piemev. 3) Rep. VI 508 A e segg. 4) Tim. 29 E. 3) il primo
posto spetta ‘all’ idea più generale ed indetetmi- nata, a quella dell'essere;
considerate dall'aspetto teolologico, spetta invece all’ idea del fine ultimo,
al Bene. E giu- sta adunque l' opposizione, che lo Schaarschmidt scopre tra la
Repubblica ed il Sofista. Nella Repubblica l’idea del Bene « supera per vetustà
e per potenza quella di essere »; nel Sofista le parti sono invertite!) e
l'idea dell’es- sere è detta la maggiore e precipua fra tutte *). E ben più
grave opposizione corre tra il Sofista ed il Fedone. In un luogo molto notevole
del Sofista lo stra- niero, battute le dottrine materialistiche, si rivolge
agli amici delle idee e dimostra loro che alle idee non si potrebbe negare nè
il patire, perchè, come conosciute, su- biscono l’azione del soggetto
conoscente, nè l’agire, per- chè sono il principio della vita e del movimento
3). Chi sono ora questi eifav più? Schleirmacher per il primo e poi l’Ast, 11
Deyeks, il Brandis, l’' Hermann, lo Stall- baum, il Suscmihl, lo Steinhart, il
Prantl e lo Zeller 4 4) Rep. VI. 509 B. oùx oùoia; dvros toù ayadol, il tr drrtxeva
tig obotas mperfeia xa duvaper Urrepéyovros. cfr. col Soph. 243 C. rep de où
peyiorov te nel dpynyod mpotor di exertiov. Tivos Th Mya; i) die dov, OT TÒ dv
pù rposrov Îeiv dispevvisacia.. 2) Il Bonitz aggiunge quest'altra opposizione.
Secondo l’ori- gine storica del platonismo le idee dovrebbero avere un de-
terminato contenuto (bontà, giustizia, bellezza ecc.) che è lo slesso dei
nostri concetti universali. Ma un'idea senza un con- tenuto determinato, (ein
was) come quella dell'essere, non po- trebbe silare da per sè, avrò xa9' abrò.
Nel Sofista dunque Pla- tone «berschreitet selbst den Bereich dessen, was aus
seinen Pramissen sich ergiebt. Ma con la tendenza che ha Platone ad
obbiettivare i concetti non parrà strano, che in quel dia- logo, in cui egli esamina
da per ogni verso l'idea dell'essere, se la rappresenti come qualcosa di
staccato ed indipendente dalla mente. Per questa stessa specie di miraggio non
si per- viene nella Repubblica (X. 596 A.) all’ idea del letto? 3) Il passo 248
A e segg. incomincia così wpòs dà toùs itipov imper, toùs tb «idv piove. 4)
Zeller Geschichie der Griech. Phil. I. 214 e segg. AO credono che Platone
intenda parlare dei Megarici; il che vien negato dal Ritter, e dall’ Ueberweg,
il quale, insieme allo Schaarschmidt ed al Socher, sostiene che qui l’autore
del dialogo intenda parlare della dottrina stessa di Pla- tone. E da questo
fatto trae partito lo. Schaarschmidt per addurre novella prova contro l’
autenticità del So- fista. Se il dialogo fosse di Platone, come mai.egli par-
lerebbe di una sua antica dottrina con l’ironia amara e pun- gente che ivi
s'adopera? Ma dello stesso argomento si serve Zeller non per infirmare il
dialogo, anzi per dimostrare. che l’allusione debba riferirsi non alla dottrina
platonica, bensì alla megarica; imperocchè, esclusa la platonica, non si
conosce altra scuola se non la megarica, che abbia par- lato delle idee, come
principii delle cose. (Quest argomen- tazione di Zeller rompe contro una
difficoltà gravissima, che è la precisa testimonianza di Cicerone, il quale
dice dei Megarici « id bonum solum esse dicebant quod esset unum et simile et
idem semper » ') testimonianza confermata an- che da Diogene Laerzio *) e resa
credibile dall'origine sto- rica di questa dottrina, la quale, come è noto, è
una tra- sformazione della dottrina socratica fatta nell’ interesse del puro
eleatismo. Per ritenere, non ostante queste testimo- nianze e probabilità, che
il passo platonico si riferisca ai Megarici, bisognerebbe concedere allo Zeller
un' ipotesi sussidiaria, vale a dire che gli Eleatici nel combattere il
materialismo antisocratico si sieno serviti della dottrina “delle forme ideali,
e che in seguito abbian ridotto tutte queste forme all’unica suprema del Bene.
Comunque stia la cosa, se anche Platone in quel passo sì riferisce ai Megarici,
egli è certo che la sua antica dottrina non si CIUDERVO molto da quella che
combatte 5 Ac. Il. 19. 129. 2) II. 106. oùroc iv tè dyadàv san moddoîc ivipari
xa)odpevov are uiv yàp ppévacw, drè de SFeòv, xat &ilore vovv xal Td
dorrrà, 4 nel Sofista. Non solo gli eiduv giler, ma anche lui stesso un tempo
credeva che le idee fossero immobili , e sot- tratte a quella eterna vicenda di
distruzione e rigene- razione in cui sta la vita, e sempre eguali a sè mede-
sime. Il passo del Fedone che riportiamo in nota è molto esplicito '). Anche
qui dunque c’è un'opposizione tra la antica e la nuova dottrina platonica.
Sccondo l'antica le idee, come opposte alle cose sensibili, doveano accogliere
predicati affatto contraddittori a quelli, che convengono alle cose , e se
queste, travolte dal flusso perenne, nascono e muoiono con infaticata vicenda,
quelle sono sempre eguali a sè medesime, e come gli Dei di Epicuro, beate della
loro immobilità. Ma d'altra parte le idee non sono semplicemente i paradimmi
delle cose, anzi le forze vive, che producono nel sensibile quell’ordine ed
armonia, di cui esso è capace. Di qui non potendo venir considerate come
inerti, all’ intuizione puramente ontologica deve so- stituirsi una dinamica. E
così nel Sofista il concetto dell'essere si trasforma, e l'essere non è più la
sostanza immobile, ma tutto ciò che ha la potenza di produrre un” effetto quale
che sia ?). Certo questo nuovo concetto non è scevro di difficoltà, ma neanco
il primo ne andava esente; perchè secondo l’intuizione ontologica le idee, come
inerti, non potrebhero aver neanche la virtù di trasfondersi in parte alle cose
sensibili. Di qui il rimprovero di Aristo- tele che alle idee manchi la causa
efficiente 3). Egli è ben vero che Platone nel Timeo ripone questa causa
motrice in Dio, il quale, ispirandosi nelle eterne idee, trae dalla 4) Fedone
78 D. # de avriv inaorov, è tor, povosidàe dv aùrò rat abitò, v9aitws xa xatà
taurà Fysr vat oùdi mor ovdapi oùdapie &À- Motway ovdepiai evdéygera:; 2) V.
Capitolo precedente, pag.-11 nota 2°, 3) Met. I. 9. 991, 42 materia eterna un
mondo fatto a simiglianza di quelle; ma lasciamo da banda che questa
esposizione è così mitica, che mal si potrebbe dire ove cessi la
rappresentazione, e dove cominci la schietta speculazione; non è pure inconce-
pibile che mentre si dice esser le idee il vero e solo reale che stia da sè, si
ammetta poi un altro essere, che abbia una realtà diversa ed una potenza
maggiore di quella delle idee medesime? (Questo Dio non sarà lui stesso una
idea, e la suprema, come a dire il Sommo Bene? La dottrina dunque ontologica
delle idee mena di certo a gravi difficoltà, ma non minori son quelle che
suscita la dottrina dinamica. Secondo quest’ ultima le idee sono forze o
principii efficienti; ma in tal caso non potrebbero essere più staccate del
mondo, come esige la teorica stabilita. Queste incertezze e difficoltà spiegano
benissimo l’oscillazione del pensiero platonico. Riassumiamo. Il Sofista è
autentico. I passi di Aristo- tele non possono riferirsi ad altro dialogo. Gli
argomenti contro l'autenticità, ricavati dal contenuto, in parte non ten- gono,
ed in parte più che dimostrare la falsità del dialogo, servono a provare
piuttosto una successiva trasformazione della dottrina platonica. In che consista
questa trasforma- zione, e quali sieno le ragioni che la promossero, esami-
neremo più tardi, quando avremo esposto il contenuto ed assicurata
l'autenticità del Filebo e del Parmenide. CAPITOLO III. ESPOSIZIONE DEL FILEBO.
L’intendimento del Filebo è di provare che il sommo bene non s’ abbia a porre
nè nel piacere, nè nella sola saggezza, ma in siffatto intreccio dell’uno e
dell'altra, che questa predomini su quello. Degli interlocutori del dialogo
Protarco e Filebo tolgono a somme bene la voluttà, So- crate la saggezza,
intesa in un largo senso !). La disputa ferveva già pria che incominciasse il
nostro ‘dialogo, e Filebo vigorosamente incalzato da Socrate, perdutosi d'a-
nimo , avea lasciato il suo posto all'amico Protarco. Ed a costui Socrate rivolge
una dimanda in apparenza molto semplice, se cioè ei creda che ci sieno dei
piaceri opposti; ovvero se il piacere, che prova l’uomo temperante, po- niamo,
si confonda con quelli dell’ intemperante, e il pia- cere, che trae lo stolto
dalla sua ignoranza, sia tutt’ uno con quello, che al saggio deriva dalla
scienza. Protarco per tema, che nella dimanda si nasconda un' insidia, risponde
risolutamente di no; imperocchè , egli dice, per quanto i piaceri, di cui
parlate, sieno prodotti da cause diverse, pure hanno tutti la stessa natura, e
son tutti piaceri ad un modo. Questa risposta, per salvare l’unità del genere,
negava le opposizioni, che possono intervenire nella specie. E Socrate,
rilevato opportunamente questo errore, osserva che non solo il piacere, ma benanco
la scienza possa rompersi in alcune specie opposte fra loro, (come a dire
scienze spe- 4) Tò ppovsîv, xal tò vosîv xa tò pepvioda: xod tà covrisv aù
Euyyevi, Sebav t'dpdthv naî &InIets Voqpiopods. Fil. 11 B. d 44 culative e
scienze pratiche); il ehe egli, se domandato, non avrebbe esitato a constatare,
essendo convinto non cor- rere per questo alcun pericolo l’unità della scienza
stessa. E da questa considerazione particolare, levandosi a più alto cielo,
Socrate osserva essere tale la natura meravi- gliosa dell'uno, di accogliere
anche nel suo seno i molti, il che non accade solo nel mondo sensibile, ove è
am- messo da tuttij ma benanco nel regno delle idee '). Quì le. dispute sono
più gravi, perchè alcuni meftono in dub- bio l’esistenza stessa di queste
monadi ideali; altri diman- dano come possa accadere, che queste monadi, non
am- mettendo in sè nè nascita nè morte, sì conservino pure sempre identiche a
sè stesse ?). Altri infine dubitano se queste monadi debbano dividersi o
moltiplicarsi, quando. penetrano nel mondo sensibile, ovvero se abbiano a con-
servare la loro unità, sebbene escano di sè stesse; il quale ultimo partito
sembra assurdo, perchè l’identica cosa dovrebbe essere ad un tempo ed in sè ed
in molti 5). Checchè ne sia di tali duo questo è certo, che il rapporto
dell'uno e dei molti s' incontra dappertutto 4), ed il giovane, quando per la
prima volta lo scopre, sì crede in possesso di un tesoro, e non si stanca di
sottoporre ogni cosa a questo processo di scomposizione nelle molte - 1) 14 C.
5) Il'senso di questo passo sarà forse questo, che la mede- simezza della
sostanza si riveli in mezzo alle continue muta- zioni. Così io riconosco la mia
identità personale dal sentirmi uno attraverso la vicenda dei miei pensieri, o
desiderî. 3) 15 B. si twas Tel rorautas civar povidas Urodapavaw anti odaac.
sita roq «ù rastac, piav iudotav ovaav del Tùv aUThY xRè pie yfuest prr'6-
Medpoy npoadexopévar, ops sivar BeBarbrata piav taimv perà di covr iv toîg
‘“pepvopévore al xoù Gmelpore sica deoraspivav xoù To))k peyovviaey Fe- zéov,
sid 0inv avTthv avtic goupis, d dh ravtov aduvatestarov palvorr'kv, taù- mò nel
du au'tv ivi ite nat oddeic Yipverda., 4) 15 D. Postate » 1% x 45 parti e di
ricomposizione nell'unità del tutto, e non ri- sparmia nè i suoi parenti, nè
gli amici, e non solo gli uo- mini esamina a tal guisa, ma gli esserì tutti
quanti. Gli antichi, che valevano meglio di noi, come più vicini agli Dei,
dicevano parimenti ogni cosa esser composta di uno e di molti, ed accogliere in
sè il finito e l'infinito. E questo processo di determinare prima l’idea nella
sua unità e poi le infinite specie in essa racchiuse, sì chiama la dialettica,
prezioso regalo fatto agli uomini dagli Dei, ed apportato col fuoco da qualche
Promoteo '). Ma quando si studierà bene la dialettica, si rileverà questo: che
ciò che dicesi l’ infinito, o la moltiplicità , nonchè disordinata , è anzi
sottoposta a leggi fisse numeriche. Così ad esempio il suono che esce dalla
nostra bocca è uno, (vale a dire è sempre suono) ma non sì rompe pure in una
varietà, che a prima giunta sembra infinita? Eppure questa infinita va- rietà
si riadduce a pochi suoni elementari, ì quali si distin- suono in tre serie, le
vocali, le consonanti e le mute. E dal diverso intreccio di questi elementi
nasce poi la prodigiosa varietà delle sillabe, e delle parole. Non v' ha una
legge in questi aggruppamenti ? Non sappiamo che le consonanti non possano
pronunziarsi se non accoppiate colle vocali? Stabilita l’unità, è d’uopo
adunque determi- nare le relazioni numeriche, prima di saltare a piè pari alla
moltiplicità infinita ?). Seguendo questo metodo, noi possiamo convenientemente
dividere il piacere nelle sue specie, e studiare se corra fra queste qualche
opposizione. Ma per il problema che ci occupa non occorre neppure questo; chè
basta solo mettere a raffronto il concetto del sommo bene con quello del “ A
Bey ud slo pr dio... modày ix Bey ippipa dà rivos MO paSiot due pavotdrà rin
mupt. 16 C.. | 2) 7 B—18 D. 46 piacere e della saggezza per argomentare le loro
discre- panze. E qui s' apre una serie di osservazioni psicologi- che acute ed
ingegnose, che pel volgere di tanti secoli non han perduto ancora la nativa
freschezza ed origina- lità. Il sommo bene dev’ essere tale che basti a sè
mede- simo, vale a dire che, ottenuto questo, l'animo vi si acqueti e non
desideri altro. Il piacere ha forse questi caralteri? Il piacere, divulso dalla
saggezza, basta a sè medesimo? Non pare, perchè, intormentite le potenze
conoscitive, non potremmo apprezzare i piaceri stessi del momento, nè ri-
cordarci dei passati, nè congetturar nulla sullo avvenire. Saremmo in tal modo
condannati a vivere la vita di quei molluschi, che non si svolgono mai dalla
conchiglia, a cui sono attaccati. Ma d'altra parte neanche la saggezza, per sè
sola, non sarebbe il sommo bene , perchè la vita spesa nell’ acquisto delle
conoscenze, destituita di ogni diletto, arida, e non rinfrescata dal più
leggiero soffio di sentimento, non è certo desiderabile '). ll sommo bene
dunque non può stare nè nel piacere nè nella saggezza, perchè nessuno dei due
basta a sè medesimo, anzr |’ uno deve compiersi nell'altro. Ma in questo
intreccio a quale dei due spetta il primo posto? E se nè il piacere nè la
saggezza hanno vinto il primo premio, a chi dei due ha poi da conferirsi il
secondo? Ecco un'altra ricerca, alla quale non ci potremo mettere con speranza
di buon successo, se prima non converremo sul valore di alcuni concetti, che
occorreranno di frequente nella disputa. Questi concetti sono l’ infinito, il
finito, la mescolanza di entrambi e la causa di questa mescolanza *), non
occorrendo ‘ per ora trattare della separazione e della sua causa. L' ine 4) 21
E. Td raparav arnadàc (tiv)... oùdérepos è Pilos... aiperòs. 2) Tò pv areipov
.. tò di ripac... tò di dupoîv tovrow iv ti Guppuoyé- per... the Fouplbiwe
airia 23 CU. 4 finito non ha termine '). Le variazioni quantitative che
intervengono nel caldo e nel freddo, nel più e nel meno, non possono aver
limite, tornando impossibile che si per- venga a tal grado, che la nostra mente
non possa rappre- sentarsene uno superiore, e così di seguito. Il finito come
l'opposto dell’ infinito, accoglie in sè un termine, il quale serve a ridurre
l' infinita varietà, e a circoscriverla se- condo una certa misura. Per esempio
il doppio, l’eguale non possono accogliere se non una serie determinata di
numeri e non più. ll terzo concetto, vale a dire quello, che risulta dal
contemperare il finito e l'infinito, è ciò che dicesi misura, armonia; la quale
per fermo produce nell’or- ganismo la salute, nei suoni l'accordo, nella natura
la vi- cenda costante delle stagioni, nelle cose la bellezza e. la forza, e
nell'anima la virtù ?). In altre parole l’ infinito è la ‘vafietà innumerevole,
il finito è il numero determinato, la misura è la limitazione, apportata dal
numero, in quella varietà disordinata. Così 1 mutamenti metereologici sareb-
bero innumerevoli, ma nell'ordine della natura si succedono secondo una legge
fisica, che è quella delle quattro stagioni. In altre parole l'infinito qui è
rappresentato dai fenomeni metereologici, il finito dal numero quattro,
l'ordine dal corso delle stagioni. Ma come. è possibile che 1’ infinito venga
circoscritto per via del numero in una data misura? Il passaggio del disordine
all’ ordine non presuppone una causa efficiente? Questa causa, che ricorda il
demiurgo del Timeo, è il quarto concetto del Filebo. Stabilite queste
definizioni preliminari, torniamo ora a discutere la quistione intorno al
primato della saggezza 1) La dimostrazione del testo è un giuoco di parole 24
B. egevoptvas yAp Tedeviie nai avrò tetsdeurizerov. Accogliendo un termine
cesserebbe (cioè non sarebbe più infinito). 2) 24 A —26 D. 48 sul piacere ').
Non c’ è alcun dubbio che il piacere e il dolore appartengano al genere
infinito, perchè non si può dare un piacere o dolore determinato, che non possa
im- maginarsi un altro più intenso; e per tal guisa se il pia- cere fosse
limitato, non sarebbe il sommo, vale a dire tale che non se ne dia uno
maggiore. Dite lo stesso del do- lore. La ragione all’ incontro mostra una
natura affatto op- ‘ posta al piacere, perchè non solo essa è compiuta in sè
stessa, ed in tal senso finita ?); ma è altresì il principio di qualunque
compiutezza. Anche qui, come nel Timeo, la ra- gione o le idee, investendo il mondo
sensibile, recano ad ordine ciò che prima era disordinato. Epperò la ragione, 0
le idee appartengono al quarto genere, o all’ cirie *). Ma il piacere (una al
dolore) può essere studiato nella 4) In questo punto Platone osserva che la
vita beata, risul- tando dall’innesto della saggezza col piacere, appartiene al
3° genere, cioè al misto (27 D. xa pipoc y aùròv picopev siva où tpitov ivovs.)
Questa determinazione non è senza diffitoltà. Im- -perocchè in tal guisa anche
il sommo bene appartiene al ge- nere misto. Ma il Bene è anch'esso un'idea,
anzi secondo la Repubblica, è la massima delle idee. Ora le idee, o la ragio-
ne, come vedremo, non appartengono al terzo, bensì al quarto genere, cioè
all’atria. Del resto una volta per tutte dobbiamo notare che queste
determinazioni non sono tanto rigorose, che una analisi minuta non vi scopra
molte incertezze. Così per dirne una, il répas, come ha dimostrato Zeller, non
può essere che il numero. E Platone stesso più sopra ha notato, che tra l’ uno
e l’infinito tramezza il numero. Ma il numero stesso, es- sendo nè più nè meno
un molteplice limitato , circoscritto, apparterrebbe al terzo genere, eioè al
genere misto. Di qui la linea che separa il répa; dalla fvpptÉ non è nettamente
lrac- ciata. 2) È quasi inutile di avvertire, che qui i termini infinito e
finito sono tolti nel senso pitagorico d' indeterminato od incom- piuto, e di
perfetto o chiuso in sè medesimo. L'infinito quindi è l'elemento ribelle,
cattivo, o che altro dir si voglia, ed il suo opposto è il finito; il rovescio,
in una parola, di quello chie in- tendiamo noì moderni. 3) 30 D. dri vovs dert
yivovs roù mavruv alciov deydvros riv cerrdpan. 49. sua sede, nella genesi, nel
fine a cui tende, e da tutti questi aspetti svelerà ancor più chiaramente la sua
oppo- sizione al bene. E prima di tutto, quali sono. gli esseri che vanno
sottoposti al piacere e al dolore? Per fermo gli animali, i quali, al pari
degli altri esseri, risultano così sag- giamente contemperati di finito ed
infinito, che la salvezza della loro vita è tutta raccomandata a siffatto
equilibrio. Supponiamo che l' equilibrio si guasti o per eccesso o per difetto,
ed: ecco spuntare il dolore. Supponiamo all’ incon- tro che per poco si
ristauri, ed ecco al dolore sottentrare il piacere. Così la vuotezza che si
avverte nella fame; l’'ar- sura, che sì esperimenta nella sete; il congelamento
dei li- quidi organici prodotto ‘dal freddo; la disgregazione degli ele- menti
vitali, portata dal caldo, sono tutte condizioni dannose all'economia animale,
che si avvertono con. uno speciale senso di dolore. Riparate le perdite, ed
eliminate queste cause di mal essere, proviamo all’ incontro un vivace. com-
piacimento '). Il dolore dunque ed il piacere, come sì racco- glie da questa
discussione, sì avvicendano continuamente, ed al cessare dell'uno spunta
l’altro e viceversa, o come dice -Secrate nel Fedone, sembrano due gemelli,
saldati insieme pei loro vertici ?). Questo stesso intreccio di piacere e di
dolore si nasconde negli altri fenomeni psichichi, che noi addimandiamo de-
siderio, il quale, ove si aggiunga la fede nella sua prossima soddisfazione, sì
tramuta in isperanza; se all'incontro vi s'in- nesti il dubbio, si converte in
timore. Nello stato di deside-. 1) 31 B— 32 B. Platone aggiunge che la sede del
piacere o del dolore, cioè l'essere, ncl quale si originano appartiene al 3°
genere o genere misto. Ma si badi bene che nè il pia- cere stesso ‘nè il dolore
ir; questo caso sono annoverati nel ge-. nere misto, ma solo quell’armonia, dal
cui (urbamento o re- stauro nascono ì sentimenti dolorosi o piacevoli. 2) domep
du ud xopupîis cumpptrw du'divre, 50 rio noi proviamo un sentimento
determinato, il quale vor- remmo facesse luogo al suo opposto. Così siamo
affamati e desideriamo il cibo; siamo in forzato riposo e desideriamo il
movimento. Il desiderio è dunque tutto proprio dell’ani- ma, alla quale viene
riaddotto dalla fida memoria l’oggetto dei suoì voti; ed è molto inesatto che
si attribuisca al corpo questo stato di tensione, comecchè il corpo sia
travagliato dal dolore presente, e nulla sappia del piacere futuro. Da queste
considerazioni si raccoglie, essere il desiderio uno stato misto di piacere e
di dolore, dolore per la sensazione presente che ci travaglia, piacere per la
speranza di libe- rarcene !). Solo quando la speranza vien meno , il dolore
s'aggiunge al dolore e si raddoppia. Questa serie di piaceri e di dolori, che
accompagnano l’aspettazione di un evento futuro, e il ricordo di sensa- zioni
passate, soggiace a tutte le incertezze dell'opinione. Quante speranze fallaci,
e quanti vani timori! Non tutti i piaceri adunque sono veri, ed avvene buona
parte di bu- giardi , cui provoca una falsa opinione. Nel che Protarco non può
convenire, perchè il piacere è sempre vero, se- condo lui; sebbene l'opinione,
che lo suscita, possa fallire. E Socrate, a meglio ribattere il suo oppositore,
allarga la tesi, e sostiene che tutti i piaceri e dolori, non solo quelli che
proviamo nel desiderio, talvolta mentiscono. Egli non sa capacitarsi come
Protarco resista a questa verità. L'opinione resta pur sempre opinione, o vera
o falsa che sia; ed al- l' istesso modo il piacere ed il dolore non vengono
meno, perchè ora lo stimiamo verace ed ora bugiardo ?). Ma di 1) 36 B. 2)
Platone qui non avverte, che la novità o la falsità ram- polla sempre da un
giudizio, come lo provano gli stessi esem- pi, che Egli adduce in seguito. La
sensazione nuda non è per fermo nè vera nè falsa. Solo nel riferire la
sensazione al- l'oggetto che la provoca, o nel paragonarla ad altre sensazioni,
può aver luogo il vero o il falso, 51 fallaci apparenze nell'estimazione dei
piaceri o dei dolori ce ne sono pareechie. La prima nasce dalla natura stbésh
del piabere, il quale, essendo infinito, atnmette innumerevoli gradazioni;
epperò nel confronto, che noi sogliamo fare dei piaceri e dei doloti, spesso c’
inganniamo di grosso, sti- mando ad esempio i piaceri più intensi dei dolori,
quando non sono; e per lo eontrario 1 dolori più deboli e dam- meno dei
piaceri. Ci aceade quello che interviene a chi, guardando da lontano, non
sappia apprezzare le distanze relative degli oggetti 1). Ed un'altra ragione di
errore la troviamo in questo, che talvolta si scambia per un piacere vero e
reale quello che non è. In verità se ik piacere e il dolore nascono, come dicemmo,
dalla vicenda di vuoto e di pieno, che in- terviene nel nostro organismo;
quando s’arrestasse ogni mo- vimento d'entrata o di uscita, non dovremo provare
sen- sazioni di sorta. Egli è vero che non pochi sostengono intervenire nél
nostro organismo un flusso continuo, nè darsi mai riposo alcuno. Ma ammessa
pure per provata que- st' opinione, si potrà sempre affermare che quando questi
movimenti non siano bruschi, ed il passaggio da uno stato ih un altro si faccia
dolcemente, noi non l’avvertiamo, e non proviamo per conseguenza nè piaceri nè
dolori. Coloro che sostengono il contrario son gioco ‘di un’ illusione, e danno
corpo alle ombre, stimandò piacere vero il prodotto della loro fantasia ®). E
tanta è naturale ed invincibile quest’ illusione, che v'ha filosofi i quali
stimano che essa sia la sorgente non di alcuni, ma di tutti i piaceri; perchè i
piaceri per costoro non sono nulla di positivo, ma sola- . mente la cessazione
del dolore *). 4) 37 A-42 C. 2) 42 D 44 B. 3) Qui Platone chiaramente allude ai
Cinici, che egli re- 4 99 E se noi non possiamo accettare del tutto questa dot-
trina, pure v'ha nei loro ragionamenti molta parte di ve- rità, e lo studio di
questa ci farà sempreppiù addentrare nella natura intima dei piaceri. In fondo
essi sostengono essere il piacere qualcosa di relativo. I piaceri più intensi
sono per noi quelli che in realtà non sono tali, comecchè con- tengano molta
parte di dolori. Infatti i maggiori piaceri ci sembra di provarli, quando i
nostrì desideri sono più acuti, come a dire nella malattia, nell’intemperanza,
nell’ incom- posto agitarsi delle passioni. In queste condizioni il piacere c'
investe così da tutte parti, da non poter resistere al suo impeto, e ci par
quasi morire di voluttà. Ma questo stato violento d'agitazione, così contrario
a quell’armonia, a cui è affidata la nostra salvezza, non è forse una con-
dizione dolorosa? Dunque noi stimiamo il piacere di tanto più grande, di quanto
più copiosa è la parte di dolore che in esso cape. E qui torna nuovamente a
proposito l'osser- vazione che facemmo prima, essere il piacere più o meno
misto di dolore. Epperò ci piacciono grandemente le rap- presentazioni
drammatiche, o tragiche o comiche che sieno. Così ad esempio nelle commedie il
ridicolo nasce dallo spettacolo d’impotenza e d’ inferiorità, in cui si trova
colui, che si teneva falsamente per dappiù degli altri in forza, in bellezza,
od in sapienza. Ma rallegrarsi dei mali altrui non deriva forse da un nascosto
sentimento d'invidia? E l'invidia non è un sentimento doloroso, al pari delle
altre malvage passioni? Nella commedia dunque il piacere s’ intreccia col
dolore, e così dite della maggior parte dei piaceri umani '). puia come una
specie di vati, i quali mossi dal disprezzo del pia- cere, non del tutto
colpiscono nel segno; ma hanno un giusto presentimento della natura del
piacere, o per meglio dire della sua relatività. V. 44 B-D, 1) 44 C-50 E, 53 In
una parola il piacere è tutt'altro del bene, non solo perchè infinito, ma
benanco perchè sempre mescolato al dolore, e sottoposto fatalmente all’
inganno. Ma Platone, dicevamo, non acconsente del tutto alla sen- tenza cinica,
che il piacere stia solo nella negazione del dolore. E parimenti ei non crede
che tutti ì piaceri sieno ‘ così mescolati di dolore, come quelli che ahbiamo
ricor- dati; ma ammette eziandio una serie di piaceri puri, come quelli che
hanno per oggetto i colori splendidi, le belle figure, gli odori soavi e
delicati, i suoni armonici, in una parola tutti quei piaceri, la cui privazione
non è dolorosa, ed in cui non si accoglie una parte qualsiasi di dolore ').
Aggiungete a questi piaceri quelli che derivano al sapiente dall’amorosa
ricerca e dalla felice conquista del vero, e così avrete una serie di piaceri,
che non appartengono, come gli altri, al genere infinito, ma, essendo normali e
compiuti in sè medesimi, vanno nella categoria del finito. Questi piaceri a
ragione la debbono vincere sugli altri, i quali per fermo sono più intensi, ma
meno puri dei primi. E chi voglia conoscere, ad esempio, la bianchezza, non
deve cercare una gran copia di bianco, ma quella pur piccola quantità di
bianco, la quale non abbia in sè nessuna mi- stura di estraneo colore ?).
Questi soli piaceri possono accordarsi, come vedremo, colla saggezza. Gli
altri, essendo infiniti, e soventi bu-. giardi e misti di gran parte di dolore,
hanno proprio i ca- ratteri opposti della saggezza, e per questa proprietà ap-
punto si distruggono da sè stessi. Inoltre sono sempre re- lativi, perchè nòn
hanno lo scopo in sè medesimi. E non possono averlo, se nascono da quella
vicenda di pienezza 1) xad doa cas ivdeta; duuodhrovs fyovra xad dlirove tds
TINnpecss aiaSntàs nol hdetac mapadideci 51. B. 2) 53 B. dk e di vuoto che
descrivemmo, ed appartengono quindi alla categoria del fenomeno, -di ciò che si
fa di continuo, e il cui fine non è in sè medesimo, ma nell'essere verso cui
tende. Il piacere adunque, non essendo scopo a sè mede- simp, non che
confondersi col bene, lo ha al di fuori di sè, come. termine a cui s' indirizza
!). Ma basti del piacere. Sottomettiamo. ora alla stessa ana- lisi, l’altro
termine della quistione la saggezza o la scienza. Le scienze sì dividono in due
classi, l'una che ha per og- getto le arti meccaniche, Valtra la coltura e
l'educazione. Nella prima serie trovi, siffatta mescolanza di puro e d’ im-
puro, che se si separano da tutte le arti quella del contare pesare e.
misurare, ben poco resta di scientifico in tutte le rimanenti. Esse sì affidano
piuttosto . alla perizia pratica, all’abito, ed alla verisimiglianza. Così per dirne
una, nella musica c'è poco di certo; perchè le regole che governano gli accordi
sono dovute piuttosto, alla consuetudine, che a uno studio scientifico. E lo.
stesso dite della medicina, della agricoltura e della navigazione. Più certa di
queste arti è l'architettura, che nella costruzione delle case, dei vascelli e
simili segue le norme fornite dalla matematica, ed ado- pera strumenti precisi.
In queste arti, che superano le prime per precisione, domina sovrana. la
matematica, dicui una parte. principale è l'aritmetica. L'aritmetica anche
essa, s può dividere in due, quella che non. sa astrarre il numero dalla cosa
contata, e, quella che. studia il numero. astratto, in sè, medesimo.
Quest'aritmetica scientifica la vince sull'altra, come il piacere puro conta,
dappiù del misto. Ma ùna scienza, più pura ancora dell’aritmetica, è la
dialettica, che ha per oggetto ciò che è realmente, e la cui natura resta
sempre uguale a sè medesima. Questa scienza vince tutte le. altre, che
intendono a ciò che muta di continup; 1) B4 D, 55 imperocchè come potrebbero
queste pervenire a conoscenze ferme e sicure, se il loro oggetto stesso non ha
punto sta- bilità? Ma la scienza, per pura che sia, neanche basta a sè
medesima. E sebbene Platone anche qui, come nel princi- pio del dialogo,
sorvoli su questo punto seabreso, pure è certo per lui, che la scienza austera
e disdegnosa di qual- siasi piacere, per moderato. e puro che sia, non può co-
stituire la vita perfetta. Forse, o ch'io m*inganno, dob- biamo connettere
questi passi 60 D e 21. E del Filebo col discorso che Socrate racconta essergli
stato tenuto da Diotima, secondo il quale l’ Eros o l’amore della bellezza è la
via per cui ci solleviamo alla contemplazione delle eterne idee e della scienza
'). Epperò non ogni affetto, e con, esso non ogni sentimento è condannevole;
che anzi, tolto questo, sarebbe forse distrutta la molla più potente, che ci
sollevi alla scienza. Ma non tutti i piaceri possono essere disposati alla sag-
gezza, bensì quelli che non vi ripugnano del tutto, vo’ dire 1 piaceri puri ed
onesti, o tali che per nessuna guisa tur- bino la serenità dell'anima. In
quanto alle scienze ei giova conoscerle tutte; perchè le conoscenze divine non
bastereb- bero, se non, venissero disposate alle umane #). Tale è il connubio
del piacere e della saggezza, nel quale è, riposto il sommo Bene. E come esso è
fatto secondo ordine e mi- sura, il bene ci si mostra quale bellezza; e dacchè
la parte principale. in questo intreccio spetta alla verità, il bene ci sì
svela eziandio come vero. Il bene adunque. non si può cogliere sotto una sola
idea, ma ha tre facce la bellegza, la misura e la verità. E da tutti questi tre
aspetta ci si. b-csni più affine alla dai e meno al piacere. 1) Convito 9206 B.
e. «egg.. Fedro, 250, Dì e segg 2) Socrate fa passare senza risposta. questa.
ardila frise di Protarco yeotav didSeow fipuiv, © Zaxpareg, év taîs Isla olaav
pévoy imeriuas Myopev 62 B. CAPITOLO IV. DISCUSSIONE SULL’ AUTENTICITÀ DEL FILE
BO Il Filebo sia per il suo valore intrinseco, come per la testimonianza di
Aristotele, era tenuto per autentico dai critici. Ma lo Schaarschmidt, seguendo
impavido nella via di demolizione, non fa grazia neanche a questo dialogo, la
cui autenticità trarrebbe seco quella del Parmenide. Per questa ragione egli mette
molto studio nell’ indebolire la testimonianza aristotelica, e nel trarre dal
contenuto del dialogo una ricca copia di argomenti contro la sua auten- ticità.
Anche qui noi discuteremo le ragioni dello Schaar- schmidt, e lo studio che
faremo ci varrà come di com- mentario al dialogo che abbiamo esposto. Il passo,
nel quale secondo tutti 1 critici Aristotele chiara- mente fa menzione del
Filebo è tolto dal decimo libro della Morale a Nicomaco e suona così: « Di tale
argomento si vale Platone per dimostrare non essere il piacere il sommo bene.
Imperocchè la vita piacevole, accompagnata dalla saggez- za, è da preferirsi a
quella che ne è scompagnata. Se dunque la mescolanza (del piacere e della
saggezza) è da preferire, il piacere non sarà il sommo bene, perchè que- sto è
tale, che sì debba preferire da per sè, senza altra aggiunta »'. Questo passo,
come si vede corrisponde a capello col 20 E, 22 A, 60 B e 61 A del Filebo, di
cui noi facemmo un fedele riassunto nella pagina 46 1) Totovrw dh A6yo xa Matw
avaipsi dti cda far dovrà tayaSiv ai- perestepov qip civar tv Ndvs Biov pera
ppoviosts n yewpic, si di rò puxtòv xpeittov, ox sivar tiv adoviv rayadòv
oùdevòc Ap mpooteStvros abrò cà- gadòv aiperasespor qiveocda. Eth. nic. X. 2.
1172. 57 della nostra esposizione. (Qui aggiungiamo che anche le pa- role di
cui si serve Aristotele sono tolte di peso da Pla- tone, così il pexròv
«psirrov consuona col 22 A del Filebo AÎpetòse... #5 appotv cuppigdete xovvòs
Yevipevos (Bios). Nello stesso capitolo vengono ricordate altre sentenze, che
non sì tro- vano in altri dialoghi, dal Filebo in fuori. « Così, con- tinua
Aristotele, alcuni dicono essere fl piacere infinito, perchè capace di
accogliere il più e il meno, mentre il bene è determinato (compiuto in sè
medesimo) » '). E più appresso: « dicono che il dolore nasca dalla mancanza ed
il piacere all’ incontro dalla pienezza di ciò che se- condo natura si
desidera, e che l'uno e l'altro sieno affezioni del corpo » ?). (Queste
coincidenze sono così precise, da non capir dub- bio che Aristotele abbia
sott'occhio il Filebo, tanto più che nel primo passo si serve del presente
&vazei, tempo, che che ei suole adoperare per lo più, quando cita non di
me- moria, ma secondo il testo dell’ autore. Che cosa esco- gita lo Schaarschmidt
per sfuggire alle strette di que- sta argomentazione? Egli ammette che nel
primo passo Aristotele parli di Platone, ammette che nello scrivere . quelle
parole avesse davanti a sè un’opera platonica; ma quest'opera non sarebbe il
Filebo; bensi il Protagora ?). Nel Protagora 353 C. 358 C e sopratutto 357 A.
358. A. C. Platone ammette che la vita piacevole (#90 Bios) sia il 4) Aégovar
di tò pi» ayadòv piadar, Thv d'Ndovhv &bprator siva, dr diyeta tò pa)lov
val tò frrov X. 2. 10 3. Riscontra il 27 E. del Filebo ndora xa. Num mipas
dyerov, © tiv tò pallide te xat frroy dsyo- pévwv fot6v; 2) Loc. cit. Kak
Afyovar di tiv piv Abrrav ivderav tod xerà qua siva, thv d'idoviv avaràipwew
Riscontra Filebo 341 B— 32 B. per es. 341 E. ret pév rrov New rad Ivrn.'Edwdh
di ripe quyvopém made ndova. z 3) Op. cit. p. 280-81, 58 sommo bene sotto la
condizione che v' intervenga arche la sigm € l'ircoriza (cioè quell’
accorgimento pratico che Aristotele chiama ppévrow). Aristotele adunque,
argomen- tando da questo passo del Protagora, in cui il piacere da per sè non
basta, ma dev'essere governato dal sapere, perchè sia bene, potè dire che per
Platone il bene fosse una me- scolanza. Questa parola « mescolanza » non c'è
punto nel Protagora. Ma che importa? Aristotele suole sempre tra- durre col suo
proprio linguaggio i pensieri platoniei, ed anche quì segue il suo costume
antico. In tutto questo ragionamento dello Schaarsechmidt non solo la parte
ipotetica e congetturale supera di gran lunga la positiva; ima quel poco di
positivo, che c’ è, vale a dire il riferirsi a un luogo determinato del
Protagora, è affatto fuor di posto. Lo Schaarschmidt non si fa scrupolo di
sforzare il testo e d’interpetrarlo a rovescio, per accomo- darlo ai suoi fini.
Che cosa dice Platone nel luogo citato del Protagora? Se il piacevole, ei dice,
è il bene, nessuno al mundo che sappia o stimi altre cose migliori di quelle
che fa o può, nessuno, dico, farà queste ultime, mentre può le migliori '). Da
questo passo si raccoglie non avere quì Platone in mente di distinguere il
piacere della sag- gezza, e di ricercare se ciascuno di essì o isolato o fuso
coll’altro costituisca il sommo bene. Nulla di tutto questo ?). Egli accetta in
questo dialogo la posizione che il bene stia nel piacere o diremo meglio
nell’utilità; e da questa trae 4) Protag. 358 B. ci &pa tò ndù dyaSév torw,
oddale obr'eidoy ob- m'olbpevor Ldda Pe)cico sivac n & morsi red Tovarà,
imarà rowsi xira, diòv tà Be)zio, 2) V. Zeller Philosophie der Griechen II.
399. Sul modo co- me si debba intendere la dottrina etica del Protagora, e sul
rapporto di essa colla moralé posteriore di Platone, vedi le a- cute
osservazioni del Bonghi nel Proemio a questo dialogo Gap. IX. e sopratutto p.
247 e segg. 59 la conseguenza, che ciascuno nell’operare segue ciò che. ‘gli promette
maggior copia di piacere, o meno di dolore. Ci possiamo benissimo ingannare in
questo giudizio, ma l’error nostro è dovuto tutto all’ ignoranza; imperocchè se
alla nostra mente apparisse chiaro il danno futuro, sarebbe impossibile che il
piacere presente cì trascinasse e vincesse. Platone in questo luogo è ancora
fido alle due massime socratiche « che il bene si converta coll’utile e « che
nes- suno sia volontariamente malvagio » massime che Ari- stotele avrebbe
discusse di proposito, se in quel capitolo della morale nicomachea avesse
accennato al Protagora. La citazione dunque di Aristotele si riferisce senza
alcun dubbio al Filebo, la cui autenticità è posta fuor di con- troversia. Ma a
noi giova esaminare ancora la serie delle Fagioni in contrario, attinte dalla
forma e dal contenuto del dialogo. i E prima di tutto lo Schleiermacher ha già
notato che al Filebo manchi l’unità e la vivacità drammatica, propria di altri
dialoghi platonici. Socrate anche qui ‘non adopera la sua arte majeutica e la
fina ironia, per il cui magistero dalle contraddizioni dell’ interlocutore
balza fuori il con- cetto della cosa '). Qui la tesi da dimostrare è posta net-
tamente fin dal principio del dialogo, e in tutto il corso di esso vien
dimostrata per diverse vie col sussieguo pedan- tesco del maestro che espone.
Al Socrate del Filebo manca la spigliatezza di chi non avendo in serbo la
verità già tro- vata, sì metta amorosamente alla sua ricerca. E quel calore,
quell’entusiasmo, che in tutte le discussioni etiche non vien mai meno al
Socrate platonico, qui fa lupgo ad una calma e freddezza non usate. Così pure
gli oppositori di Socrate, che dovrebbero essere edonici convinti, oppongono
alle ar- gomentazioni socratiche una fiacca resistenza. Filebo già 1) Quest’
osservazione già facemmo a proposito del Sofista. #» 60 dalla bella prima è
posto fuori combattimento, ed è molto strano che s' infitoli da lui un dialogo
che quasi senipre è sostenuto da Protarco. Ed anche costui si appaga delle
ragioni più deboli, che si adducono contro la sua dottrina 1) e sostiene
opinioni che ripugnano all'edonismo, come a dire che la conoscenza di sè
medesimo sia il primo dovere del saggio (19 C) e che la ragione governi il
mondo (28 E). E non solo le persone del dialogo sono sbiadite, ma il dialogo
stesso procede lento ed impacciato; a volte s' ar- resta senza costrutto, a
volte ritorna senza necessità su ar- gomenti già discussi. Nè la proposizione
principale, che il sommo bene stia nell’intreccio della sapienza col piacere, è
punto dimostrata; imperocchè se è provato da una parte che il piacere solo non
hasti a sè medesimo, non c’è nes- suna ragione che conforti l’altra parte della
tesi, vale a dire che la sapienza, spogliata dall’allettamento del piacere, non
sia da preferire. Che anzi nel Filebo stesso è accettata apertamente l'opinione
contraria: Chi preferisce, dice So- crate, la vita della ragione e della
saggezza, non si attri- sta o si rallegra nè di poco nè di molto, e questa fra
tutte, è la vita più divina, nè è verisimile che gli Dei provino la gioja o il
suo contrario *). Questa opinione è una giusta conseguenza della dottrina
sostenuta nel Filebo, che la ragione sia regina del Cielo e della Terra (28 c.)
perchè Ella, causa di tutte le cose, (&iria) non può man- care di nulla, epperò
ha da bastare a sè medesima, ed 4) Così ad esempio Socrate pretende di
dimostrare che il piacere non poss scompagnarsi dalla scienza, perchè senza
questa s'ignora perfino se si goda 0 no, nè si conserva la me- moria dei
piaceri passati, nè ci è dato di contare sui futuri (sì yaipers 3 uh yalpes,
vee dimov cs &yvoriv 2A B). E Protarco non s' oppone ad un argomento di tal
fatta, che Schaarschmidt chiama infantile Op. cit. p. 293. 9) 33 B. Ù GI essere
tutt'uno col sommo Bene. Ma per quanto ragione- vole sia l'elogio fatto nel 33
B della vita senza passioni, pure è in aperta contraddizione colla tesi stessa,
che si vuol sostenere nel dialogo '). E non è questa la sola contraddizione che
si nota nel- l'opera. Verso la fine di essa a pag. 66 A è detto: « Tu annunzierai
dappertutto non essere il piacere nè il primo, nè il secondo bene, e doversi
porre in sua vece la misura, l'ammisurato, l’opportuno e tutte quelle cose che
s’' ha da tenere abbiano sortita una natura immortale. Il secondo bene è
l’armionico, il bello, il compiuto, quello che basta a - sè medesimo e simili »
?). Ma come? ciò che hasta a sè medesimo non è dunque il sommo Bene, come s'era
detto in tutto il dialogo? come mai non gli spetta più il primo posto, ma il
secondo? E che cosa si sostituisce in sua vece? Fra gli altri un elemento
estraneo, il suipiov, del quale non si era tenuto conto in tutto il dialogo, in
cui la disputa s'agitava solo tra la saggezza e il piacere, E come c'entra
questo concetto, e con qual dritto usurpa il luogo del yo0? ln una parola l’
infelice pittura degl’ interlocutori, lo andamento impacciato ed inestetico del
dialogo, la frivolità di alcuni ragionamenti, ed infine le contraddizioni mani-
feste tra varie sentenze, tutto questo tradisce una mano inesperta, che non è
certamente quella di Platone. Molte di queste accuse sono giuste, ed un recente
tra- duttore di Platone il Jowett le nota anche lui nell’ intro- duzione a
questo dialogo. « In esso, osserva il Jowett, lo « stile incomincia ad
alterarsi, e l'elemento drammatico e 1) Op. cit. p. 285. 2) GIA mpiorov pév o
ttepì puerpov vai tà pérpiov nel nelkpiov nad trevi” ò- mica taaita yph vopitev
Thv dîdiov Mpioda puo. Atittpov uhv mepì cò cdpperpoy xa nadòv xai Tò rèiebv
xai inavdi ol avi’ ordoa tic pevedis aù ravene torto. 66 A. o 62 « poetico cede
il luogo allo speculativo e filosofico. Nello « svolgimento delle idee astratte
c'è un gran progresso « sul Protagora e sul Fedro, e forse anche sulla Repub- «
blica. Ma v'è una corrispondente diminuzione di abi- « lità artistica, una mancanza
di caratteri nelle persone, un andamento faticoso nel dialogo, e una certa
confu- sione ed incompiutezza nel disegno. » Ma che cosa in- ferisce il Jowett
dalle stesse premesse dello Schaarschmidt? Null’altro se non che il Filebo
debba essere uno degli scritti posteriori di Platone, che peri difetti di stile
spesso cio richiama a mente le Leggi !). Con che non intendiamo di accettare
tutte le osserva- zioni dello Schaarschmidt, alcune delle quali ci sembrano o
infondate affatto, o almeno non poco esagerate. Ed in quanto alla
contraddizione del 33 B colla tesi stessa del dialogo, notiamo che Platone lì a
disegno parla della vita divina, cioè della vita del puro spirito, il quale,
essendo tutt’ uno colla ragione, è scevro affatto da passioni. Ma «questa vita
apatica non può essere quella dell'anima umana, in cui com'è noto alla parte
razionale si collega 1l Sspog e l'irmSvpnrezio 8). Certamente Platone, come ha
dimostrato lo Zeller 3), mosso dall’ alto disprezzo, in cui tiene il sen-
sibile, sembra talvolta inchino ad una morale ascetica, il cui supremo sforzo
stia nello svellere dalle radici 'le pas- sioni, o buone o cattive che sieno.
Ed a questa tendenza si riferisce quel passo del Teeteto, in cui è detto che
non potendo la vita terrestre essere mai spoglia affatto dalla malvagità ,
occorre fuggire il più presto che si possa dal. mondo di quaggiù, coll’
avvicinarci alla Divinità me- z R 1) The dialogues of Plato translated into
English by B. Jo- wett. Oxford 18741. III. 129. | 2) Tim. 69 D. 70 C. Rep. 436 A, Fedro 246. 3)
Op. cit. II. 736 e segg. 63 diante
le opere buone e sante '). Così pure nel Fedone più volte è ripetuto esser
riposta l'attività del Filosofo nel liberarsi al possibile dal corpo, il quale
offre infiniti osta- coli alla serena contemplazione delle eterne idee. E que-
sto stacco violento dal sensibile è una morte anticipata, o meglio una
preparazione al morire, talchè il filosofo con lieto animo udrà lo scocco
dell’ora suprema, come annun- zio della vicina liberazione *). Secondo questa
intuizione il corpo è un carcere), come dicevasi nei misteri orfici, e le anime
imprigionate in esso sono come gl’ infelici de- scritti nel VII. della
Repubblica, condannati a vivere nel fondo di una caverna, ove non penetra se
non il pallido riflesso di una incerta luce. Con questa morale ascetica, il cui
indirizzo è affatto negativo, va certamente di accordo il 33 B del nostro
dialogo, e se l’etica platonica sì ridu- cesse al filosofico resvéva del
Fedone, sarebbe in quel passo espresso il pensiero intimo di Platone, al quale
il resto del dialogo manifestamente ripugnerebbe. Ma questo in- dirizzo etico,
che ebbe poi tanta importanza nel Medio Evo, se pure trasparisce da qualche
dialogo platonico, non è svolto in tutta la sua conseguenza così che escluda un
altro indirizzo affatto opposto, il quale risponde meglio alle intui- zioni
elleniche. Platone, che ha un senso così squisito del- l’arte, non poteva al
certo condannare del tutto il corpo, 4) Teet. 176 A. dò rad rapaoda yph dvitid’
iusice peiyev du td- gesta. 2) Fed. 67 D. odxotv yedotov dv cin devdpa
raparssvatov9 iauràv èv tw Biw dt èopperdro èvra toù teSvAVAI IT Civ, xkrsii’,
ixovros aùrod toù- tov, Gyavantetv; 3) Vedi nel Cratilo 400 B. l'etimologia di
c@oua da oèpa; se non che è da notare che anche nel Cratilo è addotta pure una
etimologia, che accenna ad un indirizzo etico affatto diverso. In questo
secondo senso il corpo vien detto cwpa perchè l’ a- nima per esso si manifesta
xa dior ad tovrò ‘ompalva dv onpolva h puyà. bi | ove pur traspare
luminosamente l’eterna bellezza‘). Qui per fermo si riproduce
quell’oscillazione, che, secondo lo avviso dei critici, è il vizio intrinseco
del Platonismo. Da una parte le idee sono la vera e sola realtà, e tutto ciò
che loro si oppone, la materia, il sensibile è come se non fosse, è il non
ente; d'altra parte in questa materia così tenebrosa, in questo caos così
disordinato penetra il rag- gio della suprema idealità, e tutta la illumina e
la trasfi- ura ?). E nella Psicologia interviene lo stesso giuoco della
Ideologia. Anche qui l’ opposizione tra la parte razionale e la concupiscibile
dell’ anima 8) è così profonda, che mentre l'una è principio di ogni vita, non
nasce nè perr- sce, o come dice Fedone, preesiste e sopravvive al corpa, e, in
una parola, è 1’ Entità che più si raccosta alla natura delle eterne idee *);
l’altra all’ incontro , fornita di earat- teri affatto opposti, è mortale, ed
agitata da affetti vio- lenti e fatali; dapprima il piacere, esca del male; in
seguito il dolore, cagione della fuga del bene; dappoi l’audacia ed il timore
improvvidi consiglieri; per giunta la passione sorda al saggio consiglio;
finalmente le speranze, facile giuoco di ogni sensazione irragionevole e
dell'amore di tutte - le 4) vuv dè xaddoc pévav Tasrav foye poîpav, der'
txpartorarov tivo sal spaspustatov. Fedro 250 D. 2) II mondo è secondo il Timeo
29 A xalliatos tiv yeyovérav e nel 92 C. vien chiamato un Dio sensibile Seds
alodatà, pérn- aotos xal &protos x&iliatis te xal Telecitatos YHyovev.
3) Nel Fedra 246 B. questa dottrina è miticamente epressa nel famoso cocchio
tratto dai due cavalli uno generoso e pie- ghevole al freno della ragione,
l’altro indomito e ribelle. Se la ragione è l’auriga che governa il cocchio, i
due cavalli non possono essere altro se non il Ivpog e l'ervinpnrizòv del
Timeo. Se non che nel Fedro questa tripartizione dell'anima è origi- naria, e
precede la caduta nel monda sensibile (anzi le inter forni del cavallo indocile
sono la causa della caduta). Nel imeo per cantrario la scissura nell'anima
accade dopo la erea- zione del corpo sensibile. — ‘ 4) V, Fedro 245 D. Fed, 80
B. Pa cose !). Ma ciò non pertanto Platone sente il bisogno di femperaré questa
cruda opposizione, clie minaccia di rovi- nare l’unità dell'anima, e tra le due
parti così disparate intérpone una terza anima, la quale, benchè straleiata dal
tronto della parte mortale, pure è molto migliore della concupiscenza. Essa
rappresenta la forza ed il coraggio, che obbedendo alla ragione, d'accordo con
lei reprime energicamente gl’ indocili desideri, e li subordina a quella ?). La
concupiscenza dunque non è del tutto male, ma ridotta nei suoi giusti confini
dall'energia del Supòg, a ob- bedisce ai voleri della ragione. È non tutte le
passioni sono malvage, chè anzi v' ha una parte non piccola di essé, la quale
nonchè inipedire, rafforza 11 governo della ragione. E comé poteva essere
altrimenti, se nel Fedro e nel Con- vito è descritto l’ Eros come via alla
contemplazione del- l'idea? E quel sacro furore ché investe l'animo integro, e
gl’ ispira l'altà poesia, è forse condannevole? 3) E l’uomo virtuoso ha forse
da reprimere il sentimento confuso di timoré è di venerazione, che tutta
l’anima comprende al- l’ aspetto della bellezza? *). È evidente che Platone,
met- ‘ tendosi per questa via, non possa condannare del tutto il piacere. E
nella migliore delle sue opere, nella Repubblica, non solo non lo condanna, ma
ne distingue accuratamente tre specie in conformità della tripartizione
dell'anima. An- che l'intelligenza ha i suoi propri piaceri non meno del 1)
Tim. 69 D. Tò Swrdr, demà xel dvayuzia èv tavtw nadtipara Fyov.. hdovav...
bras... Tappos nat péBov, &ppove EupBovi ecc. 2) Tim. 70 A. Tò uetigov oUv
Ts puxiis vd patag xad Svpoi fu po- sta nel posto vicino alla testa îva tod
Adyov xerixoov dv xowvn per'è- xsivov Bia tò tiv emuduuic € xatbygor Yyévos. 3)
Fedro 245 A. Tpimm d'amò Movzv xatoxwyi te xa pavia \afobra dimalizs val ABatov
fuyùv. ipspovoa na ixBanyevovra ratà Todas xat tiv &\nv moimow pupia tov
mala Épya xocpovoa tovs Eri yuyvofré vous mardavet. 4) Ho appena bisogno di
ricordare la poctica pittura del Fe- dro 250 D-252 C. 66 Svuie e dell’
ireSvpnriviv 4). E il piacere dell’ intelligenza vale più degli altri,
imperocchè tale vien giudicato dal filosofo, il quale se ne intende più di
tutti, come que- gli che oltre ai piaceri intellettivi, conosce benanco per
l'esperienza della prima età quelli del coraggio, e del de-. siderio ?). A
questa serve di rincalzo un'altra ragione af- fatto identica a quella del
Filebo, vò dire che il piacere, il quale prepara accompagna e segue la scienza,
è più vero più puro, vale a dire, non mescolato di dolori; non così 1 piaceri
che toccano all’uomo iracondo e concupiscente 3). Finalmente se il piacere
nasce, come è detto anche nel Filebo, dal senso della pienezza, l’anima
riempita della ve- rità, deve provare la massima gioia, perchè accoglie in sè
il vero essere *). Secondo questi concetti alla morale asce- tica deve
sottentrare la morale estetica, per la quale il sommo bene non sta più
nell’estirpare gli affetti, ma nel saperli moderare e temperare così, che
giovino alla vita dell'anima razionale. Per tal guisa Platone si conserva
greco, e conforme alle antiche tradizioni, pone il fonda- . mento della sua
morale nel pérpov, che è bellezza, bontà ed armonia. Qual meraviglia dunque che
nel Filebo si metta in rilievo la grande importanza del contemperamento della
saggezza col piacere, e si ponga in seconda linea la vita spoglia di qualunque
sentimento, come propria soltanto degli Dei? Qui'non si tratta del bene in
generale, ma del bene umano, e così com’ è costituito l’uomo, la dot- 4) Rep.
IX 581 :C. Atà rara dh rad dvipewrov Mfyopev tà rpérra TpUITÀ Yéva siva,
pridcopov, priéveror, prioxepdts... xa Sdoviv dh rpia stdn vroxeipeavov Îv
ixdoro Tovrwv. 2) Rep. 582 B. rw pév yàp &vayem qeisodar riv drépav ix
madòg apiaptvo. - 3) Rep. 583 B. oùdè revadaFic sor rd riv Ziiwy Ndovh idv Tdi
taod qpovipov audi radapà. ) 4) Rep, 585 E. 67 trina del Filebo non solo
riponde a tutto l'ideale ellenico, ma è una anticipata protesta contro le
esagerazioni dello ascetismo miedievale. | In questo cielo della morale
platonica la stella polare dicemmo essere la misura. E così s'intende il perchè
Platone metta a capo di tutti i beni il pérpeov 0 meglio il rep pérpov». (Qui,
secondo la giusta interpetrazione dello Zeller, Platone parla della misura in
un senso astratto, o vortemmo dir meglio dell’ idea della misura 1). La misura
concreta, attuata è la bellezza, che, essendo un tutto com- piuto, basta a sè
medesima. A lei spetta il secondo posto quando è messa in rapporto alla idea
astratta; ma non per- ciò cessa di essere la prima realtà, o meglio la realtà
più perfetta. Il resto non sono se non gli elementi di essa, che staccati ed
isolati non bastano a loro medesimi, vale a dire da una parte la sapienza e le
scienze, da un'altra i piaceri. Forse si potrà rimproverare a Platone di avere
se- parato il pérpiov dal espperpo», come se quello fosse una entità a sè.
Senonchè essendo questo l'abito della mente platonica , di obbietlivare le idee
astratte, ed introdurre - divisioni e suddivisioni dialettiche che non
corrispondono alla realtà delle cose, non parrà strano che anche quì ri- peta
lo stesso processo adoperato negli altri dialoghi. Ma ciò non importa che
Platone si contraddica, imperocchè il mettere come primo fra tutti il pérgtov è
una conseguenza necessaria dell’ intuizione se vogliamo dire, estetica, che
domina in questo dialogo. Esaminiamo orale opposizioni, che lo Schaarschmidt
scorge tra il Filebo e gli altri dialoghi di Platone. Abbiamo di sopra
dimostrato molte sentenze del Filebo riscontrarsi nella Repubblica; ma non
ostante queste coincidenze lo Schaarschmidt sostiene esservi tra la teorica del
piacere 4) Zeller op. cit. lI. 740. 68 esposta nella Repubblica e quella del
Filebo una diffe- renza radicale. Chè per l’autore del Filebo il piacere è es-
senzialmente sensibile, mentre nella Repubblica oltre ai piaceri sensibili si
ammettono anche altri puramente intel- lettivi. Nè il Filebo conosce nè può
conoscere quella di- stinzione del piacere nelle sue specie, che abbiamo
trovato nella Repubblica. Finalmente la Repubblica mette col Bene 1] piacere
innocuo, che porta con sè la gioia, il che certa- mente si riferisce al piacere
intelettivo; l’autore del Filebo invece parla di piaceri non mescolati dal
dolore, che seguono sempre alle percezioni sensibili e vengono posti nella
quinta classe, come un appendice al bene, affatto separati dalla ppivnets si
Nessuna di queste accuse a parer mio è vera. Nel Fi- lebo non si dividono i
piaceri in tre specie, come nella Repubblica; ma chi ci assicura che Platone
non abbia ces- sato d’ insistere su quella tripartizione dell'anima, che nel
modo come vien riferita nel Timeo, e ricordata nella Re- pubblica, trova un
ostacolo invincibile nell'unità della co- scienza? Se il Filebo, come noi
tenteremo di dimostrare, è una delle ultime opere di Platone, non è punto
inverisi- mile che questi si sia accorto della contraddizione intima della
propria dottrina; il che per fermo è solo un’ ipotesi. È fuor di dubbio però
che il concetto del piacere puro del ‘Filebo non sia diverso da quello della
Repubblica; chè anche per la Repubblica il piacere puro è tale da non essere nè
preceduto nè seguito da dolori, e come esempio di questi piaceri vengono
addotti quelli dell’odorato, che non sotten- trano a dolori procedenti, e
cessando, non lasciano dietro loro tristezza di sorta ?). Ed è detto forse
diversamente nel Filebo? Che non tutti i piaceri puri sieno piaceri sen- 1) Op.
cit. p, 34617. 2) tepl tds dopòàs hdovas. alta yàp... Abrrav ovdeniav ratalsirmovaw,
Rep. 584 B. v. Filebo 51 E. 69 sibili è giusto, ma nel Filebo non vien punto
negato. Ed io non mi so capacitare come lo Schaarschmidt pronunzi così severo
giudizio contro il preteso autore del Filebo, il quale trova la sorgente dei
piaceri puri nell’intuizione delle belle figure, e delle forme armoniche, nei
puri colori, nelle voci limpide e soavi!). Ma da quando in qua i piaceri este-
tici non vanno più annoverati tra le più pure gioie dello spirito? L’ultima
ragione poi dello Schaarschmidt non tiene più dalle precedenti, e lo abbiamo
già dimostrato prima. Nel Filebo non si attribuisce alla gpévners nè il primo
nè il secondo posto, perchè quelli spettano al sommo Bene che è armonia, misura
considerata prima nella forma astratta, e poi nella sua concretezza. Del resto
questa piccola dif- ferenza riguarda la classificazione , cui Platone non suole
mai tenere rigorosamente; ma siffatti motivi non sono di certo valevoli a
scalzare l’autenticità di un dialogo. Il nostro critico trae un altro argomento
di dubbio dal libro VI. della Repubblica. Ivi è posto lo stesso problema del
Filebo, se il bene stia nel piacere, come stima il volgo, ovvero nella
intelligenza, come pare ad ingegni più sottili. Ma non è fatta grazia nè agli
uni nè agli altri. Gli ultimi si ravvolgono piacevolmente in un circolo, perchè
mentre dicono riporsi il bene nell’intelligenza, non sanno poi de- terminare l’
intelligenza se non come facoltà di cogliere il bene, cosicchè il Bene sta
nella conoscenza del Bene *). Ma neanche gli altri s' appongono meglio,
imperocchè, come sarà dimostrato largamente nel Filebo, ‘sebbene ripongano il
bene nel piacere, pure non possono negare che vi sieno piaceri cattivi, e per
tal guisa ammettono piaceri che sono ad un tempo hene e male). Come è risoluta
quest’ anti- 1) oynpariv xdd)oc.... ypipara dh Toutov TÙv TUTOv Eyovra... ti
TOY qdoyyiv tas dstas nad Vaprpàs 541. C-E. 2) cx féygovar dellar, fire
ppimars, dil'avapudbora telestisvtes Thv to aya3o0 piva. Rep. 505 B. 3)
bpoloyitv &yadà siva. xoù varà ravrà. Rep. 505 D. 70 nomia? Coll’ ammettere
il Bene, quale realtà a' sè, anzi come la prima realtà che è il principio ad un
tempo del- l'essere e del conoscere, ed abbiamo già ricordato che il Bene in
questo luogo vien paragonato al Sole, che colla sua luce riscalda , vivifica ed
illumina tutte le cose 1). E per questo rispetto s'ha a dire: l’intelligenza
non è il bene, come l'occhio non è il Sole; ma bensì è figlia del Bene; impe-
rocchè questa luce divina irraggiando l’anima accende in essa la fiaccola della
sapienza, Parimenti il Bene non è il piacere, ma l’anima nostra nella
contemplazione di quello, sì sente compresa dalla gioja pura e serena, cui
nessun dolore offusca. Quest’ obbiettivismo della Repubblica sparisce nel
Filebo, “ove il bene non è più la realtà vera, fonte suprema del- l'essere e
del conoscere, ma invece la vita beata, che sta nell’ intreccio
dell’intelligenza e del piacere. Nel Filebo adunque il Bene è inteso in un
senso subbiettivo, è un abito ?) o, com'è detto più tardi, un possesso dell’
anima ?) che crea il vivere felice. All’oggettivismo platonico sotten- tra qui
il subbiettivismo socratico-aristotelico, ma non così risolutamente che
l’autore non ondeggi tra le due op- poste determinazioni. E molti interpetri
non a torto, se- condo lo stesso Schaarschmidt, in quel repì pérpov che è al di
sopra della stessa bellezza hanno scorto la traccia del Bene obbiettivo della
Repubblica *). Traccia confusa, ed indegna di Platone, il quale non avrebbe
certamente posto questo Bene astratto come il primo anello di quella serie di
mo- menti che costituisce la vita felice 5). 1) rèv Hiov roîs bpowpévore où
puévor, otpar, TAV toò dépérda. divapey mapeyev pioss, @Ia na thv qiveow nai
abinv xat Tpophv, où yiverw adù- tv èvra. Rép. 509 B. 2)... sEw puyîie nad
Diiderw.... tav duvaptvas &vIpesmors maori rv Btov evdatpova mapéyew Fil.
14 D. Su 3) «tipa... mpivcov pév mp rep pérpov ecc. 66 A, 4) Schaarschmidt op.
cit. p. 317. 5) Ivi 348. 74 Io non negherò che nel Filebo predomini l'aspetto
sub- biettivo del Bene, anzi sono d'accordo collo Zeller che nel passo 66 A, da
noi riferito, il rep.pérpov non si debba in- tendere per il Bene obbiettivo ').
A dire il vero, la frase « tutte quelle cose che godono di una natura immortale
» 3) sembra che accenni non pure -all’idea del Bene obbiettivo, considerate, ma
benanco a tutte le idee, come sospetta il Brandis. Ma questa interpetrazione
non è corretta, perchè questo primo bene non ha un carattere meno subbiettivo
degli altri, essendo anche lui un xripe, un possesso dello | spirito. Ma se è
innegabile la differenza tra la Repubblica e il Filebo, se quella considera il
bene obbiettivo e questo il subbiettivo, s' ha forse da toglier di mezzo uno
dei dialo- ghi in grazia dell'altro? Le due ricerche non sì escludono, ma l’una
può benissimo servire di complemento all’altra. Ed alcuni sostengono con molti
argomenti che il Filebo non sia se non una ricerca preliminare, la quale vien
poi compiuta nella Repubblica; perchè nel Filebo si dimostra, il Bene dell’uomo
stare nell’accordo della conoscenza col piace- re, alla quale ricerca tien
dietro poi l’altra della Repubblica, che penetrando più addentro nel concetto
della conoscenza, la determina come l’intuizione della suprema Realtà, la quale
non è altro se non il sommo Bene, vale a dire il principio e il termine a cui
tendono tutte le cose. Ma sì potrebbe con un diverso ragionamento invertire
questa relazione dicendo che nella Repubblica sì tagli corto a tutte le
difficoltà etiche, col porre il Bene come principio della vita e del conoscere,
come il Sole.intelligibile. Senonchè una metafora non basta certamente ad
eliminare le difficoltà, 4) Zeller II. 740 contro Trendelenburg.De Philebi
consilio 16. Hermann
Index lect. Marb. 1837. Plat. Phil, 690 seg. Steges Plat. stud. II. 59 Brandis II. a. 490. 2) xaì rdvd'indoa
madre xpù vopitem tav dldiav spin das, pio. 66 A. 72 e Platone lo sente, e
mette in bocca di Socrate parole di scusa e di sconforto '). ()uesti vorrebbe
troncare la con- troversia, chè non gli sfugge potersi il rimprovero, che fa ai
xopyoripo:s, ritorcere contro di lui. Imperocchè se anche il bene sommo è la
suprema realtà, il Sole o che altro vogliate, di questa realtà non conosciamo
se non quello che a noi si svela. Dunque per noi il sommo bene è ciò che illumina
l'intelligenza, e l'intelligenza è la virtù de- sta nell'anima nostra dal sommo
Bene; onde il formalismo non è vinto, e l’artificio della forma nasconde, ma
non toglie la vuotezza del concetto. Qual meraviglia che eol- l'andare degli
anni Platone, accortosi della vanità dei suoi sforzi, sì sia messo per altra
via, e invece di cercare il Bene nelle ragioni inesplorate dell’oltrecielo,
abbia sti- mato meglio di sorprenderlo nel fondo stesso dello spirito? Questa
seconda opinione, sulla quale del resto torneremo a suo tempo, ha in suo favore
un fatto innegabile, che nel Filebo alla dottrina delle idee non si presti più
quella invitta fede che si mostra negli altri dialoghi; il che è un certo
indizio che le dottrine metafisiche di Platone si sieno alquanto modificate. E
lo Schaarschmidt da questa circo- stanza sa trarre in favore della sua tesi
nuovi argomenti, che meritano per fermo uno studio accurato. Nel Filebo è
svolta una dottrina metafisica, la quale, secondo lo Schaarschmidt, non s’
accorda pienamente colla teorica delle idee. Le entità metafisiche del Filebo,
come abbiamo notato nell'esposizione, sono quattro l’ infinito, il finito, la
mescolanza di entrambi, e la causa di questa me- scolanza ?). Tre di queste
entità furono paragonate alle tre del Timeo, voglio dire l’ente, lo spazio e la
genera- 41) Rep. VI. 506 C. doxst cor dixacov siva: rep @v res pù cide, Mya» og
sidéra; Ivi D. @i'arro pù oby ol6; r'inoua, rpodvpovpevos dè doya- povor qiiwra
dplfcw. 2) Vedi la nostra esposizione pag. 46 nota. 2.2 j 73 zione '). È
indubitato che lo spazio 0 xspe è la materia prima ricettacolo e nutrice delle
cose generate, la quale è invi- sibile e non ha nessuna forma; dacchè le
accoglie tutte ?); epperò non può essere percepita 'dai sensi, ma da una ra-
gione hastarda, che non è certamente identica a quella che coglie le eterne
idee *). Questa materia adunque non è determinata; onde benissimo le
corrisponde l'&recpov del Filebo. E se questa materia prima è
l'&rsepov, la Yivegis OV- vero quella materia seconda, in cui l’
indeterminatezza originaria incomincia a scomparire, e già come in nube si
distinguono gli elementi dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, si può
dire una mescolanza di determinato 4) ... dv te xaù yeipav val yiveaw civar,
tpia tpiyî, xaè molo oùpavòv quista. Tim. 52 D. 2) maans siva yevicewe
Vrrodeynv avrhv ctov rHiwmv. Tim. 49 A. d)- \' aubparov etddc ti xad Apoppov,
tavdeyic, peralauBavov dì droputara my toù vontod xal duoalwrétatov aùUtò
Isyovres où wevaéueda 51 A. Mi per- metta il lettore di ricordare di sfuggita
che nel Timeo ci sono due materie, una immobile, amorfa, invisibile, e
paragonabile solo all’infinito spazio (48. E — 53 C); l’altra molto analoga .
al caos dei poeti antichi, la quale è visibile, si muove di con- tinuo ma
disordinatamente 30 A. wav d0ov Tv dpardv... ovy novyiay deyov, AIid
vivovpisvov rinppelog xaò araxtws. Se si debbono ammettere secondo Platone due
materie una prima ed una seconda, ov- vero se questa seconda non sia che una
rappresentazione mi- tica, come ne ha tante nel Timeo , è di certo una
quistione molto difficile a risolvere. Le ragioni che adduce lo Zeller in
sostegno della seconda ipotesi non mi sembrano molto de- cisive. A] passo
riferito nella nota precedente viene data dallo Zeller una interpetrazione
alquanto sforzata. Sotto la parola gia egli intende il mondo sensibile
presente, e la frase xpiv oupavòv yevéeda. la interpetra non in un senso
cronologico, ma come se Platone dicesse: le differenze tra queste tre entità
so- no prima di ogni cosa, cioè eterne, ed immutevoli. Ma a me sembra questa
interpetrazione alquanto arbitraria, perchè il passo inteso alla lettera dice
chiaramente esservi prima della nascita del cielo tre realtà: l’ Ente, lo
spazio o materia prima, e la generazione o materia seconda (V. Zeller II. 611).
Ma co- munque si risolva la quistione, l'analogia tra il Filebo ed il Ti- meo
non muta. 3) Voqiopo tiè vòdw... mpòs è dh ad dverporrolodpev Bierovres (52 B).
n | & d’indeterminato, e corrisponde così alla mt del Fi- lebo '). L’é, del
Timeo come è spiegato chiaramente nel 59 À, è appunto l idea (tò mata TAUTÀ
sidoc Eyxov, dYiwvatoy xak dvesdeSpov), la quale, secondo la maggior parte
degl’ interpetri corrisponderebbe al ripas del Filebo, perchè sono le idee
appunto che apportano ordine misura e in quel caos con- fuso della materia
primitiva. Ci resta un altro termine, l'aimia del Filebo, dî cui si potrebbe
trovare il riscontro nel Dio del Timeo, il quale come esente, d' invidia, volle
che il mondo gli rassomigliasse, epperò ridusse il caos pri- mitivo a
quell’ordine, che ora ammiriamo ?). Questo in brevi parole è il riscontro che
fecero parec- chi critici del Filebo col Timco, e lo Schaarschmidt non vuol
negare esservi in quello parecchie tracce della cosmo- gonia di questo. Ma a
suo avviso corre una grande dif- ferenza tra la entità del Timeo, che sono
potenze reali, e quelle del Filebo, che hanno piuttosto l’aspetto di gene- rali
categorie, che si possono applicare a diverse realtà. E nel Filebo stesso con
una parola, che Schaarschmidt stima aristotelica, queste categorie sono
chiamate Ten, vale a dire non entità concrete, ma conc etti astratti. E sia
pure, rispondiamo noi, ma che cosa vietava a Platone di formu- lare più tardi
una teorica metafisica, alla quale potessero bene accomodarsi le precedenti
dottrine cosmogoniche? Una difficoltà molto più grave trova lo Schaarschmidt
nell’ assimilazione del ripe; alle idee. Le idee platoniche, secondo la
testimonianza di Aristotele, constavano, come 1 numeri pitagorici, di due
elementi, liv e l’&retpov come pos- 4) Non tralascerò di notare che la
gfver non potrebbe a ri- gore essere considerata come la pié dell’òv e del
yeépa, perchè la yéveow esiste pria che abbia luogo l'intervento del demiurgo
che stampa nella m3hwy le orme dell’è», o dell'idea. Ma colla interpetrazione
data qui sopra nel testo l'analogia tra il Filebo e il Timeo ha maggior
fondamento. 2) Tim. 30 A. 76 siam dunque dire che le idee sieno il mipes,
mentre rac- chiudono in sè stesse l’ infinito? Potremmo dire che le idee
vengano comprese nel genere misto, ma neanche questa opinione regge, perchè il
genere misto è divenuto e le idee sono il principio del divenire. Non s'ha
dunque da inferire che l’autore del Filebo abbia lasciato da banda la teorica
delle idee, per cui non c' è posto in quell’astratta metafisica? Del resto
l’autore del Filebo sebbene accenni alle idee, e le chiami le vere entità,
semplici ed immu- tevoli, pure ei non le intende al modo di Platone, il quale
non le avrebbe certamente dette ivatec e povàdes, perchè di nuovo le idee
platoniche sono formate dall’iv e dalla gvac !). Della dottrina delle idee come
numeri, e dal raccosta- mento della teorica di Platone a quella di Pitagora ci
oc- cuperemo in seguito, e allora dimostreremo che il Filebo lungi dal
contraddirvi, è scritto per lo appunto secondo questo indirizzo. In quanto poi
‘all’assimilazione del ripe colle idee, lo Schaarschmidt ha ben ragione, e
prima di lui lo Zeller ?) con maggior copia di argomenti, avea rilevata questa
difficoltà. I caratteri del répes mal rispondono a quelli delle idee. Platone
dice espressamente: « ciò che « non accoglie queste determinazioni (il più o il
meno) « ma bensì le contrarie, come a dire prima l’eguale e la « eguaglianza ,
poi il doppio, ed infine il rapporto di un « numerò ad un altro, di una misura
ad un altra, tutto « questo, ben ragionando, lo dobbiamo riferire al répe; 3).
Qui evidentemente non si parla d'altro se non di rapporti numerici determinati,
il doppio, l’ eguale, il proporzionale, ove non è traccia alcuna dei caratteri costitutivi
delle idee. D'altra parte nel 30 C. è detto: la sapienza o la ragione 1)
Schaarschmidt op. cit. 297-98. 2) Zeller Plat. Stud. 48 segg. 3) Fil. 25 A. 76
esser la causa dell'ordine, che ammitiamo nel sucrederbi delle stagioni, dei
mesi e degli anni!). Che cosa si deve intendere per questa ragione? Non è forse
il mondo intel- ligibile -0 delle eterne idee? L'antica opinione, rinnovata
recentemente dallo Stumpf, che Platone oltre alle idee am- metta un Dio
personale, risponde certamente all'esposizione mitiea del Timeo, ma s'involge
in difficoltà insuperabili. Ammesso il Dio personale, came si debbono intendere
le idee? Non certo come pensieri divini, perchè in tal caso perdono
l’obbiettività, la sostanzialità, il «aS’avrò, caratteri fondamentali su cui
Platone ritorna infinite volte. E non sì potrebbero intendere neanche come
realtà eterne, indi- pendenti dalla individualità divina, ed in cui l'eterna
mente si affisi, come in un modello perfetto, perchè in tal caso nè Dio nè le
idee esaurirebbero tutto l'essere, ma l'uno limiterebbe l° altro. E come si
potrebbe ammettere al di fuori delle 1dee, che sono l’unica, la vera realtà,
un' altra entità per alcuni rispetti più perfetta di loro? ?). Per la qual
ragio- ne, essendo inconcepibile nel Platonismo un'entità divina separata dalle
idee, l’aiz.ov non può riferirsi al Mitico dypiovptòc netio del Timeo (41 A) ma
alle idee stesse, le quali, come nel Sofista, sono. tenute per le vere forze
creatrici. Ma se le idee corrispondono all’atria, cosa s' ha da intendere per
il répas? Noi sappiamo da Aristotele che Platone oltre al sensibile e alle
idee, ammise come intermedie le specie matematiche, le quali differiscono dal
sensibile perchè eterne ed immo- bili, differiscono dalle idee, perchè ciascuna
di queste sta da sè, mentre le unità numeriche, simili tra loro, si som- 1) xad
tu sr'avroîc eitia où pavin xocpoved te xaù auvtAttOvTa Eva Tous te xal Mmpas
rat pivas, copia xa vovg deyopiw dinauérar'av. 30 C. e più appresso orti vods
piv aitias fiv Euyyevne xal tovrov oyedòv tod yé- vovs (31 A). o 2) V. il
capitolo 2.° del nostro lavoro. 99 mano per costiture i varî numeri !). Anche
Platone, al pari di Pitagora, crede che tutto l'ordine del mondo sia
determinato secondo relazioni humeriche fisse, e basti pro- varlo la divisione
dell'anima del mondo fatta nel Timeo secondo le due progressioni, aritmetica
l'una e geometrica l’altra, nelle quali s' inseriscono altri termini intermedi,
perchè s’ ottenga una scala numerica eguale a quella Hei toni nella musica.
(Queste - relazioni numeriche fisse cor- rispondono a capello alle ragioni del
doppio, dell’eguale é del proporzionale che vedemmo costituire il contenuto del
mipas. Non vi è dunque alcun dubbio che per il ripa; Pla- tone intenda le
specie matematiche, ‘le quali per virtù delle idee, penetrando nell’
indeterminato della materia, vi appor- tano ordine ed armonia. Venuta meno
l'assimilazione del répas &alle idee, cadono le difficoltà dello
Schaarschmidt, e dalla sua critica resta solo dimostrato, esser l'antica teo-
rica delle idee in qualche guisa indebolita, e sottoposta a grave dubbiezze.
Riassumendo questa lunga discussione, diremo: che l’ au tenticità del Filebo è
provata all'evidenza dalla testimo- manza aristotelica; che la forma del
dialogo se è inferiore per forza drammatica e vivacità di stile ad altri
dialoghi di Platone, trova però un riscontro ad esempio nelle Leggi, che anche
lo Schaarschmidt tiene per autentiche. Ed in quanto al contenuto alcune
dottrine non sono in’ oppoòsi- zione eon tuttò il sistema, ed altre si
riferiscorio alle mo- dificazioni che più tardi Platone introdusse nelle sue
teo- rie. Quali sono queste modificazioni? Per rispondere a què= std dimanda,
ci occorre di esporre ed esaminare l’ultimo e più difficile dei dialoghi
dialettici, il Parmenide. 4) Met. I. 6. 987. "Er di rap tà aicdntà rad tà
cita tà pay parixà tiv kpaypdroy siva gnor perati. V. anche Met. UNI. f 995;
VP: 1009; XP. 1, 1059; XIF. 6. 1080; XII. 9. 1085. 78 CAPITOLO V. ESPOSIZIONE
DEL PARMENIDE. La differenza di forma tra il Sofista e il Filebo da una parte e
il Parmenide dall’altra sta nell'essere i primi dia- loghi parlati, ed il
secondo raccontato. Platone si vale molte volte dell’artifizio del racconto per
descrivere le con- dizioni del luogo e del tempo, in cui accatle il dialogo e
presentarci gl’interlocutori così che ne lasci indovinare qual- . che tratto di
carattere. E come lo sfondo del quadro che deve. dare maggior risalto alla
figura., Dal nostro dialogo sappiamo esser Cefalo da Clazomene così avido delle
dispute filosofiche, che imbattutosi nei fratelli Glaucone ed Adi- mante, li
prega di menarlo dal loro germano uterino An- tifone, affine d’intercedere
presso di lui perchè racconti il dialogo, che un tempo ebbe luogo tra Parmenide
Ze- none e Socrate. Antifone in verità non fu presente a quella disputa, ma ne
avea inteso da Pitodoro un racconto fedele, che ora si fa a ripetere,
sforzatovi dalle istanze dei fra- telli e di Cefalo. E non si lascia sfuggire
l'occasione di darci con un rapido tocco la pittura di Parmenide, che sebbene
grave di anni, pure conservava la nobiltà e bellezza propria delle grandi
anime. Accompagnava Parmenide Ze- none, giovane di belle forme, e molto caro al
vecchio Eleate. E giovanissimo del pari era Socrate, il quale non ostante la
sua fresca età, veniva accolto tuttavia con molta benemerenza dai due famosi
stranieri. Che Parmenide nella sua tarda età si sia recato in Atene, ed abbia
disputato con Socrate ancor giovanetto, c’è atte- stato da Platone non solo in
questo dialogo ma benanco # 79 nel Teeteto e nel Sofista '). Ed 1l fatto, come
ha dimo- strato Schleiermacher, non ripugna alla cronologia. L’occa- sione di
questa disputa fu porta dalle osservazioni fatte da Socrate a Zenone, non
appena questi smise la lettura delle sue celebri argomentazioni contro il
molteplice. So- crate nota, non senza un leggiero frizzo, che in fondo Zenone
non faccia altro se non dimostrare per via indiretta quello, che Parmenide avea
sostenuto direttamente. E Ze- none non nega essere stato questo il suo
proposito, di com- battere colle stesse loro armi gli avversari della scuola
eleatica e dimostrare che se la dottrina dell’ uno sembra ridicola e si
ravvolge in contraddizioni, molto più ridicola, ed in più gravi contraddizioni
sì ravvolga l’opinione co- mune, che crede nella realtà del molteplice. E sia
pur vero, osserva Socrate, che guardando le cose sensibili da varî aspetti ora
ci sembrino formare un unità, ora ci appari- scano molteplici. Ma questo fatto
non è poi così meravi- glioso, come si crede. È stato notato da molti che Io,
Socrate, in rapporto alle sei o sette persone, che mi cir- condano, sono una
persona sola; ma ciò non toglie che per un altro rispetto in me s'accolga la
molteplicità, e che ad esempio io abbia il lato destro ed il sinistro, la parte
an- teriore e la posteriore, il disopra e.il disotto e così via. Il che torna a
dire che Socrate in quanto partecipa della. idea dell'unità è uno, e in quanto
partecipa di quella della molteplicità, è multiplo. Il che, ripeto, non è certo
strano. Sarebbe strano davvero, se queste contraddizioni avessero luogo nelle
idee stesse, come pur dice il Filebo, .e che l'uno fosse multiplo, ed il
multiplo uno. Quest’ osservazione apre la via alla disputa tra Parme- nide e
Socrate sull’esistenza delle idee, che forma tutta 1) Teet. 183 E. Soph. 2417
C. 80 la prima parte del dîalogo. E avanti tutto, osserva Pàr- menide, si
possono ‘ammettere le idee in sè e separate, come a dire una idea ‘dell’uomo
separata da noi e da tutti gli altri uomini!)? Quante difficoltà non si oppongono
‘a questa accezione? E prima di ogni altro v' ha solo le idee del giusto, del
bello, del buono e simili, ovvero tante sono le idee per quante cose cadone
sotto ai sensi? e dob- biamo annoverare tra le idee anche quelle del pelo,
della melma, del sudiciume e di qualunque altra cosa, per vile ed ignobile che
sia? ?) Socrate riconosce di essere atato per molto tempo incerto, è perplesso.
Imperodehè da una parte se ogni concetto eorrisponde ad una idea, che esista da
sè, si debbono ammettere le idee anche delle cose più vili, perchè anche di
queste perveniamo a formarci un esatto coneetto. Dall'altra parte nel regno
delle idee non ci do- vrebbe entrare se non quello che è perfetto, e sarebbe
ve- ramente ridicolo ammettere nel mondo di là una esatta riproduziorie di
tutte le storture e le miserie del mondo di qua. Epperò Socrate tiene solamente
alle idee più ele- vate, e intorno a quelle soltanto s'affatica*). Vale a dire
che invece di risolverla ei sì studia di séeansare la difficoltà; procedimento
poco scientifico per: fermo, e che Parmenide scusa sélo' per l'inesperienza
giovanile del suo interlocutore: Ma più grave è la difficoltà che segue. Se
tutte le cose del:mondo in tanto si dicono belle, sante, e simili in quanto
accolgono in sè la bellezza, e la santità, st può dimandare: F idea nel
rinfrangersi nelle cose conserva }a sua unità, 4) 130 B. xa por sirè, avrà; aù
odro dimpnoa. we \éye, gopie pv sida aùrà &rra, yopis di tà tovrav ab
perfyovea;... . otov drxatov ri eidor aùrò ALÌ AÙTÒ ed xa)dod xa dyadob, xal
ravrmv ai tiv coLoÙte»; 2):130 C. oîov Spi xa raid; xad pros fi &ilo re
dripéraréy te xoù pavibrarov. 3) 4130 D. E ovvero si sniinuzzola în tanti
frammenti; per quanti sonò gli esseri a cui s’ impartisce? Socrate naturalmente
sostiene la persistenza dell’ unità, 6 per prova della sua opinione adduce,
secondo il costume platonico, una immagine: La idea sì conserva sempre una, non
esce mai da sè, sebbene sì sparpagli nel creato, a quel modo che il giorno
sebbene ‘ risplenda sulle varie parti del mondo, è sempre uno ed identico a sè
medesimo. E Parmenide, lodando il pietoso accorgimento del giovinetto , anche
lui propone un’ altra immagine, che risponde press’ a poco alla prima; l’idea
sarebbe come una tenda, che ripari molti uomini. Simili- tudine per similitudime
par che l’ una valga l’ altra. Senon- chè or traspare mon esser punto sciolta
la difficoltà, per- chè certamente ciascun uomo non è riparato da tutta la
tenda, ma da quella parte che serve a coprir lui, e la ten- da, o il riparo
totale si divide in tanti ripari, per quanti sono gli uomini che difende.
Potremmo dire lo stesso del- l'idea? Ammettiamo che quando l’idea si sparpagli
nelle cose sensibili, ciascuna di esse non l’accolga nella sua in- tegrità, ma
ne goda un bricciolo solo? Si potrebbe dire, ad esempio, che le cose son grandi
in quanto partecipano di un frammento di grandezza? Ma se le cose partecipano
soltanto di un frammento di grandezza, si dovrebbe invero stimare non che siano
grandi, anzi piccole. Dite lo stesso dell’ e- guaglianza e della piccolezza, e
simili. Dovunque vi rivol- giate- incorrete nella difficoltà: come possa l’
idea restare una, se si sparpaglia nelle cose. E se l’idea si divide, le cose-
non partecipano all'idea tutta; ma: a una frazione in- finitesima di essa !). |
Soerate riconosce la gravità di quest' obbiezione, e non s'è ancora rifatto del
suo stupore, che Parmenrde lo in- 4) 134 A. 82 veste con altra difficoltà.
Ammettiamo pure che vi sia una idea della grandezza a sè, separata dalle cose
grandi. Egli è indubitato che con quell’ idea queste cose avranno un che di
comune; e così nasce una terza idea, il cui contenuto è appunto questo elemento
identico. E di nuovo tra que- sta idea e la precedente ci sarà pure un rapporto
di con- venienza, e nascerà una quarta idea, e poi una quinta, e per tal forma
una sola idea si romperà in un numero in- finito '). Da questa stretta Socrate
si argomenta di sfuggire col rifiutare le idee, come entità separate, le quali
sarebbero in- vece i pensieri che non esistono altrove se non nell'anima *).
Senonchè Parmenide non accetta questa modificazione, per- chè siccome tutte le
cose partecipano dell’idee, se queste sono pensieri, anche quelle dovrebbero
essere tali, e ne ver- rebbe l’ assurdo o che tutte le cose sien fornite di
mente ovvero che pur essendo pensieri, non pensino *). E Socrate, battuto su
questo punto, cerca un'altra via di sfuggita. Le idee si possono considerare
come i mo- delli, alla cui somiglianza sono foggiate le cose. E come il modello
non cessa di essere quello che è, se pur venga ritratto in mille copie, così
l’idea non perde la sua unità quando le cose la riproducano il meglio che
possono. Per tal guisa il nome di partecipazione non vuol dire altro se non
rassomiglianza 4). Ma Parmenide non appagato di questa spiegazione ripete per
la somiglianza lo stesso argomento 4) 132 B. xa oùxéin dh dv fxaorév co tiv
cidav dora, dl arupa tò mio. 2) Prego il lettore di notar bene tutto questo
passo 132 B-D. ph rov sldav tuaotov tovrmv vinpa, xal oùdapod aùri mpocian
dyyiyvs- cia kiiod © év fuyais. 3) 132 C. #... ravra vosiv È voriuara dvra
avinta sivar. 4) 132 D. sad è pedeiu ade toîs Aldo Yiperdat ad sidiv odx dida
tu Y sixao3dfvar avrois. 83 che abbiamo esposto più sopra (V. nota 8.*) Se tra
le idee e le cose corre un rapporto di somiglianza, si do- vrà ammettere una
terza idea più generale nella quale l’ originale e le copie s’ unificano. E
così risorge quel pro- cesso all’ infinito, che abbiamo pur ora battuto. E da
no- tare altresì che questa teorica della rassomiglianza lascia intatte le idee
come entità a sè e separate dalle cose. Con- tro le quali, oltre le difficoltà
esposte sorge ora un’ altra, che tutte le vince. Se le idee sono in sè, si
potrebbe so- stenere che noi non possiamo farle nostre 1) e conoscerle, se non
per quello in cui le cose vi rassomigliano. Senonchè l'essenza dell’idee non
sta certo nel rapporto che le annoda ai, simulacri e alle copie, ma in quello
che corre tra loro stesse. Questa essenza adunque a noi sfuggirebbe del tutto;
chè se noì potessimo arrivare alla conoscenza delle idee come entità a sè,
possederemmo la scienza perfetta, la quale al più potrebbe essere il privilegio
degli Dei c non degli uo- mini. Se non che gli Dei conoscendo le idee in sè ,
non potrebbero conoscere il sensibile, perchè come le idee sì conoscono in sè
stesse, e non nel rapporto che hanno col sensibile, così il sensibile s1 deve
conoscere per il rapporto che ha coll’ altro sensibile, non per quello che lo
lega alle idee ?). Queste difficoltà, aggiunge Parmenide, minano le fonda-
menta della teorica delle idee; ma frattanto, negate le idee, è impossibile la
cognizione, la quale sta tutta nella deter- minazione del concetto delle cose,
unico ed immanente ?). AI che Socrate resta confuso e non sa qual partito
tenere. Ma Parmenide lo rinfranca, e lo ammonisce che tutte le dif- ficoltà
intorno all’ idee .sien nate dal non essersi tenuto 4) 133 C. 2) 133 B-135 B.
3) 135 B. 84 un buon metodo nello studio di esse. Se vogliamo ce- noscerne l'
intima natura, non dobbiamo sfuggire le sot» tili ricerche dialettiche ,
appaiano pure un fuor d' opera all’ occhio del volgo. E da questo punto
incomincia la se- conda parte del Parmenide, la quale è legata colla prima più
strettamente di quel che non fossera nel Fedro la di- seussione intorno al
Rello, e quella sulla dialettica. Perchè ove nella prima parte sì espongono le
difficoltà della teo- rica delle idee, come entità separate; nella seconda si
stu- dia il metodo, che ben applicato conduce a determinare meglio la natura
delle idee , e quindi a risolvere o scar- tare le difficoltà insorte. Ma in che
consiste questo me- todo? È lo stesso processo ipotetico 0 indiretto, adoperato
da Zenone, ora applicato all'idee stesse. Ciascuna idea bi- sogna prima
supporre che sia, e ricavare da questa sup- posizione le possibili conseguenze
così rispetto a sè stes- sa come all'altra idea; ma non basta ancora, è d’ uopo
sup- porre altresì che non sia, ed esaminare se le conseguenze che derivano
d& questa nuovo: assunto tengano o pur no meglio delle prime. Così ad
esempio se si tratta del con- cetto della pluralità, bisogna prima esaminare,
posto che la molteplicità sia, quali conseguenze 8’ hanno a trarre per la
molteplicità stessa, considerata prima in sè a polin rapr porto coll’ unità, e
quali altre per l’unità, considerata pure prima in sè e poi nel rapporto alla
molteplicità. E lo stesso processo si deve tenere per l’altro presupposto che
la mol- tiplicità non sia !). Socrate prega Parmenide di mettere alla prova
questo processo, ed il veechio filosofo, sebbene confessi che a lui 1) 136 A.
ci moda con, ni ph Fupfaiver xoù aùroîs toi rodloî repde autà val tpòs TÒ Sv
xal tw pa pic T'arò val mpòs tà molla xod ab si pi deri modà, malv auometo ti
Eupfhostar xaù ti iv xad toîg roXàots xat mpòs abrà alè mpòs dina, 85 potrebbe
toccare la sorte del cavallo d' Ibico, pure vinto dall’ istanze di Socrate e di
Zenone, cede alla fine, e tolto ad interlocutore Aristotele 1) come il più
giovine fra tutti, si fa ad esaminare il concetto dell’ uno. Ma prima di di»
scutere le due posizioni l'uno è, l'uno non è, Parmenide si mette a un’altra
ricerca preliminare, vale a dire se allo uno convenga un predicato diverso da
sè medesimo. A prima giunta sembra che dell'uno non possa dirsi altro se non
questo : l'uno è uno; perchè coll’ attribuirgli un altro pre- dicato, noi
mostriamo di avere un altro concetto oltre quello dell’ uno, e questo non sarà
più il vero uno (vale a dire l’unica e sola idea della mente nostra). All’ uno
dunque, come l'intendevano gli Eleati, non si può attribuire nes- sun predicato
, e per tal guisa gli convengono solo due sorta di giudizii, l' identico e i
negativi ?). L'uno è uno, ecco tutto, e di lui si può dir solo quello che non
è. Così si ha a dire che se è uno, non è molti; epperò nen ha parti, e per
conseguenza non è neanche un tutto, perchè il tutto non è se non l'insieme
delle partì. Parimenti se l'uno non ha parti, non ha neanco nè principio nè
mezzo nè fine, che sono certamente parti. E se gli manca prin- cipio e fine,
non essendovi che lo limiti, è illimitato. Di nuovo se non ha parti, non ha
neanche figura; chè in. ogni figura, o circolare o rettilinea che sia, s' ha da
distinguere gli estremi dal mezzo. E se non ha figura, non è in sè stesso nè in
altro. Nan può essere in altra perchè in tal caso sarebbe contenuto in quello
come in circolo, che di ogni parte lo tocchi, e l'uno nona ha parti nè forma
circolare. Nè può stare in sè medesimo, chè allora gi partirebbe in due eioè il
contenente e il contenuto, e così 1) Quegli che fu poi uno dei trenta tiranni.
2) Questa conclusione, come vedemmo, fu in fatto tirata dat megarici. 86 ] non
sarebbe più uno. E se l'uno non sta nè in sè nè in al- tro, non può essere
neanche in movimento, perchè se l’ uno si movesse, o roterebbe intorno a sè,
vale a dire avreb- be in sè un centro separato dalla periferia, in altre parole
avrebbe parti e non sarebbe più uno; ovvero si muoverebbe mutando di luogo, ma
anche in tal caso l’ uno sarebbe in altro, cioè nel luogo che occupa, e abbiamo
veduto: che non può. Chè se poi per movimento s'intende l’ altera- zione, l’
uno non si può muovere, perchè non può can- giare natura; se no cesserebbe di
essere uno. Ma se l’uno non è in moto, non è tampoco in riposo, perchè, se
stesse in riposo, dovrebbe occupare sempre lo stesso posto, e l'uno non occupa
posto di sorta. Per la stessa ragione non si può dire identico nè a sè nè ad
altri. Non identico ad altri perchè cesserebbe di essere uno, nè identico a sè
(perchè in tal caso ci dovrebbe essere un ripiegamento, o una sdoppiatura
interna, che contraddice alla natura dell'uno). Nè ’’ uno può essere diverso nè
da sè, nè da altro. Non da sè, chè cesserebbe di essere uno, nè da altro,
perchè ci sarebbe in lui un accenno a qual cos' al- tro che non sia lui stesso
‘). Se l’ uno non è nè identi- co nè diverso nè di sè stesso nè di altro non
può essere anche nè simile nè dissimile, nè uguale nè disuguale nè a sè nè a
chicchesia. Perchè in fondo ai rapporti di simi- glianza ed eguaglianza c'è
sempre una parziale identità. Ma se l uno non è eguale nè disuguale nè a sè nè
ad altri per nessun rispetto, non sarà tale neanche per tempo. Di quì non si
può dire nè che conservi la stessa età, nè che | ringiovanisca od invecchi, nè
che sia coetaneo, o più gio- vine o più vecchio di chicchesia. Tutta questa
deduzione non par fatta sul serio; perchè negato qualunque movimento od
alterazione all'uno, sarebbe ridicolo attribuirgli un'età, 4) 139 C. 87 E
Platone forse non sarebbe tornato a ribadire che allo uno non convenga il
divenire di sorta, se non gli fosse premuto di trarne una consegueza alquanto
strana. Se lo uno non è divenuto, nè diviene nè -sarà giammai per di- venire,
non potrà mai partecipare dell'essere, perchè solo chi diviene partecipa
dell'essere, vale a dire acquista quella entità, che prima non aveva; se l’ uno
non partecipa dello essere, vuol dire che non è, e come in tutti i giudizi
anche negli identici entra questa copula é, se l’uno non è in alcun modo, non è
neanco uno. In fondo a questo gioco ed artifizio logico, il quale ha più
l'aspetto di un sofisma trovi lo stesso perisiero, dal quale abbiamo
incominciata l'esposizione di questa dialettica. Vale a dire che alla sem-
plicità dell’ uno ripugna qualunque altro concetto diverso da lui, fosse pure
quello dell'essere. Ma da tutto questo garbuglio Platone sa trarre la
conclusione che più gli preme, e che è per fermo giusta, voglio dire se all’
uno non con- viene nessun predicato diverso da sè, non sì può nè pen- sare nè
conoscere in alcuna guisa, non gli sì può attri- buire un nome, nè può essere
espresso per nessun modo !). A torto adunqne l’ Eleatismo, rinnovato dai
Megorici, smette come principio dell’essere e del conoscere l’uomo destituito
di ogni predicato, che per fermo è affatto inconoscibile. Ma se il togliere
all’ uno qualsiasi predicato, diverso da sè, ne rende impossibile la
cognizione, vediamo ora cosa succeda se gli attribuiamo un predicato qualunque.
Éd in- cominciando del più generale, da quello dell'essere, terremo la via
tracciata di sopra (V. pag. 84). Diremo dell’ uno prima che è, e studieremo le
conseguenze che derivano da questa posizione rispetto a lui e al molti; e poì
torremo 18) 142 A. obd' dvopétera dp'oùdi Meyera cudì dofàcera: oudì qepresaze-
qa, odi ti tiv Evrav abroi aioIkvera. 38 la posizione opposta «l'uno non è » ed
esamineremo pari- menti le conseguenze che ne rampollano. PRIMA Posizione: L*
uno è — 7° Conseguenze rispetto all'uno. Nella posizione l'uno è, il concetto
di essere non è iden- tico a quello d’ uno, perchè in tal caso l'uno è equivar-
rebbe all'uno uno. All’ uno adunque sì possono attribuire due predicati diversi
fra di loro, l’ uno e l’ essere. Di quì l’unità è un tutto di cui l'uno e
l'essere sono le parti. ° Ma ciascuna parte a sua volta è nel contempo wna sola
ed é, epperò ciascuna parte di nuovo è un tutto che ab- braccia due altre
particelle, l’unità e l'essere. E di ciascuna di queste particelle possiamo
tenere lo stesso discorso. Casì l'uno si rompe in un infinita molteplicità !).
Lo stesso ri- sultato si può ottenere per altra via. Platone non smette neanche
in questo dialogo l’ abito antico di obbiettivare i concetti, fossero anche
meramente relativi. E per tal guisa se l’uno è diverso dall'essere, vuol dire
che oltre al con- cetto dell'uno e quello dell’ essere occorre eziandio un ter-
20, il diversa, partecipando del quale il primo si separa dal secondo. Nessuno
c’ impedisce di torre questi tre con- cetti o ad uno ad uno, o a coppie, o
tutti insieme. E così abbiamo ì primi tre numeri l'uno, il due, il tre; vale a
dire l’ unità, il pari e il dispari, che sono gli elementi di ogni numero. E
qui Parmenide dimentica affatto i de- terminati concetti dell'essere dell'uno,
e del diverso, di cui ora si trattava, e togliendo a considerare i primi tre
numeri, come numeri soltanto, ne trae la naturale conseguenza, che dato. il
pari il dispari e l'unità, è poste ogni numero. E ehe v' impedisce di prender
due o tre volte il due, tre o due 4) 4441 A. l 68 volta il tre, aggiungere il
tre al due e così dj seguito? E per tal guisa il concetto dell'Ente non si è
sminuzzolato in una varietà infinita di entità ed una varietà infinita di upità
1)? Ma desso è sempre il Tutto coma dicemmo sopra, di cui questa varietà sono
le parti, e come 1] tutto sta nelle parti prese insieme, s'ha a dire che il
tutto venga limitato dalle parti, che non possa essere nè maggiore nè minore
»del loro complesso. Eppero l' Uno, considerato come tutto, è limitato, mentre
prima, rompendogi in una infinità Varietà, cì si mostrava illimitato. Eeco
dusque le eonseguenze che si traggono dalla po- sizione l' Uno è. Se l’ Uno è,
accoglie i predicati contra- dittori, è uno e molti, tutto e parti, limitato ed
illimitato. Queste eontraddizioni poi si possono moltiplicare a piacere e
Parmenide non si lascia certo sfuggire una così propizia occasione. Molte volte
le argomentazioni sono più ingegnose che vere, molte altre volte partono da
presupposti indimo- strati; ma ciò non monta; purchè l’uno si complichi ad ogni
passo in nuove contraddizioni. Gosì ad esempio se l’ unp è il tutto, sarà in sè
stesso e in altro; sarà in sè stesso, perchè le parti (prese insieme) da un
lato eguagliano il tutto, e dall’ altro vengono in esso racchiuse, il che vuol
dire che il tutto (parti prese insieme) è contenuto nel tut- to, o in sè
medesimo. Ma d'altro lato come può accadere ehe il tutto sia contenuto in sè
stesso? Bisognerebbe a tal modo ehe fosse contenuto nelle parti (prese
insieme); ma non può essere contenuto in ciascuna di queste parti, perchè in
tal caso il minore comprenderebbe il maggiore, e non potendo essere contenuto in
eiascuna singolarmente, non può essere neanco eontenuto in tutta. Dunque il
tutta, Ie qui è l Uno, non è contenuto in sè stesso, ma in altro. 1) Où povov
&pa tò dv Fold dare, GAI val ccirà Th tv drrà cod dvroc dravevepmptvor mod
dvaryan eivon 444 E. 90 La dimostrazione certamente zoppica, ed il primo
argomento poggia sopra un equivoco, perchè le parti, prese insieme, non sì può
dire sieno contenute nel tutto, essendo la stessa cosa di esso; edil secondo
poggia sull’ anfibologia, che ciò che si dice di una parte presa isolatamente,
si ripeta pur di essa, quando è tolta in complesso con tutte le altre. Ma
quéste inesattezze non contano nulla per Parmenide, pur- chè si possa
concludere un’altra contraddizione. « L’uno ad un tempo è insè ed in altro »').
E non basta. Con un gioco di parole vi balza fuori una nuova contraddizione. Se
l’uno è sempre in sè medesimo, vuol dire che non esce mai dal posto che occupa,
in altre parole è in riposo; e se sempre muta di posto, questo importa che è in
movimento. Dunque l'uno ad un tempo sempre sta e sempre si muove ?). Così
parimenti l'uno essendo in sè medesimo è identico a sè stesso, ma trovandosi
sempre in altro, differiscc da sè °). Non minori sono le contraddizioni che si
riferiscono al- l' Uno in rapporto col molti. E la prima è questa che l' Uno
nel contempo è diverso ed identico al Molti o al Non-Uno. Che sia diverso,
nessun dubbio; ma che pari- menti sia identico abbisogna di una dimostrazione,
e Par- menide ne adduce una curiosissima. Se il diverso e l' iden- tico sono
contrarî, l'uno non si può trovare mai nel posto dell'altro. La diversità
dunque non può risiedere nè nel-. l'uno nè nel molti, perchè ciascuna di queste
categorie è identica‘ a sè stessa, e dove c’è l’ identico non può alber- gare
nel contempo il diverso. Se adunque nè l’uno nè il molti possono accogliere in
sè la diversità, vuol dire che sono identici fra loro. Dunque l’uno nel
contempo è iden- ‘tico e diverso dal molti. Se è identico e diverso, qual me-
4) 145 E. xa oùrw tò iv avayea aùté tiv taurò civar rod dv eripo, 2) 146 A. del
uwsicdar te vai tordva.. 3) 146 B. xa pùv tavrév ye dei siva aùtò sauro xaù
Erepoy davroî. ° d raviglia che sarà simile e dissimile? È dissimile perchè
l’uno è opposto all’altro; ma siccome tanto l'uno è dissimile dall'altro,
quanto l’altro è dissimile dall'uno, in questo almeno si rassomigliano tra
loro, che entrambi si escludono. L’uno adunque è simile e dissimile da sè e
dalle altre cose '). Con poche variazioni avrebbe Parmenide potuto dimostrare
che l’uno è parimenti disuguale ed equale ‘a sè ed alle altre cose, senza
intesserci un nuovo sofisma. Ma nel nostro dialogo c'è un lusso di
dimostrazioni nuove, una più sottile del- l’altra, anche quando non faccia
bisogno, le quali poi tutte s'accomodano sempre al fare platonico, che abbiamo
ri- cordato di sopra, vale a dire l’obbiettivare i concetti. Così ad esempio,
l'uno non può essere nè più grande nè più piccolo di sè stesso, se non ad un
patto che l’idea della piccolezza o della grandezza si trovino in lui. Or se la
pic- colezza si trova o nella totalità o nella parte dell’ Uno, vuol dire che
adegua o abbraccia queste, cioè sarà grande con loro, e non sarà più
piccolezza. E parimenti la gran- dezza se fosse contenuta nell’ Uno, sarebbe
minore del suo contenente, e così s' avrebbe una cosa più grande della
grandezza stessa. Per tal guisa l’ Uno non può essere nè più grande nè più
piccolo in nessun modo nè di sè nè delle altre cose. Ma d'altra parte l'uno è
in sè stesso; dun- que ad un tempo è più grande di sè, come contenente sè, ed è
più piccolo come contenuto. E parimenti se fuori dal- l'uno vi sono altre cose,
se ogni cosa per esistere è d’uopo che sia in qualcheduno, se al di là dell'uno
e delle altre cose non c'è nulla, egli è evidente che l’uno e le cose debbono
stare l’uno dentro dell’altro, per guisa che o l’uno è nelle cose, o le cose
sono nell’uno. Secondo il primo rapporto l'uno è più piccolo delle cose, come
il contenuto 4) 148 C. dporéy 7'dv sia xa avépotov toîg &Aiaxg. Dà quanto
considerato in rapporto alle -cose. L'uno è ad un tempo uno e molti, finito ed
infinito, è contenuto in se ed in altro, è in riposo e in movimento; ‘è
identico e di- verso, simile e dissimile, eguale e non eguale alle cose; e
queste or le tocca or non le tocca, or è loro contem- peraneo ed ora non è più.
Tutte queste contraddizioni sem- bra vengano risolute nel concetto del
divenire. Esse si adunano tutte nell’opposizione fondamentale dell'essere e del
non essere perchè l'uno ora partecipa dell'essere, ora no. Ma è possibile che
nell’istesso momento, in cui vi parte- cipa non vi partecipi, e viceversa? No
certamente. Non ci è dunque altra sfuggita se non che in'un tempo vi parte-
cipi e nell'altro no, vale a dire che ora acquisti. l’ essere, ora lo lasci, o
in altre-parole che nasca e perisca, non solo in un senso assoluto ma anche
relativo, perchè quando l’' Uno cessa di essere multiplo, rinasce come uno; e
quando cessa di essere uno, risorge come multiplo; o in altre pa- role or si
raccoglie ed or si divide, or s'arresta ed or si muove, or è da meno delle cose
che lo circondano, ed or le agguaglia e le supera '). Ma l’uno non può passare
dal movimento al riposo, e dal riposo al movimento senza .can= giare, e il
cangiamento suppone quel non so che di me- raviglioso, che noi chiamiamo istante,
in cui l’ uno cessa di essere in riposo e incomincia a muoversi, cioè a dire
che ad un tempo e del moto partecipa e della quiete ?). Questa cosa strana, che
è l’ istante, si trova in mezzo tra il movimento e il riposo, e di là parte e
là termina il cangiamento. E l’ uno, quando entra in questo istante, è an- 4)
Ap oùy òrs peréyer, oi6v 7° dora rére pù perbgev, È ove pù peri- gu, pertyeci;
ody oiov ts. “Ev &lw &pa ypévo perigor nad èv &ilw ov pertyor. 155
E. 2) Ap oùy darà rò &roroy tovto, ds é tèr'&v sin, dre peraBalàa; tò
motor dh; tè dfatpmg. Tè yap dbatpwne totovde ce dorme ompatvew, de dé duet-
vov peraB&)lov eic ixdrepov. 156 D. 95 che luì un intermediario, ed allora
non è in moto nè in | riposo, ma in entrambi, e così cile di tutte le altre op-
posizioni. i Senonchè questo tentativo di conciliazione tra gli oppo- sti è
messo lì senza seguito.. Non si discute se il can- giamento, che certamente ha
luogo nel mondo sensibile, possa pur darsi nel mondo ideale. E posto che anche
il mondo ideale muti, in che è .riposto il suo mutare? e in che differisce dal
cangiamento fisico ?.Questi problemi non sono neppure sfiorati, e Parmenide
invece proseguendo la sua dialettica, discute il secondo punto, vale a dire le
con- seguenze che dalla posizione l’ uno è derivano alle cose sia in loro
stesse, sia nel rapporto coll’ uno. 2° Conseguenze rispetto alle cose. Se l’
uno è, le cose saranno diverse da lui. Ma non per- tanto partecipano dell’
unità, perchè esse in tanto differi- scono dall’unità, in quanto hanno parti, ma
le parti non si possono comprendere se non in rapporto al tutto, che è pure
unità. Le cose dunque prese nel loro ihsiéme parte- cipano, dell’ unità. E
ciascuna parte pure: in quanto è sè stessa e non le altre, anch’ essa partecipa
dell’ unità. In una parola le cose sia nell'insieme come nelle parti, sebbene
differiscano dall’ unità , pure vi partecipano. Ma questo complesso di cose non
risulta da un numero in- finito di parti? Certamente, perchè se ciascuna parte
non è l'uno, ma partecipa dell’ unità, vuol dire che non è semplice, e che non
possiamo determinare una parte così piccola, da non poterla suddividere col
pensiero in altre più piccole ancora, e così all’ infinito. Ma d'altra parte
queste parti non formano un tutto? E il tutto e le parti non si limitano a
vicenda, così che nel tutto non entri 96 altra parte al di fuori di quelle che
lo costituiscono quel tutto? Per questo verso |e cose sono limitate. Le cose a-
dunque, come molti, per la divisibilità all'infinito sono il- limitate, e in
quanto partecipando all’ uno , formano un dato tutto, sono limitate. E se
accolgono questi predicati contradittorî saranno simili e dissimili da sè
medesimi, e così tornerebhbero tutte le contraddizioni che abbiamo enu- merate
di sopra. Ma per un’altra serie di ragioni Parmenide dalla posi- zione l’ uno è
deduce altre conseguenze affatto opposte. Se uno è tutt'altro dalle cose, e se
al di fuori dell'uno e delle cose non c’è altro, non si può dare yna terza cosa
nella quale |’ uno e il non-uno si trovino insieme. L'uno però è affatto
separato dalle cose. Ma se è fuori di esse, non potrà parteciparsi a loro,
perchè non sì potrà trovare in esse nè in tutto nè in parte. Non in tutto,
perchè non sarebbe più in sè medesimo; non nelle parti perchè l’ uno è semplice
e non ha parti. Se dunque le cose non parte- cipano dell’ unità, non possono
essere nè uno nè molti, perchè il molti non è se non il complesso di più unità.
Parimenti non sono pè simili, nè dissimili, nè in quiete nè in movimento ,
perchè se fossero (tali parteciperebbero sempre o di una idea alla volta, o
delle due contrarie in- sieme, ed abbiamo già detto che nè l'uno né il due può
entrare nelle cose '). La dialettica rispetto alle cose è riu- scita allo
stesso risultato della precedente. Se l’ ugo è le cose, al pari dell’ uno,
ottengono predieati contraddittori. Ma la nostra ricerca non f fiaita. Ci resta
ad esaminare cello, stesso metodo l'altra posizione, l'uno pon è. 1) 460 A. . è
. , 1 petto te," nl SeconDa Posizione: L? uno non è—1.° Conseguenzé
rispetto all'uno. Prima di tutto la posizione l'uno non è è per fermo dif-
ferente dall'altra il non-uno non è. E noi non potremmo cogliere questa
differenza, nè oseremmo neppure affermare che non esistere l’uno, se non
conoscessimo la natura di es- so, e ciò per cui differisce dalle altré cose.
Poniamo pure l'uno non sia, non per questo cessa di essere un nostro concetto
determinato, che è differente dalle altre cose, per distiriguersi dalle quali
bisogna che abbia un quid di suo proprio, se pur di lui e non di altro predichiamo
il non es- sere !). Ma se l'uno differisce da tutte le altre cose, non
rassomiglia e non è similé ad altro all'infuori di sè stes- so. E se non
rassomiglia alle altre cose, non è neanco loro eguale. E se non le agguaglia,
ne sarà o più grande o più piccolo. E se l’ uno partecipa della grandezza, e
della pic- colezza, parteciperà dell’eguaglianza, che è un termine di mezzo,
che necessariamente intercede tra il più grande e il più piccolo. E non è
finito ancora. L’ uno partecipa e- siandio dell’ essere. Perchè quando diciamo
che l uno non è, noi per fermo intendiamo di attestare una verità, vale a dire
ciò che è. L'uno adunque partecipa se non altro dell’ essere del non essere. Ed
ecco qui un salto. Se l’uno da una parte è (ed ora l'essere non s'intende più
in un senso ristretto) e dall'altra parte non è; dunque si cangia, sì muove. Ma
riflettiamoci bene, come potrebbe cangiarsi? Non cesserebbe di essere uno?
Dunque non si cangia. E parimenti possiamo dire che non si può muovere, che è
in riposo. In breve dell’ uno anche qui si può dire che è 1) cirep cò y'tv
dusivo val pù dio pù tor. 161 A. 8 . e non è, è in movimento ed in riposo, si
muta e resta sempre identico a sè, e così di seguito 1). Ma per un'altra serie
di ragioni dovremmo dire preci- samente il contrario di quello che abbiamo
testè afferma- to. Se l'uno non è in alcun modo non può nè accogliere nè
abbandonare l’essere, epperò non nasce nè perisce, nè si muove nè è in riposo,
nè partecipa di nessuna cosa, e per conseguenza non è nè grande nè piccolo, nè
simigliante nè differente ?). In fondo a tutto questo giuoco dialettico c'è
l'opposizione fondamentale che l’ uno per esser noto come concetto, dev'essere
fornito di alcuni predicati, men- tre non esistendo in reallà, non gli si può
attribuire predi- cito di sorta. 2° Conseguenze rispetto alle cose. Ci resta
ora ad esaminare le conseguenze che dalla po- sizione l'uno non è derivano alle
altre cose. L’uno non è; ma le altre cose sono. In qual senso in- tendiamo la
parola altre? Forse rispetto all'uno? No certo perchè l'uno non è. Dunque sono
altre o differenti fra di loro. Ciascuna di queste cose, in quanto differisce
dal re- sto, è una in sè medesima, è limitata dalle altre, ha in fondo la
stessa natura di esse e così di seguito. Ma d'al- tra parte siccome nessuna
delle cose partecipa dell’ uno, che non è; ogni cosa si risolve in un molti, il
quale non ha alcun limite. Guardate da lontano le cose sembrano tutte eguali,
ma se ci appressiamo a loro, ci spariscono nelle loro differenze. Se dunque l’uno
non è le cose sono uno e più, limitate ed illimitate, simili è dissimili tra
loro. Ma d’altra parte se l'uno non è, solo le cose saranno. 4) 160 B— 160 B.
2) 163 B— 164 B. 99 E se sono, non possono in alcun modo partecipare di ciò che
non è. E come l'uno è un non essere, così le cose non saranno uno; e dacchè il
molti suppone l’uno, esse non saranno neanche molti. Dunque tutto al contrario
di ciò che dicevamo prima se l'uno non è, le cose non sa- ranno- nè l'uno nè
molti, e per conseguenza né limitate nè illimitate, nè simili nè dissimili. —
Im conclusione tanto che l’uno sia tanto che non sia, così l’uno eome le cose,
tanto in loro stessi, quanto in rapporto all’altro termine, accoglieranno
predicati contra- dittorî !). | 4) Parmenide così formola questa conclusione ,
166 C. # sit’ tor, cite ph fo, aùré te xad tAddA rad mpòg abrà nad repòc
&ilnda mavra rltvcos doti re xa oUx doni, xal patverat te nad cÙ palvera:.
CAPITOLO NE. POBEMICA INTORNO AL PARMENIDE. L'autenticità del Parmenide
:fer:prima revocata in-dubblo del Socher, ‘il quale -stimava' che nessuna parte
ded Plr- menide fosse degna di Platone. :Nen'la prima o l'intero» duzione
storica ,. che è molto povera # confusa i; nog ba parte intermedia, che
contiene gravi dubbi sulla teorica delle idee, così dommaticamente sostenuta
negli altri dia- loghi; mon 1 ultima parte infine, intessuta di sofismi, e
svolta sea ua Betoda; she nor :si trova - per fermo nel Fedone, nella Politàa,
e nel Timeo ?). 4) I dati storici del dialogo, secondo il Socher, non tengon
bene fra di loro. Socrate, sebbene molto giovane, pure ci ap- parisce maggiore
d’età d'Aristotele, e non può quindi contare meno di 25 anni; onde Parmenide
sarebbe venuto in Atene nel 435. av. C. E come in quel tempo, secondo il
dialogo, Parmenide era di 65 anni, così la sua nascita si dovrebbe mettere nel
500 av. C.; il che, dice Socher, è impossibile, perchè Senofane; nato nel 6410,
avrebbe contato 110 anni alla nascita di Parme- nide, e sarebbe vissuto almeno
130 anni per potere essere suo maestro. ( Socher Platons Schriften. Munchen
4820 p. 230). Questo ragionamento è sbagliato: 1° perchè l’anno di nascita di
Socrate non può essere messo al di là del 470 av. C. (Zel- ler II. 43). Se
dunque alla venuta di Parmenide Socrate con- tava 25 anni, questo avvenimento
ebbe luogo nel 445, e non nel 485, come dice il Socher. 2° La data della
nascita di Se- nofane poi non è punto sicura. Di Senofane si sa solo con
certezza esser fiorito nella seconda metà del secolo sesto av. G. e vissuto
tanto, che alla età di 93 anni scrisse dei versi con- servatici dal Laerzio, in
cui ricordava le sue peregrinazioni per la Grecia, incominciate a 23 anni, e
proseguite per 63 (Vedi Mullach Fragm. Philos, Graec. I. 106 fr. 24). Secondo
que- sti dati, non è improbabile che Senofane sia nalo nel mezzo della prima
metà del sesto secolo, o anche più tardi, e per tal guisa l'assurdità
cronologica, rilevata dal Socher, sparisce. 2) V. op. cit. p. 287-88. 10t La
tesi dal Secher venne ripresa più tardi dall'Uerbeweg, il quale addusse:
ragioni ben più gravi. per dubitare della autersticità del Parmenide. Il:
Socher, traendo partito dalle Gbbiszioni. mosse contro la dottrina delle idee
nella prima parte del Parmienide, avéa. giù notato essere. molto strano che un:
autore non selo ascogiti i ‘più sottili argomenti conteso. i proprio sistema:;
ma tronchi: lì la discussione senza risolverk. E più strano ancora, soggiuage
1’ Ueberweg, che .siflatte obbiezioni ‘si riscontriao. a- capello: con li di
Ariptotale. Ed.in verità Patmenide dimanda a Socrate, se sì dia una idea del
pelo, del sugiciame, e. di qualunque attra cosa: vile 1}, ed ‘Aristotele
osserva esser. le: idee pressocchè tante, ‘quanti gli. esseri di cui si cerca
Ja causa. Ogni cosa ba il suo. omonimo nelle: idee, 0, come: Hiee altrove, - lé
idbe .sono le: stesse cose sensibili, aggiuntovi solo. il pres diceto di per
sé. Il che varrebhe la stesso, come'se, altri, tem sapendo contare un piccol
numero di cifre, l'aumen- tnise a dismisura per rendere il calcolo più.
agevole. E tra lo conseguenze di questa viziosa moltiplicaziene v' ha pur
quella notata da Parmenide, che Aristotele esprime, in questa guisa: « le
ragioni che si adduceno in sostegno . delle idée. si ritorrono contro di loro.
Così la dimostra- zione: tolta dalla scienza conduce .a questo risultato; che w
sieno tante idee, per quanti abbiamo oggetti di cognizione. DI per tal guisa ci
accadrà di ammettere te idee del cor- «1 ste cose possediamo i una
rsppresentazion DI dB vi ‘90pra-pa nota 9; °9 Mefi pr pago .9k dh-ecia: Wi
aictecatBipoo: x xpico» pis A tes tevdi tiv dvrwv aBeiv tds aitias Prepa modo
fo tiv dprdpto da porsv, dorrep ivo dpidpica - Pas)dpevos - -Sieerrivene pe,
greco dierro ud Fu- usssìa, rito dd. “mentov dpripota’ - ‘orgliv. via dx-dereoo
va etto; SOT tovrmv mrepi dov Enrodvres tds aitiac dx v.en'idetva npoBi dI —
102 . L'altra obbiezione di Parmenide « come mai possa l’idea rifrangersi nella
tumultuosa molteplicità del sensibile, senza perdere la sua unità »') non è in
vero chiaramente ri- petuta da Aristotele. Ma egli invece per altra via riesce
allo stesso risultato di Parmenide. E dove questi nega che l’idea possa uscir
da sè, quegli soggiunge, che, ove. l’idea stia chiusa in. sè medesima. e venga
separata dalle cose, non può per fermo costituirne l’ essenza. « Sembra impossibile
che l'essenza sia separata da quelle cose, di cui forma il sostrato
sostanziale. Come possono dunque le idee venir separate dagli esseri, onde
costituiscono la vera entità? » ?). Ma la coincidenza più notevole, e sulla
quale esclusivamente si appoggia l’ Ueberweg, sì riscontra nel così detto
argomento del terzo uomo. Aristotele tocca di sfuggita questo argomento *); ma
il suo commentatore Alessandro Afrodiseo ce lo espone così: Quando noi di-
ciamo, ‘l’uomo cammina, non intendiamo dire dell’ uomo in quanto idea, perchè
l’ idea è immobile, e neanco diciamo di un uomo particolare, perchè non si può
parlare di ciò che non si conosce, e noi sappiamo bene che passeggia un uo- mo,
ma chi sia non sappiamo. Per la qual cosa, a dire il vero, egli è un uomo distinto
tanto dell'idea in sè, quanto dagl’ individui particolari, quello di cui
parliamo. Un'altra forma dello stesso argomento è questa: Se' ciò che si at-
L'altro passo, a cuì accenna il testo, è tolto dalla Met. VII. 16. 41040.
Iowodaw où tàs abtàs tw cider roîs pIaproîs (ravras Yap icpev) aù- todvipwrroy
x2Ì autottttov, mpootudévtes toîs aiTÌntots tò pane tò avrò. 4) Vedi capitolo
precedente pag. 81. 2) Met. I. 9. 991. tr doleev dv &duvarov siva xp thy
ovolav ua où ” ovaia. date rig dv ai idia ovaiai tiv rporpuatov odo agwpie cio;
Met. VII. 14. 1039. Ias rò dv év toîg odor yepic tv Frta: nai did ci où xal
Apre aùtov fora. tò Kov tolto. 3) ' ‘Eve di ai axpiértspor tav \oyiy oi pév tiv
rpos ri move idiag, div 00 paper siva: xad' aùté yivoc, ol dè tòv tpirov dev
porttov Myovow. I. 9. 990; ripetuto nel XIII. 4. 1079. 4103 tribuisce a più
cose è un essere a parte, distinto dalle cose di cui si afferma, fa d’uopo che
vi sia un terzo uomo; imperocchè questo nome s'applica e agl' individui e alle
idee, Vi ha dunque un terzo uomo distinto dagli uomini parti- colari e
dall'idea; e poscia un quarto, che sarà nello stesso rapporto con questo, e con
l’idea e con gli uomini particolari, poi un quinto e così di seguito all’
infinito 1). L'argomento del terzo uomo così esposto è a parola iden- tico
colla difficoltà che solleva Parmenide contro la teo- rica delle idee per ben
due volte, la prima allor che nota che ove l’idea di grandezza sia separata
dalle cose grandi, ci deve essere una terza idea, che entrambi le comprenda, e
così all’ infinito; la seconda quando argomentando con- tro la teorica della
partecipazione *) dice, che tra il mo- dello e la copia interviene un terzo
termine, formato da ciò che v' ha di comune in entrambe, e così si ricasca nel
processo all’ infinito. Ed intorno alla critica della teorica della
partecipazione è da notarsi un altro importante ri- seontro tra il Parmenide
platonico e la Metafisica. aristo- telica. Chè mentre in quello si rimprovera
alla dottrina della metessi un vizio logico; in questa poi la si condanna
affatto come una bastarda ripetizione della dottrina pita- gorica della mimesi,
e non la si tiene in maggior conto di una metafora poetica *). Ma oltre
all'argomento del terzo uomo, c'è pur un’ al- tra coincidenza, di cui l’ Ueberweg
non tien conto, ma che a mio avviso è di molto peso. Aristotele nello stesso
capitolo nono del primo della Metafisica dice le idee non 4) Brandis Schol in
Aristot, p. 556. 2) V. il Capitolo precedente. 3) Met. I. 6. 987. Oi pòv qàp
Mudayépsior pupicer tà ivra pastv siva tiv dpiFpiov, Marwy di pedéu, toovopa
peraPadosy. Ivi I. 9. 994. Tò de Mysw rapadetyuara aUtà siva nad peréygew abriv
ta\\a el SoTÀ xal perapopàc Myew rromtiRde. 4 giovare ndento alle conoscenze di
tutta le (cose, impo» #ocvhè non ne costituiscona l'essenza, altrimenti non do»
vrebbero essere in sè medesime , ma nelle cose!). E questo argomento vien
ripetuto nel settimo libro, -ova lo Stagirita dice chiaramente, che, separando:
l'essere .dalla sua fotrha sostanziale, non vi sarà pcienza pospibila del-
l'essere, e le forma da parte loro nos sarannp enti. « Bey separazione s
intende che. nell'essere buono noa si. troni la forma sostanziale det bene, e
che nella forma sostanziale non vi.sià l'essere. buono »/). Pressocchè con lé
stesse parole Parmenide sostiene l'assunto aristotelieò, e dice che se.le idee
sono in sò stesse, restano eternamente un pro» blema chiuso per noi, perchè noi
non possiamo mai assis midarcele e farle nostre. Di qui se anche be idee
.esibtesr sgro in sè medesime, non gioverebbero punto alla nostrà cognizione
*).. R dunque fuor di dubbio che le difficoltà. della prima purte del Parmenide
si riscontrano a capello con quelle di Aristotele, sebbene questi non citi
neppure una. velta.il' Pas menide nè direttamente: nè indirettamente. È qui sta
ap» punto la grave difficoltà. Se. il Parmemde è un dialogo platenivo, còme mai
Aristotele se ne appropria gli ango» menti, senza citarlo una wolta sala? Che
onestà sciensifica sarebbe questa, di muovere a Platone, come nuswe di ze ca,
obbiezioni che. Platone stesso aurebbe trovato :pioma del suo oppositore?
Aristotele avrebbe comrnessa. un indegno plagio, un furto. Ma .ruba chi è
pevero, dice Ueberweg, san coi che va fornito di tale riothesza intellettuale ,
quale 1) LINA pui oùte rpòs Thv émoriuny oddity Bondet tiv mov Ma (ovdè obgia
ixsiva tovrmwv dv touro yAp du ») I. 9.994; XIJE ò, 1079. dI xd” di “per
"RADI I fia pia , Toy Uke oyx lora brothun , tà d' où» Tora vT4 ego ps cò
amata, el port cò sie abris Urdp- gs tò ‘etvat Sute pire Tolto tè iva’ dadi).
VII 103%. 3) V. pag. 83 della nostra esposizione. | DOH sessane per (femno
motrà negare allo - Stagitita. Lipoi, an mesframe: pure che Ariskptele fosse :
d'un carsigere cosi ab- bistto; gome we le stipizigano :alougi anpimemigi ;..ma
se Je obifietsoni del Pavrséenide fossero ‘di Platena, querti nen an erebbe :
por ‘fromo mancate di risplverle, ed Amigtatola non bs ‘avrebbe ripetute
sesiplicemeste senza ribattenge Je: se luzioni ‘tentate dal Maestro. Si può
dubitene «del ,canattere neovdle di Aristotele, ma mon si dere Arbitare. del
rigpre logico del suo processo serantifico 1). Senonebè l'Uehermeg stesso men
nascende esseryi ua 7aRZZO per nisolvere tutte. queste giiani difficoltà, senza
somproraste tare. l'autenticità del Parmenide. E questo mezzo nen è una
imgegnosa. ascegitazione, ma ci vien .suggerito slalla gtoria stessa della
sovola platonica. Aristotele ,si stangò gal puo maestro , lui vivo:?), e la
tradizione rigorda, alcuni aped: doti assurdi, come quello tramandatogi da
Eliano che Ariston tele, apprafiftando dell'assenza di Sernocrate,.ia seguito a
una forte disputa, avdsse sescciatto il wenerando magstre dall'Acca» demsa, obe
avea per tanto tempo insegnato °)- Tale raccons ta, ed alini ali simil fatta,
sehhene non reggane alla critica, provano pur questo,«she le divergenze tra
Platone ad Ayisto- tele :incominciareno bea per tempo, e le abbiazioni di gue-
st’’inbtàimo seantro de dottrine del maestro sciraplavaro nel- l’Aceademia
molto tempo pra che la disezione di essa page saese idalle mani di Blatone a
quella di Speusippo e di Ser neesate. (Qual mezaziglia che il .marsiro tenasse
le oh bibztoni del vdiseepolo ia quel conto ghe pIarikavana, £ISRE 41)
Beberweg. op. cit. p. 4%. 2) Diogene ci conserva alcune parole attribuite a
Platone. Apiotort)ng hpde ameidunae, vadarep sì ti To epia ea al puti- pe.
‘Dibg. LI VAS. 3) Questo racconto di Eliano contraddiee lla testimonianza di‘
Divg.#H: 5: 41, secvinttola quate Platorie in quelitempo fon insegnava più.
nell’ Ategderzia, “ma in usi "SU lardino. x. er ler III. 640. sd 106 im
uno degli ultimi suoi lavori li ‘ricordasse in una forma concisa, e proponesse
il metodo più opportuno per risol- verle? Se la ‘cosa stesse così, Aristotele
non si potrebbe certamente accusare di plagio, perchè le obbiezioni del Par-
menide erano sue, e Platone non le avea escogitate lui, ma ripetute quali le
avea udite nelle requenki dispute tenute col suo discepole '). E questo
sospetto diviene certezza se si consideri che di queste obbiezioni
aristoteliche Platone non fa conto soltanto in questo dialogo, ma benanco negli
altri due, che Ueber- weg nel lavoro, che ora esaminiamo, tiene per autentici,
voglio dire il Sofista ed il Filebo. Nel Sofista vedemmo già che Platone,
trasformando la teorica ontologica delle idee nella dinamica , considera le
idee come forze, e adduce in sostegno di questo nuovo concetto la
considerazione, che senza esso non si potrebbe spiegare la vita e il mo-
vimento del mondo; rimprovero che anche Aristotele a- vea fatto al maestro. «
Altri, egli dice, dubiterà se le idee « conferiscano in nulla alla spiegazione
del mondo sensi- « bile, sia per quel che permane, sia per quel che nasce e pe-
« risce. Imperocchè le idee non sono causa di nessun movi- « mento o mutazione
»?). Nel Filebo poi, come vedremo, sono riassunte in breve alcune obbiezioni
del Parmenide. Chè ivi, come nel Parmenide, è detto non recar meraviglia che si
di- mostri le cose sensibili essere ad un tempo uno e molti; ma 1] meraviglioso
sarebbe se questa opposizione si trovasse anche nel mondo intelligibile 8). E
qui seguono le diffi- coltà, e nel Filebo come nel Parmenide vien dimandato se
1) Ueberweg stesso op. cit. p. 183 riconosce che an sich wdre dies wohl
denkbar. 2) Met. I. 9.991 obrs Yap mviceog oùte peraBolîc ovdeputc fortv ai- ‘mia
adeoic. V. il capitolo secondo del nostro lavoro pag. 41. 3) Filebo 14 C. — 15
A Parmenide 129 A —130 A. 108 esitano veramente queste monadi #); e se, ammesso
pur che esistano, possano poi conservare la loro unità, ed ind» peridenza
quando si spavpagliano e 8’ incarnano nel ntondo sentiibile:*). E dunque
fermamente dimostrato che nel: Fi+ lebo Platone conosce aleune delle difficoltà
del Parmenide; le: quali si riscontrano con quelle di Aristotele. E se in gra»
zià di questa coincidenza dovesse tenersi per ispurio il Par mettide, sarebbe
spurio eziandio il Filebo. E tale’ appunto fu la‘cenclusione, a cui perverme lo
Schaarschmidt. Ma noi: invece possiamo ritorcere con maggiore evidenza
l’argometl- to; imperocchè, dimostrato come facemmo cell’autorità di Ari-
stotele, che il Filebo sia opera genuina-di Platone; soi pos- siam dire che se
questo dialogo, non ostante gravi-obbiezioni alla teorica delle idee, è
certamente opera di Platone; appar- terrà pure a Platone il Parmenide, nel
quale queste diffi coltà vengono svolte con maggior larghezza 3). Le Zeller va
più avanti di noi, e stimando che il Filebo presupponga il Parmenide, e lo citi
quasi a parola, conclude che-l’autenticità del Parmenide per via indiretta
poggia sulla stessa- auturità aristotelica, sulla quale viene stabilita’ la
verità. del Filebo. A noi non sembra facile di stabilire quale dei due dialoghi
preceda o ricordi l'altre, ma solo questo temiamo per fermo che, posto
autentico l'uno, non c'è nessuna ragione di negare la nostra fede all’ altro.
‘Seesso l'argomento delle coincidenze aristoteliche, 1 Ue- 4) Fil. 15 B. et
quvas dei roravras stvar povadas UrolauBavav dindig odras. Parmenide 1390 B xa
por cimì, abtòà; où, obra dippnoai dé Myers, gopàg piv sid. abrdi &rta,
yupie de tà toitwy av periyora. V. sopra pag. 80, nota 1, ove riportammo tutto
il passo. 2) Basta paragonare la frase del Filebo rabr’ ion rà’ rep tà todi’ iv
xal molla (15. B) coll’altra del Parmenide ‘reérspov div de- xe coL diov tò
etdog tv ixdoro sivar tiv mo)lév &v èv; riscontrate la frase del Filebo
dìuv abràv aùme NAPÙS , ripetuta a parola. nel Parmenide aùrò arod ywpie.
3)'Zell'er op. cit, IT. 404, ove rinvia ai Platonische Studien140. *% 108
berweg non si dà per vinto, ed in una memoria di rispo- sta al Brandis ed al
Susemihl toglie una nuova dimostra- zione contro l'autenticità del Parmenide
dallo studio ac- curato del suo contenuto !). Nè l'apparato scenico, egli dice,
nè la forma dialettica, nè il contenuto del dialogo, nè alcuni giri di pensiero
o di espressione possono tenersi per platonici. Per quel che riguarda gl’
interlocutori del dialogo, egli è strano che qui entri un giovinetto, di nome
Aristotele, con cui Socrate si era altre volte intrattenuto sulla dottrina
delle idee. Questo Aristotele non ha certo che fare collo Stagirita, e nel
dialogo stesso si dice essere stato più tardi uno dei trenta tiranni. Ma non è
strana la coincidenza di nome tra il giovinetto, che risponde a Parmenide, e il
filosofo che mosse contro Platone le stesse obbiezioni ricordate nel dialogo?
Non sembra voluta a bella posta questa coincidenza? E non ci fornisce essa una
con- gettura che l'autore del dialogo sia posteriore allo Stagi- rita, e che
con questo artifizio ricordi l’aspra guerra che quegli mosse contro la dottrina
delle idee? Io potrei ri- spondere a questo argomento coll’osservazione del
Neu- mann, che il. giovinetto Aristotele non sostiene nel dialogo nessun
ufficio polemico. Egli è un ragazzo quale lo de- siderava Parmenide, che
risponde docilmente, e a mo- nosillabi, e non lo affatica con moleste critiche
od osser- vazioni ?). Del resto nella nostra supposizione che il Par- menide
sia una delle ultime opere di Platone, scritta quando già Aristotele avea mosse
le sue critiche alla dot- trina delle idee, la coincidenza notata dall’ Ueberweg
po- trebbe reggere ancora, ma non per questo il dialogo ces- serebbe di essere
schiettamente platonico. 4) Jahrbiicher fur elassische Philologie. 1863. vol. 5
p. 97-126. 2) Neumann. De Platonico quem vocant Parmenide. Be- rol. 1863. p.
21. 109 Nè molto peso io metterei all'altra ragione, toccata an- che da
Schleiermacher, essere strano che il dialogo sia rac- contato non da Socrate
medesimo nè da Antifone, fratello di Platone, ma da uno straniero, di cui non
conosciamo nulla, da Cefalo di Clazomene. E direi che appunto perchè di questo
straniero non sappiamo altro, appunto per que- sto non è lecito di trarre
dall'intervento di costui nessuna congettura contro l'autenticità del dialogo.
Chi ci può dire quali motivi personali avesse il nostro filosofo per ricor-
dare in uno dei suoi dialoghi un nome, che a noi sfortu- natamente suona
oscuro?!) Più gravi sono le dubbiezze che l’ Ueberweg trae dalla forma
dialettica. Secondo que- sto autore la dialettica del Parmenide non è certo un'
espli- cazione del metodo antinomico prediletto da Platone. Im-. perocchè se
dei due membri dell’antinomia, scartato Ì uno, come gravido di assurdità, sì
accettasse l’altro, questo pro- cedimento sarebbe platonico e risponderebbe al
canone me- todico- stabilito nel Fedone *). Ma che entrambi i termini
dell’antinomia conducano all’assurdo, cosicchè paja che la nostra. mente non
trovi luogo ove posarsi, questo al certo sarà un procedimento accetto allo
scetticismo della nuova accademia, ma non conforme per verità al dommatismo di
Platone. Questa critica dell’ Ueberweg, per quanto ingegnosa non 4) Il Cefalo
del Parmenide non può essere lo stesso di quello della Repubblica, perchè il
primo è di Clazomene, e il secondo di Siracusa. Ma Glaucone Adimante e.l
Antifone, non ostante alcune lievi difficoltà cronologiche, sono bene i
fratelli di Pla- tone, come c’è altestato da tutti gl’ interpetri antichi. 2)
Nel Fedone 404 D. è detto che, stabilita un'ipotesi, la si debba riprovare col
dedurne le conseguenze, perchè si scorga se queste s’accordino fra loro o no; e
dimostrata falsa la pri- ma ipotesi, bisogni escogitarne altra fino & che
si arrivi a qual- che cosa di stabile. &Xlnv aù Urédsow vmodépevos, frrus
rv &vwdev Bel tiora paivorro, fws éri ti ixavòv AI016....., 10 ci sembra
giasta. Che il processo ipotetico sia. raccoman- dato da Piatone stesso mon è
solo il Parmenide che ce-lo dice, ma benanco il Menone. In questo dialogo ci ‘è
un | eglebre passo, interpetrato variamente per la parte matenma- tiea, che mi
piace di riferire nella bella traduzione del Ferrai. « :Concedi che per via
d'ipotesi consideriamo s' ella si possa insegnare o per qual altro
modo--s'acquisti.. È quand’ io dico per vsa d' ipotesi, dico al modo che spesso
praticano i geometri, quando si dimanda loro per esempio d'una figura, se sia
possibile in un dato eircolo inseriver- la come triangolo: un d’essi in tal
caso ci risponderebbe: io ngn so se questo sta; ma io lo prendo per un ipotesi
in guanto giova. alla soluzione presente 4).» (Questo proae- dimento ipotetico,
che corrisponde alla dimostrazione indi- retta 0 éa absurdis delle nostre
logiche, non esclude cer- tamente che talvolta così una determinata ipotesi,
come la sua opposta, possa menare ad assurdi. In questo caso 0 il problema
stesso è fra quelli che si dicono insolubili, av- vero è mal posto, e i due
termini antinomici ng ammet- teno ua tergo che li concilia. Mi spiegherò con un
esesm- pio tolto da Platone stesso. Nel Protagora è dimostrato da. una parte
che la virtù non si possa insegnare, perchè i più virtuosi cittadini di Atene
non riuscirono ad educare i figli in mode da battere la stessa via dei loro
genitori. Da una altra parte è pur provato la virtù non esser riposta in, altro
se non nella seieaza, e come questa è appunto 1) Menone 86 E. L' interpetrazione
matematica di questo s- ‘0 nen.-ci riguarda. Chi avesse vaghezza di conoscere
le ipo- tesi escogitate dai Filologi e dai Geometri, riscentri la dotta nota
del .Prof. Favaro che segue alla traduzione del Menone pel Prof. Ferrai.
(Ferrai. I Dialoghi di Platone II. 487). Qui mi preme semplicemente di notare
il riscontro, già sagnalato dallo Beller, tra lo cuoret: tà EvpPatvovra i cc
Uro digerg del Parmenide {186 A) col Myw di cò di ViraStoews &de, Sorep ci
yropuérpoa moddree cxorobvra del Menone (86 E.) ‘101 4iò che :4i «può.
isisegnare, quelle sazelibe-di nécessità inse- gnabile. E «se vaglihimio
mettere «questa dimostrazione nella forma del -firoeesso ipotetico, dobbiamo
dire: ‘0 la virià . dipende solo dall'abito, dalla buona disposizione
dell'animo, ed in tal caso non è insegnabile; mà a questo paitò deb- biamo
«escludere dal movero delle virtù quelle che 5° 40qui- stano col sapere; così
la saggezza, che .8ta. nel corRescere ciò ehe .è bere, e discernerib
accuratamente dal sio con- 4rario ; il voraggio che è riposto nel conoscere la
vanità di .quegli-ostavoli, che l'immaginazione ci presenta come ple- Fighosi,
e così di seguito. Questa posizione duntgue mena ‘all’assurdo di ‘escludere dal
cencetto di virtà quelle, che a maggior titolo meriterebbero di esservi
incluse. Ma d'al- fra parte se rsiduciamo, come fa Sovrate, tutte le virtù.al
sapere, in tal caso ogni virtù si potrebbe acquistare col- l'istruzione, e
sarebbe impossibile che un uomo mediocze- mente istrutto; fosse alquanto
cattivo. Impossibilità che è ‘contraddetta dal fatto stesso di uonaini, che
colla migliere educazione sono rieseiti cattivi cittadini. Nel Pratagera sono
affermate entrambe queste conseguenze, che si esclu- dono a vicenda, e si
chiude il dialogo col porre il pro- blema, ehe così come sta è insolubile 1);
imperoechè dalla premessa la « virtù è scienza » derivano ‘alcuni. assurdi ; 'e
dal- l’opposta « la virtù non è seienza » derivano-altri assurdi nou meno gravi
dei primi. HI problema, non isciolto nel Pno- tagora, nel Menone poi è presentato
sotto un'altra fofma, che lo rende solubile. Non tutta la wirtù sta nella
sétienaa, nè tutta nell’abito o nella disposizione dell'animo; chè vha una
virtù popolare, dovuta al favor della fortuna cui non è fattibile sottoporre
‘all'istruzione; ma accanto a questa 4) Prot. 364 B. ai pò gip do te iv 7 iaggi
i però «auge dx iu a Sudani vin dei pariaeta iruariua ddav CR dor Lai di daxràv
dv. 112 trovi un altra virtù superiore, che è riposta nella scienza, e questa
non la portiamo con noi dalla nascita, ma l’acqui- stiamo col faticoso lavorio
dell'educazione. La virtù dun- que per un rispetto è insegnabile, e per un
altro no, se- condochè si parli di quella che si fonda sull’opinione, o
dell’altra che poggia sulla scienza 1). Ma quale difficoltà ci vieta di
applicare questo stesso metodo alla quistione metafisica dell'uno? Non avea
ragione Platone di opporsi così alla scuola eleatica, che sacrificava la
moltiplicità in grazia dell'uno, come alla scuola jonica ed eraclitea, che
annullava l'uno in grazia del molteplice? Entrambe dunque le posizioni sia
l'uno soltanto è; tanto l'uno non è (in nessun modo) dovevano apparirgli
difettose, e feconde di assurdità. Il che vuol dire che tra le due scuole
opposte debba sorgere una terza che le concilii, e ponga il problema in una
nuova forma. Ma su questo punto ritorneremo a miglior agio quando discuteremo
le obbiezioni dell’ Ueberweg contro le dottrine del dialogo , obbiezioni che sì
per la loro gravità, come per le molte quistioni che vi si rannodano, stimiamo
me- glio di rimandare ad uno capitolo a parte. Per ora toc- cheremo dell'ultima
serie degli argomenti dell’ Ueberweg, voglio dire di quelli che si riferiscono
al giro dei pensieri e «delle parole che non sembrano platonici. E così
all'Ueberweg non sembra platonica la tema del disprezzo, in cui il volgo tiene
la dialettica *). Il che mi sembra veramente strano, perchè Platone in molti
dialoghi parla dei pregiudizi del volgo contro i filosofi, di quel volgo che
credeva tutti i 1) Menone 99 A. @ d'&vSpewrros nyepesv dorw ènì tè 0p36v,
dio ravra, dela dinths xa imotiun. V. Fedone 82 B. ove dice della virtù da-
porhv ts xaù molrxdv essere di adovs te rad pelimns yeyovutav &vev qi-
Vocoglas te xaì vob. 2) Parm. 135 D. dia ris doxovane ayplorov eivar xal
xadovplvas Urrò iv modiav adolenytas. 113 sapienti di un colore solo, e tutti
battezzava, secondo il costume di Aristofane, per Sofisti. E se il volgo beve
così grosso, è ovvio che non sappia distinguere la vera dia- lettica dall’
Eristica, e tenga quella come questa per inu- tile cicaleggio. Il passo del
Parmenide è una conseguenza giusta di ciò che Platone ci dice nel VI. della
Repub- blica: « Il discredito in cui è tenuta la filosofia deriva dal perchè
sono penetrati nel sacro tempio uomini indegni, che usurpano sfacciatamente il
nome di sapienti '). E per tal’ guisa del volgo vien deriso il filosofo vero,
che col volgo non s' accomuna *) ». Quanto sia ingiusta la critica dell'
Ueberweg lo si vede chiaramente nello sforzo, che egli fa per dimostrare che
alcune parole, usate nel senso del Parmenide, non sieno platoniche. Così ad
esempio non sarebbe platonico il Yévoc nel senso di eis, poco platonico il
vodue, e punto la frase tuàotm tv frrovizév, che non potrebbe essere usata da
chi sostiene risolutamente l’unità della scienza. Ma ci vuol poca fatica a
ribattere questi argomenti. La parola yéoc nel senso d’ idea l’abbiamo trovata
anche Sofista e nel Fi- lebo, la cui autenticità, non ostante la mutata
opinione del- l'Ueberweg, è fuori di dubbio. In quanto al voipa è usato in un senso
molto vicino a quello del Parmenide nel ver- so di Teognide riferito nel Menone
95 E. si d’iîv romrèv (quot) xai Foderov Gvdpi vénpa. E finalmente per la frase
ixàota rev éresegisv non è la prima volta che Platone parla di scien- ze al
plurale. Anche nel Fedro 276 G. xedév rad agadàv im aviuas e nel Fedone 75 E.
izeiva; incoripas 9). 4) La Rep. VI. 495 C. chiama i Sofisti &v3pwricxor...
ci dx tiv cipyuiv cis tà ispà &rodidpaaroviss; più appresso li dice toù;
&vafiove rmadevosos 496 A. 2) 494 A. quécogov piv &pa rido adivarov
civon... sad Toùc prioco- qobvtas Rpa dvapen Pejo da dr’ abrtov. 3) Per tutte
queste voci vedi il Lexicon platonicum dell'Ast. 118, Noè vogho, chiudere
questa discussione: sull'autentitità del: Barmenide: senza citàre. due osservazioni
dello -Schaar- schmidt, sulle queli l Usbemweg non si era soffermato. La prima
che il Socrate del Parmenide non. offra nè la verità storica del Socrate reale,
nè la verità poetica del So» crate platonico; imperecchè egli non è qui nè
l’instanca- bile: ricercatore. della verità , il fine ed ironico polemista.
dei. Memorabili, nè il rappresentante ideale del vero filo- solo, quale” si
mostra nel Fedone e nella: Repubblica. Net Parmenide la figura di Socrate.
impallidisce innanzi a quella dell’ Eleate, nè questi per altro verso è
rappresentato meglio , perchè in fendo egli combatte la sua stessa dat trina
dell'Unità dell’ Essere. Tutto questo è vero:, ma nen. è nuovo in Platone, che
trasforma i suoi perspnaggi. sesendb le esigenze o speculative .o artistiche
del dialogo. E qui. Sberave, giovanetto, dovea cedere innanzi. alla:mae-. stosa
figura di Parmenide, che anche nel Teeteto viene cin- condato: di grande
rispetto.e venerazione. E se Platone mette in: bacea: di, Parmenide la.
confutazione: delle proprie: dot- trine, gli fa rappresentare in fin dei conti
la. stessa parto che: intenti dialoghi è attribuita a Socrate. Now vorrei dir
nulla intorno alla composizione: del dia» logo, e alle: due- parti che secondo
lo Schaarschiidt: setn- breno° slegate:, e- non fanno in noi l'impressione di
un tutto artronico:- Ripeto anche: qui che se valesse-questo art» terto.,
quale: dialogo. platonice: potrebbe salvarsi del nau- fragio? Non sarebbe
compromesso puranche il- Fedro? Resta ora ad esaminare le argomentazioni tolte
dalle dottrine svolte nel Parmenide, il che non potremo fare se pria: noo
esamineranno il significato. della seconda par- te, e come questa sì rannodi
alla prima. 145 CAPITOLO VII. SIGNIFICATO DELLA 2* PARTE DEL PARMENIDE Il
Parmenide è quello tra i dialoghi platonici, che più degli altri patì la
vicenda or di un favore esagerato, ed or di un ingiusto disprezzo. Fin dalla
remota antichità, mentre alcuni, al dir di Proclo'), tenevano questa opera
platonica non dappiù di un garbuglio sofistico, altri all’ in- contro la
levavano a cielo, come il capo-lavoro del divino filosofo, che qui drizza il
suo sguardo di lince nel più bujo dei divini misteri ?). Le astratte
discussioni sull’ esistenza o non ‘esistenza dell'uno e dei molti nascondono, a
mente dei Neoplatonici, un senso più profondo, e un’ardita dot- trina, che ci
solleva alle somme cime della Teologia. Nella rinascenza, al rifiorire degli
studî classici, fu rinnovata an- che da noi questa antica opinione, e Marsilio
Ficino, non secondo nell’entusiasmo ai Neoplatonici, nell’ introduzione del
Parmenide rompe in quest’ inno: . In Parmenide omnem Plato complexus est
theologiam; cumque in aliis longo intervallo caeteros philosophos an-
tecesserit, in hoc tandem scipsum superasse videtur. Hic enim divus Plato de ipso
Uno subtilissime disputat quemad- modum Ipsum Unum rerum omnium principium est
super omnia, omniaque ab illo, quo pacto ipsum extra omnia sit et in omnibus;
omniaque ex illo, per illud, atque ad il- lud..... Jllud insuper advertendum
est, quod in hoc dialogo cum dicitur Unum, Pythagoreorum more quaeque substan-
1) Ad. Platon. Parm. p. 953 ed 'Stallbaum éwor pòv oÙv éveda- cav Ti Idyw xaù
odi toùto ariovygovro eimeiv, ori copibopivo Former 6 Mery. 2) l'lot. Enn. V.
I. 8. Priscianus in Proclo ad Timaeum p. 5. Procl. Theo! plat. I. 7. p. 16. 8
116 tia a materia penitus absoluta significare potest, ut Deus, Mens, Anima.
Cum vero dicitur aliud et alit, tam materia, quam illa, quae in materia fiunt,
intelligere licet. Ad cujus sacram lectionem quisquis accedet, prius sobrietate
animi mentisque libertate sese praeparet, quam attrectare mysterio coelestis
operas audeat. Ai nostri giorni a queste interpetrazioni arbitrarie non si
presta più fede, sebbene le opinioni sul valore del Par- menide non sieno meno
discordi di prima. Ed in verità lo storico Tennemann già fin dal 1792, ripresa
la più antica sen- tenza, lo considerava come un arfizioso tessuto di sofismi
1). Ed a questa opinione s’accostò l’Herbart, che nella sua de Platonici
sistematis fundamento commentatio scrisse: « Eodem ludendi potius, quam docendi
animo, quem in Phaedro aperte profitetur noster, subtilioré etiam ejus opera
conscripta esse, optimo exemplo est ille dialogus, qui Parmenidis fert nomen;
disputatio spinosissima , quam tamen ad veram vel Plato- nis vel ipsius
Parmenidis sententiam investiganda adhibere si frustra conaremur, falsae
exepectationis motae minime accusandus esset auctor *). (Queste opinioni
sembrano pure confermate dal testo stesso platonico, secondo il quale esercizio
dialettico è detto uno scherzo, che ha l’aria di un grave negozio 3); scherzo,
il quale o serve come esercizio gimnastico (yupvacias éveza) a rafforzare
l'intelletto, e renderlo atto alle ardue speculazioni, ovvero, come dice
Tennemann, avrebbe l’ intento di combattere la dottrina eleatica colle stesse
armi adoperate da Zenone contro l’opi- nione volgare. Secondo questa
interpetrazione non val la 4) Tennemann System der plat. Philosophie II. 347
chiama il Parmenide « ein Gegenstiick zu Zeno’s sophistischen Gaukel- spiel. »
2) Herbart's Werke XII. 69. 3) Parm. 137 B. iredirep dosi rpayparesin moaudikv
malkew. 117 pena di dipanare quella massa arruffata di sofismi, e tro- vare un
significato profondo ad un dialogo, che non ne ha alcuno, tranne forse quello
di una imitazione dell’ Eristica, così spiritosamente messa in caricatura nell’
Eutidemo. Senonchè questi critici hanno tralasciato di por mente alla prima
parte del dialogo, che contiene una polemica vigorosa contro la dottrina delle
idee. Ricordiamoci che quando Socrate, incalzato dalle argomentazioni di Parme-
nide, sta per cedere le armi, l' ÉEleate gli raccomanda di . non tenere a vile
quell’esercizio dialettico, senza il quale il vero sarà per sfuggirgli (ei de
pù, cé Siapevtera: 7 dIdIALA 135. E). Lo scopo adunque della seconda parte dev’
essere certamente quello di risolvere le difficoltà della prima, e con uno
scherzo eristico non si potrebbe riuscire a tanto !). Questa difficoltà sarebbe
vinta, se fosse vera l’opinione dello Schleiermacher, secondo la quale le
obbiezioni della prima parte del Parmenide non vengono risolute in que- sto
dialogo, ma preparano la via alle ulteriori costruzioni; il che naturalmente si
connette con un nuovo modo di interpetrare le obbiezioni parmenidee. Esse, a
mente dello Schleiermacher non sono in fondo se non le difficoltà, in cui
imbatte chiunque si faccia a dimandare « qual sorta di realtà convenga ai
concetti al dì fuori delle cose, in cui sì manifestano. » Difficoltà di non
lieve momento, stante la gran differenza, che corre tra idee ed idee, come
viene espressamente riconosciuto nel Parmenide. Ed in verità devi contare le
idee morali, o le eterne norme del giusto e dell’onesto; le fisiche, ovvero
quelle forme che si ripe- tono costantemente nelle varie produzioni della natura;
terzo le idee di ciò, a cui non sì può attribuire un’ esi- 4) Dalle parole
stesse di Parmenide, si raccoglie lo scopo della fulura discussione essere:
redéws yupvaadpevos supiws dioferda: taInÎés. stenza fissa, come a dire le
azioni delle forze naturali; fi- nalmente le idee dei rapporti. Tutte queste
idee hanno la stessa natura, ed a tutte sì può attribuire una esistenza di per
sè? E se questa per fermo ripugna ad alcune, come si | può concederla alle
altre? La soluzione-di queste gravi dif- ficoltà, surse ben presto nella mente
acuta di Platone; ma, non potendo adattarsi agli angusti confini di un dialogo
solo, vien rimandata ai lavori posteriori, che dal Teeteto in poi intendono
tutti di costruire una teorica delle idee, che con- cilii le opposizioni, ed
elimini le dubbiezze !). Ma con buona pace dello Schleiermacher io conosco
parec- chi dialoghi di Platone, in cui sono nettamente formolate le dottrine
criticate nel Parmenide; ma in nessun d' essì sì fa cenno di queste critiche,
ed in nessuno vi si risponde. Del resto neanche lo Schleiermacher. crede che la
seconda parte sia una riproduzione della dialettica Zenoniana, fatta a bella
posta per combattere la scuola eleatica. Ed adduce al proposito questa buona
ragione, che se Platone avesse voluto ferir Zenone colle stesse armi da lui
adoperate, non gli avrebbe risparmiato quella fine ironia, a piene mani profusa
nei dialoghi, che come l’ Eutidemo o il Gorgia o il Teeteto intendono a
combattere le altre scuole ?). Se la seconda parte del Parmenide non è rivolta
a ri- solvere le difficoltà della prima, nè a combattere i dommi della scuola
eleatica, qual’ è dunque il suo intendimento? Secondo lo Schleiermacher la
seconda parte è legata più strettamente di quel che si creda alla prima; anzi
si può dire che ne sia la continuazione. Nella prima parte furono svolte le
difficoltà che nascono spontanee, quando ci fac- ciamo a determinare la natura
delle idee. (Jueste stesse difficoltà nascono parimenti quando ci mettiamo a
studiare 4) Schleiermacher Platon's Werke II. 1. p. 90. 2) Op. cit. p. 98. 4119
ciascuna di queste idee separatamente, come a dire l’idea dell’ Uno considerata
ora in sè stessa, ora nei suoi rap- porti cogli altri concetti dell’ essere ,
del molti, del mo- vimento del riposo e simiglianti. E come nella prima parte
la maggior difficoltà si trova nella differenza, che intercede tra le varie
specie d'idee; così nella seconda le contrad- dizioni rampollano dalla varietà
di accezioni in cui può venir tolto il concetto dell'uno e dell’ essere. Lo
scopo dunque di tutto il dialogo non sarebbe quello .di dare una solu- zione
definitiva delle aporie, la quale vien rimandata a lavori posteriori; ma di
mostrare bensì l’importanza e la difficoltà della ricerca !). Ed a questo
concetto, sebbene muova da altri presup- posti, s' accosta il Grote, la cui
interpetrazione del Parme- nide, se anche non accettevole, si raccomanda senza
dubbio come nuova ed ingegnosa. Anche il Grote stima vana fatica il cercare nel
Parmenide una dottrina determinata, che valga a dileguare i dubbî sorti contro
la teorica delle idee, perchè l’ intendimento di questo dialogo non è
costruttivo, ma critico. In Platone, dice il Grote, trovi due uomini, il
filosofo speculativo ed il critico. Il primo, prestando mag- gior fede al
fervore dell’ispirazione, che alla sobrietà della scienza, s' avvisa d'intuire
le idee eterne ed immutabili, causa e modello della natura; e ceacciandosi
arditamente nel bujo del passato e dell’avvenire, vi descrive minuta- mente la
vita, che menavano le anime prima di entrare in questo basso mondo, e. quella
che saranno per menare, quando ne verranno fuori. Il secondo per lo contrario,
scevro di misticismo , si affida ad un acuto spirito di. ri- cerca, che
contrasta apertamente colla prima tendenza. Con- forme a questo spirito nei
dialoghi inquisitivi, sc vogliamo dirli così, Platone non propone nettamente
una tesi da 4) Op. cit. p. 93-94. 120 dimostrare, anzi sembra non ne abbia
alcuna. La ricerca e la discussione acquistano maggior valore della
conclusione, la quale il più delle volte manca affatto, ed il dialogo si chiude
bruscamente, lasciando il lettore in penosa incer- tezza. Il che dimostra di
quanto l'elemento negativo la vinca in questi dialoghi sul positivo; e come
Platone non dubiti di porre in luce le contraddizioni o le difficoltà di una
dottrina, anche quando non ne abbia altre da ‘sostituire. Ma l’opera, in cui
l’elemento negativo risalta con mag- giore. evidenza, è senza fallo il
Parmenide. Nel qual dialogo Socrate, fattosi caldo ammiratore della dialettica,
si affida di rischiarare a quella luce divina le più profonde oscu- rità della
conoscenza. E per tal guisa il filosofo più cauto, e più critico che conosca la
storia del pensiero ellenico, mutato abito, qui apparisce come dommatico
ostinato, con- tro il quale si debbono torcere le stesse armi, da lui usate per
confondere la boriosa fidanza dei suoi predecessori. Se- nonchè per una curiosa
trasposizione di parti, o forse in omaggio al sentimento ellenico della Nemesi,
l’ufficio cri- tico vien sostenuto, di contro a Socrate, dal più dommatico dei
suoi predecessori, da Parmenide d’ Elea '). Il quale in tutto il corso del
dialogo, serbando accuratamente il suo nuovo carattere, non insegna dottrine
proprie, nè cerca di far proseliti ad un sistema; ma tolto in prestito il fare
socratico, restringendosi a trarre in impaccio il suo inter- locutore, or gli
mette davanti un' opportuna distinzione logica, ora accenna di sfuggita ai
dubbî e alle perplessità della mente umana, ed or più franco e risoluto. muove
sottili obbiezioni contro le dottrine dommatiche, tra le quali primeggia quella
delle idee separate. Ed a questo severo spirito di ricerca rispondoro mira- 1)
Plato and the other companions of Sokrates. Lond. 1865 II. 263-278. 121
bilmente alcune massime, che anche oggi costituiscono il canone fondamentale
del criticismo. Come a dire che la valutazione per sentimento non debba turbare
la serena contemplazione del vero; che agli ecchi del Filosofo non vi sia nulla
di spregevole, sentenza ripetuta nel Sofista e nel Politico; che l’idea, in
quanto conosciuta, torni sem- pre un quid relativo al soggetto conoscitore. Nè
discorde da questo indirizzo è il metodo, che Parmenide raccomanda, perchè il
filosofo non diventi gioco di facili allucinazioni. Questo metodo, di cui tutta
la seconda parte del dialogo ‘è un esempio, sta solo nell’ ingenerare dubbi ed
incertezze nei novizii, che di lor natura sono inchini alle affermazioni
dommatiche. Socrate è avvertito di non tenersi esclusiva- mente ad un lato
dell’ ipotesi trascurando l’opposto, nè di affidarsi a preconcetti o propri o
tradizionali, dai quali sì suol trarre con sicurezza le conseguenze, incuriosi
delle opinioni contrarie, che pur dovrebbero essere valutate met- tendole in
confronto con quelle da noi abbracciate '). Questa interpetrazione, seguita il
Grote, ha il vantaggio di tenersi strettamente al linguaggio platonico, il
quale non abbiamo nessuna prova che abbia un significato più riposto e diverso
da quel che suona. Chè anzi quelli che attribuiscono a Platone un proposito dommatico
, si muo- vono sovra un terreno ipotetico, e sforzano tutto il loro ingegno per
ritrovare nel dialogo ciò che di nascosto vi hanno messo. E la verità e
discordia delle ipotesi addotte attesta senz’ altro la loro insussistenza.
Questa argomentazione del Grote parte dal presupposto che in Platone prevalga
l’ elemento critico al dommatico. Ed in favore della sua tesì lo storico inglese adduce,
come 1) In una parola: It is this one-sided mental activity, and premature
finality of assertion, which Parmenides seeks to correct. p. 295. ‘422 dicemmo, alcuni dialoghi — il Liside, il
Protagora, il Tee- teto — ngi quali scarseggia, o manca affatto la conclusione,
mentre sovrabbonda la finezza delle osservazioni, e la co- pia dei felici
argomenti nel corso della discussione. Ma noi già notammo non essere questi
dialoghi isolati, e ciò che manca in loro venire apprestato da opere
posteriori. Così per mò di dire, il Menone è il naturale integramento del
Protagora, la Repubblica del Teeteto e simili. In Platone poi appare ben lieve
traccia del cauto procedere, proprio de- gl'ingegni eritici, e nella maggior
parte delle sue opere al contrario — nel Fedro, nel Convito, nel Fedone, nel
Timeo nella Repubblica — non risparmia le più ardite costruzioni, affidandosi
meglio alla creatrice fantasia, che non al severo intelletto. E se nei dialoghi
schiettamente socratici, e nei polemici la sottigliezza della discussione la
vince di gran lunga sulla novità ed arditezza dei concetti; nelle opere
posteriori le parti si scambiano e l'elemento dommatico e costruttivo soffoca
il suo rivale. Tutta la quistione adun- ‘que si riduce a determinare il tempo
in cui fu scritto il Parmenide, e il posto che gli si debba assegnare tra gli
altri dialoghi platonici. Ma il Parmenide evidentemente fu scritto, e Grote il
riconosce, dopo la creazione delle grandi teoriche. delle idee, e della
reminiscenza e dell'immortalità, che a quella s1 rannodano. Platone era dunque
già entrato nel suo periodo dommatico, ed è molto strano che un autore, il
quale mette tanto calore e vita nell’esposizione delle sue dottrine, un autore,
nel quale ha tanta parte la fantasia, adoperi poi tutta la finezza del suo
ingegno per iscalzare la stessa teorica che egli ha costruita. E badate bene
che, secondo la interpetrazione del Grote, Platone di- struggerebbe colle sue
proprie mani l’opera da lui fatta, senza speranza di sostituirvi altro; il che
non pare certa- mente degno di un filosofo, e molto meno di Platone, mente di
sua natura costruttrice. 12% I critici finora esaminata, chi per: una. ragione-e
chi per un’altra negano: al Parmenide un contenuto. positivo. Il Parmenide,
secando costoro, non espone una-dottrina de- terminata., ma.-solo tocca il
metodo, che ci. mena con si- curezza alla scoperta della verità. Ed a torto si
è intitolato il Parmenide dialogo intorno alle idee; perchè sebbene ci sieno.
alcune critiche contro un modo speciale di concepire; Te idee, non è accennata
neppur da lontano in qual guisa debbano andare intese. Una opinione affatto
opposta: a que- ste che abbiamo discusse, fu sostenuta con molto vigore. dall’
Hegel, e ripetuta da tutta la souòla hegelliana. Lo: Hegel. crede che non mal
s'apponga.Proclo di scorgere nel Parmenide la vera teologia, o il modo come -sì
svelino tutti 1 misteri dell’essenza divina. Imperocchè l'essenza, divina non è
altro se non l'eterna idea, o il Pensiero che. sì riflette su sè medesimo, nel
che.consiste la Dialettica as= soluta.!). Questo giudizio, portato sul
Parmenide, mette capo. nella nuova interpetrazione che l’ Hegel adduce della
dot- trina, platonica. Secondo lui le idee platoniche vanno sog- gette a false
interpetrazioni, e. chi la tiene come essenze che stieno da, sè o.in un mondo
sovrasensibile; chi le spac- cia per pensieri di Djo;, ovvero di una; mente
posta fuori del mondo; .chi înfine le riguarda quali ideali necessari della
nostra ragione, ma destituiti di. effettività. Senon- chè. nessuna di queste
interpetrazioni è giusta; chè le idee sono qualche. cosa di reale, anzi
costituiscono la, vera realtà, la vera essenza delle cose; ma in pari tempo
questo Uni- versale lo spirito non ha bisogno di accattarlo d'altronde,
stantecchè lo produce da. sè, in quanto è attività specula- trice. In altre
parole quello che è 1’ ideale per la mente, è in pari tempo la vera realtà
delle cose. Questa è la 4) Hegel Geschichte der Philosophie. Zweiter Theil. p.
206, * grande idea in cui si assomma la filosofia platonica, l’iden- tità del
soggettivo e dell’oggettivo, la indivisibilità dello Ideale e del Reale '). Il
sistema platonico dunque non am- mette la trascendenza, bensì l’ immanenza
dell’ Ideale nel . Reale, e dell’ Intelligibile nell’ Intelletto. Stabilita
questa interpetrazione della dottrina delle idee, egli è chiaro che i dialoghi
platonici in cui essa è adom- brata, come a dire il Sofista il Parmenide e il
Filebo, deb- bano vincerla su tutti gli altri. Non che spurî, non che lavori
giovanili, essi sono invece da tenere come la più alta espressione della
filosofia platonica. Imperocchè se le idee non sono trascendenti alla mente,
questa ha da pro- durle per sua propria energia, mediante quel processo, che da
allora in por fu chiamato dialettico. Bisogna di- stinguere in Platone tre
forme di dialettica, la prima che ha comune coi Sofisti, sta nel mostrare le
contraddizioni dell’ opinione volgare, la quale rinserrandosi nella: cerchia
del finito e del relativo, non può cogliere l’assoluto. Questa dialettica è
puramente negativa, e vale solo a confondere l’ intelletto comune, ed a
scuotere quella cieca fede che egli ha nelle sue asserzioni. La seconda forma,
che è co- mune anche a Socrate, sta nel sollevare la mente dalla particolarità
dei fenomeni all’ Universale. Ma nè questa forma che serve alla produzione
dell’uni- versale, nè la prima che intendeva alla dissoluzione del particolare,
rispondono al vero concetto della dialettica. L’universale, che s° è ottenuto
dalla dissoluzione del parti- colare, è ancora indeterminato ed astratto,
mancandogli la concretezza, la specificazione, la vita, la quale non si può
ottenere se non dal processo del nostro pensiero, che me- rita il nome di
dialettica. Per via di questo movimento 4) Diess ist .. eine grosse Idee....die
Identitàt der subjecti- vitàt, die Untrennbarkeit des Ideellen und Reellen. p.
184. dialettico l’ idea si appalesa come l’ Unità, che accoglie e concilia in
sè le opposizioni del finito, e per tal modo è la vera Idea concreta). Nel
Parmenide quest’unità degli opposti è chiaramente un desideratum di Socrate, il
quale ben dice il vero miracolo non stare nel dimostrargli che egli, Socrate,
sia uno e molti nel contempo; bensì nel mostrare queste opposizioni nel grembo
stesso delle idee. Ma Hegel stesso non può negare che il risultato del Par-
menide non corrisponda a questo desideratum , imperoc- chè esso è affatto
negativo, e non sì è peranco giunti alla negazione della negazione, all’
affermazione *). Senonchè in fondo a questo intreccio di negazioni si occulta
un risul- tato positivo, che Hegel espone nel seguente modo: « Que- sto
dialogo, il Parmenide, mostra che l’ Uno tanto che sia, tanto che non sia, è uguale
e non uguale a sè stesso, è in movimento ed in riposo, nasce e perisce; o.in.
altre parole l’ Unità, come tutte le altre idee pure, sono e non sono; l’unità
è parimenti uno e molti. Nella proposizione l'uno è sta anche l’altra l'uno non
è uno, ma molti, e vi- ceversa nella proposizione il molti è, è racchiusa
l’opposta il molti non è molti, ma uno. Così l'uno è essenzialmente identico
col suo opposto, e questo è il vero. Un esempio ce lo fornisce il divenire 3).
Nel divenire essere e non essere si raccolgono. in indivisibile unità,
contuttocchè sieno diversi, e l’uno passi nell’ altro. 1) Op. cit. p. 198. | 2)
p. 206. Dieses Resultat in Parmenides negativer Art zu seyn scheint, nicht als
Negation der Negation, die wahrhafte Affirmation ausspricht. Un giudizio più
severo è portata a pa- gina 202, ove dice: Das Zusammenfassen der Gegensàtze in
Eines, und das Aussprechen dieser Einheit fehlt zun&chst in Parmenides, der
so, wie jene andere Dialoge, mehr:nur ein negatives Resultat hat. © Dios )
Prego il lettore di riscontrare la nostra espasizione del Parmenide pag. 94-95.
i | Questo risultato positivo nascosto mel Parmenide, viene espresso
chiaramente :nel Sofista e nel Filebo, il che per fermo costituisce il vero
pregio della filosofia plato- niea. Anche dal Sofista e dal Filebo si può
racoogliere - essere le idee del «divino, dell'eterno, del bello astratte ed
indeterminate, fino a che restino nella loro universalità, enon accolgano nel
lor seno la negazione, perchè omnis determinatio est negatio. Ma questa negazione
od opposizione, nello stesso punto che è accolta, viene vinta e superata; e
l'Idea ritorna nella sua unità, non più astratta come prima, ma ricca della
vittoria riportata. In questo ritorno sta la vera libertà, la vera vita dell
Universale. In altre parole l' Uno, estrinsecandosi nel molti, nell'altro, nel
diverso sì trova identico con sè, o, per adoperare il linguaggio teolo- gico,
Dio nel creare il mondo torna a sè medesimo !). Questa interpetrazione , che
riduce il Platonismo al si- stema della più schietta immanenza, trova
gravissimi osta» coli in quei dialoghi platonici che affermano chiaramente la
trascendenza delle idee da tutti gli aspetti. Nel Timeo e nella ‘Repubblica le
idee sono separate dalle cose; ed il mondo intelligibile è un tutto così chiuso
ed affatto oppo- sto al sensibile, che per quante mediazioni si escogitinò, or
nelle specie nuraeriche , or nell'anima del mondo, or nel concetto della
materia prima, l’abisso che separa questi due regni non si può colmare. Nè mero
trascendenti ap- pajono le idee rispetto alla mente che le intuisce, sebbene
torni difficile a pensare come questa si renda intimo ciò che trascende le sue
forze. Ma Platone non ignora la dif- ficoltà del problema, cui disperando di
risolvere, tenta ar- ditamente di evitare, spostandolo. E così questa sublime
intuizione delle idee vien. posta in una vita anteriore alla mondana, quando
l’anima, non isvigomta dalla resistenza 4) Ivi p. 213. 499 del corpo, ha
facoltà ed attitudini ben «superiori ‘a ‘quelle che dispiega nella vita
terrena. Tale dottrina ha bisogno di altri due presupposti; il ‘primo che
l'anima, cadendo nel mondo sensibile, perda la sua efficacia primitiva, e
scordì in qualche guisa quella celeste visione che la beava; il secondo che la
dimenticanza non sia così profonda, che qualche vestigio dell'antica
beatitudine non resti tuttavia, nel che consiste la reminiscenza platonica.
Occorre altresì presupporre: l'eternità dell'anima, .o almanco la preesistenza
in altri mondi, e la sua indipendenza del corpo; poste le quali condizioni,
segue necessariamente la immortalità. f)ueste teorie si tengono strettamente
tra loro e ‘tutte ‘mettono eapo nella dottrina della trascendenza ‘del mondo
ideale. E l’ Hegel non nega che in molti dialoghi appari scano manifeste tendenze
verso concetti affatto opposti a quelli ehe, secondo lui, sono racchiusi nel
Filebo, nel So- fista e nel Parmenide. Ma concilia queste contraddizioni ‘ol
supporre :che le teoriche della reminiscenza, e dell’ im- mortalità sieno
affatto simboliche; e racchiudano un signi- ficato molto più profondo di quel
che alla -lettera sì po- trebbe ritenere. Non si può certamente negare che in
Platone abbondino i miti e le allegorie, e che sarebbe ri- dicolo intendere
letteralmente il famoso mito del cocchio nel Fedro, o dell’androgino nel
Convito, ovvero quello della caldaja in cui vien formata l’anima del mondo nel
Timeo, ed altri mille. Ed alla stessa stregua potrebbe essere mitica da
dottrina della reminiscenza, la quale non vorrebbe dire altro se non la spontaneità
dello spirito umano, che trae dal suo fondo il contenuto delle idee, senza
attingerlo dall'esperienza. Per tal guisa il mito della reminiscenza
nasconderebbe la profonda dottrina dell'apriorità della co- gnizione !). E
parimenti la teorica della semplicità ed im- 1) Op. cit. p. 177 e segg. 428
mortalità dell'anima non si dovrebbe intendere nel senso che l’anima sia una
cosa semplice, come un atomo chimico, ed immortale perchè incapace di
alterazione. Questa è la rappresentazione comune dell’ immortalità; ma il suo
vero significato speculativo, sarebbe la vita perenne dello spirito ').
Senonchè questo modo d'intendere una gran parte delle dottrine platoniche per
allegorica ci sembra molto ardito e pericoloso. Egli è difficile per fermo
tracciare nel Pla- tonismo una linea, che divida esattamente la parte mitica
della razionale. Ma non si può senza un corredo di prove tenere per allegoriche
alcune dottrine, sulle quali a diverse riprese Platone ritorna con uno studio
particolare, non dandole certo per leggende raccontate da Diotima, o tolte da
antiche tradizioni, ma per teoriche scientifiche, confor- tate da severe
argomentazioni. Una prova decisiva contro l’ Hegel vien fornita dalla te-
stimonianza di Aristotele, il quale rivolge le. punte della sua confutazione
principalmente contro la dottrina delle idee come entità separate. Nè solo la
critica di Aristotele mal reggerebbe se si togliesse di mezzo la separazione;
ma non sì potrebbe neanco comprendere in: che differisca in ‘tal caso l’idea
platonica della forma aristotelica. E per quel che riguarda l’altro aspetto
della quistione, cioè la trascen- denza dell’Intelligibile in rapporto
dell'intelletto, possiamo addurre l’esplicito testo di Platone in favor nostro.
Impe- rocchè appunto nel Parmenide , dialogo di cui l’ Hegel tiene maggior
conto, viene recisamente negato che le idee possano esser prodotte
dall'attività del pensiero ?). Platone resta sempre fido alla dottrina della
Repubblica, secondo la quale non può darsi che l' Inielletto crei l’
Intelligibile, ma per l'opposto l’Intelligibile crea l’Intelletto. È qui tor-
4) Ivi p. 186 e segg. 2) V. sopra pag. 82 nota 2. 129 na acconcio di ripetere,
quello che già accennai nella di- scussione sul Sofista: non potere la
dialettica platonica andare intesa così, che rinverghi a capello
coll’eghelliana. Imperocchè in essa le idee, nonchè nascere dal movimento del
pensiero, vengono presupposte come date; onde l’arte dia- lettica sta solo nel
saperne scoprire i più riposti rapporti '). Finalmente non tralascerò di notare
che l' interpetra- zione dell’ Hegel mal s' accorda colla caratteristica del
fi- losofare ellenico, che egli stesso per il primo seppe cogliere con l’usata
maestria. Imperocchè la nota propria della spe- culazione greca, secondo l’
Hegel, è l’obbiettivismo o me- glio la tendenza a dare per realtà estrinseche
le intuizioni ed i concetti della mente nostra ?). E questo stampo ca-
ratteristico è siffattamente indelebile, da non cancellarsi del tutto neanco
nei periodi meno dommatici della filosofia greca, come a dire nel criticismo
socratico, e nello scet- ticismo della Nuova Accademia. Chè quello tiene per
ob- biettivo il concetto della Finalità, e questo, mentre da tutte parti rovina
per opera sua ogni edifizio filosofico, serba, non foss altro, intatta la fede
nella realtà ed obbiettività del proprio filosofare; onde la calma e la
serenità dello scetticismo antico, che contrasta così apertamente coi dolori e
le ansie dello scetticismo moderno. Ma se la dialettica platonica avesse il
valore. che Hegel le attribuisce, noì sa- remmo in pieno subbiettivismo
assoluto. Per Platone, come per Hegel, la mente umana trarrebbe dal suo fondo
per deduzione trascendentale le idee tutte, le quali alla lor volta sarebbero
le forze informatrici della natura. E così 1) In questo senso ha ragione il
Janet (Etudes sur la dia- lectique dans Platon et dans Hegel pag. 81-82); la
dialet- tica non scopre nulla di nuovo. Ed in verità le idee del mo- vimento e
della quiete nel Sofista non sono certo dedotte da quella dell’ essere, ma bensì
attinte dall’ intuizione. 2) Hegel Geschichte der Philos. I. 183. 4190; Platone
senza il precedente storico dell’idealismo Kantiano, pervenuto d’un salto alla
dottrina dell'autonomia dello spi- rito, avrebbe avuto piena coscienza dell’
identità del Reale e dell’Ideale. Il quale anacronismo. sarebbe una grave ed;
inesplicabile eccezione alle leggi che governano lo sviluppo ‘ non pure del
pensiero filosofico, ma principalmente dell’ elle- nico. In una parola una
delle due: o l’obbiettività non è il carattere proprio della filosofia
ellenica, o l’ interpetrazione eghelliana del Parmenide è tutta moderna, e
presta al Pla, tonismo concetti e pensieri che non gli appartengono. . Ma
ammesso per poco che la seconda parte del Parme- nide si debba intendere nel
senso eghelliano, si può sem- pre dimandare in qual rapporto stia colla prima,
Hegel in. vero non tocca, questo problema; ma dall'insieme della sua
esposizione. è. facile argomentare quale.sarebbe stata la sua risposta.
Platone, che suol parlare in istile metaforico, e nascondere il suo pensiero
speculativo sotto un fitto. ve. lame di miti ed allegorie, non poteva non
ingenerare nei suoi uditori molti dubbii, ed incertezze così, da non essere
pochi quelli che fraintendessero .il suo pensiero, togliendo alla lettera
quello che ei soleva dire in. forma poetica; Di. qui nacquero le obbiezioni
della prima parte del Parme- nide, le quali poggiano tutti sovra una falsa
interpetra- zione dell’ idea. platonica. Bastava smettere il linguaggio mitico,
ed usare quello di una dialettica rigorosa per dis- sipare gli equivoci e
sciogliere le difficoltà. Chè se anche queste obbiezioni non fossero state ben
formolate nella sua, scuola, sarebber potute nascere in seguito; e non fu
piccol. merito di Platone, l’averle prevenute e sciolte anticipata- mente. In
una. parola la critica delle idee, racchiusa nella prima parte del Parmenide.,
non s°’ indirizza. contro. una dottrina già professata, ma è una discussione
preliminare, che togliendo di mezzo gli equivoci, spiana la via alla retta 134
intelligenza della dottrina. In questo senso il Werder, che adotta |’
interpetrazione dell’ Hegel, spiega e commenta le obbiezioni della prima parte
del Parmenide. Lo scopo del dialogo è senza alcun dubbio quello di provare l'
identità primitiva dei contrari, come l’uno e il molti, l'essere e il non
essere e simiglianti. Quae identitas eadem apparet in Pla- tonis physica et
ethiea, sicut Parmenides utriusque fonda- menta continet, contemplans enim
notiones per se ipsa8, illi altiori ac puriori cognitioni, atque hoc modo
primitivae co- gnitionis et essentiae identitati, locum praeparat !). La prima
parte del Parmenide serve dunque di prepa- razione ed avviamento alla vera
teorica delle idee. Ma noi non possiamo assentire a questa opinione del Werder.
Se un Autore escogita difficoltà e dubbî col proposito di me- glio dichiarare
le proprie dottrine, mette senza fallo in maggior luce le risposte e non le
obbiezioni, cui non po- trà mai dare gran rilievo, essendo intimamente convinto
della loro vanità. Ma nel Parmenide succede proprio l’oppo- sto, e le
difficoltà sono messe in tanta evidenza, e serrano così tenacemente
l’avversario, che Socrate si dà per vin- to, e dichiara di non trovar la via
per risolverle. Questa via Parmenide crede di trovarla nel modo dialettico, di
cui fa una larga esposizione; ma non ricerca il come da questo metodo sì possa
trar partito per rassodare la dot- trina delle idee. Cosicchè la parte più
luminosa del Par- menide è la critica, e la più oscura è la risoluzione. Il che
ci fa ragionevolmente sospettare che le difficoltà non sieno per nulla
provvisorie, ed escogitate ad arte per una migliore intelligenza della
dottrina. Tutt' altro. Nel Par- menide Platone ci apparisce come un Autore
coscienzioso, il quale non si dissimula le obbiezioni che vennero fatte 4) De
Platonis Parmenide Dissertatio, auctor Car. Frid. Wer- der Berl. 1833 p. 14. 9
192 alla sua dottrina, ma ie raceoglie quale le ha udite, ediè in cerca di un
mezzo sicuro per isgroppare il malagevale nodo. Ma c'è di più. Se le difficoltà
:del Parmenide sono tanto- futili, come pretende il Werder, e fondate tutte su
d’un grossolano equivoco, ma come mai uno serittore casi acuto e coscienzioso ,
qual’ è certo Aristotele, le ha. fatte talmente sue da ripeterle su tutti i toni
nella critica che Ei. muove alle dottrine del Maestre? . . . 1 Fiorentino, hen
conscio della gravità di queste ohbie- zioni, in cerea di via che le schiwi,
sostiene nettamente aver Platone mutato avviso, e alla dottrina della metessi e
dei simulacri voluto sostituire « una nuova spiegazione, il cui sviluppamento è
appunto il contenuto del Parme- nide » 4). L'interpetrazione poi che adduce del
dialogo non è disforme dall’eghelliana. « Il contenuto del Parmenide, ei dice,
si risolve in una- trilogia, ch'esprime il ritmo della dialettica vera di
Platone. La prima parte presenta l’idea solitaria dell'uno, e l’annulla. La
seconda pre- senta la medesima idea appajata con quella del non uno o
dell'essere, e la mostra in questo connubio implicata nella contraddizione. La
terza parte risolve: la contraddi- zione col momento che è il diventare » (pag.
158). Ma a me sembra che il trapasso dalla teorica della metessi e degli
influssi a quello della dialettica assoluta sia un salto così smisurato, che
difficilmente potrebhe farsi da un Uomo, per vastissimo ingegno che egli abbia,
sopratutto nel tampo, in cuì la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi
&losofici sono appena abbozzati. Aggiunga ancora che il raocostamento della
dialettica platonica all’eghelliana sa rebbe giusto se nel Parmenide éi' fosse
solo la prima an- timomia, che si chiude coll’ accenno alla teoriea del mo- 4)
Fionentino. Saggio Storieo sulla Filosofia Greca — Firen- se 1364 p. 90 e 123,
t13:) mento. Ma dccanto a questa antirtomia è un’ altta, la quale, partendo dal
presupposto contrario al precedente, non si saprebbe nè a ché giovi, è dove
meni. : H Fiorentino al pari dell'Hegel e del Werder fotse non tetiheto in gran
conto it fare hegativo di tutto il dialogo, sebbene arche lui, come gli altri non
risparnifito acute cortsiderazioni sui difetti e le stonature della dialettica
pla tottica 1). Fu il prime lo Zeller, il quale avérdo presente mon: una sola
parte del dialogo, ma tutto il 6dniplesso giudicò che. il metodo adoperato mon
fosse la trilogia eghele liana, bensì il processo ipofefico, o Feductiò ad
abstrdimi, il cui risultato, benchè negativo, chiaràmente ci addità' il
risultato positivo:, cui vtolé pervenire Nella prima anti= nomia Platone
dimostra ehe se }Y Uno fosse solo così, non gli. si potrebbe attribuire nessun
predicato e ‘ron sarebbe perisabile. Se all’ Uno al contrario glt vogliamo
attribilire un predicato diverso da sè, altora nasee unta molteplicità ideale »
e quello che prima ei sembrava uno, sì tompe in una infinita. varietà. Senonchè
in questo casò fiasconò evi- dentà confraddizioni. Percliè intendendo per l'
Uno: 1° Ente isolato degli Eleatici, non dovrebbe aver luogo' in nessun modo'
la molteplicità ; nientre per potersi pensare bisogna che l Uno si romipa: in
Un& molteplieità di predicati. Come: si fa: a risolvere questa
contraddizione? Nort certo ci giova! al riegare: netto l’Uno, péréhè è
dimostrato nel piùmo mém- 1) Fiorentino op. cit. p. 159, é Werder op. cit. p.
44 diov lecticae unitatis clementa secundum oppositionem et relationem- sue
perspeota sunt; sed non omnibus cs partilus absoluta . relinquitur, cum
transitus oppositarum non in iis ipsis et per eas ipsae explicatuse, non ad
summam illam perveniat unita- tem quae se ipsam et sibi contrariuni, irvitatomi
et. descrimen? suum complectens efficit et intelligit; sbd to drdta #0 dato
collocatus: sit in io iv ypivo over versante. quod: quidenì tam quam causam et
fundamentum ewplicativnis didlecticae inlued ris, Quamrvis ipsit non siti. 134
bro della seconda antinomia, esser l’ uno un concetto ne- cessario della nostra
mente, ed anche negandolo, lo affer- miamo come un dato concetto, che non si
possa confondere con altri. (Questa dimostrazione, dice acutamente Zeller,
corrisponderebbe all'argomento ontologico delle scuole, per il quale si
dimostra che Dio è, perchè del concetto dell'asso- luto la nostra mente non può
far senza. Dippiù se mancasse il concetto dell'uno, neanche quello del molti si
potrebbe dare, perchè il molti suppone la ripetizione dell'uno, argo- mento
questo che risponderebbe al cosmologico, secondo il quale dall'effetto
risaliamo alla causa, o dal composto al semplice. (Qual è il costrutto che
possiamo ricavare da queste antinomie? Le proposizioni l'uno è e l'uno non è
esprimono 1 due presupposti, già combattuti nel Sofista, che cioè tutto sia uno
e che tutto sia un molti. Se que- ste due posizioni menano entrambe
all’assurdo, è necessario che il vero Ente debba essere determinato come l’
Unità che in sè abbraccia la molteplicità '). E se questo molti è la materia, 0
11 mondo sensibile, e se l’ Uno è l’Idea o l’in- telligibile, la formola
precedente si trasformerà in que-. st'altra: l’ Intelligibile comprende in sè
il sensibile. (Qui siamo tornati ad una parte della interpetrazione eghelliana,
vuol dire all’immanenza dell'idea rispetto alle cose, -0 meglio all’ insidenza
delle cose nell’ idea. (Questa interpe- trazione dello Zeller, accolta con
favore dagli studiosi del Platonismo, come il Susemihl, il Ribbing, il Neumann
®) lo Stein 3), venne combattuta da altri. E il più recente e 4) Das wahrahat
Seiende als eine die Vielheit in sich befas- sende Einheit bestimmt werde.
Zeller. Geschichte ecc. II. 565. 2) Neumann. op. cit. p. 45. Pro certo habeo
Platonem mun- dum non în duas partes inter se disjunctas et idearum et re- rum
divisisse, sed statuisse ea quae în natura mobilia et mu- tabilia sint nulla
alio modo nisi ideis, in quibus solis sit ve- ritas et aeternitas, vita et
essentia instrui posse. 3) Stein-Sieben Biùcher zur Geschichte des Platonismus.
Gott, 1862 p. 219. 135più vigoroso attacco l’ebbe dall’ Ueberweg, il quale,
come dicemmo nel capitolo precedente, tolse appunto da questa critica un altro
argomento contro l'autenticità del Parme- nide. E impossibile dice l’ Ueberweg
che nel Parmenide si voglia provare per via indiretta I’ insidenza delle cose
nella idea, perchè questa dottrina è affatto contraria al platonismo, vero e
schietto sistema di trascendenza). Ed Aristotele seguita a combattere le idee
platoniche, perchè separate dal sensibile, e non sa nulla di questa pretesa
immanenza ‘del Parmenide. A queste ragioni, che mi sembrano molto gravi, l’ Ue-
berweg ne aggiunge altre di minor peso, le quali io non saprei accettare. Egli
dice che le antinomie della seconda parte del Parmenide non pare sieno trovate
per uno scopo polemico, nè sembran tali che, facendo altre supposizioni,
possano venire risolute. Per lo contrario l’autore di queste antinomie esprime
la sua schietta convinzione, e in tutta la seconda parte par che aleggi uno
spirito scettico, una persuasione profonda che la ragione umana, dovunque si
volga, caschi necessariamente in parologismi. Questa tinta scettica, che
Ueberweg vuole scorgere nel Parmenide, giova certo al suo intento di
dichiararlo spurio, ma io in verità non so vedercela. E giova ripetere che
secondo le precise parole del 135 D e 136 E. il possesso della ve- rità. è it
premio di chi non si stanca facilmente delle ri- cerche dialettiche.
Assicurazione per fermo, che suonerebbe assai male sulle labbra d'uno scettico.
. i Ma contuttocchè io non possa assentire all’ Ueberweg che lo scopo del
dialogo sia nettamente negativo, pure 4) Il Neumann dimandava all’ Ueberweg i
testi sui quali si appoggiasse. Ma questi avea citato già il 52 A. del Timeo, e
dal Fedro, dal Fedone, dalla Repubblica avrebbe potuto trarre un numero ben più
riceo di passi in favore della sua tesi, 496: sono d’atcordo con lui elié lo
scopo positivo a cuò tende, mea sia certo l immanenza delle cose riell’ idea.
(uesta dottrind ,, tipeto , contrasta troppo con le precedenti di Platone, e
néa sì potrebbe ammettere serida una profonda mutazione, di cui l'antichità
rion ci tramanda ritordo. Qual’ è dunque il significato de Parmenide? Platone',
cothe dicemmo più sopra, stacca siffattamente il sensibile dalle intelligibile
') da attribuire all'uno i caratteri affatto op- posti a quelli dell altro.
Raferimmo già un passo del Ti- meo, nel quale è detto esser l’ «des uno,
identino a sè me- desimo, iagenerato, imperiture. E not aéeoglie in sè nulla
d'estraneo, nè va in altro ?), riè sì può vedere nè perce- pire con altre
senso, ma solo ha da esser colto dalla ragione. L'opposto dell'exto3) è invece.
sensibile, generato‘, ih eterno movimento, or nasce in un luogo, e testo vi
sconiparb;, nè può essere colto se non dalla percezione sensibile. Ed in un
altro luogo dello stesso dialogo l'opposizione è rile- vata più. nettamente e
da una parte c’è quello che è sem- pre e non nasce mai, da una altra ciò che
.nasce sempre e non è giammai *). E. parimenti nel Fedro e nella Re- pubblica
si determina l’idea della bellezza in sè, 6ame. qualcosa di unico in
opposizione alle molte belle cose ché in tanto sono belle, in quanto
partecipano. di quella sola .1) Tim. 54 E. due di Zexricv disivo, Feére qorpio
qebrerrer dvopolig te Fyeroy. 2)' Si hotino queste determinazioni 52 A. oùre
sli saurò elodeyi- pevov &ido &ilodev oUte abrd sdg daN rd l6b è si
dica-se sia coriciliabile colla schietta dottrina platonica, l' immarienza
delle cose sen- sibili' nel seno delle idee medesime. 3) L'espressidrie di' eri
si serve Platoné per indicare qui l'opposto dell'edos, è la seguente: cò di
dpuvupov duods Te desivo deirspov, espressione che giustifica pienamente i
rimproveri. di Aristotele. 4) 27 D. "Egr odv di xat' budy d'bav TEpdrTOY
didipertov aéde’ ti rò dé de, jiviavi di ox Epov, xal ci rò quyobpevov pv, èv
di oùdizere; 187 titea 4. Se l’idea è l'uno, e il mondo sensibile è il molti,
come può essa incarnarsi nel monde senza perdere la sua unità? È se tanta
opposizione corre tra il mondo sensibile e l’intelligibile, come mai il primo
partecipa in qualche modo del secondo? L'idea passando nel sensibile non si
corrompe , e il sensibile accogliendo l' intelligibile non si nobilita al di là
della propria natura? Queste difficoltà, che sono -Im fondo le stesse del
Parmenide, derivano tutte dalla posizione platonica d-Ho stacco assoluto dell’
idea e delle cose. E Platone, convinto di queste difficoltà, senza rinun- ziare
all’oggettività e separabilità .delle idee, tenta pure di raccorciare
l'intervallo che le separa dal mondo sensibile. Per la qual cosa ei si
argomenta di trovare nelle idee stesse gli elementi onde è costituito il mondo
sensibile. Già nel Timeo raccosta il sensibile alle idee introducendo il con-
cetto del sostrato, dell’ umozsizsvo 0 materia prima, che ha molti caratteri
affini alle idee, sendo anch'essa unica, immutabile, invisibile, e colta da una
ragione bastarda. Ecco perchè la materia prima tien }uogo dell’ unità nel mondo
sensibile , il quale si può dire che, indipendente- mente dalle idee, consta di
uno e molti. Ora non resta per compiere l'analogia se non introdurre la
molteplicità nel regno ideale. E questo fu tentato da Platone nel Sofista, nel
Parmenide e per intramessa anche nel Filebo. Se non che a quella guisa che quel
sostrato, o materia prima, che costituisee l’unità del sensibile, non è la
stessa cosa del- l’unità ideale, così parimenti la molteplicità, che s’ acco-
glie nel mondo ideale, non è identica alla molteplicità sen sibile. E vero che
tanto nel Sofista quanto nel Parmenide e nel Filebo vien detto che la grande
meraviglia nom stia 1) Rep. VI. 507 B. xa aùrò di uadòv xal adrò &yadàv xad
obrto repi mavroy & tore e go))k iride, madri ad var'idiae plav indatov 0g
piaxs ouons mdtvres ecc, 138 nell'affermare l’unità dei contrari nel mondo
sensibile, sì bene nel dimostrare lo stesso del mondo ideale. Ma non sì deve
intendere questa sentenza in tal guisa, come se Platone tramutando la sua
dottrina della trascendenza in quella dell’immanenza , ritenesse esser il molti
sensibile un momento necessario dell'uno. No, Platone è dualista e resta tale.
Basti 11 provarlo la dialettica del Sofista. Nel Sofista ammette la realtà del
non-Ente, e come il vero reale è l’idea, così gli fu giuoco forza ammettere
anche l' idea del non-Ente. Ma a che si riduce il non-Ente del Sofista? Abbiamo
già dimostrato il non-Ente del Sofista es- sere il diverso, cioè il rapporto di
esclusione di un'idea dalle altre che vi sì associano. E al non-Ente del
Sofista corrisponde il molti del Parmenide. Ogni idea si conserva una, e solo
mostra una molteplicità di relazioni con tutte le altre idee, cosicchè si possa
dire: ogni idea rispetto a sè essere una, rispetto alle cose, molti. Ecco
tutto. Se l’idea è uno e molti al pari della materia, ei pare che l’ impos-
sibilità della partecipazione sparisca, e che la difficoltà del terzo uomo sia
eliminata. La copia corrisponde all’ origi- nale, e il rapporto che stringe il
mondo sensibile allo ideale non è forse quello di péSezs ma di ppiots. Qui
evidentemente abbiamo una trasformazione della teo- rica platonica, la quale
però non è brusca, perchè contenuta implicitamente nelle prime dottrine. Ed in
verità se l’ Ente uno di Parmenide venne moltiplicato infinite volte da Pla-
tone, e trasformato in un mondo ideale, non si richiedeva se non una leggiera riflessione
per scorgere .in esso il li- mite, il non-Ente e il molti. Questa
trasformazione. ac- cenna a un raccostamento a qualche filosofia anteriore? È
in qual tempo ebbe luogo? Per rispondere a queste dimande bisogna risolvere l’
ultima quistione, cioè del posto che oc- cupano i tre dialoghi nello sviluppo
del Platonismo. 139 CAPITOLO VIII. QUISTIONI CRONOLOGICHE. Del posto che spetta
ai tre dialoghi dialettici nella serie delle scritture platoniche non si
potrebbe discutere senza riassumere la-grande polemica, che ebbe luogo in
Germa- nia intorno all’ordine dei dialoghi platonici. Ma questa sola quistione
meriterebbe una memoria a parte, tanto sono di- scordi i pareri, e così
numerose le opere che venner su questo argomento pubblicate. Epperò io volentieri
rimando il lettore alla monografia dell’ Ueberweg, da me più volte citata, ed
alla pregevole introduzione, che il Ferrai pre- mette al suo volgarizzamento
dei dialoghi platonici). Io voglio solo ricordare che tutti gl’ interpetri e
critici di Platone si possono raggruppare in due grandi categorie, i seguaci
dello Schleiermacher, e quelli dell’ Hermann. Se- condo Schleiermacher Platone
fin dal principio della sua carriera letteraria avendo già in mente preordinato
il piano del suo sistema , conforme a questo disegno scrisse suc- cessivamente
i suoi dialoghi per uno scopo didattico, o come ricordo dell'insegnamento dato
nell’accademia. In conformità di questo piano i dialoghi platonici possono or-
dinarsi in tre serie. 1.° Dialoghi elementari, o ricerche preliminari sui
principii della scienza. 2.° Dialoghi che tramezzano tra gli elementari ed i
costruttivi. 3.° Dialoghi costruttivi. Ma sin dalla prima serie sono accennate
alla 4) Colgo ben volentieri quest'occasione per affrettare coi miei voti la
pubblicazione di questo volgarizzamento, opera di così grave fatica, e ricca di
studiati proemii e commentarii, da me- ritare più calda e benevola accoglienza.
* 140 lontana le costruzioni posteriori, e tutta la dottrina plato- nica è già
racchiusa in germe nel Fedro, che, secondo Schleiermacher, è il primo fra tutti
i dialoghi platonici. Con questo sistema lo storico tedesco non può tener cunto
dello sviluppo intimo della mente platonica. Platone, ei dice, fin dal
principio ha chiara nel pensiero la strut- tura di tutto il suo sistema, e solo
nell'esposizione ora ne rileva una parte ed ora un'altra secondo i bisogni del-
l’ammaestramento. Per lo che non si potrebbe ammettere un periodo schiettamente
socratico, in cui Platone non avesse ancora intravveduta la dottrina delle
idee, e non fosse ca- ‘ pace di quegli ardimenti speculativi, che tanto
ripugnano al cauto riserbo di Socrate. Per lo contrario il pregio dell’ Hermann
sta appunto nel- l'aver messo in rilievo questi varii periodi della attività
letteraria di Platone, i quali egli poi sa mirabilmente con- nettere coi fatti
della vita. A torto adunque, secondo l’ Her- mann, l'ordine dei dialoghi
platonici vien ricavato da un pre- teso disegno, che mal si potrebbe ammettere
fin dai primordî della carriera letteraria dello scrittore. Una mente così
libera ed artistica come quella di Platone non-si poteva certa- mente piegare
alle pedanterie di una esposizione scolastica. Per la qual cosa i varii
dialoghi mettono capo nelle oc- casioni somministrate dagli avvenimenti esteriori,
ì quali naturalmente si ripercuotono nella storia intima del pen- siero
platonico. Ma sebbene l’ Hermann parta da premesse così opposte, pure s'accorda
collo Schleiermacher nella divisione gene- rale degli scritti platonici ed
ammette anche lui tre pe- riodi l’elementare, quello di transizione e il
costruttivo, Vera è che f'alementare dell’ Hermann non corrisponde esattamente
a quello dello Schleiermacher, perchè il priino comprenderebbe 1 dialoghi, nei
quali manchi la traccia della 141 teorica delle idee; il secondo al contrario
supporrebbe già stabilita la dottrina delle idee, per dimostrare la quale ver-
rebbero aperte ricerche preliminari. In una parola l’elemen- tare dell’ Hermann
è affatto socratico, quello dello Schleier- macher non è meno schiettamente
platonico dagli altri pe- riodi- Parimenti in queste identiche divisioni i
singoli dia- loghi sono distribuiti in modo affatto diverso, cosicchè il .
Fedro, che nel sistema dello Schleiermacher è a capo di tutti 1 dialoghi
platonici, nel sistema dell’ Hermann apre . la serie del 3.° periodo, del
costruttivo. Ma non ostante queste profonde divergenze, vi sono molti punti di
contatto tra le due opinioni, le quali mo- dificate in parte, lungi
dall’escludersi possono contempe- rarsi in un'ipotesi più larga e più
razionale. Che vi sia un disegno prestabilito iu tutta l’opera platonica,
Schleier- macher stesso non ha potuto sostenere, ed in ciascun pe- riodo alle
opere fondamentali egli aggiunge alcuni dialo- ghi accessori, o Nebenwerke, che
potrebbero chiamarsi scritti ‘d'occasione, i quali non entrano rigorosamente
nel piano sistematico. Così pure sebbene Schleiermacher stimi che il fecondo
genio di Platone fin dai giovani anni abbia tracciate le linee generali del
sistema, pure non crede che fin dal principio tutti i particolari di questa
vasta co- struzione sieno ben chiari e netti. Lo Schleiermacher adun- que
ammette pure un progresso nella speculazione platonica, la quale ravvolta al
principio in nube, che ne confonde i tratti speciali, a- poco a poco assume
contorni più precisi. E la conoscenza più profonda, che Platone acquista delle
filosofie precedenti, serve a render chiari molti punti, che nel primo getto
del sistema erano rimasti nell'ombra. Un solo passo ancora, e la costruzione
dello Schleiermacher si raccosterà a quella dell’ Hermann. E questo passo 1 se-
‘guaci dello Schleiermacher è pur necessario che lo facciano; 143 imperocchè
storicamente egli è più verisimile che nel tempo in cui Platone scrisse il
Liside, il Carmide , il Lachete, l'Ippia Minore, l’Apologia, il Critone e il
Protagora sl muovesse tuttavia nell'ambiente socratico, e non sì fosse ancora
arditamente levato alla dottrina delle idee, che è più o meno diffusamente
toccata nei dialoghi posteriori. Ma d’ altra parte ì seguaci dell’ Hermann non
possono ne- gare nei dialoghi posteriori quella omogeneità, che tra- disce un
disegno preconcetto. Il Sofista, ed il Politico si rannodano da una parte al
Teeteto e dall’altra al Parme- nide ed al Filebo. La Repubblica il Timeo ed. il
Critia formano per le dichiarazioni stesse di Platone un tutto ben ordinato; ed
in molti di questi dialoghi alla forma dia- logica sottentra l’espositiva, come
notammo molte volte nel corso del nostro lavoro. Cosicchè l’ opinione dello
Schleier- macher se fallisce nella prima serie di dialoghi, acquista maggiore
verisimiglianza nell'ultima. E non è punto im- probabile che il Fedro contenga
il programma di tutta quella costruzione, che venne poi mano mano colorita ne-
gli altri dialoghi. La vera soluzione dunque della quistione platonica, dice
hene l’ Ueberweg, sta nell'armonico tempe- ramento delle due opposte opinioni
!).. Ma noi non possiamo soffermarci più a nano È sulla qui stione generale , e
quello ‘che abbiamo detto è bastevole per metterci nella via di risolvere il
problema, che da vicino ci riguarda, voglio dire il posto che spetta ai dia-
loghi dialettici. E intorno a questo punto non solo lo Schlgiermacher el
Hermann sono pressocchè d' accordo, i ma a loro si uniscono quasi tutti gli
altri autorì, il Bran- 1) Ueberweg-Untersuchungen p.107 sind beide
Gesichtspunkte der einer methodischen Absicht und der einer Selbstentwicke-
lung ‘Plato' s durchweg miteinander zu verbinden, so liegt es doch in der'
Natur der Sache und wird auch zum Theil von Hermann selbst... anerkannt. 249
dis, il Susemih], il Ribbing, l Aet, il Munk, lo Stallbaum e lo Zeller.
Perlocchè a noi, che non possiamo accettare l'opinione di questi egregi
critici, corre il penoso obbligo di una lunga discussione. Lo Schleiermacher
crede che il Parmenide appartenga addirittura al primo periodo delle scritture
platoniche , e. che tanto questo quanto il Fedro e il Protagora sieno la- vori
giovanili, nei quali sì trovano i primi accenni e della dottrina delle idee, e
della dialettica, considerata quale tecnica della Filosofia 1). E appunto
perchè il Parmenide è, una scrittura giovanile, non è giusto che se ne faccia
molto conto, e che gli si attribuisca quel profondo significato che a forza vi
cacciavan dentro i neo-platonici; mentre la sotti- gliezza ed anche la
puerilità delle argomentazioni tradisce una mente ancora inesperta , che sì
trastulla per passatempo ip giuochi eristici ®). Ma in tutto questo
ragionamento lo Schleiermacher ha messo da banda la prima parte del Par- 1)
Sehieiermacher op. cit. p. 49, Abbiamo già detto che per lo I von a (I. p. 9) e
per l’Ast ( Platons Leben und Schrften p. 239-241 ) e ‘per lo Steinhart
(Platon's Werke III, 240-242) la seconda pere del Parmenide è un puro esercizio
eristico, che secondo Schleier- macHèer fu inseritò nel Parmenide per provare
che nella dia- lettica sono poste le condizioni formali di ogni retto filosofa-
re. Ed il rettq filosofare soltanto rende possibile la soluzione delle '
difficoltà toccate nella prima parte. Anche il Munk crede che il Parmenide sia
una delle prime opere di Plalone, ma' per ragioni affatto diverse da quelle
dello, SOAIGRIDACAeE Se- condo il Munk gli scritti platonici hanno per iscopo
di espore re, idealizzandola, la vita e l’attività di Socrate. così si or- °
dinano naturalmente in tre periodi. Nelle scritture del primo. è rappresentata
la lotta che Socrate sostiene contro, le false, filosofie; nelle scritture del
secondo periodo si svolge la pro- pria dottrina socratica, e nelle scritture
del terzo se ne con- ferma la vèrità combattendo di nuovo le dottrine, che a
‘quelle si oppongono. (Munk Die natùrliche Ordnung der platonischen |
Schriften' Berl. 1875 p. 25 e segg.) Il Parmenide , nel quale Socrate è ancor
giovinetto, ‘appartiene al 1° periodo. 144 menide, modello di critica fine ed
incalzante, la quale non rivela- in nessuna parte inesperienza giovanile. E la
seconda parte stessa, abbiamo già detto non doversi giudicare alla stregua
della moderna logica, e far d’uopo di metterci colla mente in quel tempo in cui
non essendo ancor nata la teorica del sillogismo, si tenevano ingenuarfiente da
tutte le scuole come assiomi o verità evidenti quelle che non erano se non
semplici presupposti, cui faceva bisogno di una dimostrazione. Ammesse queste
condizioni, la seconda, parte del Parmenide non parrà più sofistica di alcuni
libri della. stessa Repubblica. i Lo Schleiermacher inoltre stacca il Parmenide
dagli altri due dialoghi, il Sofista ed il Filebo, che secondo lui deb- bono
mettersi nel secondo periodo , che vien detto di transizione, in cui primeggia
la spiegazione del sapere, e delloperare ragionevole '). Ma questo stacco è
ingiusto, ed: il Parmenide appartiene allo stesso - periodo del Sofista; anzi
nell'ordine di tempo quello che precede è piuttosto il Sofista, nel quale vedemmo
accennato ciò che è sviluppato chiaramente nel Parmenide. . a Più accortamente
dello Schleiermacher l’Hermann riunisce 1 due dialoghi dialettici, .il Sofista
ed il Parmenide, e in- sieme al Cratilo al Teeteto e al Politico li colloca nel
se- condo periodo, da lui chiamato megarico. Dal viaggio, che fece in Megara
?), Platone attinse, secondo l’ Hermann, una 1) Op. cit. p. 50 die Erklàrung
des Wissens und des wis- senden Handelns. 2) Questo viaggio secondo la
testimonianza del platonico Er- modoro ebbe luogo subito dopo la morte di
Socrate, quando Platone contava appena 28 anni, e il motivo’ sembra essere
stata la tema dei mali che sovrastarono alla scuola socra- tica dopo la
condanna del Maestro. (V. Zeller De Hermodoro Ephesio et: Hermodoro Platonico
p. 19). Uerberweg. op. citata p. 119 crede alla data addotta da Ermodoro , ma
non al mo- tivo. Hermann non crede nè all’uno nè all’altro, e mette a torto il
viaggio di Platone quattro o cinque anni dopo la morte di Socrate, 145
conoscenza. più precisa della scuola eleatica, e megarica. Seb- bene nè
l.ardita speculazione di Senofane e Parmenide, nè la via che tennero i Megarici
per accomodarla all’ indirizzo socratico trovassero grazie appo lui; perchè ben
si accorse che la rigida teorica dell'Ente Uno spiantava dalle radici la
scienza medesima; e che non sì apponevano meglio i Me- garici, 1 quali, pur
moltiplicando l’ Ente Uno parmenideo tante volte, per quanti erano 1 concetti
socratici, non ces- savano per questo di ravvolgersi in un arido formalismo.
Per tal guisa il nostro filosofo non solo ardisce nel Teeteto e nel Sofista di
ribellarsi contro il gran Padre Eleatico, cui Egli pur circonda di.tanta
onoranza; ma nel Parmenide fa che il venerando Vecchio critichi e condanni sè
mede- simo. Nè meno. acerba è la critica, che in questi dialoghi vien fatta
della dottrina megarica; imperocchè non pure il 248 A. del Sofista, ma tutta la
prima parte del Parmenide si ha da riferire ai Megarici, la cui teorica delle
idee è ben: diversa da quella di Platone. Il Parmenide adunque è un dialogo
polemico; la prima parte combatte le idee separate come le intendevano i
Megarici, la seconda rimontando alla sorgente di questo errore, s avviene nella
scuola elea- tica, e contro essa adopera le stesse armi di Zenone. Che cosa
resta di queste scuole? Null’altro se non la neces- sità di compierle in una
dottrina superiore, che sarà quella appunto che Platone svilupperà nei dialoghi
costruttivi a cominciare dal Fedro per finire nel Timeo e nelle Leggi. In una
parola il Sofista ed il Parmenide si potrebbero - dire, secondo l’ Hermann,
dialoghi preparatorî, in quanto per la critica delle dottrine e teoriche
anteriori Platone s' apre la via alla costruzione del proprio sistema. « Questo
dia- logo, dice l' Hermann del Sofista, non solo oppone agli Eleati ed ai
Megarici un altro metodo dialettico, ma at- tacca quella scuola nel centro
stesso della loro specu- 4» lazione. Esso iflsieme al Parmenidé , che quella
vittoria compie di4letticamerit, del’ esset collocato per necessità innadti al
périodo , m<éol aionvsolo si «e0nOscono le idee domé concetti é sede dell’
Essenzialità e Verità, ma benanco le cose serisibili si tengono quali copie.
delle idee; la quale dottrind nori potéa nastere prima che la filosofia
speculativa dimostrasse l'incommensurabilità dei fenomeni colle pure forthé del
pensiero 1). » E più appresso: « la dialettica del Parmenide not rampolla dallo
spirito del sistema platonico, ina piuttosto dalla necessità di stabilire i
nuovi principî sulla rovina delle Antiche speculazioni » ?). Di questò stesso
avviso fu il Brandis, il quale col pa- ragotiare il Parmenidé al vestibolo di
un magnilico pa- tazzo 3) faceva chiaramente intendere che, secondo lui, que-
sto dialogo precede di poco le grandi costruzioni del Fe- diné ; della
Repubblica e del Timeo. Nè diversamente giudica lo Zéllér, secondo il quale il
Parmenide chiude la serie dei dialoghi dialettici, e porge l’addentellato a
quellà dei Cosfruttivi, a capo déi quali s' ha da mettere il Filébo *). E sulle
ormé dello Zeller il Susemihl crede che il protésso ipotetico dél Parmenide
serva ad un tempo é a ferire N Eleatismo colle stesse sue armi, ed a stabilire
it và Via indiretta la dottrina delle idee 5). | Paririenti il Ribbing métte
anche lui il Parmenide alla fine del secondo periodo, sebbène attribuisca a
questo dia- logo maggiore importanza di quel che solessero gli altri critici.
Il Ribbing non accetta la teorica dell’ Hermann, Ivi I Bràidis-Hardbuch
derGriech'ischen Romischen Philosophie Berlin 1844 vol. MH. p. 259. 4)
Geschichte. der griech,, Phi]. II. p. 402. pi Si Susemihl Die genetische
Filiwichelung der plat. Philoso- prié I 332. mega ro. und System der plat. phil. p. 502. €47 secondo la ‘quale il Platonismò si-sarebbe
formato a ipetzi; onde il più artistico fra 1 sistemi di Filosofia mancherebbe
di ‘unità ed «armonia; ma si raccosta invece .all’ opinione dello.
Schieiermacher come venne interpetrata e modificata dal ‘Brandis. Vale a dire
che Platone fia dal principio della sua vita letteraria abbia concepito in un
modo vago e ge- nerale da dottrina «delle idee, the ‘poi ‘coll'andar del tempo
sviluppa e compie da diversi lati!).. « E primieramente prevale l'aspetto
teoretico formale, 0 meglio la necessità del gongetto .e della definizione come
‘forma del vero sa- pere, in accordo col metodo e coi risultati teoretici del
So- cratismo; all'aspetto teoretico poi sottentra il'pratico-reale, ovvero la
necessità di un contenuto assoluto sia nel eo- noscere come nell’operare, quale
principio della vera virtù e felicità; segue in terzo luago una deduzione da
premesse soggettive e psicologiche, nella quale sono racchiuse le dot- trine,
che preparano e rendono necessaria quella delle idee (come ad esempio la
celebre teorica della reminiscenza); in quarto luago s’ mvestiga il sostrato
oggettivo e reale in tutto ciò che appare soggettivo e fenomenico; in altre pa-
role si ricerca l'Ente nel divenire, la -cosa nell'immagine, e questo sarebbe
l'aspetto ontologico ed insieme logico delle idee (Sofista). In quinto luogo
questo sapere ed es- sere è considerato come l'assoluto che è in sè e da per sè
‘(Parmenide). In sesto luogo, presupposta questa. dottrina metafisica , si
procede sinteticamente alle teorie cosmolo-. giche ed etiche, che da quella
derivano » ?). Da questo riassunto si scorge come il Ribbing consideri il
Parmenide quale di gran lunga superiore al Sofista. Im- perocchè in questo sono
studiate le ‘idee nei loro rap- 1) Ribbing-Genetische Darstellung der
Platonischen Ideen- lehre. Leipz 1863-64 TI. pag. 96-97. 4) Op. cit. I. 84-85.
10 148 porti logici ed'ontologici, in quello all’ incontro ne ‘vien messo in
rilievo il valore metafisico, o in altre parole l’assolutezza. Ciò non pertanto
siccome la via tenuta nel dialogo è tuttora indiretta od apagogica, così-il
Parmenide appartiene al giro di quelle opere, nelle quali come nel Tee- teto,
Sofista, Politico, Menone, Eutidemo e Cratilo si ascende analiticamente alla
teorica delle idee, processo che Platone suole addimandare irifzez. Ma il
Parmenide è al culmine di questo processo ascensivo, è da esso prende le mosse
il terzo periodo o sintetico e costruttivo, i cui primi dia- loghi sono il
Simposio, il Fedone e il Filebo !). Riassumendo tutta questa esposizione diremo
che i più reputati interpetri del Platonismo convengono in questa sentenza ,
appartenere il Parmenide ‘ed il Sofista a quel periodo della vita scientifica
di Platone, che tramezza tra le ricerche e le dispute preliminari e più
strettamente so- cratiche, e le ardite costruzioni fisiche ed etiche. Ma non
ostante questo accordo tra autori che: battono diverse vie, noi non possiamo
accomodarci al loro avviso. E le ragioni principali son queste, che non solo
nel Sofista e nel Parmenide, ma benanco nel Filebo sono accennate dot- trine
apertamente ripugnanti a quelle insegnate nel Fe- done, nella Repubblica e nel
Timeo. Nei capitoli pre- cedenti abbiamo ampiamente dimostrato come la dottrina
delle idee quali forze racchiusa nel Sofista, e quella del bene come unità
degli opposti nel Filebo non s' accordano gran fatto colle teoriche sostenute
negli altri dialoghi. Ed al Socher non sfuggì questo disaccordo, il quale è
pure con- fessato in parte dello Stallbaum. Senonchè questo esperto critico
crede di salvare e l'autenticità e Îa priorità dei dia- loghi dialettici col
notare che « quae in aliis libris de idea- rum doctrina magis populariter et ad
vulgarium hominum e cene] 4) Op. cit. II, 101-118. ; - 149 captum accgmodate
explicantur , ea in Parmenide quidem dialectice exponuntur sic, ut totus hic
locus singulari cum subtilitate ad caussas suas et principia revocatus '). Ma
con buona pace del dotto critico si può ammettere che opera di così grave
momento come il Fedone, il Timeo e la Re- pubblica sieno fatte per il grosso.
del pubblico e non: per gl’ iniziati ? E le discussioni di questi dialoghi
cedono forse in nulla e per forza dialettica, e per sottigliezza di ana- lisi
al Parmenide ed al Sofista? E benchè in quei dialoghi il pensiero venga.
sovente rivestito di una forma poetica, nel più dei casi non sappiamo benissimo
quel che si na- sconde sotto il velame delle allegorie? E le opinioni ma-
nifestate iu quei dialoghi, spogli dalla veste poetica che li copre, -cessano
per questo di esser contrarie alle altre racchiuse nei dialoghi dialettici? E
giuoco forza adunque ammettere qualche mutamento nel pensare platonico, il
quale, al pari dei più grandi s1- stemi filosofici del mondo, assume nel corso
del tempo di- verse forme. E ammessa questa diversità è molto più ve- risimile
che le dottrine del Fedone, della Repubblica, del Timeo precedano quelle del
Sofista del Parmenide e del Filebo e non viceversa. Imperocchè in questi ultimi
dia- loghi è racchiusa una critica, or più coperta, or manifesta, ora leggiera,
ora vigorosa delle dottrine racchiuse nei primi. Il Sofista combatte la teorica
delle idee immobili, e aper- tamente protesta contro coloro che vogliono
escludere la molteplicità dal mondo ideale ; ed il Filebo, come vedemmo,
riassume in brevi tratti alcune fra le principali critiche contenute nella
prima parte del Parmenide. Ma quest’ ul- timo - dialogo principalmente offre
una polemica vigorosa, e non contro questo o quel punto particolare del
sistema, ma contro tutta la teorica delle idee. Della qual polemica 41)
Stallbaum Prolegomena ad Platonis Parmenidem p. 335. +59 sì valse lo: stesso
Aristotele contro de suo maestmo ;' di tanto momento; ei. la riputava. Or bene
delle due forme, per così dire, della filosofia plato- nica, quale sarà posteriore?
quella che vien combattuta dallo stesso. autore, ovvero l’altra che sembra
escogitata a bella posta per isfuggire a questi attacchi? Messo così il
problema non mi sembra dubbio che il Sofista, Filebo e Parmenide debbano
seguire e non precedere i dialoghi costruttivi. Qui ‘ non possiamo escir da
questo dilemma, o i dialoghi così detti: dialettici: sono spurii, oppure
contengono una nuava forma del filosofare platonico, e.sono pressocchè
gli-ultimi: scritti di Platone, che di poco precedenti Leggi. A nessuno dei
detti autori, che abbiamo citato sono ignote queste difficoltà, ma studiano di.
scansarle -con sot- tili accorgimenti. Così ad esempio lo Stallbaum confessa
che le obbiczioni della prima parte del Parmenide sono gravissime, e sa bene
che Aristotele le ripete quasi a parola; - ma. crede, che esse non sieno state
escogitate da Platone medesimo, bensì dai contemporanei suoi, e massime dai
me-' garici:, i quali « licet ideas esse. largirentur, tamen eas ponerent
prorsuas ab.eis diversas. ac. sejunctas, ita: ut has négarent..quidguam cum
illis habere. consuetionis et necessi- tudinis.'). E in altro luogo: (Quid.
igitur mirum quod Me- gariti deinde Platonis doctrinam, quam vel ipse nondum
ad: justam parspicuitatem excoluerat, vel illi secus.atque debue- rant
interpetrati erant, armis dialécticis, quorum usu probe. eramt:. ewercitati,
gravissime adorti. sunt? '). Secondo lo. - Stallbaum: adunque le obbiezioni
della prima parte del'Par- menide: venner. mosse. in realtà a Platone dai
megarici, quali staccavano: per tal. guisa le idee .dal mondo: sensibile, 1)
Op. cit. p. 65. 2) Ivi p. 57, da non poter.ammettere nessuna partecipazione:
tra' loro. Queste obbiezioni poi non mancano di giustificazione, perchè la
teorica platonica, non ancora sviluppata e chiarita, molto agevolmente potea
andar fraintesa. E° Platone riproduce’ schiettamente tutte:le difficoltà,
sicuro di poterle rimuovere col chiarir meglio la sua dottrina così nella
seconda pasto del Parmenide, come nei dialoghi posteriori. i Questa ingegnosa spiegazione
dello Stallbaum non parmi’ Pegga per nessun verso, e sebbene ammettiamo anche
noi non essere state le obbiezioni del Parmenide escogitate da Platone-stesso,
pure lo Stallbaum ha torto di attribuirle ai me- garici, i quali sarebbero gli
eidav pio del Sofista, ‘e secondo’ il 135 B C del Parmenide ammetterebbero le
idee come un’ presupposto necessario della cognizione. Chè per tal guisa gli
argomenti che ‘adducevano contro Platone sì poteanobenissi— mo ritorcere contro
di loro, specialmente il'primo e ultimo. Anch'essi doveano esser dubbiosi se
convenisse ono ammet-' tere una idea per ogni concetto della nostra mente;
ed'an-’ che essi tenendo le idee come entità a sè; ne compromet- tevano la
conoscibilità. Ma-se pure fossero vinte’ queste difficoltà per quel che
riguarda i megarici; molte altre e: più gravi si leverebbero rispetto a
Platone. E come mai que- sti, che sente tutta la forza delle fattegli
obbiezioni, nei: dialoghi posteriori quali il Fedone, il Timeo, la Repubblica
svolge dottrine, che a quelle difficoltà non si possono sot- trarre? E che
tanto nel’Timeo; quanto nella Repubblica Platone‘ammetta le idee come entità a
sè, separate dal’ mondo ‘sensibile, io lo tengo fuor di ‘dubbio. Basterebbero a
provarlo tutti quei mediatori come l’anima’ del ‘mondo; ’ e le forme.
matematiche, che vengono escogitate a disegno per colmare l'intervallo, che
separa i ‘due mondi; ù Questa stessa critica può esser fatta dell'altra
opinione, da noi toccata nel capitolo precedentè,. secondo Ja: quale le 452
difficoltà della prima parte .del Parmenide appartengono a Platone medesimo.
(Questa mente sottile, si dice, ben sapendo come le dottrine filosofiche
possano andare-fraintese, pensò di formolare le obbiezioni che nascono da una
falsa inter- petrazione della teorica delle idee, e per tal guisa per- venne a
meglio definire e circoscrivere i suoi concetti. Mes- sosi in questa via, il
Susemihl crede che queste difficoltà Platone le abbia tratte dall’estendere al
mondo intelligi- bile le stesse argamentazioni, che Zenone rivolgea contro 1l
sensibile; e per risolvere le une e le altre gli sia convenuto .ridurle in una
forma astratta e logica, dal che nacque la dialettica dell’ Uno e del non Uno,
svolta nella seconda parte del Parmenide '). Il Ribbing non accetta pienamente
l’opinione del Suse- mihl; ma anche lui crede che le obbiezioni del Parmenide
fossero escogitate dallo stesso Platone, il quale per ana- logia col modo come
suole esporre e criticare le dottrine altrui, quando pervenne a formolare il
problema o l’assunto metafisico, a cui l’aveano condotto le sue ricerche, non
si nasconde le difficoltà e gli ostacoli, che la soluzione del problema avrebbe
incontrato. Anzi queste difficoltà non sono in fondo se non espressioni
indirette delle prime e generali dimande, a cui deve rispondere qualsiasi
dottrina metafisica. In altre parole con quelle difficoltà si chiede che sia
dimostrato, come le idee abbiano una realtà asso- luta, e scevre di
contraddizioni, e come dalla partecipa- zione a questa realtà traggano la
verità loro tutte le cose, ‘ed in ispecie l'umano sapere ?). Ma in verità
quest’ opi- nione non solo non ribatte le obbiezioni fatte allo Stall- baum,
anzi a parer mio le rincalza. Perchè in qual modo, io dimando, potea Platone
formolare con tanta nettezza 4) Susemih] op. cit. I. 340. 2) Ribbing. op. cit.
I. 228, 153 difficoltà di così grave momento contro una teorica, non ancora ben
matura? È come accade che nei dialoghi po- steriori di queste difficoltà non si
tenga nessun conto, e si svolga una dottrina, che lungi dal risolverle, le
addoppia? Tutte queste interpetrazioni, lo dicemmo altre volte, par- tono dal
presupposto, che il sistema platonico importi l’im- manenza delle idee nel
mondo, e non la trascendenza. E così le obbiezioni che nascono spontanee contro
le -ldee separaté dal mondo e dalla mente, cadono da sè quando le sì considera
come intime all'uno e all'altra. Ma lo ri- petiamo le idee platoniche sono
sempre separate dalle cose (xeprora.) ed Aristotele, che certamente doveva
intendersene più di noi, non le considera altrimenti: Eccoci tornati al punto-
onde siam mossi. Posti i dia loghi dialettici come anteriori ai costruttivi si
addensano tali difficoltà storiche e psicologiche, che nessuna spiega- zione è
riuscita finora ad eliminare; onde non c'è ‘altra via per bene intendere
l'ordine dei dialoghi platonici da quella in fuori di tenere il Sofista,
Parmenide e Filebo come posteriori al Fedone al Simposio alla Repubblica ed al
Timeo. Che il Sofista (a cui si collega il Politicus) non possa appartenere al
periodo megarico, l’ Ueberweg lo ha dimo- strato con dotte ragioni. Nei luoghi.
aristotelici, ei dice, che ricordano il Sofista, viene usato costantemente il
pre- terito (itato, cipaxs goa); Il che vuol dire che i temi del So- fista e
Politico abbiano porto argomento alle discussioni in iscuola, le quali solo più
tardi vennero fissate nello scritto. E però molto improbabile che i dialoghi
sieno stati pubblicati ben presto. E la forma di questi dialoghi Ri a
confermare il no- stro sospetto. Notammo già che nel Sofista, nel Politico ed
anche in parte nel Filebo, il personaggio principale svolge i suoi pensierj in
una maniera affatto espositiva; gl’ inter- locutori non lo contrastano
vivacemente, ed il concetto non sgorga dalla discussione. I giovaneth ghe, intervengono.
In questi dialoghi e principalmente nei due primi $i rasse- gnano ben
volentieri al solo ufficio di assentire o negare; rare volte sì permettono
qualche scherzo innocente o qual- che minaccia da burla, e quando talvolta si
mostrano stan- chi del vuoto formalismo di quelle discussioni , per con-
fortarli a proseguire nell’arida via, .1l filosofo racconta loro ora aneddoti,
or miti filosofici. Per riassumere in una parola il carattere di questi
dialoghi, noi ripetiamo CIÒ che dicemmo altre volte: la forma drammatica
scomparisce per far luogo all’espositiva, e alla ricerca in comune del vero da
‘scoprire sottentra l’ insegnamento della verità già trovata. In questi
tratti.si riconosce un filosofo già in- vecchiato nell’ Accademia , il quale si
è già di molto al- loptanato, dalla via tracciatagli da Socrate, ed or più che
mgi è inchino al dommatismo., Perlocchè questi dialoghi non possono appartenere
al periodo megarico, in cui Pla- tene. ;ancor fresco di anni, combatteva contro
gli altri discepoli di Socrate, e dalla loro critica traeva alimento alle
proprie dottrine. Ed a maggior conferma della nostra ‘opinione. adduciamo
questo altro indizio non spregevole. Nei due. dialoghi Sofista e Politico viene
introdotto un giovane Socrate , il quale secondo la testimonianza di Aristotele
(Met. VII. 44. 4036 B.) era unp dei suoi compagni nel- l'Accademia; laonde
torna molto improbabile che. questi dialoghi sieno stati scritti nel. periodo
megarico, vale a dire in quel tempo in cui Ja scuola non era ancora aperta 1).
(Queste prove non servono certo a determinare con mag- gipre ;precisione. il
tempo A. cul. appartengono 1 dialoghi dialettici. :Si sa solo che la scuola era
già aperta da un A) Uebermgeg:Ugtersuchungen pi 20740.: e 155 pezzo, quando
venner pubblicati questi dialoghi, i quali perciò sono di sicuro posteriori al
Fedro, ma di quanto non è stabilito. Senonchè l’ Ueberweg stesso ci fornisce
altri argomenti, dai quali si può trarre un miglior partito di quel che non
abbia fatto egli stesso. Paragonando il Fedro col Timeo e col Fedone si scopre
un’ oscillazione intorno a un punto molto grave, voglio dir l'immortalità dell’
anima. Nel Fedro l’anima ‘è detta im- mortale come principio del movimento apxà
xwieeas, perchè ciò, che non origina da altro, non può aver fine. Nel Timeo è
ammesso pure questo principio, ma appunto perchè si tiene l’anima non come
originaria, ma quale creatura di Dio, ella potrebbe benissimo morire. E nel
fatto lo stesso dialogo fa mortale il supos e l' en9vanrivòv, benchè poi venga
salvata l’ immortalità della parte più nobile dell’ anima per un motivo affatto
etico, per la bontà divina. Nel Fedone infine è posto da banda la premessa
accettata nel Fedro e nel Timeo; imperocchè anche ciò che ha un'origine, se
partecipa di una data idea, poniamo l’idea della vita, go- drà per necessità
metafisica l’ immortalità. L'anima anche ‘ qui è immortale, non perchè sia
principio del movimen- to, nè per volere della bontà divina, ma perchè, rap-
presentando puramente l’idea della vita, non può accogliere in sè il contrario
di quella, la morte. Or non è molto più verisimile che la concezione del Fedone
sia l’ultima, 6ome quella che importa un mutamento più profondo e più ra-
dicale di pensieri ')? E se il Fedone è posteriore al Timeo, per maggior
ragione fu scritto più tardi dalla Repubblica, la quale, come è noto, è
presupposta e ricordata dal Timeo. Ma si può dimandare il Sofista antecede o
segue il Fe- done? Da ciò che abbiamo altrove ampiamenle sviluppato il Sofista
dev’ essere posteriore di gran lunga al Fedone; 4) Op. cit. p. 286. * 4156
linperotchè in gilestò le idbe todo tenute per immobili, ia quello si
attribuisee lord un movimento. Di guisa che se il Sofista è posteriore al
Fedone, a maggior ragiohe sarà posteriore al Timeo ed alla Repubblica, che
vanno innanzi a quel dialogo. E stabilita la posteriorità del Sofista è as+
sicurata non pure quella del Parmenide, che ha col Sofitta medesimezza
d’intendimenti e di stile, ma benarco del Filebo, ehe col Parmenide è così
strettamente congiunto. Un’ obbiezione eantto queste modo di ragionare si po-
trebbe forse trarre dal Teeteto, il quale se da una parte si collega col
Sofista, dall'altra vien tenuto dalla maggior parte dei critici per un dialogo
molte antico, :e di certo anterioré ‘alla Repubblica. (Quest'obbriezione a
stretto rigore non indebolirebbc i sostri argomenti, imperocehè se egli è vero
esser il Safista posteriore al Teeteto, non è stabilito perciò. quanto tempo
sia dorso fra l'uno e l’altro, nè viene escluso éhe tra questi due dialoghi
possano intercedere non pochi altri. E nom è nulla di stramo, che sospesa per
buona pezza una ricerca, la si mpigli dopo lungo tempo, e quando ‘alla néstra
mente si schiudono nuovi orizzonti. Ma non fa neanthe bisogno di questa
ipotesi; avendo I’ Ueberweg stesso dimostrato con buone ragioni non po- ter
neanche il Teeteto appartenere al periodo interme- diario ‘dei critici.
Imperocchè la battaglia di Corinto, da cui Teeteto è veduto tortar ferito, non
può essere nè quella del 393, nè l’altra dell'anno dopo, bensì una molto
posteriore, se si vuol 4enére conto del fatto impartadtis- simo, iche il ferito
Teeteto aveva alquanto varcato la :prima gioventù, essendo di già salito in
tale fama *) da con- fermare il buon NVaticinio che di lui awea fatto Socrate
lo stesso giorno dell'accusa di Melito ?). Nen a torto quindi Le 4) Come nel
142 D. del Teeteto asserisce Terpsione. 2) Teet. 2410 D. 189 l' Ueberweg
riferisce l'allusione del Teeteto alla battaglia di Corinto del 368, in cui gli
Ateniesi, combattendo valo- rosamente , riportarono splendida vittoria ').
Posta questa datà, il Teéteto dev essere stato scritto nell'ultimo ventene mio
della vita di Platone, la cui morte, secondo la testi- moniahza di Diogene
Laerzio (V. 9), accadde sotto l’ arcon- tato di Teofilo, valo a dire nell’ anno
348-347 av. C. E fale induzione vien confermata dal trovare anche nel Teeteto
Il giovane Socrate, che, corse dicemmo, appaàrienevà alla scuola di Platone ?).
Per le quali ragioni non cape dub- bio appartenere il Teeteto al gito dei
dialoghi dialettiei, i quali si debbonò tenere scritti da Platone nella sua più
tarda età ?). Il criterio cronologico coincide adunque con quello tratto dal
contenuto dei dialoghi, e possiamo ora conchiudere il Sofista, il Parmenide ed
il Filebo essere posteriori al dia- leghi costruttivi, e racchiudersi in essi
una parziale modifi- cazione della dottrina platonica. (}uale sia questa
modifica» zione lo dicemmo già nel capitolo precedente. Platone ver lende
raccorciare la distanza, che separa le idee dal sen+ sibile, ammette in quelle
una moltiplicità, cosicchè tanto le une quanto l’altro constino degli stessi
elementi. Ma ab- biamo moi: prove estrinseche di questa mutazione delle diot-
trinè platoniche, o dobbiamo solo attinigerle dal tontenuta dei dialoghi? Le
prove estrinseche nen mancano, e l’auto- rità, cui ci riferiatho è lo stesso
Aristotele. Per gli altri argomenti riscontra |’ Ueberweg 294-237. Bisogna ben
distinguere l’ érdinè con cui si sono sucéde- duti gli scritti platonici, da
quello ché dobbiamo tenere per l'esatta intelligenza del sistema. H Teeteto può
servire bems- Simo come ùna introduzione alla dottrità delle idee. Ma nulla
vîetà che sia scritto dopo, allorchè Platon® volemde ruffermare la sua Wottrina
si fa ad èspòîre una teortéà Wella cognizione che validamente la giustifichi, 7
Senoph. t11. VII. I. 8 Diod. XVI 68. 3 158 Aristotele in un celebre luogo della
Metafisica i), espo- sta l'origine della dottrina platonica, che ei rannoda ad
Eraclito e Socrate, e toccatene le analogie con quella dei Pitagorici così
continua « Dacchè le idee (al dir di Pla- tone) sono le ragioni di tutte le
cose, gli elementi di ‘ quelle ei pensò fossero pari agli elementi di queste.
Or siffatti elementi per quel che riguarda la materia sono il grande ed il
piccolo, e per quel che riguarda l’ essenza l’unità; per la qual cosa appunto
dall’ accogliere in sè stesse il grande e il piccolo , colla partecipazione
dell’ unità , le idee sono numeri. Che l'unità sia la vera sostanza, e che
niente altro si possa dir tale, Platune lo dice al pari dei Pitagorici, e al
pari di questi sostiene essere i numeri la ragione di tutte le cose. Ma questo
è proprio di Platone, di mettere invece dell'infinito uno la diade, o meglio un
infinito che consti del grande e del piccolo. Dippiù Platone ammette i numeri
al di fuori delle cose sensibili, 1 Pitagorici pel contrario li tengono per
iden- tici alle cose stesse e non ammettono le essenze matema- tiche come
intermediarie. » Che parecchie volte in questo passo sia riprodotto fedelmente
il pensiero platonico , è 4) Met. I. 6. 987. Era dé air tà std toîs dMots,
t&xsivev oro ysia avv wii Tov divrwv siva. otorgaia. "Mc pev ovv Vinv
tò piya val TÒ punpòv siva apyds, oe d' ovaiav tò îv di duelvwv yàp xarà pédelw
où. ivo tà cida civan rode &pr3puovs. L'Ebben nella sua monografia De
Platonis idearum doctrina Bonnae 1849 p. 27 dice: haec ap- posîtio (il roù;
&p.duovs del passo precedente) îta unde, et inter- posîto quidem verbo
siva. addita, molestissima est. Itaque sì quid video, tods apdpovs ejiciendum
est, tamquam glossema. Quanto sia ingiusta questa congettura , e che Aristotele
intenda pro- prio parlare di una teorica delle idee-numeri viene attestato da
moltissimi altri passi, tra i quali presceglieremo due soli. Met. XIII. 12.
1086. ’Erra od» Mfyovei river toravtas siva TàS Îdtas xad toÙs apidpois, nat tà
touttwv otoryeia T&bv dvrwv sivar atorygeia xal apyàc. XIV. 3. 1090. Oi pèv
oùv ridipevor tds idiag civan xa dprdpoùs abràz ELVAL, 159 facile provare col
testo medesimo di Platone. Così per esempio nel Filebo è asserito .che « il più
o meno, il forte e il piano e il lieve e simili si riducono ad uno nel genere
infinito » '). Il che torna a dire, come ricorda Aristotele, che l infinito da
Platone non è inteso come l’unità, ma quale dualità originaria. Parimenti già
notammo in altro luogo che il porre i numeri come entità interme- die tra le
idee e le cose sensibili è un pensiero veramente platonico; imperocchè è un
ente intermediario eziandio l'anima del mondo, il cui contenuto sono i
movimenti side- rei, governati da leggi matematiche *). Il che certamente non
si può dire a prima giunta della teorica delle idee-numeri, la quale sebbene
ripetutamente attribuita a Platone e nel I e nel XIII e nel XIV della
Metafisica, pure in nessuna delle opere platoniche, a- noi pervenute, è svolta
scientificamente. Ma pure qualche ac- cenno qua e là si trova. Così per esempio
nel 7° della Repubblica si distinguono due specie di aritmetica, una volgare ad
uso degli osti e dei merciaji, che val solo al vendere ed al comprare, l’altra
sublime che serve a volgere l’anima dalle terrestri alle superne cose *). (Que-
st' aritmetica superiore tratta di tali numerì che si possono solo pensare e
non trattare altrimenti (dv dravontiva. povov #lyopei) numeri, nei quali si
comprende tale unità, che è - uguale tutta in tutti, (irov rs éaaror név mart)
e che pur non 4) "Ordo &v fpîv qpaivara: paid te xd firrov yepoiperva
nad tè opédpa xal fipipa deybpeva xa tò May xaù ravd'doa toraita, sig tò toù
arretpov givos doc slc îv dei mavra tabra Sbvar Fil. 24 E. 2) V. indietro pag.
77. ove nella nota 1 riferimmo il passo aristotelico che riguarda il perafé Chè
l’anima del mondo ab- bia lo stesso posto dei numeri si raccoglie dal Timeo 35
A. Tpirov ig dupoîtv iv piow cuvexspdcato ovatas stdos. 3) oùx diviîg oddi
phases ydpiv de durépove © xamidove usderivtag, &d= Vivexa roltpov te ua
abrîig tic fuyie paotowe peraotpopîe amò qeviostg in'aliSekv te nad ovaie» 525
C. - 4160 cessa di esseré ##mplice !). E la stessa differensa che corre tra le
due aritmetiche; ha luogo pur tra due geometrie, l'una che ha per iscopo di
misurare le grandezze, l' altra che è la sciensa di ciò che sempre è?). Dite lo
stesso dell’ astrologia e dell’acustita, scienzé gemelle secondo i Pitagorici.
Ed in prirtto luogo poniamo quell’ astrologià che conosce per filo e per segno
i movimenti dei pianeti, e beh ealcolando le rivoluzioni del Sole è della Luna
tiene un esatto conto del swecedersi dei giorni dei mesi è degli anni; è giova
al commercio è alla navigazione. Ma al disopra di questa astrologia è un altra,
che di tutti questi movi- menti si serve come esempio visibile di ciò che non
si vede, ma solo collà merite si può cogliere ?). Finalmente al di sobta
dell’adustica comune, che sa empiricamente determinate i numeri necessàri per
gli accordi, vha l’al- tra acustica, che vi sa dire quali sieno i numeri
atmomiti, e quali i disarmonici, e per qual ragione sièno corì *). Questi passi
della Repubblica ben s’ accordano rolla te- stimoniahza di Aristotele, il
quale, riferendosi clitaramente a Platone; dice. « V'ha di quelli che ammettuno
due sorta di numeri; quelle in cui v'ha la priorità e la iposterio+ rità ,
ovvero le idee., ed il numero matematico. Queste due serta di numeri sono del
pari separate dagli oggetti sensibili » %). Non sfuggirà ad alcuno l’importanza
di que- 1) 526 A. Egli è evidente che qui si parla di quella monade che è
l’idea, la quale è tutta in ogni cosa, eppure non si divi- de, né vi ‘sperza in
tante purti per tuante sono le cose in èui si »iffette. | 2) 527 B. roù yàp te
Svror ) feti pare dova 3) 520 D. tn repi #81 odprvbv rrouidia rapadeifuir
yphortov ric pds tattva (A dh Véyo puev né diavola INitù, bye ded, ateo ded. 4)
534 C. trods gup dv Tavira mais cupugrriare Tate auduopivar apiSpod Wnrovdorw,
Ai) ov sis pop patà Avati Brera, i Ep pedi x0d Tivss vò, ‘iui del n searipra. _
5) Toùs palv Montsds deleisvo, tobtour Vi ‘alttavie. Metaph. I. 8. 990. Oi piv
ov apporépove pactv siva toùs peduovc; Mib fiv fyovta DÒ pia tepov xal Corepos
tds idtac, tòv di paSnparizdv mapà tds îdiac val tà ai- 168 sto passe, di cui
discuteremo per ora la prima parte, ri- serbandoci a miglior tempo l’ultimo
periodo. Se confrontiamo questo passo coll’altro del primo della Metafisica, Hi
cui riferimmo a pag. 77 un frammento, chia- ramente si seotgerà il significato
della differenza tra i au- meri ideali ed i matematici. Le monadi numerichè
essendo simili fra loro, non v' ha nessuna ragione perchè pre- ceda l'una
aazicchè lalira. Ma delle monadi ideali cia- scuna ha un contenuto suo proprio,
secondo 11 quale logi- camente può precedere o seguire un’ altra monade. Così
delle idee del Sofista quellu dell’ Ente, avendo una estenr sione più larga
«delle altre del moto e della quiete, ante» cede ed abbraccia queste ultime.
Egli è duaque evidente al di fuori del mondo sensibile esservi 1 numeri matema-
tiei, che si possono sommare e sottrarre gli uni dagli altri, ed i numeri
ideali, di eui ciascuno sta da per sè, e non ammette fusioni e’ complicazioni
con gli altri. I primi sono oggetto dall’aritmetica comune, i secondi
dell’aritme- tica più riposta e propria dei filosofi, GINTA, val yopratode
Auporipovs tiv aigIntov. Met. XIII. 6. 1080. Il Trendelenburg crede che questo
passo debba correggersi col- l’aggiungere un ‘od innanzi all’éyevra perchè
nella ‘morale di Nicomaco I. 6.1096 è detto chiaramente oi dé xopioavtes tav
défav taitav oÙx Èrrotovv idéag év ole TÒ tporspov nad tò Uorspov te]0», duérep
olii mim dpiBpivo idtev narsomevate. Il Brandis ed ii Ravaisson (Es- sai sur la
Met. d'Ayistote I. 177) non accettano la correzione. Imperocchè, essi dicono,
il rpòrepov e l'dorspov della Morale a Nicomato si riferisce ai numeri già
formati, ed in questo senso è giusto il dire che il due precede il tre, il tre
il quattro; ma nel passo della Metafisica al contrario non si considerano più i
numeri formati, sì bene le unità chè le formano. E que- ste unità, o monadi
matematiche, avendo la stessa qualità non serbano nessunp ordine di
suecessione. Le unità che compon- gono il numero due si possono mettere o
avanti o dopo le u- nità che ‘formano il numero trè. Menire per le monadi
ideali la cosa non procede così. Quella triade, per esempio, che corri- sponde
al concetto animale è prima della tetraede, che corrì- sponde al concelto uomo.
E gli elementi o le monadi onde consta la triade sono pure anteriori a quelli
della tetraede. 162 Che questa esposizione aristotelica sia affatto platonica
lo attestano i passi della Repubblica surriferiti. Senonchè da questi a stretto
rigore non si potrebbe inferire altro, se non che dei numeri come di tutte le
altre cose ci sieno le idee, e che lo studio di esse ci fornisca la spie-
gazione di tutte le proprietà, che l’ aritmetica comune di- scopre. Ma secondo
l' esposizione di Aristotele non già alcune entità del mondo ideale si riferiscono
aì numeri, ma numeri sono tutte le idee. Come si vede c'è una dif- ferenza
notevole tra la prima e la seconda interpetrazione, differenza che il
Trendelenburg s’ argomentava di togliere attribuendo all’'&repov del passo
aristotelico il valore di sog- getto e non di predicato. Per tal guisa la frase
riferita si dovrebbe intendere così: « risultando dall’ infinito colla
partecipazione dell'unità i numeri sono idee » o meglio « vi sono anche le idee
dei numeri ». Ma che questa interpetra- zione non sia corretta si raccoglie da
tutti gli altri passi che abbiamo riferito, e che servono al nostro di
rincalzo. É poi tutto il tredicesimo ed il quattordicesimo libro non sono se
non una critica minuta, profonda ma qualche volta prolissa, ove le assurdità,
le incertezze, le contraddizioni della teorica delle idee-numeri sono esposte
fedelmente; e col solito acume discoperte le differenze che intercedono tra
questa nuova dottrina di Platone, e quella dei Pitagorici, che la precedettero,
e degli scolari Senocrate e Speusippo che lo seguirono. Vi può esser dubbio,
dopo tutto questo, che Aristotele chiaramente attribuisca a Platone la teorica
delle idee-numeri? Nè si può ammettere che il discepolo abbia frainteso il
Maestro. Un filosofo della tempra di Aristotele, che espone con fedeltà, e
giudica serenamente le opinioni dei suoi predecessori; un filosofo che nel
primo libro della metafi- sica vi fornisce un riassunto preciso e fedele della
storia 168 della filosofia greca, non poteva ingannare così grossola» namente
nella disputa contro le idee platoniche. Avrà potuto ‘ esagerare qualche punto
secondario della dottrina, ma in- ventare di pianta una teorica, che egli
svolge ed esamina minutamente nei suoi particolari, sarebbe affatto indegno di
una mente. così lucida, dî un ingegno così penetrante come quello di
Aristotele. E che Platone in nessuna delle opere a noi pervenute abbia svolta
la dottrina delle idee-numeri, non è questa per fermo una prova incontrastabile
contro Ja veridicità dell’esposizione aristotelica, perchè sappiamo che oltre
le opere scritte c’ era un insegnamento orale molto efficace, dal quale
Aristotele seppe certamente trar partito. E la mancanza di dialoghi, che
svolgano apertamente la dottrina delle idee-numeri, si può spiegare agevolmente
dal perchè questa sarà stata l’ultima forma della speculazione ‘platonica; il
che possiamo raccogliere dalla stessa testimo- nianza di Aristotele. Nel libro
XII della Metafisica in quel capitolo quarto, in cui si fa ad esporre e a
criticare la dottrina di Platone presso a poco cogli stessi argomenti adoperati
nel libro primo, ei dice così: « Per quel che ri- guarda le idee, in primo
luogo s' ha da esaminare la dot- trina dell’ idea, senza occuparci della natura
dei numeri, ma come la intesero al principio quelli che pria dissero esservi le
idee »'). Al principio dunque la teorica delle idee fu quale è svolta nel
Fedro, nel Timeo, nella Re- pubblica; e solo molto tardi sì accostò al
Pitagorismo. Il fal- lut quelque temps, dice il KRavaisson, pour que la
dialecti- que, à la poursuite de l'universel, en vint a toucher ce fond et y
reconnut le pithagorisme; il ne fut qu'assez tard qu’ ar- 4) Nepì dé riv idedv
rpétov aUthv ThV xarà Thu idiav débav emore- mrtiov, pndèv cuvartovias pds Thv
dpripiv quors, ki dae UrrtdaBov di apyîic oi mrpisror tàs ldbag phaavres siva
Mel. XII. 4. 1078. ET 164 rivé au but de son analyse, le platonisme s' arreta sur cette
base, et qu'il entreprit d'y asseoir, à l'exremple de l' école . îtalique, son
systéme du monde!). Ed Aristotele
nella sua critica segue passo passo lo sviluppo storico. Financo: nel celebre
capitolo sesto del libro primo della Metafisica, ove l'esposizione e la critica
del Platonismo è così rapida e serrata, è agevole distinguere nettamente due
parti, la prima finisce colle parole riportate a pag. 77 nota 1 e con- tiene
soltanto l'origine storica del platonismo, la 'defini- zione delle idee per
l’umiversale ed il’costante nelle cose, un accennò alla dottrina della metessi,
e infine la distin- zione dei tre regni, il sensibile, l'ideale e il usati 0
ma- tematico. La seconda parte poi incomincia col passo rife- rito più sopra
(pag. 158 nota 14), ove toccata di volo la teorica delle idee-numeri, e le
differenze che corrono tra i Pitagorici e Platone, segue una breve critica
dell’ opi- nione platonica, secondo la quale il principio opposto al- l’unità o
la diade originaria è appunto la materia. Aristo- tele per lo contrario crede
che il principio ideale o ma- schile sia la causa della moltiplicità, e il principio
mate- riale o femminile quello dell’umtà. La femmina, dice lui, non può venir
fecondata se non in un solo accoppiamento; il maschio al contrario feconda
molte femmine. Si chiude il capitolo con quello che noi potremmo chiamare la
ca- ratteristica del sistema platonico, il quale, non riconoscendo se non due
cause l’essenziale e la materiale, trascura le altre due la motrice e la
finale. Nel capitolo 9° dello stesso primo libro, in cui si ritorna più
diffusamente sulla critica delle idee platoniche vien serbato lo stesso ordine.
Dal principio sino a tutto il $ 12 (edizione Didot) è criticata la dottrina
delle idee come sostanze separate, e buona parte degli argomenti addotti 4)
Essai sur la Metaphysique d’Aristote I. 315. 165 sì riscontrano, come dicemmo,
nella prima parte del Par- menide. Dal $ 13 che incomincia colle parole:
"Et: cirep cio aprduol tà 2t0n, mis aitioL forviat; sino alla fine è
criticata in- vece più da presso la teorica delle idee-numeri. Nè diversamente,
anzi con maggior chiarezza sono di- stinte le due parti nel libro XIII. in cui
non solo si ripe- tono le critiche del libro primo, ma se ne aggiungono delle
nuove e più calzanti, principalmente intorno alla teo- rica dei numeri. Il
capitolo IV. di questo libro si apre con quelle chiare parole, che riportammo
più sopra (pag. 163 nota 4) dalle quali si raccoglie che la prima forma'della
dot- trina platonica fosse tutl'altra da quelle delle idee-numeri. Segue il
capitolo V. colla ripetizione quasi a parola di quel che si disse nel libro I.
cap. 5° sull'origine storica del Pla- tonismo. Ma con maggior forza s’ insiste
sulla differenza tra Socrate e Platone. « Socrate non attribuiva un’ esistenza
separata nè agli universali nè alle definizioni. Quelli che lo seguirono li
separarono e dettero a queste entità il nome d'idee ').» Di qui le difficoltà
che nascono dal conside- rare le idee come universali e come entità seperate.
Nel capi- tolo V. seguono le difficoltà contro le idee, le quali, sfor- nite di
efficacia, non valgono a spiegarci l'origine e il movi- mento del sensibile.
Solo nel capitolo VI. dopo aver esa- minato i possibili modi di esistenza dei
numeri, si fa ad esporre brevemente la teorica di Platone mettendola a ri-
scontro con quella dei Pitagorici, e di altri filosofi (Seno- crate e
Speusippo?) Nel Capitolo VII infine e seguenti sono rilevati con molto acume le
assurdità e le contraddizioni di questa teorica delle idee-numeri, non certo
seconde a quelle notatè contro le idee-sostanze. Per riassumere questa
discussione diremo che Aristotele 1) 'AM'è pòv Zamparne tè xad6)0v où ympiorà
dmolei addì toù dpiapove' ci d'éycipirar, xad tà toradta tiv Bvrav idiac
mpormyipevaa. 466 conosce la successione storica delle due dottrine, e ad essa
st conforma nell’esposizione e critica del Platonismo. Non insiste, egli è
vero, sulla vicenda stessa, nè rileva questa oscillazione nei pensieri del suo
maestro; ma ciò dipendé senza dubbio dal perchè egli stimava a ragione non
essere l'ultima forma dal Platonismo un mutamento, bensì una esplicazione, ed
una conseguenza logica della prima !). E col suo sguardo acuto seppe veder
fondo ai motivi che resero necessaria questa trasformazione. Nel III. della
Metafisica, ove sono esposte così cru- damente le difficoltà della scienza, s1
legge questo passo: « Piatone e i Pitagorici dicono l'ente e l’ unità non avere
altra natura, se non questa, di essere la sostanza dì tutte le cose.... Ma se è
così, siccome l’ente e l’unità si predicano di tutto, e nulla si predica di
loro, è una grande difficoltà am- mettere che oltre l'unità vi sieno altre
cose; sarebbe dunque vera la sentenza di Parmenide, che tutto sì riduca ad Uno
®)». L'unica via per isfuggire a questa difficoltà è quella di supporre oltre
all’ Unità una diade infinita 3). E qui Ari- stotele chiaramente accenna ad
alcuni dialoghi platonici, (il Teeteto ed il Sofista) nei quali sono svolti
chiaramente quei motivi, che adducono una lenta modificazione nelle dottrine
platoniche. « Vi erano molte ragioni, soggiunge, perchè si ricorresse a
siffatte cause, ma la principale fu 1) Basti citare di nuovo il principio del
passo da noi tradotto a pag. 213 per convincersi che secondo Aristotile la
seconda forma è una conseguenza logica della prima. ’Eraà d'aitia tà cida mois
Rive, taxsivav otoryeta mavtw»v WIM tiv dvewy siva otoryeia. 2) Meartowv pis
yàp xad oi HMuSey6peror ovy Stepdv Ti tò dv addi tè è «Ik Tolto aUtbv ThYI quaw
siva, dog odong tig oUatas aùtò tò tv etvar xa èv ve II. 4. 1001. E più
appresso: AM pùv et y dora ri adrò dv xal avrò fu, odia drropia mos dora re mapà
tara trepov, Ifyo di mos dora miei EvÒe TÀ bvra. 3) siod dé tuves ci dudda pèv
abpiaror irosoder tè pierà c0Ù ivòs stor. XIV. 2. 1088. i a PS 161 un antico
dubbio. Parve a loro che tutte le tose st ridén: rebbero all’Uno, o Ente ché
sia, se nor si confutasse l’ati- tica sentenza di Parmenide: ° & Nè maiti
verrà fatto d’ intendere, che il non enté sia. » Bisognava dunque provare
l’esistenza del noònvessére. Gli enti così, se, molti ve ne ha, bisogha che
trà$ano la loro origine dall'Ente e da qualcos' altro » 1). E più ap- presso: «
Si vuole ché anche il falso abibià questa' natura del non-ente, dal quale una
all’ Énte nascono i molti. Epi. però si dice doversi postulare il falso, a quel
modo che fanno i geometri che partono dall’ammettere come podia ciò che non è
tale » ?). Non è mestierî ricordate le ana loghe argomentazioni del Teeteto e
del Sofista, che altrove largamente esponemmo ?). Ora aggiungo esser questa
testi- monianza di molto peso, perchè non solo ci mostra lé fagioni del
mutamento che subì il Platonismo, ma ci addita ezian- dio quei dialoghi in cuì
se nè scorgono le prime traéce. Ed or possiamo bene comprendere lo scopo del
Sofista. Dicemmo nel secondo capitolo come fossero divisé le ‘opi- nioni su
questo purito, e che taluni riponessero l’ intendi- mento del dialogo nella
critica dei Sofisti, mentre per altti questa non era se non il pretesto di più
grave afgoftien- tazione. La secorda opinione, a nostro avviso, si chiarisce
molto più giusta della prima. Il Sofista, già notammo; sì ran+ noda strettamente
al Teeteto, nel quale è abbozzata appenà la teorica dell’opinione falsa, la cui
radice sta nello scambiò 1) "’Edote dp abroîs nave’ inenda Èv và ivrea,
abtò cò dv, ci p@ tu Nice xod bpudoe Badisitar tiò Mappsvidov Ibyw où Jp
phrrote tovto dans siva. pù dévra LIV dvd pen etvar tò pù èv detta è ori dar:
oltw Yap dx toù Bvros nad di- dov tuvòs tà dvra ineria, ei moda ferw. loc. Cit.
2) Bbvdetar uèv dh tò pu086 xe TRUTAY Thv puow Myii cò obi db, 6 où sal coù
èvrog moria rà qrra. Ivi 4089. 3) V. sopra p. 45, 24, 33, 34. 168 del
non-essere coll’essere. Il non-essere adunque in qual- che modo è pensabile, e
Parmenide avea torto di sban- dirlo affatto dalla mente nostra. Tolto il
non-essere, tutte le cose non possono a meno di ridursi all’ Uno immobile degli
Eleati. Il che non può accadere nè nel mondo sen- sibile, che anche a
confessione degli Eleati apparisce come moltiplicità, e nettampoco nel mondo
intelligibile, il ‘quale secondo il sistema di Platone è popolato da una
infinità d'idee. Quindi anche nel mondo intelligibile si deve occul- tare il
non-essere. E questo non-essere, come è noto, Pla- tone lo trova nel rapporto
di esclusione di una idea dalle altre, onde è accompagnata. Per tal guisa il
mondo ideale accoglie gli stessi elementi del sensibile. Anche in lui c' è
l’unità e la molteplicità, come nel sensibile; e lo stacco che divide i due
regni si rende minore, ed a ragione si ‘può dire l’uno esser copia dell’altro.
Con questa costru- zione si cerca dì evitare le difficoltà che si facevano con-
tro la teorica della partecipazione; mentre coll’ attribuire alle idee
efficacia vita e movimento s' indeboliva l’altra op- posizione che veniva mossa
contro le idee platoniche, di essere, per dirla col linguaggio aristotelico,
causa forma- le, ma non certamente motrice. Stabilita questa teorica, e messa
fuor di dubbio la esi- stenza del non essere, è spiegata ora la possibilità
dello errore, e-della Sofistica. Spiegazione, che toglie a sè più della metà
del dialogo, e che copre e quasi nasconde la dottrina metafisica, la quale
nonchè la parte principale sembra piuttosto un accessorio di quelle lunghe e
rinno- vate discussioni sull'essenza della Sofistica. Ma questo non deve recar
meraviglia a chi è aduso al fare di Platone, il quale per fine letterario suole
spesso mettere in evi- denza quei punti, che offrono maggiore interesse dramma-
tico, e nasconde invece a disegno la nuda speculazione. 169 Lo stesso scopo che
si vuol conseguire nel Sofista, esa- minando direttamente le cinque idee — l’
ente, il moto, la quiete, l’ identico, ed il diverso — si ottiene nel Parmenide
per un’ altra via, vale a dire con quel metodo indiretto, cui è merito di
Edoardo Zeller aver messo in luce. Di- mostrato che tanto la posizione dell’
Uno coll’ esclusione del molti, quanto la posizione del molti coll’ esclusione
del- l'Uno conducono all’assurdo, segue di necessità l’ unico partito, che
rende possibile la scienza, esser quello di am- mettere la coesistenza dell’
Uno e del molti e non solo nel mondo sensibile, ma benanche nell’ideale. Questa
dottrina, come dicemmo, salva o almeno pretende di salvare il'Pla- tonismo
dagli attacchi che gli venivan mossi da molte parti, attacchi fedelmente
riprodotti nel Parmenide, e nel Filebo. Il trasportare la moltiplicità nel seno
del mondo ideale, e il considerare ogni idea come risultante di due fattori,
l’uno e il molti, furono bastevoli motivi a trasformare la dottrina delle idee
sostanze in quella delle idee numeri. Per tal guisa il sistema platonico
sempreppiù si raccostò al pitagorico. Onde nel Sofista non è il Bene, come
nella Repubblica, la prima delle idee, che tutte in sè le accoglie, ‘ma l'Ente;
il quale poscia nel Parmenide è determinato come l' Uno che non esclude il
molti. Ma il dialogo, che svolge una dotirina metafisica, ove più spiccate
appariscono le tracce del Pitagorismo, è il Filebo. Nel quale, dice 1’ Ueber-
weg '), non pure le idee sono dette vai; xa povdfes; ma viene presentata come
un dono e una rivelazione fatta da- gli Del agli uomini negli antichissimi
tempi, e conservata per tradizione fino a ‘noi, la dottrina pitagorica che
tutte le cose risultino da due elementi il répas e l’&repeia. Epperò ì
concetti fondamentali, che governano tutto il nostro sa- 4) Op. cit. p. 204.
179 pere, sono quelli del xépac, &repor, tpitev it dppoiv cupproyipevor,
qiria ric avupitsos. E qui giova notare che l’ drepo» da Platone stesso viene
espresso colle parole paMov xat irrov, che cor- rispondono al cè piva «a tè
pixpsv di Aristotele. Il Filebo adunque, come dicemmo altrove, appartiene anche
lui al giro dei dialoghi dialettici, perchè in esso non solo sono ripetute le
difficoltà del Parmenide, ma vi scorgì evidenti tracce di quell’ indirizzo
pitagorico , che dovea scoprire in ogni idea i due elementi, l’uno e il molti.
Ed appunto perciò non potendo l’idea del Bene sottrarsi a que- sta legge, era
d'uopo trovar anche in essa eontemperati 1 contrari; da una parte la scienza
che corrisponde all'uno, e dall'altra il piacere che ha più stretta analogia ol
molti. Questp indirizzo pitagorico modifica l'antica dottrina pla- tonica, ed
abbiamo più volte ripetuto in qual maniera. Ma questa modificazione non è certo
un mutamento radicale; nè per questo il sistema platonico si confonde affatto
col pitagorico. Restano sempre due differenze importanti, che ci vengono
attestate da Aristotele. La prima sta in questo, che Platone ammette due specie
di numeri — gl’ideali e 1 mafematiei — e i Pitagorici una sola. Questi inoltre
non staccano 1 numeri dalle cose sensibili, in cul sono ineor- porati; quegli
al contrario, restando fido al sistema della trascendenza, pone i numeri ideali
quali sostanze sepa- rate '). E quì ci sia leeito di notare esser la nostra in-
4) Aristotele lo dice chiaramente. Nel Capitolo 1.° del Li- bro XIII. fra gli
altri problemi da risolvere c'è anche questo: se i numeri sieno è év qreîs
aieSmrote, naddrep \byevoì tives, N segtpe- apfva toy ArFarop. E chi sieno
costorg che attribuiscono al nu- mero un’ esistenza separata , facilmente s'
intende in seguilo. Infatti dopo aver combattuta la teorica delle idee sostanze
nel Cap. 4.° e 5.? dello stesso libro, passa nel Capitolo 6.° a cri- ticare la
teorica delle idee numeri. E le parole con cui s’a- pre questo Capitolo suonano
così: ira di dwsprora repi tovrwv, xa- Mes Eye made v SFecpfica tà mepi tods
aprdpovc cupftaivoria tols Afyopori eù- cias aùtols sivar qupiotàg xal tiv
Gvrwv airiag mpoitac. 171 terpetrazione dei dialoghi dialettici molto più
verisimile delle altre, comecchè non rompe la continuità del pensiero
platonico. Mentre coloro che credono aver Platone in que- sti dialoghi
sostenuta la dottrina dell’ immanenza, sono, costretti ad escogitare o l'una o
l’altra di queste due ipotesi. O che Platone abbia sempre creduto nell’ imma-
nenza delle idee, ed in tal caso bisogna sforzare l' inter- petrazione dei
dialoghi platonici, e tenere per metaforiche tutte le locuzioni che chiaramente
si riferiscono alla tra- scendenza; nonchè fa d'uopo ammettere che Aristotele
non abbia inteso nulla della dottrina del suo maestro. Ovvero . che Platone
abbia mutato nel corso degli anni radicalmente di opinione, ipotesi questa che
incorre nella difficoltà di non trovarsi traccia nei dialoghi platonici di
alterazioni così brusche ed inverosimili. Tutto invece fa supporre, che la
trasformazione sia stata lenta e quasi inavvertita dallo stesso Autore. | La
prevalenza poi dell’ indirizzo pitagorico negli ultimi anni della vita
scientifica di Platone non solo è manifesta nei dialoghi dialettici; ma in
un'altra opera di maggior lena, che secondo i critici è indubbiamente l’ultima
opera del vecchio filosofo, la quale non potè venir ritocca e ripu- lita come
dovea. Io intendo parlare delle leggi, che ricor- dammo più volte nel corso di
questo lavoro. Ed i disce- poli, Senocrate e Speusippo, seguendo le orme del
Mae- stro pitagoreggiavano più di lui; così che Aristotele ebbe a dire. « Le
matematiche sono divenute la filosofia di og- sigiorno, benchè si dica che
bisogna occuparsene in gra- zia di altre cose » 1). 1) @Nik Yeyove tà paSipara
toîs viv i piiocogpia, pacxévrav &X)ew ya. pu abrà dev rpaypareverim. Met.
I. 9-992. si ma 172 CONCLUSIONE Ed or che siamo pervenuti al termine del nostrò
lavoro giova darne per sommi capì 1 risultati. I dialoghi Sofista, Parmenide e
Filebo, indubbiamente autentici, non appartengono al periodo megarico, ma sono
invece posteriori ai dialoghi costruttivi. In essi viene toccata chiaramente
una nuova dottrina, la quale introduce nel mondo ideale la moltiplicità, che
prima si credeva esclusiva del mondo sensibile. Questa dottrina svolta
analiticamente nel Sofista coll’e- same delle cinque. idee più generali,
dimostrata indiret- tamente nel Parmenide col provare assurde le due opposte
posizioni dell’ Uno senza il molti e del molti senza l’uno, viene infine
applicata nel Filebo alla quistione etica. Con questa parziale modificazione
della dottrina Platone crede di poter salvare il suo sistema dalla critica dei
con- temporanei, e principalmente di Aristotele. La qual critica egli ripete
con franchezza nella prima parte del Parmenide, nel Filebo, e vi accenna in
qualche punto del Sofista. Siffatta modificazione trova un riscontro a capello
nella teorica delle idee-numeri, che Aristotele attribuisce a Pla- tone, come
una forma posteriore della dottrina delle idee. Questa forma avvicina di molto
il sistema di Platone a quello dei Pitagorici, e così facilmente si spiega il
pre- valere dell’ indirizzo ‘matematico negli ultimi anni della vita del
Filosofo, e più ancora nella scuola dei suoi disce- poli e continuatori. Felice
Tocco. Tocco. Keywords: Bruno, ragione pratica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tocco” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tolomei:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella filosofia della
percezione – la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Grice
italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Pistoia). Abstract. Keywords: la filosofia della
percezione, Warnock, Grice. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia,
Toscana. Appartenente alla Compagnia di Gesù. Nato a Villa Camberaia e di
nobili origini. Studia a Firenze dove studia legge presso l'Pisa. Entra a far
parte dell'ordine dei gesuiti e venne ordinato a Roma. Divenne esperto di ben
undici lingue tra le quali latino, greco, ebraico, siriaco, arabo, inglese,
illirico e francese. Inizia la sua carriera teologica esponendo le sacre
scritture nelle letture pubbliche presso la chiesa del Gesù a Roma. Venne
eletto alla carica di procuratore generale dell'ordine dalla congregazione generale,
ufficio che tenne fino a quando cioè non ottenne la cattedra di filosofia al collegio
Romano. Le sue letture, che hanno sempre un vasto uditorio, vennero poi
date alla stampa con il titolo “Philosophia mentis et sensuum” nella quale, pur
nel pieno rispetto dell'aristotelismo del Lizeo, accolge gran parte delle
scoperte naturalistiche della sua epoca, esponendole nelle sue lezioni. Le letture
vennero ristampate in Germania dove ottenne l'encomio dell'Accademia di Lipsia
e di Leibniz. Ottenne la cattedra di teologia alla Pontificia Università
Gregoriana -- allora ancora Collegio Romano -- e rinnova le tematiche relative
alla controversia sul concetto di dogma già iniziate dal cardinal Bellarmino.
Le letture relative a queste lezioni furono tutte redatte in un manoscritto di
ben sei volumi in folio che tuttavia non vennero mai pubblicati dall'autore.
Eletto successivamente rettore del Collegio Romano e del Collegio Germanico,
ricopre la carica di consultore presso la Congregazione dei Riti. Venne
con sua sorpresa nominato cardinale da Clemente XI ed ottenne il titolo di S.
Stefano al Monte Celio. Chiamato al servizio del Pontefice per giudicare gl’errori
in materia di dogmatica si occupa della pronuncia di condanna dell'eresia del
teologo francese, esponente del giansenismo Quesnel. In qualità di
cardinale è uno degli elettori del conclave di nomina di Innocenzo XIII e di
Benedetto XIII. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. T. su Find a Grave. Opere di Catholic Encyclopedia, Appleton. Cheney,
Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Battista Tolomèi, Tolomei. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tolomei” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tolomeo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale contro la gnossi -- Roma –
filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: gnosis,
gnosticism. H. P. Grice on ‘know’ – conoscere.
The The implicature of ‘gnostic’ in ‘gnosticismo’ -- Filosofo
italiano. According to Ippolito di Roma, a gnostic, and a follower of
Valentino. Keywords: Ippolito,
gnosticismo.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tomai: l’implicatura
conversazionale e la ragione conversazionale – la scuola di Ravenna --
filosofia emiliana – filosofia romagunola -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Ravenna). Abstract. Keywords:
Deutero-Esperanto. System G – Symbolo -- Filosofo emiliano.
Filosofo italiano. Ravenna, Emilia-Romagna. Pietro da Ravenna Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Disambiguazione – Se stai cercando il vescovo,
vedi Pietro Crisologo. Pietro Tomai, più noto come Pietro da Ravenna o Pietro
Ravennate e latinizzato come Petrus Ravennas (Ravenna, 1448 circa – Magonza,
1508), è stato un giurista italiano che insegnò nelle università di Padova, di
Greifswald, di Wittenberg e di Colonia. Compendium juris civilis et Canonici.
Pietro da Ravenna si fece notare all'Università di Padova in quanto, come
allievo di Alessandro da Imola, era in grado di ripetere a memoria l'intera
cognizione del diritto di quei tempi. A soli vent'anni ottenne l'incarico di
lettore. All'età di 24 anni fu promosso dottore in utroque iure. Pietro
suscitava lo stupore dei coetanei per la sua prodigiosa memoria. Ad esempio, si
vantava di aver archiviato nella sua mente, sotto la lettera A, fonti sui
seguenti argomenti: «de alimentis, de alienatione, de absentia, de arbitris, de
appellationibus, et de similibus quæ iure nostro habentur incipientibus in
dicta lettera A (”Sulle provviste, sull'alienazione delle proprietà, sull'assenza,
sui giudici, sugli appelli e su altre materie consimili che nel nostro codice
iniziano con la lettera A”). Nel 1477 si recò presso l'Università di Pisa ed
alla fine del 1479 ritornò a Padova come professore di Diritto canonico. Nel
1491 pubblicò un libro sulla tecnica di apprendimento dal titolo: Phoenix, sive
artificiosa memoria ("La Fenice, ovvero la memoria artificiale"). Nel
1497 il duca Boghislao X di Pomerania lo condusse a Greifswald allo scopo di
dotare la locale Università, da lui fondata, di un prestigioso nome italiano.
Dal 1498 al 1501 Pietro ricoprì la carica di Rettore. Tornato in Italia, dopo
poco tempo ottenne una chiamata ad un prestigioso incarico da parte del
principe elettore Federico I di Sassonia, che aveva fondato un nuovo ateneo,
l'Università di Wittenberg. Il 3 maggio 1503 Pietro tenne la sua prima lezione
a Wittenberg su Il potere dei papi e degl'imperatori. In particolare, egli
sostenne il diritto dell'imperatore a fondare Università, cosa che il Principe
elettore aveva già fatto per la prima volta con la scuola superiore di
Wittenberg. Pietro da Ravenna lasciò Wittenberg a causa di un'epidemia di peste
e divenne professore di diritto presso l'antica e prestigiosa Università di
Colonia (fondata nel 1388). Qui divenne famosa la sua controversia con Jakob
van Hoogstraten, nella quale egli stigmatizzava la prassi, in uso da parte
delle autorità tedesche, di lasciare le salme dei condannati a morte esposte
sulle forche: secondo lui ciò andava contro le leggi naturali e divine. A causa
di quella disputa, che per lui fu anche una sconfitta letteraria, Pietro lasciò
l'incarico di professore a Colonia e si trasferì all'Università di Magonza, ove
poco dopo morì. Lascito culturale L'opera Phoenix, sive artificiosa memoria
("La Fenice, ovvero la memoria artificiale") offrì per la prima volta
ad un vasto pubblico un metodo efficace per allenare la memoria. Sfidando i
benpensanti dell'epoca, Pietro nel libro rivelò «un segreto che ho a lungo
taciuto per pudore: se desideri ricordare presto, colloca nei loci vergini
purissime; la memoria è infatti eccitata dalla collocazione delle fanciulle».
Dopo la sua prima comparsa a Venezia, il libro venne tradotto in numerose
lingue, comparendo ad Erfurt e Colonia: nel linguaggio odierno, si potrebbe parlare
di un best seller internazionale. La Repubblica di Venezia concesse a Pietro da
Ravenna e a un editore di sua scelta, il privilegio dell'esclusiva di stampa
del suo libro Phoenix. Tale privilegio può essere considerato il primo esempio
conosciuto di copyright. I testi di Pietro da Ravenna, in particolare quelli
sull'arte della memoria, furono letti e apprezzati da Giordano Bruno, da cui
prese spunto per sviluppare uno dei suoi maggiori interessi, quello delle
mnemotecniche. Opere Phoenix, sive artificiosa memoria, Bernadinus de Choris,
Venezia; Erfurt, 1508 Colonia. De immunitate ecclesiæ, Colonia 1503. Liberum
sermonum, quos festis diebus auditoribus juris pronununciavit, Hermann Trebel,
Wittenberg Compendium juris civilis et Canonici, Colonia, Hermann Bungart von
Kettwig. Alphabetum aureum utriusque juris, Colonia, Compendium in
consvetudines feudorum, Colonia 1567. Phoenicem sive ad memoriam comparandam
introductionem, Colonia. De corpore suspensi in patibulo an remanere dabeat.
Manoscritti Lecturæ, Verona, Biblioteca Comunale di Verona, Fondo manoscritti,
ms. Rossi, Clavis universalis, Napoli, Ricciardi, Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Ritter von Eisenhart: Petrus Ravennas,
in: Allgemeine Deutsche Biographie, Duncker et Humblot, Leipzig. Dieter
Girgensohn, Petrus Ravennas, in Neue Deutsche Biographie (NDB). Band 20, Duncker et
Humblot, Berlin 2001, S. 230 f. Ravennas oder de Ravenna, Peter ein
Rechtsgelehrter In: Zedlers Universal-Lexicon, Band 30, Leipzig, Spalte,
Bowker: Copyright: Its History and Its Law. Being a Summary of the Principles
and Practice of Copyright with Special Reference to Books. Houghton Mifflin,
Boston, Friedensburg: Geschichte der Universität Wittenberg. Max Niemeyer,
Halle (Saale). Theodor Muther: Aus dem Universitäts- und Gelehrtenleben im
Zeitalter der Reformation. Andreas Deichert, Erlangen. Frances A. Yates:
Gedächtnis und Erinnern. Mnemonik von Aristoteles bis Shakespeare. Akademie Verlag, Auszug bei Google
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Mnemonisti Professori dell'Università di Pisa[altre] Artifìdofa Memoria
Clariffimi luris VtnuCq^ Doftoris de miliris domini Pctri Rauénatis lura
Canonica ordì nane de fero Icgenris in Celeberrimo Gymnafìo Pata^ uino in hoc
libello continctur » Etcum unafitFocnix di unusfitiflelibellus: libello fi
placet Foenids nomen imponatis. Eleonora de Aragonia Duciffa Ferraris
&c,Q^uod ab omnium bonoru datore Immortali deo generi huma no conceflum
eftjplæri<j in orbe terrarom a conftitu/ rione mundi uf<j ad hanc ætatem
excellentcs uiri eua^ fere,Q_uos inter nunc adeft Speótatus miles auratus di Infìgnis
utrcxf Iure confulcus dominus Petrus To mafius rauennas harum litterarum
noflrrarum exhiV^ bitor:Q_ui praster alias corpis et animi dotes ita omni
dodlrinarum genere Sitenaciffima memoria refulget ut ne dum (uperiorem fed
eriam in his parem minime habere uideatunQ^uod quidé nuper latiflime re ipfa
comprobauit:ut non folum nos fed etiam omnis hæc duitas noftra teftimonium
perhibere potefì^Q^ua ex re faélu efl: ut eum fingulari admirarione prædpuacj
charitate complexa^Inter noflros praster alios familiarem àrdom^cum habere
coflituerimus, Q^uamob rem Sereniffimos reges llluftrcs prindpes Excellétcs
refpublicas dC alios quofcuncf do minos patces fratres amicos beniuolofcp
nollros precamur ÒC oramus ex animo ut quotieiifcucf d contigerit ipfum dnm
Petra tamoptimcmcritucumfuis.famulis& cquis ufcj ad numerum oélo cum fuis
bulgiis forccriis &capfis cu pannis &C ueftibus fuis libris uafìs
argcteis di aliis qui/ Dufcun^ rebus fuis ac armis per eorum urbcs oppida uicos
panus aquas loca die noftecj libcrrime de expe ditiffimeabfijalicuius dadi
gabellai et alius cuiuflibct oneris folutionc amoris nolrri ÒC potiflimum tam
ma ximarum huius hominis uirtutum caufa tranfire per/ mittant eommendatiflìmum^
ipfum femper haben// tcs ei prouidere uelint de liberrimo expeditiflìmo(j tra
fitu de idonea cohorte ut opus fuerit di ipfe requifiue/
rittQ^ùodquidemnobisiocundiflimuni femper cric at(^gratiflìmumparatiffimis ad
omnia eorum qui fìc in eum fe habuerint beneplacita.Madamus aùt omni bus di
fìngulis magiftratibus quoruncuncj locorum noftrorum 6^potiffimum cuftodibus
paffuum reli/< quifq fubditis noftris ut prædida omnia di fingula in terris
di ìoós noftris inuiolabilitcr feruent feruaric]^ fa ciant,Sub indignationis
noftrac incurfu di alia quauis grauiori poenapro arbitrio noftro cis
imponenda:ad quorum robur di fidem has noflras patentes litteras fieri iu
flimus di regiflrari di noftri maioris figilli munì mine roborari jDatas
Ferrarise in noftro ducali palatio anno natiuitatis dominicac Millelimo qi
atringentefì ' mo nonagefìmoprimo Indidlionc nona Die decimo mcnfis Oftobris
&:c. Scuerius Bonifadus Marchio Motis ferrati S^cDccct pmaximc Prindpcs
corum non jfìlerc comendationcs qui fide ac deuotione non modo {ibi dciiinétos
di affcctos effe co gnofcunt fed quorum uirtus ac {ciém 5c mores ubicj patcnt
di illos fibi reddunt gratos acceptos^Sane igi turattcndcntcspræclaras
uirtuteslcientiarum pcritia ac mcmoriam magna prout nolipfì uidimus ac mirabi
litcr fumus cxperti fpedlaBilis ac eximii luris utriul^ doétoris de militis
cadàrei domini Petri de Tomafiis de RauennaPaduasIusCanonicum publice Icgcris
nec non illius erga nos immenfam et cordialem deuotio// nem fìngularemcj
affedionem merito inducimur illu corde diligere dc inter charos noftros
connumerarc, Q^uamobrem uniuerfis òc fìngulis fereniffimis domi nis regibus
illuflriffimis principibus patribus inclytis dominiis magnifìcis capitaneis
excelfis communitatibus flrenuis condudboribus nobilibus et officialibus amicis
&beniuolisnrisad quos memoratus dnsPe^^ trus declinaueritillum affe^luofecomendamus
eofdc rogantes ut ipfum cum equis quinque dC totidc perfb nis fui{(j bulgiis
ualijGis ueftibus libris pecuniis rebus de bonis per omncs ciuitates terras òe
uillas caftra op^^ pida caflella diftriótus et iurifHiftiones òc portus potes
de pafllis eudo dC redeudo per terra dc aquam die ac no tì:e lemel dC p!Mries
abfb folutione alicuius datii peda/ gii gabellse buUetarum ilrapaflus tolonei
fundi nauis de dia quauis oneris exadione libere ac expeditc dimit
tatptrafirejfibi(y|)uideatdeguidis fcorris faluiscodu busfidisfociecatibus dC
ms fauoribus oportunis quos requircndos dxixcric benigne^ illum rccolligant
humancfufcipiantS^gratiofc tradtentnoftri contcm plationc fuarum<$
prædariffìmarum uirtutum intuì// tu t nam quicquid humanæ rccolligcntiæ benigni
tra-' ftamétipropiai<pfauorisfibicollatum cxtitcrit nobis ad fìngidarcm
complacctiam afcribcmus ;in quorum fìdcm præfctttcs noftras fieri iuffimus dc
rcgiftrari no ftri^ figilli imprcffionc muniriiDatas Pontis turiac die XKÌiiù»
Antonius Priores Vcxillifcr iufliriac populi 5c communis ciuita tis Piftorii
præftantiffimo luris utriufcy doarori dc da/ riffimo cquiti domino Petto de
Tomafiis raucnati no/ bis dileélifGmo falutem^Si reéte omnia quæ mentibus
humanis concipi ac probabili ratione difccrnì queant uel confiderabimus uel
pcrquiremus nihilprofedto in ter caducas opes uarios hominum (plendores
alterni/ tem^fortunam inuenietur poflipfum immortalem deum qui cunfta creauit
ac regit uirtute admirabiliust ca quippe apud uiros bonos et ingenio daros
tanti eft ut non modo iudicetur ipfius diuinitatis particeps uc/ rum 8C
poffidentibus eam fìt ftabilis ÒC incorrupta humanæ at<f cdeflis ukx
poffeffioxù ita^nofler Piflori enfis populus diu fìngularem tuam fcientiam
admira/ bilem memoriam ac morum ciuilium cgregiam probi tatcm accurate
perfpexerit motus primum excellentia uirtutuj deinde amorisindidoquod erga
noftra rem publicam 8C ucrbis et opcribus oflédiflrnca demum co gitauit di
propofuit quæ parem eius in te bcniuoIcnaV am dedararcnt^Conuocato igiturpro
more ac legibus duitaris confilio publico ipfìus populi ac Icgiamc cdc/^ brato
die fexta menfis prccfcntis non fine fummo ac fa uorabili conuocatorum cofenfu
decretum fuit tibi tu^ i%defcendentibus benefìciumnoftrx duilitatis cum piena
facilitate confequendi qu2eciin<j ofKda duitaris
S^cuexcptioneimmunitatecjperannos triginta pro
ximefecufurosaquibufcucjfolutionibus quse dein^/ ccps in eadem noftra duitate
quouis modo imponerc tmtka^ in futurum fis nofter duis Piftoricnfls ac prò
Piftorienfedueutprseferturhabearis &reputeris tu uirpræftantiffime cui 5c
honos et bcniuolcnriameri^x to debentur et cuius defiderio fatiffa<fhj effe
putamus hoc noflri amoris indirium fufdpe grato ac iocudo ani mo et memor fìs
noftram hac rempublicam tibi ut csc teris noftris coduibus fadram effe communem
: Datu PilTrorio in palario foìkx nollræ reftdentise fub noftro cofueto figlilo
Antonius luanus Cancellarius ÒCc, Saluus fis frater Jptimc ucnictcm fororium
meum pa/ tauium non fuit acquimi fine meis ad te litteris uacuu uenire t quibus
ÒC fi nihil aliud habeo quod fcriba hoc faltcm habeo quod in inirio epiflolarum
fa^piffime ap^ poniturfi bene ualesgaudco ego bene ualco uxor mea ego falui te
una cum tua faluos effe iubcmus^tu uc/ ro cum omniù «tatis noftrac
mcmoriofifTimus fìs mc^ mento uerbi tui fcruo tuoinquomihifpcm dedifti. Papi«
quinto idus Nouembres^M.ccccbcxxviii» Tuiiuris Lancello^ tus Dccius luris
utriu% doótor* Padu« Domino Petto m'emoriæ Magiflro Quid modo pyramides^quid
iam babylona canamus Q^uid louis de triuise tempia fuperba deæ Non magis
immenfum mirabimur amphitheattum Nam fummc facerent hoc quoq fcmper opes Sdpio
non ultra iaétct quod fcccrat ufus Agmina qui proprio nomine tota uocat Pctrum
famacanat quam nobilis ilie rauennæ eft Gloriajqui plufq doébi mincrua potefl:
uid magni fccere dei mirabile diftu Nam retinet quicquid legerit ille iemel
Effatur triplici quæcuntjorator in hora Protinus hic iterum nfl minus ore
refert Sic reor hunc genuit doftarum quinta fororum (Cui pia mufa nihil non
meminiflfe dttlit, FraterEgidius Viterbiéfishe remita Cremona: Ioannes antonius
PIcbanus cxiV mio humani diuini<]p luris Do/ ftoritdPctro Raucnati falutc,
Vcnimus cxtcrna fub cctta palatia luce Curia confcriptos qua capit ampia patres
Teq ibi carminibus primum ccnfcrc crcmonam Scnfmius de laudcs connumcrarc fuas
Et fìc q uanta tuse celeris facundia linguse Qua par ingcnium ucl quafì maius
habes Ccdit cnfm ingcnio tibi rcgulus imbribus oris Ifcus manans tuUius eloquio
De memori uix mente L'cet con tingere quicq Mortalemquoniam præterit illa fidem
Nunc equidem de te rumor pr^eceflcrat ingens Inuentus multo maior es ipfc tamen
Eloquar hoc fìat fi non iniuria cui^ Aut deus aut toto es primus in orbe uirum
Salue igitur tenuef^ meos dignare libellos Perlegere : acripiunt uerba cSentis
heri Vt<j deus pladda gaudet fc uoce rogari Dona deninc gratis tradere
fupplidbus Sic tu quæfo neges mihi non præcepta prxcanti Q^uæ memor hoc ualeant
efficere arte caput Hæc fìpræflitcris quauis tibi maxima fama eli Illa tamen
crcftct Carmine dC órcmco» Brixiæ Clariffimo &C cxcclicntiffimo C3i[krd
ponti fióiq luris Dodori mirabili memoria prasdito equiticj
rplendidiffimoPetroRauennati Mar// ciis Picardus falutem. Simonidcs ccdat mcnf^
alta themiftoclis una Indytus arpigena cum cicerone folon Cum doftor cum clarus
cqacs Tpkndorqp raucnnæ Mente ualens memori maxima qusec^ canat. Papise
Hieronymi Buticellæ auditoris noftri car mcn ad uniucrfitatem fcholàrium» Alma
deccns fVudio ftudiofum fpernerc noli Sic petrum ualet hic iuribus àt<j pede
Huic profa non deerit rcpetentur milia Icgum Milia quot nun<3 poffe referre
putcs Cannona lì cupies cantabitur undit^ cannon Nec poterit calamus fcriberc
quxq refert Dc^ aliis fcriptis recitabit fplendida cunétìs Tot quot uix poteris
credere fcripta forc Adde ^ illa fuac uirtutis munera fatur Pcdtoribus noftris
addere poffe cito Q^uod fi nunc Tpcrncs lachrymaberis al» ja futurum In tempus
pofthac forf^ lugcnda tua cft Idem Si rua mirantur memorantem fccula cirum Vt
numen petrum fccula noftra colant. Q_m setatc nra paucos cxcdlcti memoria præditosfuiffc
cognouimus ftatui pulcherrimu opus Italiæ dc ioti or bi traderc;cuius prascepta
fì<^s feruarc uoluerit huius ar tis altiffimùculmcparuotpe
mirabilitcrattigetmcc fai lor o leétor cariffimc du eni præcepta mea per tota
Italia cxpirer cuéti dininu potius q hùanu opus le uidifle afFir
mabanaliqetiafecrucefìgnabatneci artificiofa memo ria præceptorc hui;fed deo
mihi auxiliupracbcte regulas pulcherrimas maximis tn laborib iueni;huc ego
libcllu aoótìffimis auditoriblegi me<j legete prsecepta huius ar tis ab ore
meo pédétes Icripferej de q do^tria mea ufi fut de honorc òi laude fut cofecuti
hoc meu luetii exccllétif fimi uiri laudauerut quoj^ noia l fine huius opis
ifcribc re placuit ne folus uidear qd'c meu laudauifTejqd.pfecto pulchrius
iudicabi^fi excellétiorcs habucrit laudatores mcaigitpræceptacarifCmeleélor
aple(5taris oicjftudio de diligétia exerceastex ipfis eni no ex aliis grana
colligcs et toto ope pfedro mihi crede maxima gKam reporta ois No fumus
fufficiétes cogitare aliqd ex nobis.fcribit apfs ii^ad corinthyos,iii,Oé donù
optimu defurfu eft defcen dés a pf e luminulacobi p,gLin,l»na ÒC
demofl:henes,fF» de legibus^Q^uid enim nabes qd* no accepifli,i,ad cori
thyos.iiii,fine me nihil poteftis faceretIoanis,xv»nolite
griarine<jlo<^mini elata ne<j ^cedat magniloquètia de ore ufo qa deus
fciaru efl dnstprimi RegUtiiatelledu ti bi dabo ÒC iftrua te i hac uia q
gradieris ait deus oipotcs in libro pfàlmo^ p os pphetæ dC Baia ^ncipio libri
feu/ do^ no p5t ali^d no boni uclle nifi iuuet ab co q no pot b lì malu uellc t
ósxk Augufiinus ad Bonifaciu Papam gra tia pr æuenit ut udimus bonu, Augufiinus
in cnchari dion mouct ad quærcndu falutc libertas arbitrii mouc te priusdcot
Augufiinus de ccclcfiafticis dogmatibus fine gratìadei nuHuprorfus Guc uolcdo
fìucagcdo faci unt hoies bonu Augufhnus de correétione &C grada uellc etià
ojuod bonu eft no pofTum nifi tu ueliSrAugu ftinus in loliloquiisj et Icribit
ingeniofus poeta in prin cipio fui præclari opis dii ceptis nam uos mutafHs dc
il las ajpiratc meis dc alibi ; Adfìs dc cepto luppiter alte
meo»6^pulchreloquit Cacfarin,lin noie dni,C«de offi ciò pi^feétì prætorio
africe intldeo nobis auxiliu prse-' bctetCtdc epifcopis 6C dericis j di in^Ldeo
au^dlorc nrm gubernate impiunitQde ueteri iure cnudeando dCtcx tus efl: in cap
in noie dnuxxiiiAudC in cap in noie diii de teftibus de in cap ueritatis de
dolo òC contumacia &: in cap no licet,xxvi»q.v»6^ in cap in noie
pris,kxiii.di»in au tctico ut præponat nomen ìmperatoris in uenmox in choet
audore deo in autentico de armis in prindpio in autentico de quæflore in cap
primo de baptifmo glofà in rubrica inflitutionu BalJn rubrica,Qdciure iurado Ad
oipotetis igit dei prouidctia aium meu refcrcs hoc utililumu opus ordinare
difpofui in quoamids fatiffc cero fi obfcuritates uerbo^ et fentctiarà'
cuitauero ut ctia idoéli utilitatc aliqua ex hoc libello affequi poflìnt; in
ho^ igit prasccpto^ traditioc lo^ no aùt dicerc cogù tauitut aut rcs darius
habeat coduiioncs in tota arte fa cillimas adducàmt cu Icgifta firn legiftas
uidcar imitati. RIMA critConcIufioj Ars ifla conflat ex ìocis ÒC imagmibus:loca
funt tan^ charta feu p alia materia in qua fcribimusdmagincs funt fìmilitudincs
rcru quas memoriæ uolumus cómendare» Chartam cr^o primu parabo in qua imagincs
collocare poffimus.Et prò fundamento huius primæ conclufìonis quatuor regulas
ponOtPri^ ma eft hsecdoca funt feneftræ in parietibus pofìtæ cclu nse anguli ÒC
qux his fìmilia funt^S ecuda fìt regula : lo^ ca non debent effe nimium uidna
aut nimium diftatia» uicinitas enim ut expertusfum in appofìtionc reru me
moriam naturalem conturbar ? fi autem nimium difta rent loca cu mora qu3e locis
tradita funt redtamus me^ diocriter ergo difirabunt unus ab altero quinque uel
fex pedibus diftabit ♦ Tertia fìt r^ula uana ut mihi ui-' detur eft opinio
dicaitium loca tìcri non debere ubi fit hominum frequentiamt in ecclefiis aut
in plateismam ccclefiamquado^uacuauidilfefufFicit non enim fem per ibi hominum
deambulatio uifa fuit dc in hoc expe^ rientia quse eli: reru magiflrra
cotrarium docuit, Q^uar ta fit reguladoca no fint alta quia uolui q? homines
prò imaginibus pofìti loca tangere poflint quod utilefem^ per iudicaui,Accipio
ergo ecdefiam mihi mukumno// tam cuius paites diligentcr confiderò in ea tenp
quater dcambulans difcedo domumcj redeo et ibi per meuifa mete revolvo &: h
oc paéto principium lods do t In parte dextra portai ex qua redo tramite ad
altare maius itur mihi primum locu c5fhtuo:deinde in pariete poft quinquc aut
sex pcdes fccundum &: si ibi aliquid reale sìtpoétum ut cfì: columna fcncflra
aut his simile ibi lo cu pone j {ì autem reale defìciat ad arbitrium meù
imaginarium fingo si tamen hoc loca fabricas omittere ucl Ict timens ne rei
appositæ oblivifcatur cocedatur dum/ modo fit memor ibi locum constituisse Ce
de loco in locum procedatur donec ad eandem portam loca fabricans revertatur
ista fìant in parietibus primis cede// fise omissìs omnibus qux in medio ipsius
funt; dc fiqs locorum copiam habere cupiat hoc ordine monaftenu intret illud
totum locis impleat aut in parietibus extra ecdefiam sibi loca coparena qui
multa volverit me minisse multa sibi loca comparare debenEffO autc quia omnes
homines Italia copia rerum abf(|chartarum revolutione superare volui in sacris
scripturis iure canonico civili et aliis multarum rerum autoritatibus du cfTem
adolescens mihi centummilia locorum paravi et nunc ipsìs decemmilia addidi in
quibus per me diceda pofui ut inpromptu fint quando memoria vires expetiri
cupio a(:cum patria relinquo ut peregrinus urbes Italise videam dicere possum
omnia mea mecum porto nec ceffo tamc loca fabricarej hoc fuadeo ut in aliqua ce
defia de monasterio habeantur loca solum prò reponc/dis rebus quas quotidie
convenit recitar emt funt argumenta rationes historiæ fabuk& prædicationes
quac in quadragefima fiunt ÒC hoc offidum illis lods tatum deputetur et unum
quod utile iudicabitur prò iftis lo/ris in fine scriberc dispofui volo equidc
ivuenes huius artis cupidos pcrfe<5b'ffimc doccrc: loca autcm (ìc conflri
tuta ter aut quater in menfc memoria repetantur.repe titio cnim locorum nullo
predo emi poteft, SECVN da erit Conclufìo ut charta habita modum fcribendi in
ipfa doceam in magna nobiliu corona dum efTcm ado^ lefcens mihi femel
fuitpropofìtumut aliqua nomina hominum per unum ex aftantibus dicenda
recitatemi non negauiidida ergo funt nomina in primo loco po^/ fui amicum illud
nomen habentem in lecundo fìmili/^ ter fic quot dida fuerunt tot collocaui
&C collocata re citauit&: aduertat collocans ut feniper amia! ponat agc
tem illud quod comuniter ab co neri folet t dC ifl:a con/ dufio dare procedit
in nominibus cognitistfi autc non cognofcitm amicus illud nomen habens ueluti
Boz/ drab Zorobobel tunc coUocabis quod loco fuo dicc^^ tur idem dico in
nominibus animaliu ut efl: equus bos afinus ut in primo loco ponatur equus in fecun/^
do bos intertio alìnus 6^ idem in rebus anima carena tibus ut efì: liber cappa
uefì:is;fedaduertene decipia ris fi in primo loco poneretur liber in fecundo
cap pa fic fìmpliciter poffes dum reeitares defìcere j exci// tare enimmemoriam
naturalem efl artis huiusoffì// cium i fed hx res commouere non pofTunt quia ge
ftusimaginis jgoCkx cxcitat quiintalibus naturaliter non reperitur t imago
igitur in loco talis poni debet quæ fé moueat fi non poteft ab alio moueatur
rem talem in manu alicuius motoris ppnas ut ex mota P ilio memoria naturalis
commoueaturjfed acutiffimi in geniiiuucnisdicet^hæcprjEcepta non funtomni ex
parte perfeda formica in loco pofita fe mouet no tamc
propterfuiparuitatemcommouebit granum piperis in manu motoris pofitum etiam non
exdtabit t fatcor hoc fi formica fola collocctur fed multitudinem formi carum
afcendentium et dèrfcendentium arborem in loco ponamtQ^uod ergo formica fola
facere non potefl facietmultitudoSiamicus etiam in loco multa grana
mouebitJnft^bit eoam ingeniofus iuuenisipulex fal^^ rat nec commouet multitudo
autem bene collocati no potefl fed prò pulice amicum pulicem capientem collo
cabo:6^ ego fepiffime prò pulice excellentiflìmu omnia ætatis noflra: medicum
Magfftrum Gherardum Vcronenfem pofìii quem fcmel capientem pulice afpexi» III
efl: aurea Condufio quia prò littcris al> phabeti homines habco dc (ic
imagines uiuas:pro littc ra enim,a, Antonium habco prò Lttera»b*Benedi<^lum
et fjcperfonas in quarum nominibus prima littera efl illa quam collocare
uolo;6^ ego communiterpro littc/^ ris formoCffimas puellas ponojillæ enim
multum mc^ moriam mcam cxdtant et frequcntiffime in lods luni peram Pifloriéfcm
mihi chariflìmam dum effem iuue nis coUocaui et mihi crede fi prò imaginibus
pulcherrimas puellas pofuero facilius Òi pulchrius rcdto quæ lo
dsmandauifccrctumcrgohabeutiliflìmum in artifiVciofà memoria quod diu tacui ex
pudorcfì dto mcmi^^nifTe cupis uirgines pulchcrrimas collocajmemoria cni
coUocatióncpucllaruiTiirabilitcroomouctur òCqui uù dit tcflimonium
pcrhibuitjhoc aut utile præccptu prò dcffc non potcritillis qui mulicrcs odiùt
et contcnunt fcd ifti artis huius fruàum difficilius confcqucmr uc/ niam tamen
mihi dabunt uiri rebgioljflimì QC caftiflìmi præccptum enim quod in hac arte
mihi honorc dc lau/ dcm attulit tacere non dcbui cum fucccflorcs exccUen^
oflìmos relinquere totis uiribus nitar» IV cft Coclusìo ut imagines alphabeti
seu noia dcmonftra tialittcras bene memoria teneàtur dC fkpe repetant; Incipio
ergo fic fi mihi contingat inloco ponere iftam copulam et in loco pono Eufebium
ÒC Thomam : hoc ta me ordine quia Eufebius locum tagit 6i Thomas aftat coram
cotd autem Thomas locu Eufebii tenuerit et cu fcbius thomoe non copulam et:fed
hoc pronome te in loco uidebimus appolitumteft enim in arte hac hacc regula ut prius
in ordine loco iit propinquius iìcut enim in chartaprimum,€,fcribimus in ifta
copula et ita et in loco et idem obferLiandum eft generaliter in oibus di//
(tìonibjdi aliis collocadi5> V efl Codufìoin fyilabis trium litt ;rarum in
quibus iic procediti enim vocalis eft in medio uc in hac iVUaba Baritunc
imaginé ultimsc litteræ acc^io rem aiiqiiam addo cuius principium
duabus^riccedetibus litteris limile fìt/i ergo in loco raìmùdum cum baculo
locum percutictem pofuc ro Icgetur in loco fyllaba bar;& fi Simon locum
percuf Icrit habcbitur fyUaba bal^ifta ergo fit regula quæ f?c re pctitur ubi
uocaiiscfl in medio in fyUaba triu littcraru c accipituf imago ultimac littctx
re aliqua appofita mobi li aut fé moucte cuius principiu fimilc fìt duabus
littC/-^ ris pr^cedctibusjfì autcm uocalis fìt in fine ut in bab raituc
imaginem primæ ìittCTX in loco cóììoco 6C re mobilcm feu le mouctem cuius
principiu fìt fìmile dua bus fcquctibusjfì ergo BenedicTij cum rapis uel ranis
in loco pofìiero dabit fyllaba brajfì auté Thomam fyV labam trajcopia ergo
rerum incipictium ut fyllabæ fì in promptuhabeaturmagnam afferct utilitatem j
fed fì uocalis efl: in prindpio lyllabam fàcies ut in hoc uerbo amo tue femper
imago primse litteræ collocada eft in lo co di res principium habcs fìmile
fequcti fyllabæ;fì er/^ go Antonius uoluat molam hoc uerou amo pofìtu Ic/^
gemus;fì Eufcbius uerbu emo:efl: tamé fciédum no poflumus comode didhone trium
aut quatuor fyllaba rum collocareìfed nec opus eft quia fì-uflra fìt per plu^
ra quod potefl: fìeri per pauciorajfìifFicit enim prima Òi fccudam fyllabam
pofìiilTe diótionc tamen duarum fyl labarumpofTumustotam collocare ueluri pater
pona in loco rem uel homine prò imagine fyllabac pa;ut Pau lum de prò fyllaba
ter^cum uocabs fìt in medio Raimu dum accipiam telam in manu hebctemxondudo
ergo fìcpulchre imagines alphabeti fìmul iute et copia reru indpiétium ut
fyllabæ femper nobis fecr/ict fi aliac imagines defìierintjfì enim alias habére
poflum iftas omit to de quibus in aliis codufìonibus dicet". VI eft coclufìoin
iftis diéhonibus panis uinù lignum ueftis di fìmilibus et in noibus dignitatu x
ut e^ft Papa Impator abbas cationicustquac ola ctiam'ruflid mtclligunt quid
dcmonftrctmd ut darius loquar uniformcs funt in lin gua ucrnacula &C latina
in talibns ditìionibus alias ima^ gincs non quacro fed pono illud quod diéh'o
ipfa fonat Ottines taliu diétionu pofllint pulchro invento facile collocari; in
corporc na<f humano cafuu imagi/ ncs inucnimam caput cft cafus noiatiuus
manus dcx/ tra gcniauus manus fìniflra datiuus jpcs dcxtcr accufa duus pcs
finiftcr uocatiuus de ucnter fcu pcébus cafus ablatiuus;& prò numero
Cngulari pono aut pulchra puellam nuda et prò numero plurali ipfàm egregie or/^
natam aut illum quem meminiffe uolo t aut ergo uolo collocare rem aut hominctfi
rem ut panem puellam nu dam in loco fibi pedem dcxtrum cum pane tangentem
collocabojfì autem diftionem collocare uolo hominem . in aliquo officio ucl
dignitate cóftitutum demóllrantc ut abb atemjabbatc unum in loco nudu qui cum
pedc dextro locu percutiat ponoj 6^ fi diligctec o lettor dulcif fime
cófiderabis hoc inuctu tibi pulchru uidebit": de ùc has diéb'óes totas
folco collocare, SEPTIM A efl: Co clufìo quia poffumus etia collocare didiones
fono uo// ds geflru corporis ÒC fìmilitudine òc iffas imaginibus frc quctifUme
utonpono enimamicu prò didtìone:do(fto/ re unu cogno|ii qui femp in ore habebat
legc per hanc Ode tpibus appellationu:illam enim tatum legem legu dolor
memoriter diccbatmolens ergo illam legé collocare illum dolorem pono qui femperrifum'excutitS^f
c fono uocis collocacioncm fadojgeftu corporis ponunt c li imagincs quado fìt
gcftus in dizione coprchcfuspra ucrbo cnim fpolio amicu peno qui aliu fpolict;
prò ucc bo rapio amicu per uim aligd rapictetfìmilitudinc colla co imagines
quado rem dizioni fimilé in littcris licct in fignifìcatione diffimiié
inucniomt quado pfo uerbo ca no canem colloco, VIII eft Codufio prò diii^ iure
cófukis 6^ de uoluminib iuris ciuilis dicere incipj> am ^ quado illa lods
tradere uolo colores quibus regu tur aGcipiojpro,fF,ueteripeÌlem
albamjpro.fF,nouopel lem rubeamjpro infordato pellem nigram;pro Codice pellem
uiridemjpro uolumin e uarii coloris pellem^pro \ Inftitutionibus librum
paruumiS^ prò autentico tabel lionem inflrumetum magnù habetem collocojpro au^
tética pueUam priuilegium habctemjpro libro feudo^ comitem alicuius caftrijpro
decreto autem cu in eo finr landto^ patrum audtontates fenem alique in loco
feri bentem ponojpro decretalibus Papam in throno fede te colloco:pro demetinis
puella cui nome efì: Clemens prò fexto libro infh-umctum illud ita in Italia
didrudc- quo fcribit Ouidius; Altera pars flaretj)ars altera duceret orbemjpro
comentatoribus iuris eos qui idé nomè habétnmaginem aute glofk 2Sià^\o ex
dodlrina per primo loco data in collocatione diftìonu:pro,ff,iunipC/ ram habeo
Fiorentino cythara datem ucorlandi geto catare p oflìt, A llegationes autem
decreti fìc collocatur; lìam prò allegatione quas fit per diflindb'oncs
ponit^'puclla qux panum uelcnartam lacerctjpro qu^eftiòne ali- te colloco iunipcrapcrcutietc
famulatpro cofccràtione cfl (àccrdos hoflia cofccras t prò pocnitctia cft
lunipcra qux mihi fua peccata Icuia cófitetur, NONA cft Co^ dufìo ut oftcdam
quomodo rubricas utriul<j luris lo^ cis traderc debeatnus dC duas imagincs
comumtcr prò illis ponete (oìco'Si enim meminiue uoluero Rubrica de
trafaftionibus Thomam ranas habctcm colloco uel geftu corporis pono duos cnim
qui diu litigarunt a lite receflifle fìngo dc altcrum alteri fignum pacis
pra:bere ha:c efl: pulcncrrima imago rubriche de trafadtionibus. Principia
autem legum vel capitulo in locis ponùtur alphabeto uel fono uocis uel
fimilitudine uel geftu cor poris de qbus iam piene didu eft. DECIMA efl Con
dufìo in argumctis coUocadis prò quibus imagines du as ponere fcleojprima eft
geftus corporismt fi dicat fic teftamentu fìnefeptc teftibus faótuno
ualet;tefl:atorc coram duobus terfibus teftamentu feciffe fingo dc uirginem
unam illud lacerarcfecuda eft imago quia duas aut tres didiones argumenti
principaliores colloco:exc plum habe tu iurifcófulte òc me intelligent
philofophi quado in adu reqritur iufTus alicuius ille debet præcc// dere:hic
funt multa uerba fed fufficit iufìum dC prascc/ dere collocare &: reliquas
argumenti partes memoriter dicere poterimus;ex collocationc ergo duaru aut
trium didionum ccefera elcgater recitabimus;&: hoc experto d-ede magiftro.
XI A eft Conclufio cum quoereret quida: Vtrum in ecdé loco plura collocare de
beret- reipondi fi in lods ponere uolo quæ ab alio mihi
proponunturutillapropofita ftatim recitare debcam magin cs unius rei tantum in
loco colloco : fcd fì quæ in librislcgo inlocisponcrcdilponoutilla mcmoritcr
pronundarcpoflìmtuncimagincsplurium rerum in loco uno rcpiiffimcponcrc non
dubitaui. XII erit pulchcrrima Concludo t ut aperiam quopafto numerorumimagines
fieri debeant OC prò omnibus numcrisquos pollumus excogitare uigin^x ti tantum
imagines inueni : illas ergo fpedaliter delcri/^ bam j prò numero decem efl:
mihi crux magna aurea uel argentea t prò uiginti fimilitudo litterae^nferrea
uel L'gnea rei alicui rotundse coniunéla quia numcrum ui^ ginti hoc modo in
charta fcribimus zojprotriginta ììmilitudo illius fìgurac codem modo rei
rotundae coniundia x 6C fic ufcj ad numerum centum imagines habeo quse decem
luntjnouem edam imagines numcrorum habco incipiendo ab uno ufcj ad numerum no
uem quas in digitis manuu hominis fabricaui, Eft igitur digitus primus manus
dextrae mihi prò primo nu mero leu prò uno: fecundus prò fecundo feu prò duo
bus: 6^ fic uCq^ ad quartum digitum manus finiftrae procedo ; ut autem fadlius
ifta memoria teneantur pri mum digitum manus dextrse dico effeghelforumifc^
cundum ghebilinorum ; tertium iudseorum i quar^^ tum anulorum : quintum
auriumi&: ficAc digitis manus finiflrae fit didrum, Primum ghelforum
appello quia ghàfi illum in magnoprecio habere dicuntur: ghebilini fecundum j
tertium iudieorum appellojquia fi digitum illum iudeis oftetidimus toruo uifu
refpid/^ iint ; qui autcm caufam fare cupict quserat Se mucniV et : cur autem
quartum et quintum Tic nomincm no^ tiflìmumeftj prò numero autem mille
michaclemha beo fi ergo mihi numerus aliquis proponatur imaginem cius fadiime
inueniam jaliqua cxempla ponam quibus pofitis Icftor etiam rudis ingenii
conclufionem iflamoptimeintelligctìfi.xi^q.iii^diccrc uoluero in lo^ co gheffum
fingam crucem in manu dextra tenentem 6i iudxù qui toris uiribus per uim illa
manu dextra ra/ pere tentetjfia'i.adcorinthyosa'iiitponere uoluero in Io co
ghebilinu fingam qui in manu dextra cortinam tc^ neat quam pulchrae puellae
ollendat illacy in manu dex tra redpiaùpuellàm enim defponfàtam prò quarto digì
te ÒC fic prò quarto et nono numero collocojfì de pceni tentiis diftinftione
quarta meminiffc uoluero facer dotem fenem non iuuenem cui peccata confiteatur
lu/ nipcra collocabo et ipfà mirabile faciet i fàcerdotem nam(j abfoluet capiti
fuo manum dexteram impo ncns; ÒC fic ne ininfinitUm fit proceflus fìt finis
nu^/ ic pulcherrimas artificiofaememoriai:incuius praecc^^ ptis omnia fi non
explicitefaltem implicite compre/^ henduntur Vnum tamen non omittam quod hoc in
loco fcribcrepromifi utile in locis effe ludico quae prò rebus
auditiitreponcndis fabricauimus t fi in quinto loco manus aurea ponat In decimo
crux aurea in quin todecimo manus argentea in uigefìmo imago ipfìus numeri et
ficin casteris facete monet mea dodtrina ExccUcntiflìmos in artifìdofà memoria
habuiauditorcs o Icdor dulciffime meacfi doétrinam micis laudibus cx^ tulcmnt
quo92 aliquos nic Icgcrc obi ut puto phcsbit Fucrc mei difcipuli Magiftcr
Antonius Trombcta or^ dinis niino52 theologus cdcbcrrimus Magifter Petrus
Rochabonella Magifter Ioanes de A^a Magifter Nù coletusTeatinus Magifter
Hieronymus Vcronenfis Magifter Hieronymus de Polchaftris artiù et medid nac
doftores cofumatiflimi ÒC PaduaelegcteStSpeétabi les Scuerius 6c Nicolaus
illuftriflimi Duds Ferrariae fc crctarii Dns Ioanes Maria Riminaldus dns Dnicus
de Maffa dfis Antonius de Liuris dns Ioanes Frandfcus de Canali et dns
Leonellus de Bruturis luris cofulti co fumatiffimi di Ferrariae legcntcs Tacebo
tpbiles Vc> netos qui me audito multa memoriter pronudarc didi cerunt Dnicum
tn. Georgiu'uirù illuftré fìlcrio inuoluc re ncqueo qui doéìrina mea ut ipfe
affirmabat imorta/ lem fibi gloria coparauit.Bononias Papiae Ferrariae*^ le gì
de qui me audierut multa memoriter idre inrocpuiit &C quauis mca
artifìciosà memoria alio auctoricatibus fìt coprobata peccare tamc non puto fi
afta mea in^hoc libello Icgétur quae ipfam mirabiliter approbabut Da cfiem
iuris auditor nec uigefimum uidiflem annum in uniuerfitate Patauina dixi me
totu .Codice Iuris dvrilis poffe recitarejpetii na<5 ut mihi Icges alicpiae
ad arbitrili aftantiu proponerctunquibus propofitis fumaria Bar toli diceba
aliqua ucrba tcxtus redtabam cafum addu/ ccbataftaper doftoresexaminaba lextp
iftatot habct glofas diceba di fup uerbis erant poiitae recordabar cotrarìa
allcgaba et foIucbamiTum cfl: aflatibus uidiffc miraculu; Alcxadcr Imolcnfis
din obftupuit ncc fabula narro ego pala locutus fu in uniucrfìratc Paduae de ga
inorcduo^ucltriuflratoéuerbuteflrcs huius rei trcs habcojMagnificu dnm IoanéFracifcu
Pafqualicu fcna torc Vcnetu &l luris utriufqp dodloré cxccUctiffimum apud
UIuAriflimù Mcdiolaniducc nuc Icgatu: 6^ dariffì mu doftorc dnm Sigifìnudu de
Capitibus life ciucm nobile Patauinutcuius pr Fracifcus fuit acutiflìmi ingc
nix lurifconfultus Sperabile dnm Monaldinu de Mo naldinis Venetiis comoratcnn
quo uirtus domidliu fu umcollocauit, Leétìoes etia Alexadri Imolèfìs Padusc
Ic^étis copiofìffimas memoria tcneba &rillasexuerbo aducrbu in fcriptis
rcdigcba illas cria pofl:c[ finicrat afta te magna audito^ copia a calce idpics
rcdtaba ex fuil^ Icdionibusdù in fcholisaudirc carmina fadeba 6c oés caru
partes in carminib pofìtas ftatim repIicaba:&J qui hocuiderut
obflupuerejhuius rei tefles habeo chrifli^ mu c^tc et dolore diim Ioanc
Fracilcu de Miliis Brixi cnfcmtfpeftabilé dotìrorc dnm Sigifmùdu de Capirib
ììiìxtU fìliu Alexadri Imolcfis qui nuc efl: lurifcofultus celeberrimus Cctu 5i
qtragìtaqnquc audtoritates rcli giofìflìmi fr^ Michaclis de Mediolano Paduae
prardica tis imortalitatc aiae.pbates cora eo memorirer 5^^mptc ^nùdaui qui me
amplexus cfl: dicés uiue diu gema singulariso urina te religioni dicatu
uidercjtefl-is cfl: tota duitasPatauinafedmagnifìcu dnm ioané Fracilcum
Pafqlicu 61 dnm Sigifmùdu de Capiribus lifi:ae dc dnm Monaldinu de Monaldinis
teflres hco,Pctii ego doftor Cf catus in uniuerfitatc Patauina ut mihi in
cathedra fc dcti alit^s de uniuerfitate auditor unu ex trib uolumini bus
digcfto^ qd eligeret pracletaret locu^ in quo lege^ re deberé delì'gnarendixi
cnim fup re ^polita innume// I rabiles leges allegabo teftes funt Clanflimus
luris utri ufqj dodtor diis Gafpar Orfatus Paduae lura Canonica ìcgcstèc
dodiflìmus dns Profper Cremonenfìs Paduae cómoras, Oes pr^edicatioes qs in una
qdragcfima ma giRer Antonius heremita Paduce ^nuciauerat co ovdi^ ne quo ipie
dixerat memoriter ^nuciaui et in fcriptis fi bi dedi;quo uilo dixit amplius
Paduae no pra^dicaretf 6^ huius rei fi uiuit teflis efl: ipfe orni exceptione
maior Praedicationes etiadóni Mathei Veronenus canonici re gularis et uiri
eloquétiflìmi quas in tota quadragefima fècerat fìbi in fcriptis dedi qa
memoriter tenebam ài in chartis reponebajtcflis ed ipfe et donus Deodatus Vi '
cétinus canonicus regularis, Dù Piflorii legerc a dnis Florétinis códuftus
lermoné uerbi dei fratris Blafìi de Plob ino heremitse recitauijtefles funt
Paulus magiflri Michaelis ^ Domicius Cacellarius Piflroriefes ciues: et: tota
civitas illa de mea artifìciofa memoria tefHfìcari po terit qusemeimmunitatibus
òc priuilegiis decorauit, Dfiicus Georgius uir illuflris Paduae praefedus àc in
arti fìciofa memoria difcipulus dum Ir as Ducalcs femel legc ret earu uerba
collocaui llatim redtauijteftis efl dns Anibal de Magiis de Baffiano nobilis
ciuis Patauinus t cuius pater Nicolausfuit excelléallìmus lurifcofultus Semel
in fchachis ludcba alius taxillos iaciebat aliul^ ocsiaftusTcribebat ^
cxthcmatc mihi ^pofìto duas cpi'flolas diftabamjpofi:c[ fìncm ludo fmpofuimus
ocs iaéhis fchachorum di taxillorum di cpiftolarum ucrba ab ultimis incipics
rcpetiuhsec quatuor per me codcm tempore collocata fuerutjteftes funt dominus
Petrus de Montagnano et Frandfcus Neuolinus nobiles Patauini ciues» Dum eflfem
Placentiae monafteriu mo^ nachorumm'grorumintrauiutilluduidercm in dor^/
mitorio<jduscomitantcmonacho quodam bisdeam bulans monachorum nomina quse in
oftiis cellarum crantcollocaui t deinde cógregatis eis nomine proprio quemlibet
falutauitlicet quem nominabam digito de// monftrare non potuiflem i mirabantur
monachi quo paélo ego percgrinus nomina eorum memoriterpro// ferrem ipfìs
mirari non definentibust dixi tandem hoc potuit mea artificiofa memoria :
quorum unus dixit er go hoc Petrus Rauennas facere potuit et non alius, In
Capitalo generali canonicorum regularium Paduae prsedicationem domni Deodati
Vincentini eo ordine uo ipfàm pronunciauerat recitaui aftante ipfìus pra^/
icationis audtorc. Semel me traxit ad fui contempla tionem Caflandra fidelis
Veneta uirgo excellcntiflima quac du legeret litteras fereniflimae coniugis
regis Fer^ dinandi ad le mifiàs illas collocaui de recitaui t tefh's eli illa
Dotì:iflìma Virgo t dominus Paulus Raimufìus Dodtor excellens Ariminenfis ; et
Angelus Salernita nus uir darus Scribebat qda Illuftriffimae Ducillae Eleonora
uilegiu alius legebat praefens eraillud<jexuerboaduerbùlo// cis travidi di
ab ultima didtìonc indpics totum recitaui; d u mirabant aftatcsthufus rei
tcflis cfl dns Ioancs He Bm turiis clariffimus Ferrariae óuistqui etia multa de
hac artificiofà memoria narrare potcrit,. uid aut de adtis meis referre poffit
nepos maximi po/ tifì'dsPauh'RcucrcdusPaduaeCanoicus et decreto doétor ìfignis
dns Auguflinus barbus omitto cu cópa ter lit chariffimuStSedqd plurateflis eft
Brixia;Papia: &C Crcmonajquid potuerit mea artifi'ciofa memoria de darat
hoc carmina quaz in ^ncipio huius libelli legunt. Teflis efl: Illuflriflimus
marchio Boifacius di eius pul cherrima uxor quae me egregio munere
donauintefh's. cflnouiflime Bononia:tefl:is eft lUuflriflìmus Hcrcu ies Dux 6^
lUuflrilTima uxor Eleonora t Teflis eft tota Ferraria:duas eni prxdicationes
celeberrimi uerbi dei praeconis magri Mariani heremit^e recitaui : quo audito
obllupuit didlus Magiftcr &C dixit;lllufl:rilììma Du dllà hoc eft diuinu 6^
miraculofum opus;teftis eft Vni ueriitas Patauinaiocs enim led:iones meas luris
cano/^ nid fine libro quotidie legojac fi libru ante oculos habcrem^textu de
glofàs memoriter pronucio ut nec etia mi nima fyllaba omittere uidcar. In lods
aùt meis qu£E col locauerim hic fcribere ftatui ài qux locis tradidi pcrpe^ tuo
teneonn dece di nouc litteris alphabeti uigitamilia allegationu luris
utriu%pofui dC eodc ordine fàcroru librorum feptem milia;mille Ouidii carmina
qua: ab co fapicterdiftac5tinent:ducétas Ciceronis auftoritates:
trecétaphilofopho^z dida^^magna Valerii Maximi par/ temmaturas fere oium aialiu
bipedù de quadrupediim qru audloritatufingula uerba colIocaui;SÌ qn uires arri
iìdòfàs iticmo^isecxpiri cupio peto utmihi ima ex Iris illis alphìibèti
^pònatlfup qua ^pofìta allegationes,pfc roidc ut dare itelligar cxéplu
habe;|)polita cfl: mihi nuc Ir a»a,in magno dodto^ uiro^ couétu di ftati a iure
^n-' dpiu facies millealIegatioes6^plures ^fcradc alimctis de alienationc de
abfctia de arbitris de appellationib et de filib quas in iure nf o habent''
Indpietib» a dièta Irata, deinde in facra fcriptura de Antichrifto de adulatioe
di multas allegationes facrae fcripturaz ab illa Ira incipictes
^nuciabocarmiaOuidiiauftoritates Ciceronis di Va leriimó omittadeAfinode Aqlade
Agno de Acdpitrc de Apro de Ariete au<5toritates allegabo di quxcuc^ di^
xcro ab ultimis incipies uelociter repeta Òi hanc memoriae demóftrarioné
pulcherrimaeeputo cuimeobliga ui femp di ad remp.interroget''reuercdiflìmus nuc
uicc gercs Bononiae cu cófumatiflimo lurilcófulto dno Ica ne de Sala qd fup Ir
a,m,mihippof]ta allegauerimn'nter roget^uniucrfitas Bononiaeqdfuplfa,p,de dei
potctia di poteflate Pap£C,pnuciauerim;6i hunclegcdi modu a rerum multitudine
chaos appello qii deo optimo maxi mpc^ placucrit hoc tatù opus Itabse ac toti
orbi.tradam» Hsec etia in Iure canonico tatù locis tradidi tria milia legationù
decreti x duo milia decretalium : totù fextù di cius mille gl(flasìClemétinas
et carù mille glofàs;6<: qix deglofis decretaliù Sexti di Clementinarù uerbù
facio dià:ioncs in qbus funt pofìtsc ^fero Mille etiaiinguW riter di<fta in
Iure ciuili memoriae tradidi nec fabula nar ratlin hiis enim quotidie piculù
hcio oia mea mecù por tare uolui maiora tni cupe ab hiis difco ; naturalia enim
defiderìa infaciabilia funt ut àit Seneca ad LucillujNon omitto cria llluftrc
Prindpc Marchu de Piis qui me au dics obft:upuiu& ex hoc me abfentcm
fepifllme noiat, Dns Bartholomeus Pigafetus Vincctinus uir quidem
fàpicntiffimus dicerc audct dnm Thoma Reatinu qui oium setaris fuae
mcmoriofifCimus fuit noui 5C fibi ma gna amiciria cóiunftus fuitfed te
fupcriore effe iudico Hic libcr cft qui nùc prsebebit lumina caecis Praeceptis
potcrunt dicere multa meis Innumerofcjdabuntuobishaec feculadros Exddet et
tanti gloria magna uiri Te tamen ut Petri dantis pr^ecepta precamur Sis mcmor
òc dicas petre magifter cras, y . Adiens praefentiam Sereniffimi Prindpis 6i
Illuflriffimi Dominii^Egrcgius lureConfultus^Dominus Petrus
deRauenna^nuncupatus A Memoria/Legcs lus Ca^ nonicum in Gymnafìo Patauino
Reuercter expofuit fc toto tempore eius uitae multis uigiliis et laboribus in
fudauiflc/ut artem Memoriae adipiiceretur quemad>'^ modum Deo optimo maximo
opitulante adeptus efl^ CompofuilTeij in arte ipfa quoddam opufculum nun/
cupatum Foenixjquod cum dccreuerit imprefentiaru ad unìucffàlcm
comoditatcm^& bcncfìdum edere ku- militer fupplicauit^detur modus/nc alieni
colligant fru ftus laborum^S^ uigiliaru fliarumjCui quidem «quen ac conuenienti
petitioni annucntes Infrafcripti DomK ni ConfiliariitSic confulentc Collegio
tèrminantes dc^ crcucmnt ^ decernuntcf ^ Si iubent^^ nemo audeat in hac urbe
Venetiarum / et in tota ditionc lUuftriflìmi Domini! noftri Imprimerefeu
imprefìa uendere uolu mina didli operis^nuncupati Focnix^fub poena amitte di
illa/& infuper libras uigintiquinquepro quobbet uo lumine : Et nuk met
poenae fubiaceant illi qui huiufcc modi libros alibi impreflbs uendere
praefumerent in di tione praedidti Illufbriffimi DominiitExcepto duntaxat ilio
Impreffore^qucm praefatus doélor praeelegerit Sereniffimus Princeps / In
Collegio. Dominicus Maurocenus Confiliarius Nicolaus Leono Confiliarius Thomas
Mocenigo Confiliarius Marcus Fufculo Confiliarius Nicolaus Triuifànus
Confiliarius Leonardus Lauredanus Confiliarius Gcofgfus Nigro Sc^ cretarìus
Ducalis* CtLyanìi dctàtonftìchon ad Candiclum Icdorcm Si mcmorcm tcnras fieri
te Candide kdor At<f iiiter cclcbre^jf om cn habcre ukost Pcrkgc quod
prifcac Ipecimen priegrandc raucnnae Eàmk : òC cxìo laudibtfS'uf^ loca. Etpotes
&debes merito cenreremagillmm Arrifìcis genti iudidi<f {imuh Eia igitur
cundli numcn uenercmuf in seuum Et mcriòcas Jaudes 'quifq poeta canata Graeda
non fimilem uidit ncc romula tellus/ Necnon pofteritas eft habitura ^ ualc.
Befnardinus.de Choris de Cremona Impreflbr delc/ ftus Impreffit Vcnctias Die.x
JanuariitM«ccccxd« i i -- Tomai. Phoenix – de artificiosa memoria. Tomai. Keywords:
caratteristica universale, lingua universale, lingua filosofica, il
Deutero-Esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomai” – Tomai.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e
Tomatis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del paradosso
del filosofo – scuola di Carrù -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Grice
italo—By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Carrù).
Abstract.
Keywords: paradosso. I paradossi dei filosofi. Paradoxes of entailment.
Strawson Grice, paradoxes of implication. Paraoxes of the philosopher. Grice’s
Paradox -- Philosopher's Paradoxes I shall begin by discussing two
linked parts of Moore's philosophy, one of which is his method of dealing with
certain philosophical para-doxes, the other his attitude toward Common Sense.
These are particularly characteristic elements in Moore's thought and have
exerted great influence upon, and yet at the same time perplexed other British
philosophers. Later in this paper I shall pass from explicit discussion of
Moore's views to a consideration of ways of treating philosophical paradoxes
which might properly be deemed to be either interpretations or developments of
Moore's own position. First, Moore's way of dealing with philosopher's
paradoxes. By "philosopher's paradoxes" I mean (roughly) the
kind of philosophical utterances which a layman might be expected to find at
first absurd, shocking, and repugnant. Malcolm' gives a number of examples of
such paradoxes and in each case specifies the kind of reason or proof which he
thinks Moore would offer to justify his rejection of these paradoxical
statements; Moore, moreover, in his "Reply to my Crit-ics" in the
same volume, gives his approval, with one qualification, to Malcolm's
procedure. I quote three of Malcolm's examples, together with Moore's supposed
replies: Example 1 Philosopher: "There are no material
things." Moore: "You are certainly wrong, for here's one hand
and here's another; and so there are at least two material things."
1. Malcolm, "Moore and Ordinary Language," in The Philosophy of G. E.
Moore, ed. Schlipp.Example 2 Philosopher: "Time is
unreal." Moore: "If you mean that no event can follow or
precede another event, you are certainly wrong: for after lunch I went
for a walk, and after that I took a bath, and after that I had tea."
Example 3 Philosopher: "We do not know for certain the truth of any
statement about material things." Moore: "Both of us know for
certain that there are several chairs in this room, and how absurd it
would be to suggest that we do not know it, but only believe it, and that
perhaps it is not the case!" Example 1 is an abbreviated version of
perhaps the most tamous application of Moore's technique (for dealing with
paradoxes), that contained in his British Academy lecture "Proof of
an External World." There he makes what amounts to the claim that
the reply in Example 1 contains a rigorous proof of the existence of material
things; for it fulfills the three conditions he lays down as being required of
a rigorous proof: (a) its premise ("here's one hand and here's
another") is different from the conclusion ("there are at least two
material things"); (b) the speaker (Moore), at the time of speak-ing,
knows for certain that the premise is true; and (c) the conclusion follows from
the premise. Moore of course would have admitted that condition (c) is
fulfilled only if "there are material things" is given one particular
possible interpretation; he is aware that some philoso-phers, in denying the
existence of material things, have not meant to deny, for example, that Moore
has two hands; but he claims (quite rightly, I think) that the sentence
"material things do not exist" has sometimes been used by
philosophers to say something incompatible with its being true to say that
Moore has two hands. Now the technique embodied in the examples I have
just quoted is sometimes regarded as being an appeal to Common Sense. Though it
may, no doubt, be correctly so regarded in some sense of "Common
Sense," I am quite sure that it is not an appeal to Common Sense as Moore
uses the expression "Common Sense." In "A Defense of Common
Sense"2 Moore claims to know for certain the truth of a range of
propositions about himself, similar in character to those asserted in the
replies contained in my three examples, except that the propo- 2.
Contemporary British Philosophy, vol. 2.sitions mentioned in the article are
less specific than those asserted in the replies; and he further claims to know
for certain that very many other persons have known for certain propositions
about themselves corresponding to these propositions about himself. It is true
that Moore rejects certain philosopher's paradoxes because they conflict with
some of the propositions which Moore claims to know with certainty, and it is
further true that Moore describes his position, in general terms, as being
"that the 'Common Sense view of the world' is, in certain fundamental features,
wholly true." But it is also clear that when Moore talks about Common
Sense, he is thinking of a set of very generally accepted beliefs, and, for
him, to "go against Common Sense" would be to contradict one or more
of the members of this set of beliefs. Two points are here relevant. (1) Most
of the propositions which serve as the premises of Moore's disproofs of
paradoxical views are not themselves propositions of Common Sense (objects of
Common Sense belief), for they are, standardly, propositions about individual
people and things (e.g. Moore and hands), and obviously too few people have
heard of Moore for there to be any very generally accepted beliefs about him.
Of course, Moore's premises may justify some Common Sense beliefs, but that is
not the point here. (2) In any case, it is quite clear that for Moore there is
nothing sacrosanct about Common Sense beliefs as such; in the Defense he says
(p. 207), "for all I know, there may be many propositions which may be
properly called features in 'the Common Sense view of the world' or 'Common
Sense belief' which are not true, and which deserve to be mentioned with the
contempt with which some philosophers speak of 'Common Sense beliefs." And
in Some Main Problems he cites propositions which were once, but have since
ceased to be, Common Sense beliefs, and are now rejected altogether. So, if to
describe Moore's technique as an appeal to Common Sense is to imply that in his
view philosopher's paradoxes are to be rejected because they violate Common
Sense (in Moore's sense of the term), then such a description is quite
incorrect (it is, I think, fair to maintain that Moore's use of the term
"Common Sense" is not the ordinary one, in which a person who lacks
Common Sense is someone who is silly or absurd; and this suggests a sense in
which Moore does "appeal to Common Sense" in dealing with paradoxes,
for he does often say or imply that the adoption of a paradoxical view commits
one to some absurdity). Now it is time to turn to the perplexity which
Moore's technique has engendered. A quite common reaction to Moore's way with
para-doxes has, I think, been to feel that it really can't be as easy as that,
that Moore counters philosophical theses with what amounts to just a blunt
denial, and that his "disproofs" fail therefore to carry convic-tion.
As Malcolm observes, we tend to feel that the question has been begged, that a
philosopher who denies that there are material objects is well aware that he is
committed to denying the truth of such propositions as that Moore has two hands
and so cannot be expected to accept the premise of Moore's proof of an external
world. For Moore's technique to convince a philosophical rival, something more
would have to be said about the point of Moore's characteristic ma-neuver; some
account will have to be given of the nature of the absurdity to which a
philosophical paradox allegedly commits its pro-pounder. Malcolm himself (loc.
cit.) argues that such an account can be given; he represents Moore's technique
as being a (concealed) way of showing that philosophical paradoxes "go
against ordinary lan-guage" (say or imply that such ordinary expressions
are absurd or meaningless), and argues that to do this is to commit an
absurdity, indeed to involve oneself in contradiction. I shall enter into the
details of this thesis later; at the moment I am only concerned with the
question how far Moore's own work can properly be understood on the general
lines which Malcolm suggests. I must confess it seems very doubtful to me whether
it can. (1) Moore in his "Reply to My Crit-ics" neither accepts nor
rejects Malcolm's suggestion; indeed he does not mention it, and it very much
looks as if Malcolm's idea was quite new to him, and one which he needed time
to consider. (2) Moore (loc. cit.) makes a distinction (in effect) between my
Example 1 and my Example 3 (this is the qualification I mentioned earlier). He
allows that one can prove that material objects exist by holding up one's hands
and saying "Here is one hand and here is another"; but he does not
allow that one can prove that one sometimes knows for certain the truth of
statements about material things from such a premise as "Both of us
know for certain that there are chairs in this room." In his view, to say
"We know for certain that there are chairs in this room, so sometimes one
knows for certain the truth of propositions about material things" is to
give not a "proof" but a "good argu-ment" in favor of
knowledge about material things; it is a good argument but (he says) some
further argument is called for, and in this case the need for further argument
is said to be connected with the fact that many more philosophers have asserted
that nobody knows that there are material things than have said that there are
no materialthings. Now I find it very difficult to see how Moore can
successfully maintain that Example 1 gives a proof of the existence of material
things and yet that Example 3 does not give a proof of our knowledge of
material things. (Can he deny that his three requirements for a rigorous proof
are satisfied in this case?) But this is not the point I am concerned with
here. What I wish to suggest is that for Moore's tech-nique to be properly
represented as being in all cases a concealed appeal to ordinary language, he
would surely have had to have treated Example 1 and Example 3 alike, for the
denial of knowledge about material things does not go against ordinary language
any less than the denial of the existence of material things. It might well be,
of course, that no satisfactory and comprehensive account can be given of
Moore's procedure, and that an account in terms of the appeal to ordinary
language fits what he is doing most of the time, and so per-haps shows what he
was (more or less unconsciously) getting at or feeling after. But to say this
is different from saying outright that the applications of his technique are
appeals to ordinary language. One or two passages in Some Main Problems
in Philosophy indi-cate a different (or at any rate apparently different)
procedure. I shall try to present, in connection with a particular example, a
somewhat free version of the position suggested by the passages I have in
mind. Some philosophers have advanced the (paradoxical) thesis that we
never know for certain that any inductive generalization is true, that
inductive generalizations can at best be only probably true. Their ac-ceptance
of this thesis will be found to rest on a principle, in this case maybe some
such principle as that for a proposition to be known with certainty to be true,
it must either be a necessary truth or a matter of "direct
experience" (in some sense) or be logically derivable from propositions of
one or the other of the first two kinds. But inductive generalizations do not
fall under any of these heads, so they cannot be known with certainty to be
true. The sort of maneuver Moore would make in response to such a thesis (e.g.
"But of course we know for certain that the offspring of two human beings
is always another human being") might be represented as having the following
force: "The principle on which your thesis depends is not
self-evident, that is, it requires some justification; and since it is general
in form, its acceptability will have to depend on consideration of the
particular cases to which it applies; that is, the principle that all knowledge
is of certain specified kinds will be refuted if there can be found a case of
knowledge which is not of any of the specified kinds, and will beconfirmed if
after suitably careful consideration, no such counter-example is forthcoming.
But I have just produced a counterexample, a case of knowledge which is not of
any of the specified kinds, and which, furthermore, is an inductive
generalization. You cannot, without cheating, use the principle to discredit my
counterexample, i.e. to argue that my specimen is not really a case of
knowledge; if the principle depends on consideration of the character of the
particular cases of knowledge, then it cannot be invoked to ensure that
apparent counterexamples are not after all to be counted as cases of
knowl-edge. If you are to discredit my counterexample it must be by some other
method, and there is no other method." This line of attack could, of
course, be applied mutatis mutandis, to other paradoxical philosophical theses.
I have a good deal of sympathy with the idea I have just outlined; in
particular, it seems to me to bring out the way in which, primarily at least, I
think philosophical theses should be tested, namely by the search for
counterexamples. Moreover, I think it might prove effec-tive, in some cases,
against the upholders of paradoxes. But I doubt whether a really determined
paradox-propounder would be satisfied. He might reply: "I agree that
my principle that all knowledge is of one or another specified kind is not
self-evident, but I do not have to justify it by the method you suggest, that
of looking for possible coun-terexamples. I can justify it by a careful
consideration of the nature of knowledge, and of the relation between knowledge
and other linked concepts. Since I can do this, I can, without begging the
ques-tion, use my principle to discredit your supposed counterexamples."
The paradox-propounder might seek also to turn the tables on his opponent by
adding, "You, too, are operating with a philosophical
principle, namely a principle about how philosophical theses are to be tested;
but the acceptability of your principle, too, will (in your view) have to
depend on whether or not my own thesis about knowledge constitutes a counterexample;
and to determine this question, you will have to investigate independently of
your principle the legitimacy of the grounds upon which I rely." To meet
this reply, I would have to anticipate the latter part of my paper; and in any
case I suspect that in meeting it, I should exhibit the rationale of Moore's
procedure as being after all only a particular version of the "appeal to
ordinary language." So I shall pass on to discuss the efficacy of this way
of dealing with paradoxes, without explicit reference to Moore's work.I can
distinguish two different types of procedure in the face of a philosopher's
paradox, each of which might count as being, in some sense, an appeal to
ordinary language. Procedure 1 would seek to refute or dispose of
paradoxes without taking into account what the paradox-propounders would say in
elaboration or defense of their theses; these theses would simply be rebutted
by the charge that they went against ordinary language, and this would be held
sufficient to show the theses to be untenable, though of course a philosopher
might well be required to do more than merely show the theses to be untenable.
Procedure 2, on the other hand, would take into account what the
paradox-propounder would say, or could be forced to say, in support of his
thesis, and would aim at finding some common and at the same time objectionable
feature in the positions of those who advance such paradoxes. Procedure 2,
unlike Procedure 1, would not involve the claim that the fact that a thesis
"went against" ordinary language was, by itself, sufficient to
condemn it; I propose now to consider two versions of Procedure 1, to argue
that at least as they stand, they are not adequate to silence a wide-awake
opponent, or even to extract from him the reaction, "I see that you must
be right, and yet...," and finally to consider Procedure 2. My first
version is drawn from Malcolm. In the form in which I state it, this procedure
applies only against nonempirically based paradoxes; indeed, Malcolm does not
make any distinction between different types of paradox and in effect seems to
treat all philosophical paradoxes as if they were of the nonempirically based
kind. The kernel of Malcolm's position seems to be as follows. The propounder
of a paradox is committed to holding that the ordinary use of certain
expressions (e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death")
is (a) incorrect and (b) self-contradictory or absurd. But this contention is
itself self-contradictory or absurd. For if an expression is an ordinary
expression, that is, "has an ordinary (or accepted) use"— that is to
say, if it is an expression which "would be used to describe situations of
a certain sort if such situations existed or were believed to exist" —
then it cannot be self-contradictory (or absurd). For a self-contradictory
expression is one which would never be used to describe any situation, and so
has no descriptive use. Moreover, if an expression which would be used to
describe situations of a certain sort (etc.) is in fact on a given occasion used
to describe that sort of situation, then it is on that occasion correctly used,
for correct use is just standard use. It will be seen that Malcolm's charge
against theparadoxes is that they go against ordinary language not by
misdes-cribing its use (to do that would be merely to utter falsehoods, not
bsurdities) nor by misusing it that would be merely eccentric c usleading nor
by ill-advisedly proposing to change it (that would b merely giving bad
advice), but by flouting it, that is, admitting a use of language to be ordinary
and yet calling it incorrect or absurd. Furthermore, it will be seen that
he attempts to substantiate his charge by consideration of what he takes to be
the interrelation between the concepts of (a) ordinary use, (b)
self-contradiction, and (c) correctness. This version of Procedure
1 has three difficulties: (1) The word "would," as it occurs in
the phrase "expression which would be used to describe situations of a
certain sort, if such situations existed or were believed to exist," seems
to me to give rise to some trouble. The phrase I have just quoted might be
taken as roughly equivalent to "expression which, given that a certain
sort of situation had to be described, would be used." But this cannot be
what Malcolm means; it is just not true that always or usually, when called
upon to describe such a situation as a man's having lost his money, one would
say "he has become a pauper." There are all sorts of things one would
be more likely to say; yet presumably "he has become a pauper" is to
be counted as an ordinary expression. It would be clearer perhaps to
substitute, for the quoted phrase, the phrase "expression of which it
would not be true to say that it would not be used to describe..." or more
shortly "expression which might be used to describe.." Let us then
take the original phrase in this sense. Now what about the sentence
"Sometimes the ordinary use of language is incorrect" (which Malcolm
says is self-contradictory)? This sentence (or some other sentence to the
same effect) no doubt has been uttered seriously by paradox-propounders, and it
might well seem that they have used it to describe the situation they believed
to obtain with regard to the use of ordinary language. Does it not then follow
that this sentence is one of which it is untrue to say that it would not be
used to describe a certain sort of situation, or more simply, that this
sentence is one which might be used to describe a certain sort of situation;
that is, the sentence is not self-contradictory? If we can combine
"has been used to describe" with "would not be used to
describe" (and perhaps we can), then, at least, the sense of
"would not be used" seems to demand scrutiny. I suspect, however,
that Malcolm himself would not admit the legitimacy of the combi-nation. He
would rather say that the sentence in question has been uttered seriously, even
perhaps has been "used," but has not been used to describe a certain
sort of situation (just because it commits an absurdity); and so there is no
difficulty in going on to say that it would not be used to describe any sort of
situation, that is, is self-contradictory (and so nonordinary). This points the
way to what seems to me a fundamental difficulty. (2) I think Malcolm's
opponent might legitimately complain that the question has been begged against
him. For he might well admit that the expressions of which he complains are
ordinary expressions, and even that they would be used to describe certain
sorts of situation which the speaker believed to exist, but go on to say that
the situations in question are (logically) impossible. This being so, the
expressions are both ordinary and absurd. If he is ready in the first place to
claim that an ordinary expression may be absurd, why should he jib at saying
that an ordinary expression may be used to describe an impossible situation
which the speaker mistakenly believes to exist? Malcolm's argument can be
made to work only if we assume that no situation which a sentence would
ordinarily be used to describe would be an impossible situation, and to assume
this is to assume the falsity of the paradox-propounder's position.
Alternatively, the paradox-propounder might agree that an ordinary expression
of the kind which he is assailing (e.g. "Decapitation was the cause of
Charles I's death") would be used to describe such a situation as that
actually obtaining at Charles I's death (i.e., it would be used to describe an
actual situation and not merely an impossible situation); but then he might add
that the user of such an expression would not merely be describing this
situation but also be committing himself to an absurd gloss on the situation
(e.g. that Charles's decapitation willed his death), or again (much the same
thing) that the user would indeed be merely describing this situation, but would
be doing so in terms which committed him to an absurdity. And to meet this
rejoinder by redefinition would again be to beg the question in Malcolm's
favor. The paradox-propounder might even concede that an expression which
would be used to describe a certain sort of situation would be correctly used
to describe a situation of that sort, provided that all that is implied is that
it is common form to use this expression in this sort of situation; but
nevertheless maintaining that the correctness of use (in this sense) would not
guarantee freedom from contradiction or absurdity.Put summarily, my main point
is that either Malcolm must allow that, in order to satisfy ourselves that an
expression is "ordinary," we must first satisfy ourselves that it is
free from absurdity (in which case it is not yet established that such an
expression as "Decapitation caused Charles I's death" is an ordinary
one), or he must use the word "ordinary" in such a way that the
sentence I have just mentioned is undoubtedly an ordinary expression, in which
case the link between being ordinary and being free from absurdity is open to
question. (3) Is it in fact true that an ordinary use of language cannot
be self-contradictory, unless the "ordinary use of language" is
defined by stipulation as non-self-contradictory, in which case, of course,
Malcolm's version of the appeal to ordinary language becomes useless against
the philosopher's paradox? The following examples would seem to involve nothing
but an ordinary use of language by any standard but that of freedom from
absurdity. They are not, so far as I can see, technical, philosophical, poetic,
figurative, or strained; they are examples of the sorts of things which have
been said and meant by numbers of actual persons. Yet each is open, I think, at
least to the suspicion of self-contradictoriness, absurdity, or some other kind
of meaninglessness. And in this context suspicion is perhaps all one "He is a lucky
person" ("lucky" being understood as disposi-tional). This might
on occasion turn out to be a way of saying "He is a person to whom what is
unlikely to happen is likely to happen." "Departed spirits walk
along this road on their way to Para-dise" (it being understood that
departed spirits are supposed to be bodiless and imperceptible). "I wish that I had been
Napoleon" (which does not mean the same as "I wish I were like
Napoleon"). "I wish that I had lived not in the XXth century but in
the XVIIIth century." "As far as I know, there are infinitely many
stars." Of course, I do not wish to suggest that these examples are likely
in the end to prove of much assistance to the propounder of para-doxes. All I
wish to suggest is that the principle "The ordinary use of language cannot
be absurd" is either trivial or needs justification. Another, possibly
less ambitious version of Procedure 1 might be represented as being roughly as
follows. Every paradox comes down to the claim that a certain word or phrase
(or type of word or phrase) cannot without linguistic impropriety or absurdity
be incorporated (in a specified way) in a certain sort of sentence T. For
example, bearing in mind Berkeley, one might object to the appearance of the
word"cause" as the main verb in an affirmative sentence the subject
of which refers to some entity other than a spirit. The paradox-propounder will
however have to admit that, if we were called on to explain the use of W to
someone who was ignorant of it, we should not in fact hesitate to select
certain exemplary sentences of type T which incorporated W, and indicate
ostensively or by description typical sorts of circumstances in which such
sentences would express truths. Now if it be admitted that such a mode of
explanation of W's use is one we should naturally adopt, then it must also be
admitted that it is a proper mode of explanation; and if it is a proper mode of
explanation, how can a speaker who uses such an exemplary sen-tence, believing
the prevailing circumstances to be of the typical kind, be guilty of linguistic
impropriety or absurdity? You cannot obey the rules, and yet not obey
them. The paradox-propounder's reply might run on some such lines as
these. If it were true that we always supposed the typical sorts of circumstances,
to which reference is made in such an explanation of the meaning of a word, to
be as they really are, and as observation or experience would entitle us to
suppose, then the paradox would fall. But it may be that in the case of
some words (such as possibly "cause") for some reason (perhaps
because of a Hume-like natural disposition) we have a tendency to read more
into the indicated typical situation than is really there, or than observation
would entitle us to suppose to be there. Furthermore, the addition we make may
be an absurdity. For instance, we might have a tendency to read into what the
common sense philosopher would regard as typical causal transactions between
natural objects or events the mistaken and absurd idea that something is
willing something else to happen. If we do do this (and how is it shown that we
do not?), then even though we use the word "cause" in just the kinds
of situations indicated by model explanations of the word's meaning, we shall
still have imported into our use of the word "cause" an implication
which will make objectionable the application of the word to natural
events. Whenever we so apply the word "cause," what we say will
imply an absurdity. Let us ask how a philosophical paradox is standardly
supported. One standard procedure (and this is the only one I shall
consider, though there may be other quite different methods) is to produce one
or more alleged entailments or equivalences which, if accepted, would commit
one to the paradox. For example, the philosopher who main-tains that only
spirits can be causes might try to persuade us as fol-lows: if there is a
cause, then there is action; if there is action, then there is an agent; if
there is an agent, then there is a spirit at work; and there we are. This
particular string of alleged entailments is not perhaps very appetizing, but
obviously in other cases something more alluring can be provided. Now if we ask
how the propounder of the paradox supposes it to be determined whether or not
his entailments or equivalences hold, we obviously cannot reply that the
question is to be decided in the light of the circumstances in which we apply
the terms involved, for it is obvious that we do not restrict our applica-tion
of the word "cause" to spirits, and if we did, then all suspicion of
paradox would disappear. The paradox-propounder seemingly must attach special
weight to what we say, or what we can be got to say, about the meaning or
implication of such a word as "cause." In effect he asks us what we
mean by "cause" or "know" (giving us some help) and then
insists that our answers show what we do mean. Leaving on one side for
the moment the question why he does this and with what justification, let us
consider the fact that the interpre-tation which he gives of such a word as
"mean" seems to differ from the interpretation of that word which
would be given by his oppo-nent. To differentiate between the two
interpretations, let us use "mean," as a label for the sense
that the paradox-propounder attri-butes to the word "mean" (in which
what a man says he means by a word is paramount in determining what he in fact
does mean), and let us use "mean," as a label for the sense which the
opponent of the paradox-propounder would attribute to the word "mean"
(in which what a man means is, roughly speaking, determined by the way in which
he applies the word). The paradox-propounder would say "'Cause'
means (that is, means,) so and so," and his opponent would say
"'Cause' means (that is, means,) such and such." Now it seems that
the dispute between them cannot be settled without settling the divergence
between them with regard to the word "mean." Can this divergence be
settled? It seems to be difficult, for if the paradox-propounder claims that
"mean" means (that is, "mean,") and his opponent claims
that "mean" means (that is, "mean,"), then we seem to have
reached an impasse. And it is likely that this would in fact be the situation
between them. But then we might reflect that the dispute between them, in
becom-ing unsettlable, has evaporated. For the paradox-propounder is going to
say "Certain ordinary utterances are absurd because what (in cer-tain
circumstances) we say that we mean by them is absurd, but these can be replaced
by harmless utterances which eradicate this absurdity, and the job of
philosophical analysis is to find these replacements," while his opponent
is going to say "No ordinary utterances are ab-surd, though sometimes what
we say we mean by them is absurd, and the job of philosophical analysis is to
explain what we really do mean by them." Does it matter which way we talk?
The facts are the same. I do not feel inclined to rest with this
situation, and fortunately there seem to be two ways out of it, in spite of the
apparent deadlock: (1) I suspect that some philosophers have assumed or
believed that "mean" means "mean" (that what a man
says he means is paramount in determining what he does mean) because they have
thought of "meaning so and so" as being the name of an
introspectible experi-ence. They have thought a person's statements about what
he means have just the same kind of incorrigible status as a person's
statements about his current sensations, or about the color that something
seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly
some occasions when what a speaker says he means is treated as specially
authoritative. Consider the following possible conversations between myself and
a pupil: Myself: "I want you to bring me a paper
tomorrow." Pupil: "Do you mean that you want a newspaper or
that you want a piece of written work?" Myself: "I mean
'a piece of written work?" It would be absurd at this point for the
pupil to say "Perhaps you only think, mistakenly, that you mean 'a piece
of written work," whereas really you mean 'a newspaper." And this
absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a
pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be
taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him,
however his arm feels). It is important to notice that although there is this
point of analogy between meaning something and having a pain, there are
striking differences. A pain may start and stop at specifiable times; equally
something may begin to look red to one at 2:00 p.M. and cease to look red to
one at 2:05 p.M. But it would be absurd for my pupil (in the preceding example)
to say to me "When did you begin to mean that?" or "Have you
stopped meaning it yet?" Again there is no logical objection to a pain
arising in any set of concomitant sentences; but it is surely absurd to suppose
that I mightfind myself meaning that it is raining when I say "I want a
paper"; indeed, it is odd to speak at all of "my finding myself
meaning so and so," though it is not odd to speak of my finding myself
suffering from a pain. At best, only very special circumstances (if any) could
enable me to say "I want a paper," meaning thereby that it is
raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such
statements as "I mean a piece of written work" (in the conversation
with my pupil) as "declarations" rather than as "introspection
reports." Such statements as these are perhaps like declarations of
intention, which also have an authoritative status in some ways like and in
some ways unlike that of a statement about one's own current pains. But
the immediately relevant point with regard to such statements about meaning as
the one I have just been discussing is that, insofar as they have the
authoritative status which they seem to have, they are not statements which the
speaker could have come to accept as the result of an investigation or of a
train of argumentation. To revert to the conversation with my pupil, when I say
"I mean a piece of written work," it would be quite inappropriate for
my pupil to say "How did you discover that you meant that?" or
"Who or what convinced you that you meant that?" And I think we can
see why a "meaning" statement cannot be both specially
authoritative and also the conclusion of an argument or an investigation. If a
statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it
always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is
unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is
conceivable, then the statement maker may be mistaken, in which case, of
course, his statement has not got the authoritative character which I have
mentioned. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I
have been considering requires both that a speaker's statement about what he
means should be specially authoritative and that it should be established by
argumenta-tion. But this combination is impossible. (2) A further
difficulty for the paradox-propounder is one which is linked with the previous
point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a
connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a
particular person means in general by a given expression, and (b) what a
particular speaker means, or meant, by that expression on a particular
occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give examples of the ways in
which such divergence may occur. (1) The sentence "I have run out of
fuel" means ingeneral (roughly) that the speaker has no material left with
which to propel some vehicle which is in his charge; but a particular speaker
on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking
figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to
say. (2) "Jones is a fine fellow" means in general that Jones has a
number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to
some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular
speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a
scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving
any unusual sense to any of the words in the sentences; he would rather be
using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he
says involves knowing the standard use of the sentence in question. (3) A
speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence "It is
hailing" what would standardly be expressed by the sentence "It
is snowing" either if he had mislearned the use of the word
"hail-ing" or if he thought (rightly or wrongly) that his addressee
(perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private
significance to the word "hailing." In either of these cases, of
course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard
sense. These trivial examples are enough, I hope, to indicate the
possibility of divergence between (a) and (b). But (a) and (b) are also
con-nected. It is, I think, approximately true to say that what a particular
speaker means by a particular utterance (of a statement-making char-acter) on a
particular occasion is to be identified with what he intends by means of the
utterance to get his audience to believe (a full treatment would require a
number of qualifications which I do not propose to go into now). It is also, I
think, approximately true to say that what a sentence means in general is to be
identified with what would standardly be meant by the sentence by particular
speakers on particular occasions; and what renders a particular way of using a
sentence standard may be different for different sentences. For example, in the
case of sentences which do not contain technical terms it is, I think, roughly
speaking, a matter of general practice on nonspecial occa-sions; such sentences
mean in general what people of some particular group would normally mean by
using them on particular occasions (this is, of course, oversimplified). If
this outline of an elucidation of the distinction is on the right lines, then two
links may be found be-tween (a) and (b). First, if I am to mean something by a
statement-making utterance on a particular occasion-that is, if I intend by
means of my utterance to get my audience to believe something—I must think that
there is some chance that my audience will recognize from my utterance what it
is they are supposed to believe; and it seems fairly clear that the audience
will not be able to do this unless it knows what the general practice, or what
my practice, is as regards the use of this type of utterance (or unless I give
it a supplementary explanation of my meaning on this occasion). Second (and
ob-viously), for a sentence of a nontechnical character to have a certain
meaning in general, it must be the case that a certain group of people do (or
would) use it with that meaning on particular occasions. I think we can
confront my paradox-propounder with a further difficulty (which I hope will in
the end prove fatal). When he suggests that to say "x (a natural event)
caused y" means (wholly or in part) "x willed y," does he
intend to suggest that particular speakers use the sentence "x caused
y" on particular occasions to mean (wholly or in part) "x willed
y" (that this is what they are telling their audience, that this is what
they intend their audience to think)? If he is suggesting this, he is
suggesting something that he must admit to be false. For part of his
purpose in getting his victim to admit "* caused y" means (in part at
least) "x willed y" to get his victim to admit that he should not
(strictly) go on saying such things as that "x caused y" just because
of the obvious falsity or absurdity of part of what it is supposed to mean; and
he is relying on his victim's not intending to induce beliefs in obvious
falsehoods or absurdities. However, if he is suggesting that "x caused
y" means in general (at least in part) "x willed y," even though
no particular speaker ever means this by it (or would mean this by it) on a
particular occasion, then he is accepting just such a divorce between the
general meaning of a sentence and its particular meaning on particular
occasions as that which I have been maintaining to be inadmissible. In
conclusion, I should like to remind you very briefly what in this paper I have
been trying to do. I have tried to indicate a particular class of statements
which have been not unknown in the history of philosophy, and which may be
described as being (in a particular sense) paradoxes. I have considered a
number of attempts to find a general principle which would serve to eliminate
all such statements, independently of consideration of the type of method by
which they would be supported by their propounders. I have suggested that it
isdifficult to find any principle which will satisfactorily perform this task,
though I would not care to insist that no such principle can be found, nor to
deny that further elaboration might render satisfactory one or another of the
principles which have been mentioned. I have considered a specimen of what I
suspect is one characteristic method in which a paradox-propounder may support
his thesis (though this may not be the only method which paradox-propounders
have used); and finally I have tried to show that the use of this method
involves its user in serious (indeed I hope fatal) difficulties. Philosopher's
Paradoxes I shall begin by discussing two linked parts of Moore's
philosophy, one of which is his method of dealing with certain philosophical
para-doxes, the other his attitude toward Common Sense. These are particularly
characteristic elements in Moore's thought and have exerted great influence
upon, and yet at the same time perplexed other British philosophers. Later in
this paper I shall pass from explicit discussion of Moore's views to a
consideration of ways of treating philosophical paradoxes which might properly
be deemed to be either interpretations or developments of Moore's own
position. First, Moore's way of dealing with philosopher's paradoxes.
By "philosopher's paradoxes" I mean (roughly) the kind of philosophical
utterances which a layman might be expected to find at first absurd, shocking,
and repugnant. Malcolm' gives a number of examples of such paradoxes and in
each case specifies the kind of reason or proof which he thinks Moore would
offer to justify his rejection of these paradoxical statements; Moore,
moreover, in his "Reply to my Crit-ics" in the same volume, gives his
approval, with one qualification, to Malcolm's procedure. I quote three of
Malcolm's examples, together with Moore's supposed replies: Example
1 Philosopher: "There are no material things." Moore:
"You are certainly wrong, for here's one hand and here's another; and so
there are at least two material things." 1. Malcolm, "Moore and
Ordinary Language," in The Philosophy of G. E. Moore, ed.
Schlipp.Example 2 Philosopher: "Time is unreal."
Moore: "If you mean that no event can follow or precede
another event, you are certainly wrong: for after lunch I went for a
walk, and after that I took a bath, and after that I had tea."
Example 3 Philosopher: "We do not know for certain the truth of any
statement about material things." Moore: "Both of us know for
certain that there are several chairs in this room, and how absurd it
would be to suggest that we do not know it, but only believe it, and that perhaps
it is not the case!" Example 1 is an abbreviated version of perhaps
the most tamous application of Moore's technique (for dealing with paradoxes),
that contained in his British Academy lecture "Proof of an
External World." There he makes what amounts to the claim that the
reply in Example 1 contains a rigorous proof of the existence of material
things; for it fulfills the three conditions he lays down as being required of
a rigorous proof: (a) its premise ("here's one hand and here's
another") is different from the conclusion ("there are at least two
material things"); (b) the speaker (Moore), at the time of speak-ing,
knows for certain that the premise is true; and (c) the conclusion follows from
the premise. Moore of course would have admitted that condition (c) is
fulfilled only if "there are material things" is given one particular
possible interpretation; he is aware that some philoso-phers, in denying the
existence of material things, have not meant to deny, for example, that Moore
has two hands; but he claims (quite rightly, I think) that the sentence
"material things do not exist" has sometimes been used by
philosophers to say something incompatible with its being true to say that
Moore has two hands. Now the technique embodied in the examples I have
just quoted is sometimes regarded as being an appeal to Common Sense. Though it
may, no doubt, be correctly so regarded in some sense of "Common
Sense," I am quite sure that it is not an appeal to Common Sense as Moore
uses the expression "Common Sense." In "A Defense of Common
Sense"2 Moore claims to know for certain the truth of a range of
propositions about himself, similar in character to those asserted in the
replies contained in my three examples, except that the propo- 2.
Contemporary British Philosophy, vol. 2.sitions mentioned in the article are
less specific than those asserted in the replies; and he further claims to know
for certain that very many other persons have known for certain propositions
about themselves corresponding to these propositions about himself. It is true
that Moore rejects certain philosopher's paradoxes because they conflict with
some of the propositions which Moore claims to know with certainty, and it is
further true that Moore describes his position, in general terms, as being
"that the 'Common Sense view of the world' is, in certain fundamental
features, wholly true." But it is also clear that when Moore talks about
Common Sense, he is thinking of a set of very generally accepted beliefs, and,
for him, to "go against Common Sense" would be to contradict one or
more of the members of this set of beliefs. Two points are here relevant. (1)
Most of the propositions which serve as the premises of Moore's disproofs of
paradoxical views are not themselves propositions of Common Sense (objects of
Common Sense belief), for they are, standardly, propositions about individual
people and things (e.g. Moore and hands), and obviously too few people have
heard of Moore for there to be any very generally accepted beliefs about him. Of
course, Moore's premises may justify some Common Sense beliefs, but that is not
the point here. (2) In any case, it is quite clear that for Moore there is
nothing sacrosanct about Common Sense beliefs as such; in the Defense he says
(p. 207), "for all I know, there may be many propositions which may be
properly called features in 'the Common Sense view of the world' or 'Common
Sense belief' which are not true, and which deserve to be mentioned with the
contempt with which some philosophers speak of 'Common Sense beliefs." And
in Some Main Problems he cites propositions which were once, but have since
ceased to be, Common Sense beliefs, and are now rejected altogether. So, if to
describe Moore's technique as an appeal to Common Sense is to imply that in his
view philosopher's paradoxes are to be rejected because they violate Common
Sense (in Moore's sense of the term), then such a description is quite
incorrect (it is, I think, fair to maintain that Moore's use of the term
"Common Sense" is not the ordinary one, in which a person who lacks
Common Sense is someone who is silly or absurd; and this suggests a sense in
which Moore does "appeal to Common Sense" in dealing with paradoxes,
for he does often say or imply that the adoption of a paradoxical view commits
one to some absurdity). Now it is time to turn to the perplexity which
Moore's technique has engendered. A quite common reaction to Moore's way with
para-doxes has, I think, been to feel that it really can't be as easy as that,
that Moore counters philosophical theses with what amounts to just a blunt
denial, and that his "disproofs" fail therefore to carry convic-tion.
As Malcolm observes, we tend to feel that the question has been begged, that a
philosopher who denies that there are material objects is well aware that he is
committed to denying the truth of such propositions as that Moore has two hands
and so cannot be expected to accept the premise of Moore's proof of an external
world. For Moore's technique to convince a philosophical rival, something more
would have to be said about the point of Moore's characteristic ma-neuver; some
account will have to be given of the nature of the absurdity to which a
philosophical paradox allegedly commits its pro-pounder. Malcolm himself (loc.
cit.) argues that such an account can be given; he represents Moore's technique
as being a (concealed) way of showing that philosophical paradoxes "go
against ordinary lan-guage" (say or imply that such ordinary expressions
are absurd or meaningless), and argues that to do this is to commit an
absurdity, indeed to involve oneself in contradiction. I shall enter into the
details of this thesis later; at the moment I am only concerned with the
question how far Moore's own work can properly be understood on the general
lines which Malcolm suggests. I must confess it seems very doubtful to me
whether it can. (1) Moore in his "Reply to My Crit-ics" neither
accepts nor rejects Malcolm's suggestion; indeed he does not mention it, and it
very much looks as if Malcolm's idea was quite new to him, and one which he
needed time to consider. (2) Moore (loc. cit.) makes a distinction (in effect)
between my Example 1 and my Example 3 (this is the qualification I mentioned
earlier). He allows that one can prove that material objects exist by holding
up one's hands and saying "Here is one hand and here is another"; but
he does not allow that one can prove that one sometimes knows for certain the
truth of statements about material things from such a premise as
"Both of us know for certain that there are chairs in this room." In
his view, to say "We know for certain that there are chairs in this room,
so sometimes one knows for certain the truth of propositions about material
things" is to give not a "proof" but a "good
argu-ment" in favor of knowledge about material things; it is a good
argument but (he says) some further argument is called for, and in this case
the need for further argument is said to be connected with the fact that many
more philosophers have asserted that nobody knows that there are material
things than have said that there are no materialthings. Now I find it very
difficult to see how Moore can successfully maintain that Example 1 gives a
proof of the existence of material things and yet that Example 3 does not give
a proof of our knowledge of material things. (Can he deny that his three
requirements for a rigorous proof are satisfied in this case?) But this is not
the point I am concerned with here. What I wish to suggest is that for Moore's
tech-nique to be properly represented as being in all cases a concealed appeal
to ordinary language, he would surely have had to have treated Example 1 and
Example 3 alike, for the denial of knowledge about material things does not go
against ordinary language any less than the denial of the existence of material
things. It might well be, of course, that no satisfactory and comprehensive
account can be given of Moore's procedure, and that an account in terms of the
appeal to ordinary language fits what he is doing most of the time, and so per-haps
shows what he was (more or less unconsciously) getting at or feeling after. But
to say this is different from saying outright that the applications of his
technique are appeals to ordinary language. One or two passages in Some
Main Problems in Philosophy indi-cate a different (or at any rate apparently
different) procedure. I shall try to present, in connection with a particular
example, a somewhat free version of the position suggested by the passages I
have in mind. Some philosophers have advanced the (paradoxical) thesis
that we never know for certain that any inductive generalization is true, that
inductive generalizations can at best be only probably true. Their ac-ceptance
of this thesis will be found to rest on a principle, in this case maybe some
such principle as that for a proposition to be known with certainty to be true,
it must either be a necessary truth or a matter of "direct
experience" (in some sense) or be logically derivable from propositions of
one or the other of the first two kinds. But inductive generalizations do not
fall under any of these heads, so they cannot be known with certainty to be
true. The sort of maneuver Moore would make in response to such a thesis (e.g.
"But of course we know for certain that the offspring of two human beings
is always another human being") might be represented as having the
following force: "The principle on which your thesis depends is not
self-evident, that is, it requires some justification; and since it is general
in form, its acceptability will have to depend on consideration of the
particular cases to which it applies; that is, the principle that all knowledge
is of certain specified kinds will be refuted if there can be found a case of
knowledge which is not of any of the specified kinds, and will beconfirmed if
after suitably careful consideration, no such counter-example is forthcoming.
But I have just produced a counterexample, a case of knowledge which is not of
any of the specified kinds, and which, furthermore, is an inductive generalization.
You cannot, without cheating, use the principle to discredit my counterexample,
i.e. to argue that my specimen is not really a case of knowledge; if the
principle depends on consideration of the character of the particular cases of
knowledge, then it cannot be invoked to ensure that apparent counterexamples
are not after all to be counted as cases of knowl-edge. If you are to discredit
my counterexample it must be by some other method, and there is no other
method." This line of attack could, of course, be applied mutatis
mutandis, to other paradoxical philosophical theses. I have a good deal
of sympathy with the idea I have just outlined; in particular, it seems to me
to bring out the way in which, primarily at least, I think philosophical theses
should be tested, namely by the search for counterexamples. Moreover, I think
it might prove effec-tive, in some cases, against the upholders of paradoxes.
But I doubt whether a really determined paradox-propounder would be
satisfied. He might reply: "I agree that my principle that all
knowledge is of one or another specified kind is not self-evident, but I do not
have to justify it by the method you suggest, that of looking for possible
coun-terexamples. I can justify it by a careful consideration of the nature of
knowledge, and of the relation between knowledge and other linked concepts.
Since I can do this, I can, without begging the ques-tion, use my principle to
discredit your supposed counterexamples." The paradox-propounder might
seek also to turn the tables on his opponent by adding, "You, too,
are operating with a philosophical principle, namely a principle about
how philosophical theses are to be tested; but the acceptability of your
principle, too, will (in your view) have to depend on whether or not my own
thesis about knowledge constitutes a counterexample; and to determine this
question, you will have to investigate independently of your principle the
legitimacy of the grounds upon which I rely." To meet this reply, I would
have to anticipate the latter part of my paper; and in any case I suspect that
in meeting it, I should exhibit the rationale of Moore's procedure as being
after all only a particular version of the "appeal to ordinary
language." So I shall pass on to discuss the efficacy of this way of
dealing with paradoxes, without explicit reference to Moore's work.I can
distinguish two different types of procedure in the face of a philosopher's
paradox, each of which might count as being, in some sense, an appeal to ordinary
language. Procedure 1 would seek to refute or dispose of paradoxes
without taking into account what the paradox-propounders would say in
elaboration or defense of their theses; these theses would simply be rebutted
by the charge that they went against ordinary language, and this would be held
sufficient to show the theses to be untenable, though of course a philosopher
might well be required to do more than merely show the theses to be untenable.
Procedure 2, on the other hand, would take into account what the paradox-propounder
would say, or could be forced to say, in support of his thesis, and would aim
at finding some common and at the same time objectionable feature in the
positions of those who advance such paradoxes. Procedure 2, unlike Procedure 1,
would not involve the claim that the fact that a thesis "went
against" ordinary language was, by itself, sufficient to condemn it; I
propose now to consider two versions of Procedure 1, to argue that at least as
they stand, they are not adequate to silence a wide-awake opponent, or even to
extract from him the reaction, "I see that you must be right, and
yet...," and finally to consider Procedure 2. My first version is
drawn from Malcolm. In the form in which I state it, this procedure applies
only against nonempirically based paradoxes; indeed, Malcolm does not make any
distinction between different types of paradox and in effect seems to treat all
philosophical paradoxes as if they were of the nonempirically based kind. The
kernel of Malcolm's position seems to be as follows. The propounder of a
paradox is committed to holding that the ordinary use of certain expressions
(e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death") is (a)
incorrect and (b) self-contradictory or absurd. But this contention is itself
self-contradictory or absurd. For if an expression is an ordinary expression,
that is, "has an ordinary (or accepted) use"— that is to say, if it
is an expression which "would be used to describe situations of a certain
sort if such situations existed or were believed to exist" — then it
cannot be self-contradictory (or absurd). For a self-contradictory expression
is one which would never be used to describe any situation, and so has no
descriptive use. Moreover, if an expression which would be used to describe
situations of a certain sort (etc.) is in fact on a given occasion used to
describe that sort of situation, then it is on that occasion correctly used,
for correct use is just standard use. It will be seen that Malcolm's charge
against theparadoxes is that they go against ordinary language not by
misdes-cribing its use (to do that would be merely to utter falsehoods, not
bsurdities) nor by misusing it that would be merely eccentric c usleading nor
by ill-advisedly proposing to change it (that would b merely giving bad
advice), but by flouting it, that is, admitting a use of language to be
ordinary and yet calling it incorrect or absurd. Furthermore, it will be
seen that he attempts to substantiate his charge by consideration of what he
takes to be the interrelation between the concepts of (a) ordinary use, (b)
self-contradiction, and (c) correctness. This version of Procedure
1 has three difficulties: (1) The word "would," as it occurs in
the phrase "expression which would be used to describe situations of a
certain sort, if such situations existed or were believed to exist," seems
to me to give rise to some trouble. The phrase I have just quoted might be
taken as roughly equivalent to "expression which, given that a certain
sort of situation had to be described, would be used." But this cannot be
what Malcolm means; it is just not true that always or usually, when called
upon to describe such a situation as a man's having lost his money, one would
say "he has become a pauper." There are all sorts of things one would
be more likely to say; yet presumably "he has become a pauper" is to
be counted as an ordinary expression. It would be clearer perhaps to
substitute, for the quoted phrase, the phrase "expression of which it
would not be true to say that it would not be used to describe..." or more
shortly "expression which might be used to describe.." Let us then
take the original phrase in this sense. Now what about the sentence
"Sometimes the ordinary use of language is incorrect" (which Malcolm
says is self-contradictory)? This sentence (or some other sentence to the
same effect) no doubt has been uttered seriously by paradox-propounders, and it
might well seem that they have used it to describe the situation they believed
to obtain with regard to the use of ordinary language. Does it not then follow
that this sentence is one of which it is untrue to say that it would not be
used to describe a certain sort of situation, or more simply, that this
sentence is one which might be used to describe a certain sort of situation;
that is, the sentence is not self-contradictory? If we can combine
"has been used to describe" with "would not be used to
describe" (and perhaps we can), then, at least, the sense of
"would not be used" seems to demand scrutiny. I suspect, however,
that Malcolm himself would not admit the legitimacy of the combi-nation. He
would rather say that the sentence in question has been uttered seriously, even
perhaps has been "used," but has not been used to describe a certain
sort of situation (just because it commits an absurdity); and so there is no
difficulty in going on to say that it would not be used to describe any sort of
situation, that is, is self-contradictory (and so nonordinary). This points the
way to what seems to me a fundamental difficulty. (2) I think Malcolm's
opponent might legitimately complain that the question has been begged against
him. For he might well admit that the expressions of which he complains are
ordinary expressions, and even that they would be used to describe certain
sorts of situation which the speaker believed to exist, but go on to say that
the situations in question are (logically) impossible. This being so, the
expressions are both ordinary and absurd. If he is ready in the first place to
claim that an ordinary expression may be absurd, why should he jib at saying
that an ordinary expression may be used to describe an impossible situation
which the speaker mistakenly believes to exist? Malcolm's argument can be
made to work only if we assume that no situation which a sentence would
ordinarily be used to describe would be an impossible situation, and to assume
this is to assume the falsity of the paradox-propounder's position.
Alternatively, the paradox-propounder might agree that an ordinary expression
of the kind which he is assailing (e.g. "Decapitation was the cause of
Charles I's death") would be used to describe such a situation as that
actually obtaining at Charles I's death (i.e., it would be used to describe an
actual situation and not merely an impossible situation); but then he might add
that the user of such an expression would not merely be describing this
situation but also be committing himself to an absurd gloss on the situation
(e.g. that Charles's decapitation willed his death), or again (much the same
thing) that the user would indeed be merely describing this situation, but
would be doing so in terms which committed him to an absurdity. And to meet
this rejoinder by redefinition would again be to beg the question in Malcolm's
favor. The paradox-propounder might even concede that an expression which
would be used to describe a certain sort of situation would be correctly used
to describe a situation of that sort, provided that all that is implied is that
it is common form to use this expression in this sort of situation; but
nevertheless maintaining that the correctness of use (in this sense) would not
guarantee freedom from contradiction or absurdity.Put summarily, my main point
is that either Malcolm must allow that, in order to satisfy ourselves that an
expression is "ordinary," we must first satisfy ourselves that it is
free from absurdity (in which case it is not yet established that such an
expression as "Decapitation caused Charles I's death" is an ordinary
one), or he must use the word "ordinary" in such a way that the
sentence I have just mentioned is undoubtedly an ordinary expression, in which
case the link between being ordinary and being free from absurdity is open to
question. (3) Is it in fact true that an ordinary use of language cannot
be self-contradictory, unless the "ordinary use of language" is
defined by stipulation as non-self-contradictory, in which case, of course,
Malcolm's version of the appeal to ordinary language becomes useless against
the philosopher's paradox? The following examples would seem to involve nothing
but an ordinary use of language by any standard but that of freedom from
absurdity. They are not, so far as I can see, technical, philosophical, poetic,
figurative, or strained; they are examples of the sorts of things which have
been said and meant by numbers of actual persons. Yet each is open, I think, at
least to the suspicion of self-contradictoriness, absurdity, or some other kind
of meaninglessness. And in this context suspicion is perhaps all one "He is a lucky
person" ("lucky" being understood as disposi-tional). This might
on occasion turn out to be a way of saying "He is a person to whom what is
unlikely to happen is likely to happen." "Departed spirits walk
along this road on their way to Para-dise" (it being understood that
departed spirits are supposed to be bodiless and imperceptible). "I wish that I had been
Napoleon" (which does not mean the same as "I wish I were like
Napoleon"). "I wish that I had lived not in the XXth century but in
the XVIIIth century." "As far as I know, there are infinitely many
stars." Of course, I do not wish to suggest that these examples are likely
in the end to prove of much assistance to the propounder of para-doxes. All I
wish to suggest is that the principle "The ordinary use of language cannot
be absurd" is either trivial or needs justification. Another, possibly
less ambitious version of Procedure 1 might be represented as being roughly as
follows. Every paradox comes down to the claim that a certain word or phrase
(or type of word or phrase) cannot without linguistic impropriety or absurdity
be incorporated (in a specified way) in a certain sort of sentence T. For
example, bearing in mind Berkeley, one might object to the appearance of the
word"cause" as the main verb in an affirmative sentence the subject
of which refers to some entity other than a spirit. The paradox-propounder will
however have to admit that, if we were called on to explain the use of W to
someone who was ignorant of it, we should not in fact hesitate to select
certain exemplary sentences of type T which incorporated W, and indicate
ostensively or by description typical sorts of circumstances in which such
sentences would express truths. Now if it be admitted that such a mode of
explanation of W's use is one we should naturally adopt, then it must also be
admitted that it is a proper mode of explanation; and if it is a proper mode of
explanation, how can a speaker who uses such an exemplary sen-tence, believing
the prevailing circumstances to be of the typical kind, be guilty of linguistic
impropriety or absurdity? You cannot obey the rules, and yet not obey
them. The paradox-propounder's reply might run on some such lines as
these. If it were true that we always supposed the typical sorts of circumstances,
to which reference is made in such an explanation of the meaning of a word, to
be as they really are, and as observation or experience would entitle us to
suppose, then the paradox would fall. But it may be that in the case of
some words (such as possibly "cause") for some reason (perhaps
because of a Hume-like natural disposition) we have a tendency to read more
into the indicated typical situation than is really there, or than observation
would entitle us to suppose to be there. Furthermore, the addition we make may
be an absurdity. For instance, we might have a tendency to read into what the
common sense philosopher would regard as typical causal transactions between
natural objects or events the mistaken and absurd idea that something is
willing something else to happen. If we do do this (and how is it shown that we
do not?), then even though we use the word "cause" in just the kinds
of situations indicated by model explanations of the word's meaning, we shall
still have imported into our use of the word "cause" an implication
which will make objectionable the application of the word to natural
events. Whenever we so apply the word "cause," what we say will
imply an absurdity. Let us ask how a philosophical paradox is standardly
supported. One standard procedure (and this is the only one I shall
consider, though there may be other quite different methods) is to produce one
or more alleged entailments or equivalences which, if accepted, would commit
one to the paradox. For example, the philosopher who main-tains that only
spirits can be causes might try to persuade us as fol-lows: if there is a
cause, then there is action; if there is action, then there is an agent; if
there is an agent, then there is a spirit at work; and there we are. This
particular string of alleged entailments is not perhaps very appetizing, but
obviously in other cases something more alluring can be provided. Now if we ask
how the propounder of the paradox supposes it to be determined whether or not
his entailments or equivalences hold, we obviously cannot reply that the
question is to be decided in the light of the circumstances in which we apply
the terms involved, for it is obvious that we do not restrict our applica-tion
of the word "cause" to spirits, and if we did, then all suspicion of
paradox would disappear. The paradox-propounder seemingly must attach special
weight to what we say, or what we can be got to say, about the meaning or
implication of such a word as "cause." In effect he asks us what we
mean by "cause" or "know" (giving us some help) and then
insists that our answers show what we do mean. Leaving on one side for
the moment the question why he does this and with what justification, let us
consider the fact that the interpre-tation which he gives of such a word as
"mean" seems to differ from the interpretation of that word which
would be given by his oppo-nent. To differentiate between the two
interpretations, let us use "mean," as a label for the sense
that the paradox-propounder attri-butes to the word "mean" (in which
what a man says he means by a word is paramount in determining what he in fact
does mean), and let us use "mean," as a label for the sense which the
opponent of the paradox-propounder would attribute to the word "mean"
(in which what a man means is, roughly speaking, determined by the way in which
he applies the word). The paradox-propounder would say "'Cause'
means (that is, means,) so and so," and his opponent would say
"'Cause' means (that is, means,) such and such." Now it seems that
the dispute between them cannot be settled without settling the divergence
between them with regard to the word "mean." Can this divergence be
settled? It seems to be difficult, for if the paradox-propounder claims that
"mean" means (that is, "mean,") and his opponent claims
that "mean" means (that is, "mean,"), then we seem to have
reached an impasse. And it is likely that this would in fact be the situation
between them. But then we might reflect that the dispute between them, in
becom-ing unsettlable, has evaporated. For the paradox-propounder is going to
say "Certain ordinary utterances are absurd because what (in cer-tain
circumstances) we say that we mean by them is absurd, but these can be replaced
by harmless utterances which eradicate this absurdity, and the job of
philosophical analysis is to find these replacements," while his opponent
is going to say "No ordinary utterances are ab-surd, though sometimes what
we say we mean by them is absurd, and the job of philosophical analysis is to
explain what we really do mean by them." Does it matter which way we talk?
The facts are the same. I do not feel inclined to rest with this
situation, and fortunately there seem to be two ways out of it, in spite of the
apparent deadlock: (1) I suspect that some philosophers have assumed or
believed that "mean" means "mean" (that what a man
says he means is paramount in determining what he does mean) because they have
thought of "meaning so and so" as being the name of an
introspectible experi-ence. They have thought a person's statements about what
he means have just the same kind of incorrigible status as a person's
statements about his current sensations, or about the color that something
seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly
some occasions when what a speaker says he means is treated as specially
authoritative. Consider the following possible conversations between myself and
a pupil: Myself: "I want you to bring me a paper
tomorrow." Pupil: "Do you mean that you want a newspaper or
that you want a piece of written work?" Myself: "I mean
'a piece of written work?" It would be absurd at this point for the
pupil to say "Perhaps you only think, mistakenly, that you mean 'a piece
of written work," whereas really you mean 'a newspaper." And this
absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a
pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be
taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him,
however his arm feels). It is important to notice that although there is this
point of analogy between meaning something and having a pain, there are
striking differences. A pain may start and stop at specifiable times; equally
something may begin to look red to one at 2:00 p.M. and cease to look red to
one at 2:05 p.M. But it would be absurd for my pupil (in the preceding example)
to say to me "When did you begin to mean that?" or "Have you
stopped meaning it yet?" Again there is no logical objection to a pain
arising in any set of concomitant sentences; but it is surely absurd to suppose
that I mightfind myself meaning that it is raining when I say "I want a
paper"; indeed, it is odd to speak at all of "my finding myself
meaning so and so," though it is not odd to speak of my finding myself
suffering from a pain. At best, only very special circumstances (if any) could
enable me to say "I want a paper," meaning thereby that it is
raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such
statements as "I mean a piece of written work" (in the conversation
with my pupil) as "declarations" rather than as "introspection
reports." Such statements as these are perhaps like declarations of
intention, which also have an authoritative status in some ways like and in
some ways unlike that of a statement about one's own current pains. But
the immediately relevant point with regard to such statements about meaning as
the one I have just been discussing is that, insofar as they have the
authoritative status which they seem to have, they are not statements which the
speaker could have come to accept as the result of an investigation or of a
train of argumentation. To revert to the conversation with my pupil, when I say
"I mean a piece of written work," it would be quite inappropriate for
my pupil to say "How did you discover that you meant that?" or
"Who or what convinced you that you meant that?" And I think we can
see why a "meaning" statement cannot be both specially
authoritative and also the conclusion of an argument or an investigation. If a
statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it
always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is
unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is
conceivable, then the statement maker may be mistaken, in which case, of
course, his statement has not got the authoritative character which I have
mentioned. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I
have been considering requires both that a speaker's statement about what he
means should be specially authoritative and that it should be established by
argumenta-tion. But this combination is impossible. (2) A further
difficulty for the paradox-propounder is one which is linked with the previous
point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a
connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a
particular person means in general by a given expression, and (b) what a
particular speaker means, or meant, by that expression on a particular
occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give examples of the ways in
which such divergence may occur. (1) The sentence "I have run out of
fuel" means ingeneral (roughly) that the speaker has no material left with
which to propel some vehicle which is in his charge; but a particular speaker
on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking
figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to
say. (2) "Jones is a fine fellow" means in general that Jones has a
number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to
some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular
speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a
scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving
any unusual sense to any of the words in the sentences; he would rather be
using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he
says involves knowing the standard use of the sentence in question. (3) A
speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence "It is
hailing" what would standardly be expressed by the sentence "It
is snowing" either if he had mislearned the use of the word
"hail-ing" or if he thought (rightly or wrongly) that his addressee
(perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private
significance to the word "hailing." In either of these cases, of
course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard
sense. These trivial examples are enough, I hope, to indicate the
possibility of divergence between (a) and (b). But (a) and (b) are also
con-nected. It is, I think, approximately true to say that what a particular
speaker means by a particular utterance (of a statement-making char-acter) on a
particular occasion is to be identified with what he intends by means of the
utterance to get his audience to believe (a full treatment would require a
number of qualifications which I do not propose to go into now). It is also, I
think, approximately true to say that what a sentence means in general is to be
identified with what would standardly be meant by the sentence by particular
speakers on particular occasions; and what renders a particular way of using a
sentence standard may be different for different sentences. For example, in the
case of sentences which do not contain technical terms it is, I think, roughly
speaking, a matter of general practice on nonspecial occa-sions; such sentences
mean in general what people of some particular group would normally mean by
using them on particular occasions (this is, of course, oversimplified). If
this outline of an elucidation of the distinction is on the right lines, then two
links may be found be-tween (a) and (b). First, if I am to mean something by a
statement-making utterance on a particular occasion-that is, if I intend by
means of my utterance to get my audience to believe something—I must think that
there is some chance that my audience will recognize from my utterance what it
is they are supposed to believe; and it seems fairly clear that the audience
will not be able to do this unless it knows what the general practice, or what
my practice, is as regards the use of this type of utterance (or unless I give
it a supplementary explanation of my meaning on this occasion). Second (and
ob-viously), for a sentence of a nontechnical character to have a certain
meaning in general, it must be the case that a certain group of people do (or
would) use it with that meaning on particular occasions. I think we can
confront my paradox-propounder with a further difficulty (which I hope will in
the end prove fatal). When he suggests that to say "x (a natural event)
caused y" means (wholly or in part) "x willed y," does he
intend to suggest that particular speakers use the sentence "x caused
y" on particular occasions to mean (wholly or in part) "x willed
y" (that this is what they are telling their audience, that this is what
they intend their audience to think)? If he is suggesting this, he is
suggesting something that he must admit to be false. For part of his
purpose in getting his victim to admit "* caused y" means (in part at
least) "x willed y" to get his victim to admit that he should not
(strictly) go on saying such things as that "x caused y" just because
of the obvious falsity or absurdity of part of what it is supposed to mean; and
he is relying on his victim's not intending to induce beliefs in obvious
falsehoods or absurdities. However, if he is suggesting that "x caused
y" means in general (at least in part) "x willed y," even though
no particular speaker ever means this by it (or would mean this by it) on a
particular occasion, then he is accepting just such a divorce between the
general meaning of a sentence and its particular meaning on particular
occasions as that which I have been maintaining to be inadmissible. In
conclusion, I should like to remind you very briefly what in this paper I have
been trying to do. I have tried to indicate a particular class of statements
which have been not unknown in the history of philosophy, and which may be
described as being (in a particular sense) paradoxes. I have considered a
number of attempts to find a general principle which would serve to eliminate
all such statements, independently of consideration of the type of method by
which they would be supported by their propounders. I have suggested that it
isdifficult to find any principle which will satisfactorily perform this task,
though I would not care to insist that no such principle can be found, nor to
deny that further elaboration might render satisfactory one or another of the
principles which have been mentioned. I have considered a specimen of what I
suspect is one characteristic method in which a paradox-propounder may support
his thesis (though this may not be the only method which paradox-propounders
have used); and finally I have tried to show that the use of this method
involves its user in serious (indeed I hope fatal) difficulties.Filosofo piemontese.
Filosofo italiano. Carru, Cuneo,
Piemonte. Insegna filosofia a Salerno. Studia a Torino, Heidelberg, Perugia e
Macerata. Si laurea in filosofia a Torino con VATTIMO e PAREYSON, dottore di
ricerca a Perugia, seguito da Ferretti e Riconda, di cui è stato assistente a Torino.
Borsista del centro studi filosofico-religiosi Pareyson ricercatore della
Alexander von Humboldt-Stiftung all'Freiburg im Breisgau, professore allo studio
teologico interdiocesano di Fossano e professore ospite in alcune università
europee e americane -- Madrid, Córdoba, Mendoza. Membro dei comitati
scientifici del Centro studi filosofico-religiosi Pareyson di Torino, della
Fondazione centro studi NOCE (si veda) di Savigliano, dell'Accademia estetica
internazionale di Rapallo, dell'Istituto Tilliette, della Internationale Schelling-Gesellschaft.
Fonda a Cuneo il seminario angelus novus. Fonda la rivista “Paradosso”. Scrive
sulle pagine culturali di “Avvenire”. Cura una rubrica sul mensile delle
vallate occitane d'Italia “Ousitanio Vivo”, di cui è collaboratore, e collabora
a “La Rivista del Club alpino italiano”. Garante scientifico internazionale
dell'associazione Mountain Wilderness International. Istruttore di kung fu
classico cinese, frequentando la scuola Kung Fu Chang, allievo diretto dei
maestri Cuturello e Fassi. Dedicato le sue ricerche a Schelling,
Nietzsche, Heidegger, PAREYSON, EINAUDI, Lao Tzu e Yang Chengfu approfondendo
in particolare il problema ontologico della libertà e del male, del tempo e
dell'escatologia, dei principi e del non-sapere. Elabora una filosofia
esperienziale, sperimentata soprattutto in montagna, che intende l'esistenza
come esperienza personale della verticalità del limite, e una filosofia
ermeneutica del dialogo inter-culturale, particolarmente attenta alla teologia
cristiana trinitaria e al pensiero taoista cinese. Saggi: “Kenosis del
logos: ragione e rivelazione” (Città Nuova, Roma); “Ontologia del male” (Città
Nuova, Roma); “L'argomento ontologico. L'esistenza di Dio da AOSTA (si veda) a
Schelling” (Roma, Città Nuova), pareysoniana,
Trauben, Torino, Pareyson. Vita, filosofia, Morcelliana, Brescia, Escatologia della negazione (Roma, Città Nuova);
Schelling. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo, Filosofia della
montagna, Prefazione di Torno, Postfazione di Messner, Milano, Bompiani, Come
leggere Nietzsche, Bompiani, Milano, Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao
Tzu (Bompiani, Milano); Libertà di sapere. Università e dialogo interculturale,
Bompiani, Milano, Verso la città divina. L'incantesimo della libertà in EINAUDI
(si veda) (Città Nuova, Roma); Corpo e preghiera. La Via del T'ai Chi Ch'üan,
Roma, Città Nuova); La via della montagna, Bompiani, Milano, Curatele:
Pareyson, Essere, libertà, ambiguità, Mursia, Milano, Riconda, Tilliette, Del
male e del bene, Città Nuova Editrice, Roma, Forte, Vitiello, La vita e il suo
oltre. Dialogo sulla morte, Città Nuova Editrice, Roma, Pareyson, Iniziativa e
libertà, Mursia, Milano, Baudino, White-out, Museo Nazionale della Montagna, Torino,
Nietzsche: su verità e menzogna, Bompiani, Milano, Schelling, Sui principi sommi. Filosofia della
rivelazione Bompiani, Milano, Pareyson, Prospettive di filosofia moderna e contemporanea,
Mursia, Milano, Recensioni: Kenosis del logos. Ragione e rivelazione
nell'ultimo Schelling, Pref. di Tilliette, Città Nuova, Roma -- recensito da:
Forte («Avvenire», Bozzo («Il Sole-24 Ore», Giordano («La Guida»,Bogo («la
masca», Pirola («La Civiltà Cattolica»); Agostini («La Stampa. Tuttolibri», Viganò
(«Informazione filosofica», Sotgiu
(«Diorama letterario», Forte («Asprenas», Tilliette («Gregorianum»,
Guglielminetti («Filosofia e teologia», Ontologia del male. L'ermeneutica di
Pareyson, Pres. Di Coda, Città Nuova, Roma), recensito da Bozzo («Il Sole-24
Ore», G. Ricci («Avvenire», Ribero («AdOvest», Sotgiu («Diorama letterario», Micelli
(«Informazione filosofica», Russo («Acta philosophica», Garelli («La Guida»,].
L'argomento ontologico. L'esistenza di Dio d’AOSTA a Schelling, Città Nuova,
Roma, recensito da: Schoepflin («Avvenire», Bo («Con-tratto», Pepino («la
Bisalta», pareysoniana, Trauben, Torino, recensito da: Garelli («La Guida», Russo («Acta
philosophica», Ciglia («Il Pensiero», Escatologia della negazione, Città Nuova,
Roma, recensito da Garelli («La Guida», F. Pepino («la Bisalta»), Schoepflin
(«Avvenire Folin («Tuttolibri»,), Nino («Dialegesthai», mondodomani. dialegesthai/)]. Pareyson. Vita,
filosofia, Morcelliana, Brescia [recensito da: Aschero («La Guida», Schoepflin («Il Giornale», Orengo («La Stampa.
Tuttolibri», Schoepflin («Avvenire», Pepino («Cuneo Provincia Granda», Russo («Acta
philosophica», O argumento ontológico. A existência de Deus de Anselmo a
Schelling, tr. port. bras. di Schirato, Paulus, Sâo Paulo Brasil, Filosofia
della montagna, Bompiani, Milano, recensito da Reale («Corriere della sera», Billò
(«Unione Monregalese», Mathieu («Il Giornale», Vasta («La Sicilia», Curi
(«Messaggero Veneto», Caveri («Peuple Valdotain»,A. Zaccuri («Letture»), Anghilante («Ousitanio Vivo», Lingua («Cuneo
Provincia Granda», Brunod («PMNet», oin pmnet), M. Schoepflin («Il Foglio» A.
Rosa («TorinoSette», A. Parodi («La Stampa), G. Pulina («Girodivite», Rigobello
(«L'Osservatore romano», ]. Come leggere Nietzsche, Bompiani, Milano, recensito
da: Schoepflin («Jesus»), Vecchio (“Diorama letterario”), Pulina («Recensioni
filosofiche»). Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao Tzu, Bompiani,
Milano, recensito da Iacona («Secolo d'Italia»), Billò («L'Unione monregalese»),
Aschero («La Guida»), Schoepflin («Giornale di Brescia»), Schoepflin
(«Avvenire», Monaco («Filosofia e teologia», Libertà di sapere. Università e
dialogo interculturale, Pref. di Reale, Bompiani, Milano recensito da Giorello («Corriere della Sera.
Magazine», Castagna («Avvenire», Iacona
(«Il Borghese», ), Torno («Corriere della Sera», *)]. Verso la città
divina. L'incantesimo della libertà in Einaudi, Città Nuova, Roma, recensito da
Chittolina («La Guida», Schoepflin] («Il Giornale di Brescia», Tarantino
(«Secolo d'Italia»); Iacona («Il Giornale d'Italia», Monaco («L'occhio», Chittolina («La Voce del
Popolo», Ranucci («Conquiste del lavoro»,
«Jesus»); Bondi («Panorama», Nuoscio («Europa», Anghilante («Ousitanio
vivo»); Festa, («»,,// ); Bartoli («Dialegesthai», 10.7.,//mondodo mani.org/dialegesthai/;
D. Monaco («Filosofia e teologia»,, 1, ];Lubrano
(«Il Nostro Tempo». Centro studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson; Studio
teologico interdiocesano di Fossano
Accademia estetica internazionale di Rapallo Istituto Tilliette Ousitanio Vivo Il Giornale La Rivista del Club alpino italiano professore.
curriculum, pubblicazioni, biografia intellettuale. Pagina docente nel sito
dell'Università degli Studi di Salerno. Francesco Tomatis. Tomatis. Keywords: paradosso.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomatis” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tomitano:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei precetti della
conversazione civile – la scuola di Padova – filosofia padovana -- filosofia
veneta -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Abstract. Keywords: i precetti della conversazione – praeceptum.
– vide praecipio. : to give rules, or precepts, to avise, admonis, warn,
inform, instruct, tech, to enjoin, direct, bird, order, etc. Il tuo contributo alla conversazione sia tale
quale e richiesto, allo stdio in cui avviene, dallo scopo o orientamnto
accettato dello scambio linguistio in cui sei impegnato. Tale principio ha la
forma di un precetto o di una regola. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Fondatore
di accademie letterarie, autore di commenti alle opere d’Aristotele – lizio --
e autore di scritti di logica, alcuni dei quali ancora inediti. Da una famiglia
originaria di Feltre, frequenta il corso di filosofia a Padova dove si laurea.
Deputato dal senato veneto a leggere l'Organon di Aristotele alla scuola di
logica di Padova. Nel periodo in cui rimane a Padova stringe amicizia, fra gli
altri, con SPERONI, BEMPO, SADOLETO, GIOVIO, NAVAGERO, FRACASTORO, e MANUZIO. Fa
parte degl’infiammati, il cui proposito è scrivere compiutamente in dialetto
veneziano. Le discussioni degl’infiammati sono alla base dei quattro libri
della lingua toscana. Scrive anche due brevi dissertazioni matematiche: il
Moisè-Geometria, la dimostrazione del teorema due rette possono avvicinarsi
all'infinito senza mai unirsi, intuito dal profeta ebreo per grazia divina, e “Introductio
cosmographiae”, lezioni di geometria a fondamento della cosmografia tolemaica.
Accusato dal S. Uffizio di eresia per la sua esposizione LETTERALE a parafrasi implicaturale
al vangelo secondo Matteo. Dimostra che quella parafrasi non è sua, ma edita a
sua insaputa da un nobile signore N., con cui è assai famigliare. Creduto e
assolto, ma da allora in poi i suoi saggi divennero alquanto conformisti.
Lascia Padova e si trasfere a Venezia. I saggi più importanti del periodo
veneziano, a parte la biografia di Baglioni, sono il “De morbo gallico” e il
carme encomiastico “Thetis” in onore di Enrico III. Altre saggi: “Introductio
ad sophisticos elenchos Aristotelis. Eiusdem brevis methodus diluendorum
paralogismorum per divisionem, praeter illa quae Aristoteles habuit in
Elenchis. Quam methodum B. Tomitanus ex dialogis Platonis et ex Aristotele nuper
invenit, adiecta sunt Famigerata veterum Sophismatum exernpla, ad exercitationem
adolescentium” (Venezia); “Ragionamenti della lingua toscana, dove si parla del
perfetto oratore e poeta volgari, dell'eccellente flosofo Tomitano, divisi in
tre libri. Nel primo libro si pruova la FILOSOFIA esser necessaria allo
acquistamento della retorica e della poetica. Nel secondo libro si ragiona dei
precetti dell'oratore. Nel terzo libro si ragiona delle leggi appartenenti al
poeta, e al bene parlare” (Venezia, Farri); Quattro libri della lingua toscana,
dove si prova la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta con due
libri nuouamente aggionti, de I PRECETTI RICHIESTI AL CONVERSARE con eloquenza”
(Padova, Pasquati); “Sonetti e Canzoni, in Rime diverse di molti eccellentiss.
autori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato” (Venezia,
Ferrarii); “Esposizione letterale del testo di Mattheo Evangelista” (Venezia);
“Sopra le Pistole di S. Paolo” (Venezia); “Moisè”; “Geometria (Mantova); Introductio
Cosmographiea (Venezia); Prediche del reverendissimo monsignor Cornelio Musso,
vescovo di Bitonto, fatte in diversi tempi, et in diversi luoghi. Nelle quali
si contengono molti santi evangelici precetti, non meno utili, che necessarij
alla interior fabrica dell'huomo cristiano. Con la tavola delle cose più
notabili in esse contenute” (Venezia, Giolito de Ferrari); “Oratione recitata
per nome de lo studio de le arti padovano ne la creatione del serenissimo
Principe di Vinetia M. Marcantonio Trivisano, Venezia, Clonicus, sive de Reginaldi
Poli laudibus, Venezia Consiglio sopra la peste di Vinetia. Al Magnifico M.
Francesco Longo del Clarissimo M. Antonio” (Padova); Corydon, sive de Venetorum
laudibus, et Carmen ad Laurentium Priolum Venetorum Principem” (Venezia, Breznicio);
“Animadversiones aliquot in primum librum Posteriorum Resolutoriorum.
Contradictionum solutiones in Aristotelis et Averrois dicta, in primum librum
Posteriorum Resolutoriorum. In novero Averrois Quaesita demonstrativa
Argumenta, Venezia, Consiglio de l'eccell. m. Bernardino Tomitano sopra la
peste di Vinetia, Padova, appresso Gratioso Perchacino, De morbo gallico, inVenezia,
Vita e fatti di Astorre Baglioni; “Quattro libri della lingua thoscana, ove si
prova la philosophia esser necessaria al perfetto oratore et poeta con due
libri nuovamenti aggionti dei precetti richiesti a lo scrivere et parlar con
eloquenza” (Padova); “Thetis”; “In adventu Regis Henrici III Galliae
Christianissimi et IV Poloniae Serenissimi ad felicissimam Venetiarum urbem,
Venezia, Ziletti). Aristotelis opera omnia cum commentariis Averrois. Animadversiones et
solutiones Et alia plura” (Venezia, Iuntas). I primi due libri sono tesi a dimostrare che la
filosofia è necessaria all'oratore e al poeta. Il terzo libro ha per argomento
i precetti della retorica necessari alla scrittura e all'oratoria. L'ultimo
libro è dedicato alla prosa d'arte ("locutione oratoria, et de' suoi
ornamenti, con la ragion de i motti, facetie et apologi"). Poppi. Ricerche
sulla teologia e la scienza nella scuola padovana” (Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana” Poppi;
“Oratione prima alli Signori de la S. Inquisitione di Venetia” (Padova); e
Oratione seconda alli signori medesimi, Venezia). Quest'opera è nominata solo
da Doni nella sua Prima Libraria, un repertorio dei libri italiani stampati. L'opera
del T., pertanto, deve essere stata scritta. È una biografia in VIII libri su
Baglioni, il capitano ucciso con Marcantonio Bragadin a Famagosta. La filosofia
rimase ignota ai contemporanei del T. ed è in gran parte ancora adesso inedita.
Ne sono stati stampati solo alcuni brani. Storia della letteratura italiana di
Tiraboschi, della compagnia di Gesù, bibliotecario del serenissimo duca di
Modena, Firenze, Molini e Landi, Dizionario critico della letteratura italiana,
Torino, POMBA, su sapere, De Agostini. Opere Aulo Greco, Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bernardino Tomitano. Tomitano. Keywords: i
precetti della conversazione civile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomitano”
– The Swimming-Pool Library. Tomitano.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tommaseo: implicatura e
ragione conversazionale dell’amorevolezza– filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Sebenico). Abstract. Keywords:
Deutero-Esperanto. Filosofo italiano. Sebenico, Croazia. Al dibattito sulla
lingua filosofica universale partecipa T. con il suo Nuovo dizionario dei
sinonimi della lingua italiana. T. muore a Firenze. Scrittore e lessicografo
italiano, è intimo amico di MANZONI (si veda). Consegue la laurea a Padova per
poi tornare nel paese d'origine e iniziare la sua carriera di scrittore. Vive a
Firenze, Parigi, Nantes, Venezia, e Torino. Tra le tante opere, da alle stampe
il dizionario de' sinonimi della lingua italiana nel e il Dizionario della
lingua italiana. Nelle prime pagine dell'introduzione, ragionando sul senso
delle parole – cf. Grice, the meaning of a word --, asserisce che è utile
ordinare le parole in un dizionario dei sinonimi secondo l'ordine delle IDEE (Duden)
che essi conteneno, di modo che ogni termine si trova accanto ad uno che
esprime un concetto simile o che deriva dalla stessa idea. Un dizionario dei
sinonimi filosofico, in cui spiega che tutte queste voci si possono numerare; e
puo il medesimo numero rappresentare la voce corrispondente in tutte le lingue --
assegnando alle voci che corrispondente non hanno un segno di frazione o un
segno composto --; il qual numero da ciascun lettore è tradotto nella lingua
propria: e se ne ha una lingua universale di cifre, comoda assai [T., Nuovo
dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Firenze, presso Vieuusseux] e
grazie al quale, dati i seguenti numeri e le corrispondenti idee. Desiderio e
odio; Desiderio solo; Desiderio invincibile di natura; Intellettuale; De'
bruti; Turpe; Desiderio del bene altrui; Del bene de' nemici; Desiderio
abituale; Vivo; Men vivo; Interno; Significato di fuori; Di minore a maggiore;
Di maggiore a minore - potremmo esprimere il concetto di 'amorevolezza' tramite
i numeri 2, 7, 11, 13, 15, essendo questa segno di desiderio non vivo, del bene
altrui, e per lo più di maggiore a minore. Un progetto di lingua universale che
non ha quindi un sistema fonico utile alla comunicazione parlata, ma resta
espresso soltanto in forma scritta. Sebbene possa sembrare un sistema piuttosto
preciso, comporta l'uso costante di un vocabolario, vista la difficoltà con la
quale qualsiasi essere umano impara una tale mole di numeri e idee
corrispondenti. Grice:
“We spent a whole term crossing dots on pieces of paper. Austin called it SYMBOLO.” Niccolò Tommaseo. Tommaseo. Keywords:
lingua universale, lingua filosofica, il Deutero-Esperanto di Grice – analisi
di ‘amorevolezza.’ Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tommaseo” – Tommaseo.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia,
Grice e Toritto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale contro
il lizio – scuola di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia
italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Napoli). Abstract.
Keywords. Lizio. Costituzione come concetto analogo Joachim. Soveranita. Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Grice: “I like Caravita; Locke – England’s, and Oxford’s, greatest
philosopher, had his sponsor, and so does Italy’s – not Bologna’s – Vico, and
he was Caravita!”. Appartenente a una famiglia nobile resa illustre in
passato da insigni giureconsulti. Fiscale consigliere della reale
Giurisdizione. Insegna a Napoli. Compone il saggio: “Nullum ius romani
pontificis in regnum neapolitanum” contro le pretese feudali dal papa sul regno
di Napoli – “Niun diritto compete al sommo pontefice sul regno di Napoli:
dissertazione istorico-legale illustrate con varie note” (Aletopoli, Napoli), messa
all'Indice. Ha inoltre l'incarico di raccogliere tutte le leggi del regno in un
codice Filippino. Il Codice Filippino, e tuttavia rimasto incompiuto per
l'occupazione austriaca di Napoli. In filosofia e seguace
dell'anti-aristotelismo di CAPUA (si veda). La sua abitazione divenne il centro
della diffusione della filosofia di Cartesio a Napoli. Titolo di merito di
Caravita, come peraltro del figlio Domenico, è l'essere stato amico e
protettore di VICO (si veda), a favore del quale si adopera per fargli ottenere
la cattedra di retorica e perché e accolto nell'Accademia palatina. Altri saggi: “Ragioni a pro della fedelissima
città e Regno di Napoli contr'al procedimento straordinario nelle cause del
Sant'Officio, divisate in tre capi. Nel I si ragiona del grave pregiudicio
della real giuridizione. Nel II si tratta dell'ordinaria maniera di giudicio,
che tener si dee nel regno, e nel III si dimostra il pregiudicio, che fa alla
real giuridizione, ed al regno un editto in cui si stabilisce il tribunal della
'nquisizione. Napoli. Dizionario biografico degli italiani. Ma l’ anti-marinismo
ha anche, secondo la moda del tempo, il suo salotto nel palazzo Torittom nel
quartiere dei Vergini. Quivi, più che nell’accademia. Armellini, Bibliotheca benedictino-casinensis.
Stefano, Raccolti da don Nicolò Caravita. Napoli, Roselli,
ed. Caravita was an Arcadian. Tiberius by Filippo Anastasio, Caligula, and
Claudius by Paolo DORIA. The second volume continues the biographical model
with essays dedicated to individual emperors. Nicolò Caravita. Niccola
Caravita Nicola Caravita. Nicola Caravita dei duchi di Toritto. Caravita-Toritto.
Toritto. Keywords. impiegatura da salotto, diritto, anti-popism – il laico --,
anti-aristotele, contro Aristotele, concetto assolutista di sovereignty contro
Aquino, quartiere dei Vergini – Capua. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caravita” – The Swimming-Pool Library. Toritto.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Torlonia:
la ragione conversazionale, e l’implicatura conversazionale del natale di Roma –
filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. logically developing series amicus, philos, alter
ego. Joachim. Filosofo italiano. Roma.
Figlio del duca Marino, appartene a una delle più facoltose famiglie nobiliari
romane. Il padre, duca di Poli e di Guadagnolo, e titolare del feudo di
Bracciano e vive a Roma nel palazzo Torlonia, in via Bocca di Leone. Sposa la figlia
di Bartolomeo Ruspoli e nipote del III principe di Cerveteri Francesco. Dal
loro matrimonio nacque Clemente. Nannarelli, amico intimo e su biografo così lo
descrive. I capelli castani, abbondanti e finissimi, il pallore e la gracilità
del volto. Ma se la fronte è di filosofo, l'occhio e d'artista, o meglio, di
contemplatore. Svelto nella persona, di eccellente statura, incede frettoloso a
testa alta e pensierosa. Si esprime con eleganza in francese e tedesco. Spirito
avido di conoscenze, e attratto dalla chimica e dalla botanica. Nelle sue
passeggiate nella campagna romana raccoglie e cataloga piante e fiori.
Appassionato di archeologia, colleziona monete di epoca romana e trascrive
antiche iscrizioni. Socio della Pontificia accademia di archeologia, pronuncia
un discorso in occasione del natale di Roma. Religioso fervente, è introdotto
da Passaglia allo studio della patrologia e delle sacre scritture. La famiglia
lo tollera, ma lo considera visionario e innovatore pericoloso. Da Platone e da
Plotino, approde a Kant e Fichte. Gli torna in contemplazione entusiastica, gli
si face poesia. E in contatto con un gruppo di filosofi, suoi coetanei, oggi
identificati come i filosofi della scuola romana che di sera si ritrovano al Caffè
Nuovo, a Piazza S. Lorenzo in Lucina. Novello mecenate, ha raccolto intorno a
sé questo gruppo di filosofi spinti dal comune ideale di ricondurre la
filosofia agl’antichi splendori di Roma. Tra questi, ci sono GNOLI, CIAMPI,
MACCARI, e NANNARELLI. Vuole riuniti idealisti e classicisti, nella fiducia
che, temperata la nebulosità metafisica degl’uni e la gretta sensibilità degl’altri,
e prendendo il meglio d'ambedue le scuole, puo scaturire a grado a grado una
filosofia italiana, profonda e intima d'idea e di sentimento, nitida, elegante
di forma. Scrive sulla filosofia dell’amore platonico, sui fiori, sulla
contemplazione del divino. Ama Schiller, Goethe, Lenau, e LEOPARDI (si veda).
Declama Aligheri (si veda) e Tasso (si veda). Il suo saggio meritata le lodi di
Gregorovius. Suoi saggi apparvero nella raccolta “I fiori della campagna romana,”
stampata a Firenze e nella “Strenna romana. Costa, Trebbiatura nella campagna
Romana, A Monte Mario, nei casali Mellini, sotto l'osservatorio astronomico,
apre a sue spese una scuola rurale elementare. Straordinario precursore della
alfabetizzazione delle classi povere, cre una associazione promotrice delle
scuole di campagna. A questa scuola rurale dedica un elogio in latino. Nannarelli
accorse al suo capezzale. Lo ude recitare il Salmo 41 e versi di Lenau; e
Platone, e Fichte. Raccomanda alla moglie di mandare il figlio Clemente al collegio
di marina di Genova. Nannarelli tenta di raccogliere intorno a sé i poeti e
filosofi della scuola romana che furono decimati nel numero, per le morti
precocima si trasfere a Milano. Secondo le ferree disposizioni ricevute da T.,
il suo cameriere distrugge tutte le carte dell'archivio personale. GNOLI
conserva i manoscritti di tre saggi di T., inedite. Negro, Seconda Roma,
Vicenza, Pozza, Gnoli, op. cit. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia. Gnoli, “I
poeti e filosofi della scuola romana” (Bari, Laterza); Nannarelli, “T.” (Firenze,
Le Monnier); Cugnoni, Vita di T.” (Velletri,
Cella); Ulivi, “I poeti e filosofi della scuola somana” (Bologna, Cappelli). Giovanni
Torlonia. Torlonia. Keywords: il natale di Roma, la filosofia dell’amore di
Platone in Fichte e Leopardi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Torlonia” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Torquato: la ragione
conversazionale dell’orto a Roma e l’implicatura conversazionale – filosofia
italiana – Grice italo—By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. Roma antica, orto, de
finibus. G. R. I. C. E. Intentions, Categories, Ends. Causa Finalis – Causa di
fine. De Finibus. Filosofo
italiano. L’Orto. Chosen by CICERONE to represent L’Orto in “De finibus”. Whether
fairly or not, his understanding of the ‘Orto’ is portrayed as somewhat crude
and superficial. He was killed during the civil war. De finibus bonorum
et malorum Pagina di manoscritto con incipit dell'opera Autore Marco Tullio Cicerone 1ª ed. Originale 45 a.C. Editio princeps Colonia,
circa 1470 Genere trattato Sottogenere filosofia Lingua originale latino
Modifica dati su Wikidata · Manuale Il De finibus bonorum et malorum ("Il
sommo bene e il sommo male") è un dialogo filosofico in cinque libri
scritto da Marco Tullio Cicerone che si pone il problema di cosa sia il sommo
bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea
che, rispettivamente, lo identificavano nella virtù e nel piacere.
Struttura e contenuto dell'opera[modifica | modifica wikitesto] L'opera è
costituita da due dialoghi. Il primo dialogo (libri I e II) si svolge nella
villa di Cicerone a Cuma, ad esso prendono parte Cicerone e due suoi giovani
amici, Lucio Manlio Torquato e Gaio Valerio Triario. Torquato, figlio
dell'omonimo console del 65 a.C., era stato eletto pretore per l'anno seguente;
poiché egli rivestì tale incarico nel 49 a.C., la data fittizia in cui il
dialogo è ambientato è il 50 a.C. Il tema del dialogo è la dottrina
morale epicurea, condensata nella proposizione «il sommo bene consiste nel
piacere» di cui Torquato si fa sostenitore e Cicerone contraddittore. Torquato
afferma infatti che il piacere sia il fine verso cui l'uomo naturalmente tende
e che la felicità consista nel piacere nella misura in cui esso non è mero e
fugace godimento dei sensi, bensì condizione stabile di serenità e di assenza
di dolore fisico. Secondo Cicerone, invece, Epicuro cadrebbe in
contraddizione nel momento in cui sembra affermare che piacere ed assenza di
dolore fisico coincidono. Agli occhi di Cicerone, la stessa definizione
epicurea di piacere sarebbe ambigua in quanto duplice: talvolta esso è inteso
come soddisfacimento immediato dei sensi (piacere in movimento), talvolta come
mancanza duratura di ogni dolore (piacere stabile), e solo nella seconda
accezione esso coinciderebbe col sommo bene. Secondo Cicerone, se il
sommo bene coincidesse con il piacere e non con la ragione, allora potrebbe
darsi il caso di un sapiente infelice, dato che il dolore è inevitabile.
Cicerone argomenta che l'uomo è nato con aspirazioni più elevate rispetto al
mero piacere e che dunque, in accordo con la propria natura, egli cerca il
sommo bene in qualcosa di superiore. Prova di ciò sono i numerosi esempi di
individui virtuosi che la storia romana offre, i quali hanno preferito
perseguire la virtù anche se questo ha portato loro a gravi sacrifici, in
alcuni casi addirittura alla morte. Tra gli individui esemplari citati da
Cicerone vi sono Marco Attilio Regolo che, sconfitto dai Cartaginesi, convinse
il senato a non trattare in suo favore, andando incontro a terribili supplizi,
e Lucrezia, che si sarebbe suicidata dopo essere stata violentata da Sesto
Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo (secondo la leggenda Giunio Bruto usò
il suo pugnale per guidare la rivolta contro la dominazione dei re etruschi e
venne così instaurata la repubblica). Alcuni dei momenti fondamentali
dell'argomentare di Cicerone sono quelli in cui egli «rileva l'inevitabile
dualismo fra prassi e teoria che mette l'Epicureo nella sconcertante posizione
di aver convinzioni personali di cui non può essere assertore nella vita
pubblica»[1], cosa assolutamente inammissibile per la mentalità ciceroniana e
romana in genere secondo cui in un buon cittadino romano pensiero e pratica di
vita devono coincidere totalmente. Il libro III espone il dialogo tra
Cicerone e Marco Porcio Catone Uticense in merito alla questione sul sommo
bene. L'attore principale è Catone, il quale descrive i punti principali
della gnoseologia stoica di Zenone di Cizio. Catone identifica come “sommo
bene” la possibilità di esercitare la facoltà della ragione. L'allontanamento
di ogni ostilità/dolore è giustificato per via di uno “spirito di
conservazione” del soggetto. La facoltà della ragione si esplica mediante
la partecipazione consapevole del soggetto nell'esperienza. Perciò la
rappresentazione catalettica, basata sull'Assenso, manifesta un preciso
interesse del soggetto e tende oltre la semplice sensazione. Secondo
Catone, quindi, il sommo bene coincide con un atto di onestà nei confronti di
«ciò che è conforme a natura», alla legge naturale: un assenso all'esperienza.
Catone polemizza contro le dottrine etiche dei Peripatetici. Aristotele confuse
ciò che intendiamo per “cose preferite” con il “sommo bene”: la felicità come
attività contemplativa del sapiente. Secondo Catone, invece, il sapiente
esercita l'onestà come adempimento di un «dovere» indicato dalla natura nella
percezione: qualcosa che di per sé non si può intendere né come bene né come
male; né come virtù né come vizio. Il capitolo si chiude con un elogio
alla figura del sapiente ricordando tre esempi negativi per la storia di Roma:
Tarquinio il Superbo, il quale pensò ai propri interessi cercando ripetutamente
il conflitto contro la nascente Repubblica; il dittatore Lucio Cornelio Silla
sconvolse la politica di Roma con il lusso, l'avidità e la crudeltà delle
stragi civili; Marco Licinio Crasso oltrepassò l'Eufrate nella Battaglia di
Carre del 53 a.C. “senza alcun motivo”. Il libro IV espone le principali
obiezioni di Cicerone alla dottrina stoica. Secondo Cicerone, Catone ha operato
un “mutamento dei principi naturali” e ha complicato la terminologia della
filosofia allontanandola dalla realtà. Mentre Catone ha subordinato la
conoscenza alle virtù che appartengono alla struttura umana, Cicerone
stabilisce un rapporto tra l’esperienza e la conoscenza: le virtù sono “in
divenire”, ricercate e acquisite. Il rischio più alto che si nasconde dietro il
pensiero di Catone è il pericolo di cadere in errori di valutazione e ambiguità
che giustificano le azioni umane in base al grado di onestà “sentita”, ad
esempio: Livio Druso può essere ritenuto “onesto” al pari di Gaio Gracco,
oppure possiamo affermare che Tiberio Gracco ha agito negli interessi dello
stato come suo padre. Cicerone non accetta queste tesi; secondo lui, Tiberio ha
lavorato per “abbattere” Roma. Inoltre, Cicerone critica lo stoicismo in
quanto ha “dimenticato” la nozione di “dovere” e, prima ancora, “tutto ciò che
non rientra in nostro potere”. [...] avete improvvisamente abbandonato il
corpo e tutto ciò che, pur essendo conforme a natura, non rientra in nostro
potere, insomma il dovere stesso. La nozione di “bene secondo natura” non
considera una sola componente della vita, bensì assume la “cura” e la
protezione dell'intero organismo. […] ogni natura ha premurosa cura di se
stessa. Quale vi è infatti che abbandoni mai se stessa o una qualche parte di
se stessa o la proprietà o l'essenza di tale parte o il movimento o lo stato di
alcune di quelle cose che sono conformi a natura? È importante
sottolineare la relazione esistente tra etica e teoria della conoscenza. La
visione “organica” dell'etica ciceroniana non prende in considerazione un
aspetto dell'esistenza, ma è espressione della "postura" dell'io
all'intero “corpo” della civitas e delle esigenze fondamentali della vita: la
cura per la salute, la cura per la famiglia, la partecipazione alla vita
politica, i doveri della vita. Per far ciò, l'unica alternativa consiste
nell'abbandonare l'attaccamento ad una idea autoreferenziale di sé, e del
concetto stoico "natura" espresso da Catone, per "aprire"
lo sguardo verso i bisogni e le esigenze concrete della res publica.
Analisi[modifica | modifica wikitesto] Cicerone operò una distinzione fra
personalità epicuree e l'istituzione da esse animata[2], e qualificò gli
Epicurei come uomini degni, pieni di onestà, integrità e generosità, ma
incoerenti promotori di una dottrina "peggiore di loro", segnata dal
rigetto della struttura logico-dialettica propria della migliore filosofia
greca e da un disinteresse antididattico rispetto ad un'organizzazione
sistematica delle idee e delle disputatio. Ciò avrebbe generato formulazioni
ambigue e scarne, che l'avrebbero resa il sistema filosofico più semplice da trattare
e comprensibile da un profano[2], almeno nel suo quadro di fondo.
Note[modifica | modifica wikitesto] ^ Nino Marinone, Introduzione, in Cicerone,
I termini estremi del bene e del male, a cura di Nino Marinone, Unione
tipografico-editrice torinese, Torino 1976, pagg.19-20. ^ Salta a:a b (EN) Brad Inwood,
Rhetorica Disputatio: The strategy of de Finibus II, in Apeiron: A Journal for
Ancient Philosophy and Science, vol. 23, n. 4, Dicembre 1990, p. 143, JSTOR
i40040803. URL consultato il 2
febbraio 2019 (archiviato il 2 febbraio 2019). Bibliografia[modifica | modifica
wikitesto] M. Tullio Cicero, De finibus bonorum et malorum, traduzione di
Antonio Selem, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962. Voci correlate[modifica |
modifica wikitesto] Lorem ipsum. Da quest'opera deriva infatti il famoso testo
riempitivo utilizzato in tipografia (cartacea ed elettronica) per realizzare
bozzetti e prove grafiche. Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]
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bonorum et malorum nel sito ufficiale della Società Internazionale degli Amici
di Cicerone mostra V · D · M Marco Tullio Cicerone Controllo di autorità VIAF
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del I secolo a.C.Opere filosofiche di Cicerone[altre]Lucio Manlio Torquato. Keywords: Roma antica, orto, De
finibus. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Torre: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della stravaganza – scuola di Forlì -- filosofia romagnese -- filosofia
italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Forlì). Abstract.
Keyword. stravaganza, lizio. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forli,
Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Grice: “I like Torre; his
epitaph reads, ‘nuovo Aristotele,’ which is what it was! – “Ackrill’s just
reads, ‘Aristotelian’!” There is a nice ‘via’ in Forlì after him that leads to
the varsity! He was a Galen, and philosophised on both the soul and the body!” La sua fama se deve al
commentario alla “Ars parva” di Galeno -- è noto, in particolare, per i suoi
studi di embriologia. Infatti, dopo il recupero di Aristotele, del Lizio, le
cui opere avevano spinto verso un rinnovato interesse per l'osservazione
diretta, si è avviato un dibattito tra i sostenitori dell'autorevolezza degli
studi antichi e i fautori dell'empiria. Questo processo si conclude proprio con
T., che cerca di conciliare l'embriologia aristotelica con la fisiologia
galenica. Mostra che le differenze esistenti sono di scarsa rilevanza nei
confronti della medicina pratica. Insegna a Padova. Saggi: “Explicit questio de
intensione et remissione formarum secundum famosissimum artium et medicine
doctorem magistrum Jacobum de Forlivio qui pridie ab hac vita ad superiora
migravit. Scripta vero per me fratrem Bellinum de Padua.” Si tratta della
conclusione del celebre “De intensione et remissione formarum”. Saggi: “De
intensione et remissione formarum”; “Expositio in Avicennae aureum capitulum de
generatione embryi ac de extensione graduum formatione foetus in utero in
Aphorismos Hippocratis Expositio Physica;” “Quaestiones extra-vagantes Super, Tegni
Galeni. Vescovini, Medicina e filosofia a Padova, Arti e filosofia. Studi sulla
tradizione aristotelica del lizio e i "moderni", Vallecchi, Firenze. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Super aphorismos Iacobi Foroliuiensis in
Hippocratis Aphorismos et Galeni. Jacopo da Forlì. Giacomo da Forlì. Iacobus
Foroliviensis. Jacopo della Torre. Giacomo della Torre. Torre. Keywords:
stravaganza, lizio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Torre” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trabalza:
grammatica razionale ed implicatura conversazionale – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
italiano. Grice: “Russell always made fun of our stone-age metaphysics.
Physics, strictly. Ad there’s nothing funny about it, if we think of SYNTACTIC
CATEGORIES as reflecting ONTOLOGICAL CATEGORIES – something that goes beyond
Baron Russell’s mathematically-washed brain!” CIRO T. STORIA DELLA
GRAMMATICA ITALIANA, Hoepli, EDITORE E LIBRAIO DELLA REAL CASA, IllM, MILANO. SEEf
PF;icrWICES Imwmkm Milano, Allegretti, Via Orti. A CROCE. L'idea del saggio, affacciatalisi alla mente di T. or sono
parecchi anni nella conoscenza che fa degli studi grammaticali di SANCTIS (si
veda), si rafferma quando appare l’estetica di CROCE (si veda), che,
avvalorandomela, l’offre insieme un
criterio direttivo per metterla in atto. E ora puo ben dichiarare che, se un
vasto materiale, tenuto sin qui in poco o
nessun conto o male utilizzato pella storia della filosofia, puo acquistare
un prezzo e servire a una costruzione, ciò è
stato principalmente in virtù
di quell'organico SISTEMA FILOSOFICO, della cui verità e fecondità esso vuole essere a sua volta una conferma. Per tale stretta dipendenza,
oltre che per omaggio di riverente e affettuosa gratitudine, il saggio di T.
porta in fronte il nome illustre e caro di CROCE (si veda). Il principio idealistico,
propugnato con tanta lucidità e originalità da CROCE (si veda) nell'ESTETICA – nel senso medievale di
SENSIBILIA, cioe, psicologia RAZIONALE -- e nella logica, guadagna
moltissimi filosofi e suscita un
salutare e assai palese rinnovamento negli
studi filosofici, così che le pagine
di T. hanno la fortuna di trovare dinanzi a sé un terreno in gran parte sgombro
di vecchi pregiudizi teorici sull’arte, sulla letteratura e sulla LINGUA
ITALIANA; ma, avutoriguardo al vario e largo pubblico cui si rivolgono, non
sognano neppure di passare senza discussioni. Qui l'estetica generale non
soltanto è applicata in tutto il suo rigore allo studio dello svolgimento della
GRAMMATICA (strettamente, letteratura), all'interpretazione cioè d'un movimento
filosofico che, alimentandosi e insieme
ponendosi al servizio della creazione artistica, si volge con isforzi più o
meno consci verso la vita della scienza. Ma, per mezzo appunto e in aiuto di
codesta interpretazione, è portata necessariamente a sperimentarsi e farsi
valere nella critica di tanti concetti e teoriche e problemi particolari della
LINGUA ITALIANA, stilistica e storia, che i motivi e l’occasioni del dissenso
da parte di chi non l'abbia familiare, saranno
frequenti quanto inevitabili. Ma il dissenso è tutt'altro che
temibile: è da sperare, invece, che qualcuno ne sia spinto a rendersi ragione
d'un principio di cui ha pur dovuto avvertire la efficacia nella dichiarazione
e valutazione di tanti fatti e fenomeni. D’altra parte, chi non sente
d'approvare l’idee che qui si sostengono, non potrà, suo auguro, disconoscere
l'utilità de'ragguagli che il saggio porge su di un complesso non trascurabile
d’opere e di questioni. Circa il modo poi ond'è stato raccolto e ordinato
codesto vario materiale, T. crede quasi superfluo il far notare che, senza
contravvenire ai canoni più rispettati dell'indagine erudita, esso ha dovuto
soggiacere soprattutto al criterio della scelta e della maggiore o minore considerazione, che logicamente
s'impone a chi fa storia d' idee. Onde non desterà maraviglia che a volte ci
siamo indugiati di più su documenti, che ad altra stregua non solo sarebbero
giudicati di diversa importanza e con diverso metodo, ma che parrebbero esser
fuori della cerchia stessa del nostro tema. Li sia lecito, infine, in questa
pagina dove un gentile costume ha trovato sempre un posto anche agl’affetti
che s'accompagnano per fortuna alle
nostre fatiche, esprimere i suoi ringraziamenti migliori ai carissimi amici il
conte ANSIDEI (si veda) e BRIGANTI (si
veda), suo coadiutore, della Comunale di Perugia, all'ottimo cav. Avetta e a tutti i suoi egregi
ufficiali dell' Universitaria di Padova,
che facilitano con ogni maniera di cortesia
e di dottrina le modeste ma non
sempre agevoli ricerche, a cui, in queste due care città più lungamente che
altrove, li è gradito l'attendere, e a VALCANOVER (si veda), studente di
lettere, che volle con ingegno e disinteresse aiutarmi nella compilazione
dell'indice e dei sommari. Padova. Una STORIA
DELLA GRAMMATICA ITALIANA è un lavoro
relativamente facile per chi
ha fede nella grammatica. Si muove d’un tipo, che si reputa
RAZIONALE, di grammatica scientifica, e
s’espone la storia della grammatica della LINGUA d’Italia commisurandola a quel
tipo, cioè: rispetto ai progressi fatti nell'escogitazioni delle CATEGORIE
SINTATTICHE grammaticali; rispetto all'esattezza con cui, seguendo quelle
categorie, sono state analizzate e comprese le
forme della LINGUA d’ITALIA. Ma la cosa diventa assai più difficile per
chi non ha più quella fede semplicistica. E come averla? Della dissoluzione della grammatica
compiuta dallo spirito sono varie e tutte
evidenti le manifestazioni. Se il buon senso non manca mai di ribellarsi
contro ciò che d'arbitrario è nel concetto d'una grammatica contenente i
precetti del ben parlare, accettati a occhi chiusi dalla servile pedanteria
letteraria o scolastica. Ricordisi l'esempio tipico di tali ribellioni, il motto attribuito a Voltaire:
tanto peggio pella grammatica. Oggi, mentre codesta servilità è presso che
distrutta o se ne sta nascosta per paura del ridicolo, quella ribellione si può
dire vittoriosa. Si parli o si scriva, quanti si sentono più stretti dalla
camicia di forza della grammatica, onde
sono un tempo torturati anche i filosofi più seri? Quel penoso e un po’comico
guardarsi d’attorno per non metter il piede sui roveti e nelle falle del temuto
codice, chi lo sopporta più? La filosofia ha da travagliarsi in ben altri
problemi che non sono quelli d'un impacciarne e infecondo verbalismo. Dinanzi a
tanto turbinio di cose, al complicarsi e all'approfondirsi della vita, al
sorger perenne di tanti interessi
spirituali, qual cervello può continuare a baloccarsi colle parole, le frasi e
i costrutti di parata? Nelle CONVERSAZIONI e ne’ritrovi nei saggi il temerario
che osi rinnovare le quisquilie che tanto appassionanoi nostri nonni e alimentano
la chiacchiera delle nostre accademie, s'accorge subito di non aver più
ascoltatori o d'averli mal disposti a seguirlo: e per qualche impenitente che si pigli la briga di
fargli eco, quanti gli si stringono addosso per zittirlo! La grammatica perde
ogni importanza negl’animi di tutti, anche di coloro che non fan professione di
filosofo. Anzi, quegli stessi che l'insegnano, non mancano d'avvertire che non
colla grammatica s'impara a parlare, ma col tener vigile lo spirito
all'osservazione, all’impressioni della vita,
e che lo studio d’essa non va fatto sistematicamente, ma praticamente
sugli scrittori, che soli possono formare il gusto e l'abito del rettamente
parlare. Sicché nelle nostre scuole la grammatica è ridotta, anche se se ne
adottino i testi, a poche e saltuarie osservazioni riguardanti pello più la
forma delle voci o il reggimento degl’elementi della proposizione o del
periodo, quando le suggeriscano o l’ispirino
gl’esempi degl’autori che si leggono o gli spropositi onde s'infiorano i
componimenti, esclusi perfino i paradigmi de'nomi e de'verbi e le liste dell’eccezioni.
Ma la critica della grammatica prende ai nostri tempi forma scientifica,
innestata naturalmente nei grandi sistemi della filosofia dello spirito. Tra
questi è superfluo che T. ricordi quello che pella sua salda unità ha così profonda efficacia sullo
svolgimento della FILOSOFIA. T. intende quella di CROCE (si veda). Dalle due
attività teoretiche dello spirito, l'intuitiva e la logica, non si producono
che immagini e concetti, ch’arte e scienza: fuori di questi due, non ci sono
altri prodotti teoretici che possano costituire per sé oggetto di speculazione filosofica;
essi soli sono la realità in cui si
possa esprimere tutta l'attività nostra conoscitiva. Se dunque ci si
presentano altri fatti apparentemente diversi colla pretesa d’essere studiati
scientificamente in sede propria, noi sappiamo cpial è l'obbligo nostro:
scoperto il procedimento artificiale per cui son venuti ad assumere aspetto di
formazioni indipendenti, spogliatili delle esteriorità che danno loro apparenza
di corpi, d’organismi capaci di vita e d’evoluzione
propria, ricondurli e ridurli nella loro
essenza nuda all'una o all'altra di quelle due forme d’attività. La lingua è
tra questi il fatto che suscita le maggiori e più resistenti illusioni, perchè
con tutti gli studi ai quali si presta nel terreno empirico, descrittivo,
storico, didattico, come suono, voce, forma, costrutto, ritmo, mutamento, uso, rappresentazione,
essa, sciolta e raccolta come realtà in
grammatiche e vocabolari, finisce col crearsi un proprio dominio, farsene
assoluta padrona, e imporre autorità e rispetto e esigere un culto speciale. Ma
studiata scientificamente, ossia come realmente jA\>\>ax?.. e non come la
formiamo noi astraendo dall’oggetto reale in cui è incorporata, essa è
inseparabile dal discorso vivo, dall'opera letteraria in cui s'incarna, ed è
quell’opera stessa, quel discorso
stesso. Onde non vi ha luogo ad uno studio veramente scientifico ossia
organico e filosofico della lingua fuori
dello studio della letteratura e dell'arte. Conseguenza di ciò, la filosofia
della lingua fa tutt'uno colla filosofia dell'arte, ossia coll'estetica; la
storia della lingua fa tutt'uno colla storia della letteratura. La lingua è
sempre individualizzata, ed è quindi perpetua creazione, irriducibile a
leggi fisse. Ciò posto, la grammatica –
strettamente, letteratura -- che cos'è? Espediente didattico, privo di valore scientifico,
perchè privo di problema scientifico. E una stona della grammatica si scolora
agl’occhi dello studioso dello svolgimento della scienza e della letteratura, ed appare più che altro materia
propria non già della storia della
FILOSOFIA, ma della storia dei costumi e dell’istituzioni, legata piuttosto
alla storia dell'insegnamento che non a quella della letteratura, la filosofia e
della scienza. E com'è anti-scientifico il suo fondamento, cosi arbitrarie sono le sue CATEGORIE, variabili
da grammatico e grammatico, e variate infatti d’Aristotile del LIZIO, che ne
ammette due o tre, al hSuommattei, che n
ammi. se dodici, a noi moderni che siamo tornati alle nove tradizionali:
variabili ancora, naturalmente, da lingua a lingua, potendo accadere ch’appaiano
in esse alcune delle pretese parti del discorso che non appaiono (CROCE (si
veda), Estetica, Palermo; e in La
Critica, per i rapporti tra grammatica e logicai, e] Vossler, Positivismus und Ideatisuius
in der Sprachiwssenschaft, Heidelberg. Anche
prima di PRISCIANO se ne sono già elaborate tredici o quattordici in altre. Chi
direbbe che qualche lingua s'è scoperta mancante del verbo, nientemeno la
categoria del moto e dell'azione e dell'esistenza, che tutti i grammatici filosofici
ritengono appunto la parte principale del discorso, la colonna che sostiene
tutta la proposizione? Le categorie
grammaticali sorgeno dal bisogno di comprendere e spiegare la
relazione intercedente tra gl’elementi della lingua e gl’elementi del pensiero,
il rapporto tra i segni e le cose: sorgeno insomma, non si può disconoscere,
dal bisogno di sciogliere un problema scientifico che la coscienza avverte; ma,
non conquistato ancora il problema della conoscenza nel suo duplice aspetto d’intuizione e intelletto, e ridotta l'attività dello
spirito alla sola forma logica, è naturale che i prodotti di questa attività
apparissero d'una sola natura, e tanto gl’estetici quanto i logici si
cercassero di spiegare coll'unico principio logico: e ne deriva l'annullamento
dell'espressione: questa, che è il prodotto dell'elaborazione fantastica, è
sottoposta a un'elaborazione logica, sicché, distrutta l'espressione dividendola ne'suoi pretesi elementi, su
ciascuno di questi si foggia una categoria: si
hanno così tante astrazioni particolari, e a ciascuna è attribuita una
funzione espressiva: ricavati i concetti di moto o azione, d’ente o di materia,
se ne fecero le categorie di verbo e di nome, e si crede d'aver trovata l'espressione
del moto e dell'ente, cioè la formula con cui esprimerli. Ora l'errore scientifico è appunto non nel lecito trapasso
dall'estetico al logico, ma in questo ripassare dal logico all'estetico, nel
dare all'astrazione funzione espressiva, nel ridurre a norma, a legge ciò ch’è semplice
conseguenza d'un’elaborazione arbitraria sì, ma consentita dalla pratica
esigenza di raggruppare sotto determinati concetti determinate parole. M’una
volta ottenuti questi raggruppamenti, è facile
avvertirne l'utile pel rispetto
didattico dell'apprendimenti della lingua d’ITALIA, ossia de'cosidetti
mezzi d'espressione. E le categorie Iinduistiche si mantennero anrhp contro la
loro inconsistenza scientifica, a soddisfare a giella--pratica esigenza nioltiplicate e suddivise secondo i
vari punti di vista didattici, e è prevedibile ch’almeno entro certi limiti si
manterranno, s'intende per quel mèdesimo scopo: e si manterranno anche l’altre
parti della grammatica, fonologia, sintassi, metrica, ecc., sorte analogamente,
perchè anch'esse potranno aiutare l'apprendimento della lingua d’ITALIA, la
raccolta del materiale da ri-elaborare nell’espressioni. Assolutamente
necessarie il mantenerle, in fondo, non
sarebbe\ perchè a fornirci del materiale linguistico, può bastare ascoltare chi parla, cioè a dire, studiare il
discorso vivo, realmente parlato, senza tagliuzzarlo; ma, certo, alcuni
raggruppamenti, specie delle forme flessive, di famiglie di vocaboli, di
particelle relative, nonché avvertimenti sull'uso e i nessi delle parti del
discorso, saranno sempre utili rome aiuti alla memoria, e più, s'intende, pelle lingue straniere che pella materna. Lo studio
degli schemi grammaticali in tutta la
loro esuberanza e varietà è dubbio che possa riuscire al proposito molto
fecondo. I limiti qui sono segnati dalla pratica dell'insegnamento e dai
bisogni individuali degl’auto-didatti. Ma nei libri dei grammatici non v'è solo questo contenuto didattico, solo
escogitazione d’espedienti, solo metodo. Tentativi, spesso vani, di razionalizzare
l’empiriche distinzioni; crubbi, spesso
generatori d’affermazioni e intuizioni ragionevoli; confessioni spesso ingenue,
e pure importanti come prove di stati di coscienza ch’hanno disposto alla
scienza, se la tradizione non avesse così fortemente prepotuto; contradizioni
che sarebbero state preziose, ove fossero state in tempo avvertite; ribellioni
improvvise e reazioni a regole state generalmente accettate, questi e
altrettanti documenti di progresso non mancano quasi mai anche in grammatici
inerti, ripetitori di travamenti altrui. Insomma, nei libri de’grammatici
appare una linea di progresso sui generis, il
jDrogTgssxi cibila, dissoluzione, il progresso della morte. E sotto
questo riguardo ognun vede quale e quanta importanza acquisti subito lo studio
d’essi, e come un tale studio ri-entri
nel dominio diretto della storia del pensiero e dell'arte. Si tratta di vedere
come dalla grammatica empirica si passa alla grammatica filosofica e da questa
all’estetica. È il medesimo interesse, la medesima portata ch’offre la storia
della poetica. Che cos'è questa storia? È la descrizione di quel caratteristico
processo per cui la dottrina umanistica
dell'imitazione, quale è plasmata dal rinascimento
italiano sulla poetica rediviva d’Aristotile nel LIZIO cristallizzata in regole
dogmatiche, è dal classicismo italiano, gallo, britannico, riguardata prima
sotto il rispetto dell'ingegno, poi di ragione, in fine di gusto, fino alla
conquista romantica del principio critico dell'immaginazione creativa, ossia la
storia d'una codificazione poetica completa e del suo progressivo e totale disfacimento. Poetica e grammatica,
disfacendosi dopo la loro evoluzione, mettono capo egualmente, toccando a lor
volta e ciascuna ne'propri limiti e gradi l'attività critica concreta e la
letteratura stessa, alla filosofia dell'arte, all'estetica. Da questo punto di
vista par che concepisse SANCTIS (si veda) una STORIA DELLA GRAMMATICA
RAZIONALE, a giudicar dai tentativi che
compì in proposito quando s'è dato con vero fervore agli studi grammaticali, e
dal disegno d'una grammatica filosofica intorno a cui si travaglia senza venirne
a capo pella difficoltà che ne presenta l'esecuzione e la sua stess preparazione
filosofica. Svolgendo, esercitando e scaltrendo il pronto e vivace intelletto,
disposto da natura a ripiegarsi su stesso, nelle varie correnti
filosofiche predominanti al suo tempo,
nelle larghe e intense letture di grammatici, nella pratica dell'insegnamento e
nella scuola di Puoti di cui è insieme collaboratore, non tarda a ribellarsi
alla grammatica tradizionale e ad accorgersi che in questo campo è tutto d’innovare.
Con quello della grammatica che viene trattando, concepì l'ardito disegno d’una
storia delle forme grammaticali rifacendosi
dall'antichità; ma pella sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose
orientali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce
a tracciare una storia dei grammatici da lui letti, criticando dapprima quelli
che tutto derivavano dalla lingua del LAZIO, poi gli studiosi della lingua, copiosi
di regole e d'esempi, poi i galli, la cui grammatica ragionata non lo
soddisface che a mezzo, perchè sente che
quel ragionare la grammatica non è ancora
la scienza. Che egli intuisse già che la risoluzione del tormentoso problema è
nell'identificazione del FATTO della lingua coll fatto estetico, appare
chiaramente da questa esplicita dichiarazione. Sostene che quella de-composizione
di amo in sono amante l'incadavera la parola, Spingarn, La critica letteraria
nel rinascimento, Bari. SANCTIS (si veda),
frammento autobiografico, pubbl. da P.
Yn.i.AKi, Napoli; Scritti inediti
o rari, pubbl. cur. CROCE (si veda), Napoli; e, sopratutto, i saggi nei saggi
critici, Napoli, col titolo “Frammenti
di scuola.” sottrae tutto quel moto che le viene dalla volontà in atto. Si senteno
quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeno in tutta buona fede
quell'uno che dove oscurare i galli e
irradiare l'Italia d’una altra scienza. E in verità in sostene che la
grammatica non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove
essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche
ragionate e filosofiche, è per lui ancora di là da venire. Non par dubbio che,
se SANCTIS (si veda) avesse ripreso quel suo disegno di storia della grammatica, l' avrebbe condotto dal punto di
vista della critica, donde è condotto il saggio di T. Dato questo punto di
vista è certo desiderabile fare, anziché la storia della grammatica della
lingua d’ITALIA, quella della grammatica in genere, appunto secondo il disegno di
SANCTIS [si veda]; e in Italia stessa, anziché limitarsi alla grammatica della
lingua d’ITALIA, estendersi anche alle
costruzioni di grammatiche della LINGUA DEL LAZIO; e sarebbe stato anche bene
congiungerla collo studio delle speculazioni sulla lingua, delle controversie
intorno alla lingua ecc. Ma, senza dire che ciò abbiamo cercato di fare in
parte, sempre quando il legame tra le dottrine grammaticali in genere, quelle
costruzioni italiane e straniere e quello
studio e le grammatiche da noi
esaminate è strettissimo, essendo questo imprescindibile obbligo nostro
di storici, a quel fine il materiale è vasto e ingrato, sì d’averci costretti
per ora a studiare il solo svolgimento della grammatica della LINGUA D’ITALIA,
la quale peraltro, non che riflettere in sé quasi con pienezza il procedimento
di quella più ampia formazione, ce n’illustra la fase più interessante per noi,
quella dello sfacimento, quella cioè della grammatica volgare, e di questa
l'aspetto ancor più caratteristico, l'italiano. Poiché, mentre la grammatica,
delle lingue classiche, sebbene connessa anch'essa a un sistema di dottrine
poetiche, quello dell'antichità, e sbocciata da discussioni e per fini d'ordine
logico, conserva pur sempre il suo carattere d’espediente didattico e ermeneutico
pell'apprendimento della lingua e pella
interpretazione degli scrittori, per cui, non è sorta, m’erasi
venuta formando e l'avevano infine
sistemata gl’alessandrini non senza ammirevoli tentativi di spiegarne
filosoficamente le categorie, anche quando pretese concorrere alla formazione
del perfetto oratore, come è specialmente presso i Romani; la grammatica
volgare, non solo, perchè, nata col canone
dell'imitazione de'classici e strettamente congiunta colla poetica della
rinascenza, che dove per suo fatale svolgimento soggiacere a quel progresso di dissoluzione, ci permette
di seguire un identico procedimento, tenendoci sempre in terreno scientifico
per accompagnarci fino alle porte della scienza, ma, essendosi sviluppata quasi
in compagnia e nel seno stesso delle letterature nel periodo del loro maggiore fiorire, reca in sé
più vivo e immediato il senso della lingua e dell'arte e quindi un più intimo e
energico sforzo di conquistarne
e rivelarne il segreto; e la grammatica
dell'italiano, cioè della
letteratura più rigogliosa e più ricca di forme, tutto questo ci offre
meglio che ciascun'altra delle lingue dell’Europa, perchè, a tacer d'altro, non
solamente più varia e complessa per
luoghi e tempi, ma perchè, mentre congiunta col suo sistema, passa fuori
d'Italia a plasmare il pensiero critico delle altre nazioni d’Europa, di queste
poi e particolarmente della Gallia, segue alcuni grandi indirizzi, come quello di Porto Reale e del
razionalismo di H. P. Grice. Puo osservarsi, infine, che noi abbiamo parlato
sin qui della grammatica normativa e non di
quella storica. Ma la grammatica storica non entra nel tema di T.,
perchè essa, sebbene adoperi gl’arbitrari schematismi grammaticali, ha un
contenuto conoscitivo, e la storia d’esso rientra per tal modo nella storia
dell'erudizione e delle ricerche storiche. E su- Parecchie delle definizioni
ragionate d’Apollonio sono riprese interamente dalla grammatica generale del e
continuano a esser ammirate anche più
tardi, Egger. Ma una grammatica filosofica nell'antichità non è neppur tentata.
Pur consentendo con quanto dice BORGESE (si veda) nella sua storia della critica romantica in Italia,
Napoli, del carattere e degli spiriti dell’alessandrinismo umanistico, è facile
riconoscere che la grammatica sorge e si sviluppa in condizioni più vantaggiose
per i risultati scientifici che non
l'antica. L’antica si svolge in tempi di progrediente decadenza di pensiero e
di coltura, quella in tempo di generale progresso. VOSSLER, Die Sprache als
Schdpfum: nnd Entwickelunx, Heidelberg. perfluo,
peraltro, avvertire, anche qui, che non abbiamo trascurato d’occuparcene ogni
volta che l'erudizione filologica muove da uno sforzo, T dice così, di
sciogliere il problema grammaticale, e
si connetteva perciò intimamente colla grammatica normativa: anzi, qualche volta, temiamo d’esserci
inoltrati in questo campo troppo più in là che il tema di T. consente, come, p.
es., a proposito di Castelvetro, la cui Giunta, di dominio certamente della
grammatica storica, T. esamina con cura minuziosa. Ma l'eccessivo, se ci sarà,
ci vede scusato; non tanto pel fatto che forse certe parti dell'opera di
grammatici, come anche questa di Castelvetro, a non allontanarci dal esempio di
T., non sono tenute nel debito conto neppur dagli storici, quanto pella
considerazione che certi nuclei d'erudizione grammaticale-filologica,
escogitati pel comodo pratico, interessano anche lo studioso della storia del
costume e delle istituzioni scolastiche, alla quale abbiamo pur sempre tenuto l'occhio e di cui T. da qui
non poche linee. Sicché giova sperare che i lettori finiranno col trovare nel saggio di T. più di quanto il
titolo non prometta, mentre, in fondo,
nulla si pio dire superfluamente accoltovi che non serve ad illuminare
l'oggetto che ne è l'argomento principale, e l'istesso punto di vista al quale l'abbiamo considerato. La concreta e
sistematica compilazione delle regole
della grammatica della LINGUA D’ITALIA è
insieme comune resultato di due degl’effetti prodotti sulla letteratura
del rinascimento dal canone umanistico dell'imitazione de'classici della LINGUA
DEL LAZIO DEI ROMANI, cioè, il culto e lo studio della forma esteriore e lo
sviluppo della critica applicata o pratica, e conseguenza non ultima della
trionfante difesa del VOLGARE – tedesco,
volgare, lingua d’ITALIA -- di contro alla LINGUA DEL LAZIO, ch’è a sua volta
presentimento dell'importanza che nella coscienza assume definitivamente e vigorosamente
la lingua della NAZIONE d’ITALIA:
prodotto, dunque, di due diverse tendenze, di due diversi indirizzi, il
classico e il romantico. Né le sono estranee talune condizioni della vita sociale, la diffusa cultura, p. es., e,
in particolare, il sentimento della bellezza e della grazia, se non della
gravita – Trudgill, Italian is the most beautiful language – ch’esige anco
un'eloquio ornato e polito. Spinti dal bisogno di giustificare criticamente
1'immensa letteratura fantastica che il ri-fiorire degli studi ritorna alla
luce e all'ammirazione, gl’umanisti, superando le dottrine poetiche del Medioevo che suonano sprezzo o
condanna della poesia, e procedendo di superamento in superamento, passando
cioè attraverso le concezioni della natura della poesia in termini prima di
teologia, poeta theologus, poi d’oratoria, poeta orator, poi di rettorica e
filologia, poeta-rhetor e philologus, finirono col restituire la loro
indipendenza d’ogni funzione allegorica ai
prodotti dell'immaginazione e col
rimettere la poesia al posto che le spetta nella vita e nell'arte, giungendo
così insieme a riconsacrare la bellezza classica e a proclamare come base
estetica della letteratura l'imitazione dei classici: quindi studio
dell'artificio della poesia classica, quindi ricerca di principi e regole
pratiche pella più perfetta imitazione,
e, tra queste, anche le grammaticali.
D'altra parte, il VOLGARE – tedesco,
volgare --, il che vuol dire la nostra gloriosa tradizione, non mai del tutto
negletto pur nel periodo più febbrile e intemperante della indagine erudita
sull'antichità classica, è venuto levando audacemente il capo sopra il
sentimento stesso del proprio valore. Già l'umanesimo stesso non è mica, che
non puo essere, ri-sorgimento, re-incarnazione dello spirito classico: tutta la vita medioevale non è
vissuta indarno e non se ne potevan con un tratto di penna cancellare non dice
T. le tracce, ma gl’effetti sullo spirito!/ moderno: che è anzi essa se non ROMANESIMO,
nella sua sostanza incorruttibile, più che non fosse o potesse essere il soffio
inane onde si voleva ravvivare un presunto cadavere? E poiché quella vita è espressa
in opere volgari come la divina commedia,
il decameron, il canzoniere, e ora ad altre correnti spirituali, alla dottrina
e alla speculazione si vede pure che IL VOLGARE – tedesco, il volgare -- è più che bastevole, il difenderlo dove ben
apparire vittoria sicura, l'affermarne la virtù un dovere, e un diritto
l'estendere anche ai suoi precedenti monumenti letterari il canone dell’imitazione:
i nostri massimi fiorentini dovevan
valere quanto i classici di ROMA: quindi studio e osservazione della loro forma
esteriore, applicazione pratica delle loro regole: quindi anche grammatica
volgare. Questo processo, d'intuitiva evidenza specie per chi tenga presente la
storia della poetica del ri-nascimento, ci spiega esattamente il contenuto e le
fogge della PRIMA GRAMMATICA, i germi in sé
concepiti del suo svolgimento, dice T
anche la sua mossa e il punto di partenza nel tempo e nello spazio.
Vossler, Poetische Theorien in der
italienischen FrUhrenaissance,
Berlin. Spingarn. A renderne più convincente la dimostrazione, ci soccorre, per
buona fortuna, un documento molto interessante, che ri-entra poi per sé stesso
e proprio qui all'ingresso del nostro cammino, come oggetto diretto della storia di T.: quelle regole
della volger lingua fiorentina, che si trovavano manoscritte nella libreria medicea,
e di cui T. pubblica il testo secondo una copia ricavatane conservata nella biblioteca
vaticana, cod. vat. reg.. Codeste regole, come ben appare non solo dal titolo
ma dal proemio e da tutta l'operetta, sono fondate con piena coscienza sull'uso
vivo fiorentino, mentre la prima
grammatica italiana che viede la luce, Fortunio, Bembo, ha il suo fondamento
negl'imitandi classici, che per i
volgaristi sono quel che pegli’umanisti CICERONE e LIVIO. Basta questo fatto a
dimostrare che la prima grammatica italiana ha la sua origine in quel movimento
umanistico che consacra il principio
dell'imitazione dei classici ed è perciò connessa colla poetica del ri-nascimento; muove cioè, quel
che più importa osservare a T., verso il suo intento precettistico d’una spinta
dice T. così estetica o, in qualche modo, d'ordine scientifico; mentre la grammatica vaticana è, non solo
espres- [MORANDI (si veda), Il primo vocabolario e la prima grammatiche della
nostra lingua, Antologia. Sensi, Un libro che si crede perduto, ALBERTI (si
veda) grammatico, in // Fanf. d. Dom. Al Cian,
che nel suo bel saggio su Bembo, Un
decennio della vita di Bembo, Torino, dubitando della possibilità di
ritrovar il libretto catalogato nell’inventario della libreria medicea,
manifesta rincrescimento di non poter sapere che cosa sono quelle regole della
lingua fiorentina, sfugge forse la segnalazione che della copia vaticana d’esse
fa Torri nell'edizione dell’opere minori
d’ALIGHIERI (si veda), Livorno, sbagliando, però, come avverte Morandi, a cui
non è sfuggita, nell'aftèrmare che l'originale senza dubbio appartene a Lorenzo
de’MEDICI (si veda), Duca d'Urbino, quando invece l'avvertenza del copista, Sumptum
ex bibliotecha L. medices Romae
anno humanatj Dej. Decembris ultima
exactum va riferita a Lorenzo il mgnifico,
Leon riscatta dai frati di San Marco in Firenze e fatto portare nel suo palazzo
in Roma la biblioteca paterna. Ne è punto da dubitare che questa copia fatta
in Roma e passata da Bourdelot a sione
d'un bisogno pratico già sentito in un momento di decadenza del volgare sotto
l' irrompere della cultura umanistica e pel quale si collega perciò a quel
particolare movimento in favore del volgare che culmina col certame coronario,
ma specialmente dimostrazione e applicazione, fatte con fini polemici, d'un
altro principio teorico di grande importanza, primamente scaturito dalle
discussioni coeve sui rapporti tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare. Mentre, pertanto,
Xe^Jl regole di FORTUNIO (si veda) iniziano uno svolgimento che dura, per
un rispetto, ne concludono un’altro, di
cui si potrebbero rintracciare i lontani precedenti nell'insegnamento
de'dettatori di BOLOGNA e nell’elevate cure spese dall'ALIGHIERI (si veda) a
vantaggio del volgar materno – Brook, Potter, Our mother tongue. Per ciò che
concerne poi la motivazione critica, tra l’inedita grammatica vaticana e la
prima nostra grammatica edita, per T. è quasi una soluzione di continuità, se con quella non è congiunta
d’una comune coscienza dell'importanza della lingua della nazione d’ITALIA, che
è in se insita; e se volessimo trovarle una continuazione, meglio che
riallacciarla colla grammatica dei toscani, Giambullari, che non è eseguita
secondo i principi pur additati da
Gelli, dovremmo scendere addirittura alla
grammatica di MANZONI del Cristina
di Svezia, e quindi alla biblioteca vaticana, dove si trova in principio
del cod. reg., a ce., non è una copia
dell'originale mediceo che col titolo di Regule lingue fiorentine, o di Regole
della lingua fiorentina, si trova
indicato in tre esemplari dell'inventario d’essa Libreria, compilato, e da
PICCOLOMINI (si veda) dato in luce, Arch. stor. Hai., Morandi. Il cod. che
consta d’una raccolta di codicetti
diversi, contiene anche il trattato d’ALIGHIERI, DE VVLGARI ELOVENTIA, che appartenne a Bembo,
e col quale la grammatichetta scambia la
guardia: infatti la guardia che precede il trattato dantesco reca Della
THOSCANA SENZ’AUTTORE, e davanti alla
grammatichetta vi son due guardie, una delle quali reca sul recto Dante della
Volo. Lino, e l'altra sul verso Dantes
de Vulgari [diomate. Cir . Il trattato
De vulgari eloquentia cur. R.AJNA,
Milano. È curioso che la grammatichetta sia venuta a trovarsi congiunta
coll'insigne operetta di Dante copiata per Bembo, che quella grammatichetta non
dove mai vedere e ne dovette anzi
ignorar l'esistenza. uso vivo
fiorentino. La nostra tradizione grammaticale benché resti sempre vero quel ch’è osservato da Morandi: aver i letterati
italiani in certi intervalli sostenuta la tesi di MANZONI (si veda), è
classica, vale a dire fu dominata soprattutto dal principio del classicismo,
che doveva necessariamente disfarla. E si potrebbe aggiungere, se fè il caso di
discorrere di ciò che non avvenne, che la grammatica normativa avrebbe forse
alla pratica rtsi maggiori servizi, s’avesse continuato nella forma e
cogl'intenti della grammatica vaticana,
certo assai più consoni e praticamente utili a quell'esigenza pella quale è giustificabile,
l'apprendimento della lingua. Ben diversa è la spinta teorica della
grammatichetta, che l’assegna, sia rispetto ai suoi precedenti letterari, sia
rispetto alle prossime produzioni consimili, un posto a sé, dandole una
singolare importanza, assai maggiore di quella che possono avere le prime grammatiche del classicismo,
che non nacquero con un problema proprio, ma sono nutrite dello spirito che
alimenta tutta la poetica. Sia o no d’ALBERTI (si veda), nel qual caso è da
riportare indubitatamente di là dall’anno del De componendis cifris in cui ALBERTI
(si veda) vi accenna come ad opera compiuta, la grammatichetta vaticana è senza
alcun dubbio da riconnettere all'azione
che Alberti stesso ed altri degni di lui promossero in favore del volgare:
tanto essa rispecchia il carattere delle dispute linguistiche ch’agitano i
dotti, e tanto strettamente è congiunta con quella che ha a campioni Biondo e
Bruni. Que’che affermano, questo è il proemio della grammatichetta, la lingua
latina non essere stata comune a tutti e'populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come hoggi
la vediamo in pochi; credo deporanno quello errore, vedendo questo nostro
opuscholo, in quale io racolsi l'uso [Sensi
sostiene che è d’Alberti, per molte somiglianze di pensiero e di forma
che ha con passi dell’Operette morali e perchè è ben degna dell’alte vedute di
quella niente altissima. Ma Morandi, ch’attende a un nuovo studio intorno alle prime grammatiche e ai primi vocabolari,
m’usa la cortesia d'avvertirmi ch’Alberti è d’escludere, e ch’è da pensare ad
altri, accennandomi i nomi di Pulci e, nientemeno, di VINCI (si veda).] della
lingua nostra in brevissime annotationi: qual cosa simile fecero gl'ingegni
grandi e studiosi presso a’Latini: et chiamorno queste simili ammonitioni, apte
a scrivere e favellare senza corruptela,
suo nome della LETTERATVRA. Quest’arte quale ella sia in la lingua nostra,
leggietemi e intenderetela. È precisamente Bruni quegli che sostene essersi
usate in Roma due lingue nettamente distinte, l'uma delle scritture e de'pochi
dotti, l'altra comune a tutto il volgo, il quale non avrebbe inteso un'orazione
forense o una commedia più che non intenda la messa, e non sa ammettere che le femminette riuscissero a
esprimersi naturalmente in una forma grammaticale, morfologica e sintattica di
difficilissimo acquisto pei dotti di professione. E non ad altri ch’a Bruni e a
suoi seguaci risponde Alberti quando altrove osserva. E dicono non potere
credere che in que'tempi le femmine
sapessero quante cose oggi sono in quella lingua del LAZIO a molto e ben dottissimi difficile e oscure. E per questo
concludono la lingua nella quale scriveno i dotti essere una quasi arte ed
invenzione scolastica piuttosto ch’intesa e saputa da molti. Ma questa è precisamente
l'opinione di Biondo, a cui si deve appunto la scoperta e l'affermazione d'un
fatto inchiudente quell'importante principio teorico che presede alla
compilazione della grammatichetta
vaticana: uno de'non molti principi teorici di grande importanza critica
pella nostra storia, che siano stati asseriti in tutto il nostro periodo
grammaticale avanti il sorgere della critica della grammatica con BORDONI Scaligero
e Sanzio e Portoreale. BIONDO (si veda) ha solo di recente la meritata
giustizia. mentre a BRUNI (si veda) sono d’assai tempo tributati i massimi
onori come a un felice indicatore dell’origini
del nostro volgare. L'oggetto della discussione avvenuta nelle anticamere
pontificie tra i segretari della curia, presenti Lusco, Romano, Fiocchi,
Bracciolini, Biondo e Bruni e che è poi trattata per iscritto In SENSI. Cfr.
anche Rossi, Il rinascimento, Milano. D’un infelice quanto valoroso nostro
corregkmario troppo presto rapito agli studi, MIGRIMI (si veda) di Perugia, il
quale ri-stampa nel Propugnatore con da Biondo nel De locutione romana, da
Bruni noli' Epistole, dal Poggio nelle Historiae convivales disceptativae , da
Filelfo Ep. e d’ALBERTI (si veda) nel proemio al libro della famiglia, era
stato il seguente, così definito da Biondo stesso: materno ne et passim apud
rudem una lucida prefazioncella l'epistola di Biondo a Bruni De locutione
romana, sempre rimasta alla sua edizione principe. Credo dì poter indicare come
e per qual via fosse condotto Biondo a toccare il problema della lingua volgare
e romana. Al tempo d’Eugenio, Roma è talmente rumata, che dieci altri anni,
dice Biondo in una lettera al pontefice restauratore, premessa alla sua Roma
instaurata, che ne foste stato absente, essendo ella già e per la sua
antichità, e pelle tante passate affìitioni, mezza minata, di certo, che la ne sarebbe del tutto
ita per terra. Come il papa intese a restaurare con tanta liberalità e
larghezza la città eterna, Biondo s'è dato a rinfrescar nelle memorie degl’uomini
la notitza degl’antichi edificii; anzi delle mine, ch'ora si veggono nella
città di Roma già capo e signora del mondo; ma
specialmente l'ha mosso l' ignoranza ne'secoli a dietro delle buone
lettere, tale e tanta, che quel poco che si sa degl’antichi edifici, è tutto con false e barbare voci sporcato e
guasto. E con quest'animo s'è messo alla nobile fatica: Porrò dunque mano
all'opera con speranza che i pochi hanno a giudicare, se la chiesa ed il
palazzo di San Pietro, e di San Giovanni in Laterano riconci, e per lo più rinovati, e se le porte di bronzo
fatte alla chiesa di San Pietro, e le
riconcie mura di Vaticano, e di borgo, colle strade della città rifatte, habbiano ad esser più stabili, ed a
durare per più tempo, per questa via
d'opera di calcie, di pietre, di bronzo, che pella via delle lettere della
scrittura: e medesimamente s'io m'habbia possuto co'1 rozzo stile imitare e
giugnere niente a così belli lavori con
tante dispese fatte. Come degl’edilìzi, egli dunque dove osservare la
corruzione della lingua, e attribuirne la causa alle medesime incursioni
barbariche. Questa è la manchevolezza della sua tesi; ma, se nell'additar la
causa dello scadimento Biondo erra, la materia di cui parla è però quella che
veramente soggia all'evoluzione e s'è
tramutata nel volgare. Mi son giovato della versione fatta da Fanno delle due opere di
Biondo intorno a Roma e all'Italia, perchè essa, riprodotta in più stampe, ci
spiega come il De locutione romana, edito primamente in fine alla Roma
instaurata, non vede poi mai più la luce, non avendo seguito nella versione
l'opera maggiore. Roma ristaurata, ed Italia illustrata di Biondo da Forlì.
Tradotte in buona lingua volgare per Fanno, Venezia, i ed.
Mehus. iS indoctamque multitudinem aetate nostra vulgato idiomate, an
gramaticae artis usu, quod latinum appellamus, instituto loquendi more Romani
orare fuerint soli. Bruni, che concepisce la grammatica non crede possibile ch’il
popolo inflette nomi e verbi, quasi che, dice Mignini, la regolarità non è stata
allora e poi assolutamente ex casti: sostene perciò esistere una differenza sostanziale tra LA LINGUA DEL
LAZIO de'dotti e il popolare, come tra due lingue diverse, né più né meno come
tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare d’altri tempi. I contemporanei
magnificarono l’idee di Bruni, quasi dimostra l'origine del volgare: ma Bruni,
come ben vede Mignini, fa solo una questione preliminare a questa, e la
conclusione che ne scaturisce
logicamente è che la lingua volgare non
deriva dalla LINGUA DEL LAZIO
volgare, essendo state sempre immobili e inalterate le due lingue dei latini,
la degl’OTTIMATI e la plebea: LA LINGUA
DEL LAZIO volgare o plebea per Bruni non è il padre della lingua volgare d’ITALIA,
ma è questo stesso sempre vivo e verde e inalterato, senza che né le mutazioni
naturali della lingua, né quelle delle popolazioni italiane avessero
avuto su esso, la minima influenza. Biondo invece sostene che tra le due lingue
non c’è differenza sostanziale: la differenza è solo di forma, prodotta dall’educazione
domestica, dalla cura e dalla riflessione degli scrittori: e se non la deduce
dall’iscrizioni e solo dalle testimonianze degli scrittori latini, ha però
sempre di mira la reale condizione della
lingua degl’OTTIMATI e popolare sotto I
ROMANI, e non fa per suo conto, come parve a Schuchardt, una questione
nominale. Ma quel che per noi vale assai di più è che, mentre sin allora la
grammatica è stata concepita, come ancora Bruni la concipisce, una serie di
regole stabilite a priori e per sempre, e quindi una lingua del tutto
artificiale e immutabile, Biondo invece
avverte anche nella lingua popolare romana una sua propria regolarità,
distinta naturalmente da quella che deriva dalla riflessione e dall'arte
congiunta a quella che viene dalla natura. Egli voleva che ai suoi avversari questa
risposta soddisface: nec naturae ac bonae consuetudinis munere regulas indoctam
multitudinem scivisse, quibus grammaticam orationem omni ex partem
congruam i.m eret, ncque etiam tam longe
a variationibtfs inclinationibusque et reliqua grammaticae orationis
compositione illius latinitatem abfuisse, quin litterata, qualem mediocriter
aetate nostra docti habent orario et videretur et esset. E una speciale
regolarità venne a riconoscere conseguentemente nella lingua volgare de'suoi
tempi, ponendo così il principio teorico della
possibilità d'una grammatica del
volgare, in parole ben chiare: omnibus ubique APVD ITALOS CORRVPTISSIMA etiam
VVLGARITATE loquentibus idiomatis natura ìnsitum videmus, ut nemo tam rusticus,
nemo tam rudis, tamque ingenio hebes sit, qui modo loqui possit, quin aliqua ex
parte tempora casus modosque et numeros noverit dicendo variare, prout
narrandae rei tempus ratioque videbuntur
postulare. Questa regolarità, osserva benissimo Migninij insitam
idiomatis natura, è il primo Biondo, che io sappia, a notarla, e dopo di lui
ripeteno l'osservazione Filelfo, Ep., ed Alberti, Proemio. Si fa così un'ottima
correzione alle dottrine grammaticali, e insieme si muove un primo passo verso
gli studi grammaticali sulla lingua volgare, impossibili a farsi, finché questa
si crede assolutamente ex casti. Tante
vero che, è Alberti o altri, certo è un seguace di Biondo quegli che muove il
secondo e ultimo passo e compone la grammatichetta vaticana, fondandola
sull'uso vivo di Firenze. Ed è questo che distingue profondamente il
significativo libretto dalla grammatica di Fortunio e la di Bembo, cioè il
principio informatore: quello scaturisce dalla riconosciuta regolarità insita nel volgare, cioè d’un
chiaro principio che ammette la possibilità della legiferazione grammaticale;
queste, sorte quando ormai la causa del volgare è vinta per quella via, cioè colla
forza ch’esso stesso reca in sé e che non è se non la vita della nazione
d’ITALIA, e quando è inalzato teoricamente al medesimo grado di nobiltà e di
perfezione della LINGUA DEL LAZIO e
quindi la possibilità di regolarla non si puo più affacciar come discutibile, sono
create col prin- [ed. Mignini. Nel discorso o dialogo, attribuito a MACHIAVELLO
(si veda) MACHIAVELLI, dove pella prima volta avanti le regole di FORTUNIO (si veda), e dopo, s'intende, il
movimento che s'accentra nella grammatichetta vaticana, si discorre dell’VIII
parti del discorso nella lingua fiorentina,
non è traccia alcuna di dubbio che codesta lingua non puo esser trattata
grammaticalmente come la lingua del LAZIO. Si noti peraltro che Machiavelli in
tanto parla di regolarità, in quanto ha cipio dell'imitazione, senz’alcuna
coscienza del problema scientifico insito in questo prodotto pseudo-scientifico
che è appunto la grammatica. Certo, senza un grande amore pel volgar nativo, cioè senz’aver della letteratura un
caldo sentimento di grandezza, quel riconoscimento di Biondo non basta a crear la
prima grammatica, anche a non considerar che, s’egli una certa regolarità tutta
sua, insita, naturale, gliela riconosce, non credo la ritenesse tale d’esser
presa a modello: Biondo è un classico da quanto e più ancora di Bruni: bisogna
veder nel volgare qualità ancor più nobili e virtuose, e d’efficacia e di
bellezza, perchè si puo additarle, quasi classificarle e schematizzarle in una
rassegna da porre di fronte alla nobile granitica della LINGUA DEL LAZIO, senza
timore o vergogna veruna. Sicché, in sostanza, il classicismo viene anche qui a
far valere i suoi diritti, come vedremo essere avvenuto in un problema
consimile già agitato dalla mente
suprema d'Alighieri; ma il compilatore non puo esser ch’un estimatore
convinto del volgare. Comunque, colla grammatica vaticana lo spregiato volgare viene,
quasi di punto in bianco, come l'antica grammatica, inalzato all'onore di
lingua letteraria. Gli giova, s'intende,
anche l'esser fiorentino, che non solo, per quei certi criteri formali che i
credenti nella grammatica non possono non
far valere, è il più polito e sonante dialetto d'Italia, m’ha in suo
attivo tutta la splendida tradizione letteraria antecedente. E certo quella
pratica dimostrazione della regolarità del volgare dove valere assai meglio e
più d'ogni e qualunque ragionamento in favore d’esso, e nel fiorentino parlato viene così a essere specchiata la
grammatica della lingua letteraria. Sul contenuto e il metodo d’essa, anche
perchè qui è integralmente riferita, non
occorre dir troppe parole. Basterà ri in mente un'unità linguistica ben
determinata, perchè, p. es., alla lingua della corte di Roma, d'un luogo dove
si parla di tanti modi, di quante nationi vi sono, pensa che non se li puo dare
in modo alcuno regola. Cito, col Rajna, La
lingua cortigiana, in Miscellanea linguistica in onore d’ASCOLI (si veda),
Torino, dal cod. orig. di Ricci, che è
il Pai. E. B., io,ce. r.° chiamar
l'attenzione sull'uso didattico degli specchi, ordine delle lettere, e dei
paradigmi, declinazioni e coniugazioni; sull'osservazione riguardante la
nomenclatura, in molta parte identica a quella della grammatica della LINGUA
DEL LAZIO; sugli accenni di grammatica storica, p. es. la formazione dei nomi dall'ablativo latino; sugl’esempi che,
come ha già hen visto Morandi, sono
concettosi e arguti. Su talune forme idiomatiche registrate come correnti -- savamo, savate; eravamo, eravate --; sui vitij del favellar, in cui si cade
introducendo forestierumi o storpiando l'uso, e sulla dottrina dell'IDIOTISMO –
Grice, idio-lect, idio-syncrasy]; sopra i richiami ad altri idiomi non italiani;
sopra il metodo di trattar non
separatamente le forme e l'uso delle varie parti del discorso. Conviene anche
notare poiché siamo davanti alla prima grammatica che de'nomi son fatte due
sole declinazioni: masculini la cui ultima vocale si converte in i, femminini,
la cui ultima vocale si converte in e, eccettuandosi “mano” che fa “mani”,
e i femminini finienti al singolare in “-e”, che fanno al plurale in “-i”; e che i verbi son trattati più per paradigmi
che per regole. Quel che ci preme anche
porre in rilievo è l'intento avuto di mira dal nostro autore nell'esecuzione,
veramente felice perchè rapida e chiara, del suo trattatello, e il calore
che vi mette, tanto da farsene un merito
patriottico, in altri termini il punto di vista donde ha raccolto le sue
osservazioni. Egli intende sbozzare la
fisionomia grammaticale della lingua viva di Firenze, perchè dal confronto con
quella della LINGUA DEL LAZIO, ne risultasse la bellezza e la perfezion
dell'organismo: non è tanto intento precettivo quanto praticamente
dimostrativo. Egli è tutt'altro che spregiatore della LINGUA DEL LAZIO, di cui anzi accoglie la nomenclatura, gli
schemi e adopera forme e nessi grafici; ma
sente tutta l'importanza e la virtù dell'idioma materno, che vorrebbe
onorato di pari culto e maggiore. Sono da ricordare a questo proposito i
rimproveri ch’Alberti dirige agl’umanisti che amano piuttosto piacere ai
pochi che cittadini miei, presovi, se
presso di voj hano luogo le mie fatighe, riabbiate a t^rado questo animo mio, cupido d’onorare la
patria nostra, chiusa). giovare ai molti,
adoperando una lingua convenzionale e non la naturale intesa da tutti.
Questi rimproveri ci richiamano facilmente alla memoria quelli più sonanti che
l'autore del convito scaglia contro gli scelleratissimi che coltivano lo
volgare altrui e lo proprio dispregiavano: né questo è ravvicinamento che fa
per suo capriccio la memoria; perchè, evidentemente, tra, non dice T. il
concetto filosofico, ma
l'interessamento pel volgare d’Alberti e quello d’Alighieri corre un intimo
nesso, come la grammatichetta è, per un rispetto, ultimo anello d'una lunga
catena che mette capo al primo
affermarsi del nostro volgare nella coscienza critica dei suoi primi
studiosi: siamo insomma su quella linea della tradizione nazionale che
congiunge appunto i dettatori di BOLOGNA e a quanti con Dante coltivarono il volgare, ai difensori
delle tre corone, ai propugnatori del volgare, tra i quali spetta ad Alberti il
primo posto. Occorre appena avvertire che il più benemerito di tutti i
rappresentanti di codesta tradizione, non solamente nella pratica ma anche
nella teorica è Alighieri. Fosse un pensiero maturo, o un profondo
presentimento, certo è ardito e degno della sua mente altissima il concetto onde il volgare viene glorificato
come sole il quale sorge ove tramonta
l'usato. Se il segreto intendimento di Dante è quello di far del volgare
una lingua come la lingua del LAZIO per
detronizzar questo, è materia d’ardua discussione: indubitabile però è, quale
dove esser la natura e la funzione del volgare così esaltato, che egli abbia
voluto renderlo [Si ricordino anche le
fiere parole della nota protesta fattaci conoscere da Flamini e integralmente
pubblicata da Mancini, Un documento del certame coronario di Firenze del -//.
in Arc/t. si. il., S. 1 L'ha forse già avvertito chi accozza in un medesimo volume la grammatichetta
attribuita ad Alberti e il trattatello dantesco? [Wesselofscky ha in brevi ma
limpide linee indicato l'importanza dell'avvenimento della lingua italiana agl’onori
della letteratura, e la parte che vi ha Alighieri, dal quale propriamente
incomincia il ri-nascimento nel senso nazionale, da lui s'informa e da lui,
piuttosto che da tutt'altro nome, noi vorremmo intitolare quel periodo che
precede al ri-nascimento classico dei Medici. In Dante e Firenze di Zenatti,
Firenze;/. per forza di lavoro crìtico e di
educazione artistica atto a ogni più elevata espressione d'arte e di
pensiero. A codesta altissima meta, conseguita, è inutile l'osservarlo così
eccellentemente nel fatto col poema divino l né altrimenti che nel fatto è conseguibile,
poiché PARLARE È ESPRIMERE E ESPRIMERE E PARLAR BENE e bellamente, tende il
magnanimo sforzo del De vulgari eloquentìa, che è o dove essere \ix\ ars grammatica, rhetorica e poetica
insieme sui generis. Che, sia pur affermato solo riguardo alla questione della
lingua italiana, non vi si tratti di lingua italiana né punto né poco, che in
ciò che è venuto fino a noi, e in ciò che ci manca, tutto s'aggiri intorno a
canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre
poesia, niente altro che poesia, è a torto
sostenuto da Manzoni, perchè bisogna non aver occhi per non vedere che
non vi si parla e non vi si dove parlare che di lingua e di
lingue e specie di lingue, le parole loqui, locutio, IDIOMA, Grice,
idio-lect, idio-syncrasy, idio-tism, vi ricorrono da cima in fondo, e di lingua
poetica e di lingua prosastica, e di lingua letteraria e di lingua parlata, inferiora
vulgaria illuminare curabimus, gradatim
descendentes ad illud, quod unius solius familie propinili est; ma che l'intento del trattato è precettistico
non ne'riguardi del solo dire in rima, come manchevolmente intendeno e Capponi
e Manzoni, che allega la testimonianza di Boccaccio, ma ne'riguardi d’ogni
forma di dire e di comporre, nessuno può
ragionevolmente negare. Ciò si desume non solamente dallo stato d'animo dell'autore che è, specie se messo in
relazione con quello che si rivela nel Rajna, Il trattato De vulgari eloquentia, lectura Dantis, Firenze, e recensione d’un saggio di BELARDINELLI
(si veda), La questione della lingua, ecc., in Bull. d. Soc. dant.; Parodi,
Bull. d. Soc. dant.; Vossler, Die góttliche Komòdie. Entwickelungsgeschichte
und Erklàrung: religiose und
philosophische Entwickelungsgeschichte,
Heidelberg, e Zingarelli, nella recens. di questo libro in La Cultura. Lettera
ifitorno al De vulgari eloquio d’Alighieri, in
Manzoni, Poesie minori, lettere inedite e sparse, pensieri e sentenze,
con note di Bertoldi, Firenze, Ed. Rajna. Mi son valso anche dell'ed. minore, Firenze. Prose minori. Convivio, di vivissima simpatia
pel volgare, di trepido desiderio che
esso è la luce alle genti, e dal titolo che non può essere che De
vulgari eloquentia, ma da più luoghi del trattato, ove quell'intento è
esplicitamente asserito e dichiarato, e particolarmente nel primo paragrafo.
Alighieri è mosso a scrivere dal vedere neminem de vulgaris eloquentie doctrina
quicquam tractasse, che tale eloquenza è a tutti necessaria, osservandosi che
perfino i fanciulli si sforzano di conseguirla, e si propone locutioni
vulgarium gentìum prodesse, non soltanto attingendo alla fonte del proprio
ingegno, ma accipiendo vel compilando ab aliis. Grammatici, retori, trattatisti
di poetica è facile affermare che sono i suoi autori: e quando si vogliono
cercar termini di paragone a misurare l'altezza della trattazione, il pensiero
corre a grammatiche, metriche, Donatus proensalis, Las razos de frodar, a summe,
Les leys d'amour, che sono appunto una grammatica, una rettorica e una poetica,
e doctrive de compondre dìctats, ad Tempo, a Gidino, insomma a precettistiche e
a precettisti: anche per quel libro che
non scrive, ma che si può matematicamente asserire dedica alla prosa ilhistre,
il pensiero corre alle trattazioni concernenti LA LINGUA DEL LAZIO, che certo
non è neppur concepibile che da lui si ricalcassero, come benissimo giudica chi
tanto s'è reso benemerito degli studi sul trattato, ma che non sono se non
trattazioni di rettorica e di grammatica. Trattar di lingua è dunque
inevitabile, essendo quella la materia del discorso; ma fine è insegnarne non
l'acquisto, l'apprendimento, sì bene un uso di maggiore o minor grado artistico secondo le varie classi di
parlanti, ma artistico, insomma un'espressione. Un intento siffatto, che è
quello d'ogni arte poetica, è anti-scientifico, perchè l'espressione non
s'insegna: ma lo sforzo che si compie per conseguirlo, può avere una portata
scientifica: e grandissima l'ha questo
d'Alighieri, pella dottrina, l'acume, e la partecipazione interiore, che non è se
non una forte coscienza estetica,
onde l'ha compiuto, anche
indipendentemente dalla cultura della sua età: sentire in quel modo così
profondo, quale specialmente c’è svelato dal convivio, il volgar materne, vedasi
specialmente il paragrafo dove si parla del naturale amore pella i'i
Rajna, Lect. nostra loquela, e
sollevarlo nella teoria, con uno slancio d'entusiasmo non più avvertito tra
noi, alla medesima altezza a cui è stato
o sarebbe stato portato nella pratica, e segnare le linee di svolgimento con
mano così ferma e scultoria, questo è vero progresso scientifico d’un valore,
starei per dire, anche più considerevole dell' altro di cui va egualmente
superbo Alighieri, d'averci data cioè una descrizione storica del volgare
romanzo, che pur ferma la maraviglia d'ogni grande filologo. Perchè, come l'intendimento precettistico,
così, sebbene sovranamente mirabile pell'uso che ne fa nel disegno del suo
ideale artistico, anti-scientifica appare la concezioned’ALIGHIERI della
lingua, della locutio: la quale in sé stessa non supera la scienza dell'età
sua, che ha il suo fondamento ella Bibbia e nella lotta tra nominalisti e
realisti riprende le discussioni dei sofisti, se la lingua è per natura o per volontà. M’ALIGHIERI supera
il suo tempo nel conciliare in un sistema solo la tradizione biblica e le
teorie filosofiche, mettendo in rilievo lo stato originario della lingua, e
quello che si determina dopo la torre di Babele; innumerevoli lingue
variabili continuamente d’una parte, e
1'artificiosa grammatica dall'altra. Il genere umano ha bisogno ad comunicandum
inter se conceptiones suas di un
rationale signum et SENSVALE [Croce,
Estetica o Aesthesis – SENSIBILIA] in quantum sonus est; rationale in quantum
aliquid SIGNIFICARE videtur AD PLACITVM, cioè SECONDOLA RAGIONE DALLA QUALE
L’UOMO è mosso. Di quel SEGNO il primo uomo è dotato da Dio, ed è quale è richiesto
dalla perfetta natura umana, cioè perfetto. In
vero, anche a non prescindere da questo che è poi un atto di fede, a
stare alle parole [Vossler, Die
góttliche Kòmodie, illustra in modo
molto evidente quanto acuto questo disegno, seguendo il pensiero
linguistico-filosofico d’ALIGHIERI dal suo primo sbocciare nella vita e nel convivio
all'altezze del De vulg. E.., donde tuttavia non scopre il mistero delle
terzine volgari della Commedia. L’idee d’ALIGHIERI
circa la voce e la parola, come suono, s'accordano più particolarmente coi due
grandi espositori scolastici del LIZIO: Alberto ed AQUINO (si veda). Busetto,
Saggi di varia psicologia dantesca, Giorn. dant., Pratom Toscana. Alberto
definisce la voce percussio respirati aeris ad arteriam vocativam ab anima per
immaginationem aliquam eam formantem,
quae est in partibus illis quæ ad respirationem congruunt. Vossler.] che
ALIGHIERI (si veda) adopera e al tono di
tutto il discorso, pare lampeggiar qua e là quasi un vago concetto della
sintesi interna di pensiero e parola, come quando dice certam formam locutionis
a Deo cum anima prima concreatam fuisse; e già quell'esaltare la lingua come
una dote data all'uomo perchè se ne
gloriasse ipse qui gratis dotaverat, eia facoltà divina che è in noi per
cui actu nostrorum affectuum letamur, ci suscita l'idea d'un atto spirituale
meglio che naturale e meccanico – H. P. Grice contro C. L. Stevenson – “mean” in
scare quotes --; anche la prossimità, affermata nel convivio tra la lingua
volgare parlata e LA PERSONA CHE LA PARLA – H. P. Grice, utterer’s meaning --, ci spinge verso quella intuizione; così
ancora, per addurre altri indizi, se non argomenti, quell'insistente relazione
posta tra la irriducibilità del volgare a regole fisse e la mutabilità e
variabilità dello spirito umano; il cenno della qualità della prima espressione
che l'uomo preferiscee PROFERISCE avanti il peccato, la similitudine posta in
Convivio tra la lingua e la bella donna, insomma l'enfasi onde il poeta parla della parola
umana; ma nel fatto la lingua è poi sempre concepita come SEGNO, cioè un'esteriorità di cui la mente si giova
per manifestarsi: quella certa forvia è tale quantum ad rerum vocabula, et
quantum ad vocabulorum constructionem, et quantum ad constructionis PROLATIONEM,
ed è la lingua che parlano Adamo ed il genere umano tutto prima della confusione delle lingue, e che rimase
poi al popolo ebreo, la lingua che, dopo la confusione, riprodussero appunto artificialmente gl’inventores
grammaticae facultatis, vale a dire la grammatica: una lingua dunque
grammaticale, stereotipata, beli' e formata, non producibile, ad ogni
espressione del pensiero. Con questa concezione della locutio e la nozione
storica de'vari ydiomata che tutti
ammiriamo e il fine che s'è dichiarato, Dante continua a svolgere il suo
trattato, che conduce fino al principio del seguente libro colla dottrina del volgare
illustre applicata alla poesia: nel terzo, in immediatis libris, avrebbe detto
del medesimo volgare applicato alla prosa, come s'è visto potersi con sicurezza
congetturare; nel [Vossler già avverte che come poi questi dotti ottenessero
questa grammatica, Dante non dice; e che d'altra parte grammatica non è solo LA
LINGUA DEL LAZIO, per Dante, ma anche qualche altra lingua] quarto ^a un
dantista veramente egregio, Zingarelli, nella recensione fatta nella Cultura)
dell'opera cit. di Vossler, Die góttliche
Komòdie. Vossler riprende la tesi
ch’è già in germe nelle parole del Rajna {Lect.. Il volgare dunque s’incammina a insediarsi dove sta LA LINGUA
DEL LAZIO, o almeno accanto a lui; e per insediarvisi non solo, che è poco, ma
potervi rimanere, gl’occorreranno in misura non troppo scarsa le doti di
stabilità e universalità che LA LINGUA DEL LAIO ed ogni grammatica possiedono,
e che sono inconciliabili con una parlata qualsiasi. Conseguibili non sono per
Dante altro che da una lingua
fabbricata, e uscita dall'accordo di molte genti diverse, quale appunto egli
crede essere LA LINGUA DEL LAZIO. E di certo, mettendo da parte la stabilità,
che verrà a resultare di conseguenza, nulla pare poter rendere più agevole il
consenso d’una moltitudine d’eteroglossi in una forma sola d’una lingua, che
l'estrarre quella forma da tutti, in cambio di prenderla da taluno e volerla imporre agl’altri. Si pensi ai tentativi
di lingua universale, e che Parodi aveva accolta, dichiarando esplicitamente
che, insomma, Dante intende fondare una
grammatica, Bull. d. Soc. datit.
Zingarelli sostiene che questo puo essere un presentimento profondo, ma non
un pensiero, non un proposito recondito, a insegnar reg. di lingua. Rajna.]dizione
di critici che ebbero del idioma una
piena e profonda coscienza, cioè della tradizione nazionale di contro alla
classica; ma anche primo e non meno elevato rappresentante dell'altra ch’intende
a rinnovarsi nell'imitazione dei classici: nella prima veste si ricongiunge
all'autore della grammatica vaticana, ai toscani, a Manzoni; nella seconda a
Bembo e alla lunga tratta de'suoi seguaci classicisti: capo e propulsore delle due correnti in cui s’estrinseca lo
spirito italiano nella critica letteraria, maggiore di tutti, come accade
d'essere ai grandi, del suo tempo, per originalità e vastità di siero e
mirabile accordo di facoltà. Ma con Dante il germe della grammatica italiana
sboccia e avvizze, appunto perchè nessuno ebbe al pari di lui la coscienza
della letteratura, e la comune concezione della lingua e della grammatica e il germogliare
dell'umanesimo sull'istesso tronco spezzato dell’altissima letteratura
assicurano ancora alla lingua del LAZIO il predominio sul volgare come lingua
della scienza e della coltura. Perfino Petrarca e Boccaccio, che pur tennero
alla loro arte volgare quanto se non più
che alla lingua del LAZIO, rimaneno tutti estra Dante alimenta la contesa tra
umanisti e difensori del volgare; il suo
spirito aleggia nei sostenitori del volgare che promuovono il certame e
nell'autore della rammatichetta; col trattato De vulgari eloquentia sono
connesse le prime nostre contese ortografiche e tutta, in genere, la questione
della nostra lingua ne'suoi momenti più
salienti a Manzoni. Bembo e
Trissino d’ORO (vedasi), in fondo, non eseguirono ciascuno un piano identico a quello di Dante? La
dimostrazione data per Petrarca dal Cian {Nugellae vulgares f
questione di Petrarca, in La Favilla di
Perugia, ciie cioè il nostro maggior lirico tenesse tutt'altro che in
conto di Nugellae le sue Rime, si può ripetere
e me ne avverte il Cian stesso per
Boccaccio con eguale certezza. Che la’ecloga di PETRARCA sia una disputa intesa
a dimostrare la superiorità della poesia
italiana sulla di quella della GALLIA
esclude E. Carrara Giorn. st. d. leti, it., e conviene con lui Busetto, PETRARCA (si veda) satirico e polemista in Padova in onore di F.
P., Estr. Padova. Boccaccio anche nell'esposizione in
volgare della divina commedia, dove avrebbe potuto esser tratto facilmente a
osservazioni anche di forma esteriore, non va oltre la spiegazione di singoli boli, rimanendo
sempre sotto l'influenza delle sue dottrine poetiche. Difende calorosamente
Dante dell'aver poetato in volgare piuttosto nei a un qualsiasi movimento
coscientemente teorico in favor dell'idioma nativo. Quel che si fa in questo
per tutto il territorio romanzo, è diretto a intenti puramente pratici, di grammatica
in servizio della poetica o degli
stranieri, di vera e propria metrica, di rettorica in servizio dell’epistolografìa,
della notaria, e di chi dove tenere parlamenti e dicerie. Il Donatz proensal,
composto da Faidit prima in Italia a
richiesta di Morra e Sterleto e tradotto anche nella LINGUA DEL LAZIO per maggior utilità degl’italiani, è un ri-calco
sull’Ars minor di Donato. Senz'accennar a teorie linguistiche, né a scopi speciali, comincia subito a trattar dell’VIII
parti del vulgar proensal, nom, pronom, verbe, adverbe, particip, conjunctios,
prepositios, interjecios, e si chiude con un rimario abbondantissimo, De las
Rimai. Qui il vulgar proensal è trattato come una lingua letteraria, come una
grammatica pegl'italiani, quale dove appunto apparir loro la fiorente
letteratura provenzale: è insomma il
provenzale letterario, anzi poetico, classificato e chiuso negli schemi
della grammatica della LINGUA DEL LAZIO pell'apprendimento degli stranieri.
Certo quel poterlo cosi trattare come la grammatica dove ben valere a
dimostrare che dunque anche gl’altri volgari, non esclusi gl’italiani, che nella lingua del LAZIO, non solo col
criterio della fama, ma anche della bellezza e virtuosità del volgare, Zenatti, Dante
e Firenze: eppure della
regolarità del volgare neppur un cenno. Pe'più il volgare è una lingua
dispregiata, e Boccaccio ricorda che appunto quella è la caligine sotto cui
rimane nascosa la luce del valore di Dante, Dal Commento, ed.
Zenatti, Roma. E ragion vuol che
si dica che, se Boccaccio aveva difeso, meglio di Petrarca, la poesia, perchè
non aveva fatta differenza tra la lingua
del LAZIO e la volgare, commentando
la divina commedia concede, sia pure per non inasprire
gl’avversari, che s’Alighieri avesse poetato nella LINGUA DEL LAZIO col
l'eleganza onde tratta il volgar materno, avrebbe senza dubbio fatto opera più
artificiosa e sublime; e con quest'opinione veniva tra poco a concordanza un
altro ammiratore del poeta, Salutati \Ep., ed. Movati. Sull'attività critica ch’accompagna
il sorgere della letteratura nazionale è da vedere La Critica letteraria dall'Antichità classica, di Bacci, Milano, alla quale T. rimanda
anche per altre notizie di circostanze e fatti aventi qualche relazione col suo
argomento. potevan esser ugualmente trattati, e non avremmo così dovuto
aspettar Biondo perchè tosse intravvista
e riconosciuta una certa regolarità nel nostro idioma: pure all’ipotesi
d'una grammatica italiana non si venne.
Las razos de frodar sono anch'esse una
grammatica, ma in servizio delle forme poetiche, e, appunto perchè nate
in suolo provenzale, non eseguiscono tutta intera la trattazione grammaticale e
contengono dichiarazioni simili a quelle dei primi nostri grammatici che,
avendo ancora in mente LA LINGUA DEL
LAZIO e credendo molto fosse il conoscerla, dicono non esser necessario
svolgere questa o quella categoria o esemplificazione. E notevole altresì che
vi si trovano considerazioni intorno alla proprietà dei vari volgari e vi si vada come in cerca d'un volgare
illustre. La parladura PARLATURA galla vai mais et plus avinenz a far romanz e
pasturellas; ma cella de Lemosin vai
mais per far vers e cansons e serventes. È un orientamento, come ben si vide,
simile a quello del De vulgari eloquentia, e appunto per questo c’è davanti
l'abbozzo d'una grammatica provenzale,
come materia grammaticale abbiamo nel trattato dantesco; ma quale differenza! Quella che nelle Razos è
un'osservazione fuggevole e quasi inconscia del pratico che vuol giovare ai rimatori, qui è lo sforzo e l'ardimento
di chi vuol creare una lingua pella vita e pelll'arte. Anche le Regles de
trobar di Jaufré de Foixà, che sono un seguito dell'opera di Vidal, sono compilate
per domanda del re di Sicilia, Giacomo. Osservazioni di metrica, parte forse di
opera più vasta e perduta, contiene la doctrina de compondrc dìctats. E per
tacer d'altri rimaneggiamenti delle
Razos e d’altre arti metriche,
grammatica, metrica e rettorica sono Las Leys d'Amors o Flors del gay saber che
Molinier ha l'incarico, qual segretario o cancelliere, di comporre in Tolosa
dalla compagnia della Gaya scie?isa, perchè fossero un codice della buona
poesia, e dove il provenzale è appunto legiferato grammaticalmente come una
lingua lette- [Vidal, Las razos de trobar,
ed. Stengel, Die beideìi
àltesten provenz. Gra/tim,,
Marburgo. Si confrontino a questo proposito anche Las leys d'amors.
Anche per Donatz, questa edizione. Su
J. de
Foixà Meyer, Romania,. raria. La lingua GALLICA nella GALLIA non ha nulla di
simile, allora, e le sue prime vere grammatiche le ha appunto molto più tardi, dopo di noi, per
effetto del medesimo movimento critico
che determina il sorger delle nostre. In terra italiana, oltre il trattato
delle Rime volgari di Tempo, e
l'imitazione che un contemporaneo de'nipoti del giudice Sommacampagna ne fa in
veronese di corte, pure arti metriche, e il trattatela metrico di Barberino, si
ricorda un trattateli simile che avrebbe composto, ma che in realtà non
compose. CAVALCANTI (si veda), secondo la
testimonianza di Villani che l'avrebbe avuto tra mano e di Fausto che
1'avrebbe visto e lo cita. Un confronto tra Las
razos e Donatz istituì Ovidio in
Giorn. st. d. lett. il. Sugl’ammaestramenti grammaticali
pella LINGUA GALLICA nel
medioevo, Brunot, Hist. d. la
langue gallique. L'abitudine, a lungo conservatasi nella Britannia, d’usare la
lingua gallica (Honi soit qui mal y pense – “anglo-normanno” di H. P. Grice,
originariamente ‘gris,’ grigio), fa sorgere tutta una serie di saggi, che rimaneno
senza paragone per molto tempo sul continente d’Europa e costituiscono la sola
letteratura grammaticale anteriore.
Delle rime volgari, trattato di Tempo, giudice padovano, dato in luce integralmente per cura
di Grion, Bologna. In rhetoricis delectatus studijs eandem
artem ad rhythmorum vulgarium compositionem eleganter traduxit. Villani, De Florentiae
famosis civiòus. Fausto, Introduzione alla Untiuà volgare in Gkio, nel capitolo
dell'ordinare la prosa: delle parole bisillabe e trisillabe sono alcune
aspirate come honore, alcune hanno geminate le liquide, come novella, fiamma,
anno, carro, lasso; consonante dopo muta doppia, fabbro; ovvero muta in mezzo liquide, sepolcro: e cotali
Dante chiama nella sua volgar Eloquenza, e Cavalcanti nella sua Grammatica, irsute: chi fa combinazione
di questa senza dubbie, seria dura e roggia orazione. Qui evidentemente la
parola grammatica è usurpata per significar metrica: fatto comune
nell'erudizione, tanto che Bacchi nel suo elogio di Cavalcanti, Elogia, Firenze,
attribuisce a CAVALCANTI una vera e propria
grammatica: quod multa CAVALCANTI scripserit, non desunt qui affirment,
ut de eloquentia sui seculi, de regulis linguae etruscae, de natura verborum,
quibus fit oratio numeris astrictior, artifieijs ornatior. Il trattato di Tempo
traduce nel suo dialetto Barati-Ila, sedicenne, figlio di Laureo.] Ma NON GRAMMATICA, come la chiama appunto Fausto, come GRAMMATICA NON È la sua
Introduzione alla lingua volgare, ch’è invece metrica e RETORICA. Insomma,
quanto di grammaticale o SINTASSI – MORFO-SINTASSI (“rules of formation” –
“syntax” – H. P. Grice – SYSTEM G -- vi può essere in tutte queste somme
romanze escluso Donatz è solo in servizio della metrica e della rettorica,
senza alcuna vera funzione propriamente
grammaticale, e assolutamente indipendente dal realmente parlato; mentre Dante
ha coscienza d'uno schietto criterio della regolarità grammaticale, onde anche
sia disciplinabile sull'esempio del latino il volgare italiano, e l'applica:
nel che egli differisce da Biondo in quanto questi riconosce nel volgare una
regolarità di fatto, e Dante gliela riconosce solo in germe: resta di fargliela acquistare. Così, e questo è tempo
ornai di concludere, prima dell'autore della grammatichetta vaticana ch’integra
i due criteri e fa il primo tentativo, una vera e propria grammatica
dell'italiano non è stesa. Lo studio strettamente grammaticale è fatto
esclusivamente ne'riguardi del latino sull'Ars minor di Donato: l'insegnamento
ne'riguardi del volgare, quando l'arte de'Dictamina è fatta
passare dal latino al volgare, rimane, com'era stato pel latino, di
carattere rettorico, alla H. P. Grice
nella caratterizazione di G. N. Leech, ‘pramatic, not logical.’ Certo, in
quelle Sutnmè dictaminis, in quelle Artes dictandi, ?w/ariae, concìonandi, non
mancano osservazioni che potrebbero chiamarsi di dominio puramente
grammaticale. Una parte di' viltà, che in principio della Summa di FABA (si veda) si raccomandano
d'evitare, riguarda Loreggia. Nel proemio di Tempo s’avverte che alla
versificazione giova la conoscenza della
grammatica, s'intenda IL LATINO;
si nota che lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae
linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis. Item ultimo notandum
est, s’avverte, quod quemadmodum in
oratione literali [il latino] debet vitari barbarismus et
soloecismus, ita in vulgari rithimo. Ma si tene ben distinta la trattazione
grammaticale dalla metrica: Vocales
autem literæ secundum grammaticos sunt V,
scilicet a e i o u, reliquae vero sunt literæ consonantes. Est tamen
alia etiam differentia inter consonantes literas: de quo nihil ad praesens
disputare intendo, quia satis per
grammaticas est ostensum. Invece il ragazzo compendiatore si distende
sulle vocali, sulle sillabe, sui dittonghi, sull’elisione, il troncamento e
altre figure: il bisogno della trattazione grammaticale s’è andato facendo
sempre più vivo! Il compendio di Baratella sta insieme coll'ed. delle rime
volgari di Tempo, ed. Grion. Guidonis
Fabe, Summa dictaminis in II Propugnatore, ed. Gaudenzi. la collisio, il frenum, lo hiatus, il
metacismus, il laudacìsmus, ossia figure grammaticali. Nella parte seconda, non
tutto ciò che riguarda la pronuntiaiio è garbo, ma correttezza – H. P. Grice on
stress as garbo, non corretteza. Il
dictamen è locutio ne'due aspetti di competens et decora: competens dicitur
quantum ad congruitatem vel incongruitatem tam
bone sententie quam recte
gramatice. Il dictamen dicitur autem pròsaycum a proson, quod est
longum, quia ne legi metrice vel rythmice subiacens, congrue se potest
extendere. Circa dispositionem si vuole che il dictator laboret ut ordinetur
sub verborum serie competenti, et postmodum ad colores – GRICE FREGE FARBUNG -- procedat rethoricos. Poi vi sono le osservazioni de punctis et
virgulis et regulis eoruni; quelle
della constructio, in cui duplex est
ordo: Naturalis est ille qui pertinet ad espositionem, quando nominativus cum
determinatione sua precedit, et verbum sequitur cum sua, ut ego amo te. Artificialis ordo est illa
compositio que pertinet ad dictationem, quando partes pulcrius disponuntur; qui
sic a CICERONE (si veda) diffinitur. Compositio artificialis est
constructio dictaminis equabiliter per polita.
Si parla de regulis occurrentibus in dictamine: nello zeugma l'aggettivo
concorda col nome più prossimo: es. Socrates et Berta est alba: nella concepito
PREVALE IL MASCHIO: vir et mulier – i
promesi sposi -- sunt albi; il neutro prevale sul maschile e il femminile:
mancipium vir et mulier sunt alba. Si tratta dei verbi trasmissivi, de origine,
possessione et significatione quofundam
ver borimi, al de relativis et antecedentìbus; e quando anche s’è in pieno
campo rettorico De ornatu orationis et
colorìbus – FREGE GRICE FARBUNG -- retkorìcis, si trova indirettamente tutta la
declinazione perchè, parlando de
inseptione nominis per omnrs casus tanto al singolare, ((pianto al
plurale, le forme vengon tutte fuori, e medesimamente accade pei verbi e l’altre parti del discorso, gerundio,
supino, participio, pro-nome, pro-posizione,
pre-posizione, avverbi, di cui si passano in
rassegna gl’usi che se ne fanno al principio e alla fine dell'orazione – The exhibition was
visited by the King of France. Sicché sotto l'efficacia de’due insegnamenti
d'alta e umile grammatica, dei dettatori e dei grammatici, dove venirsi
praticamente e indirettamente elaborando
anche la grammatica del volgare, la quale poi appare direttamente quando
appunto il dictamen passa dal latino al volgare. Era un movimento, insomma,
fecondo in favore del volgare quello dei dettatori di BOLOGNA, e in
genere di quanti avevan che fare colle due lingue: e da qualunque aspetto le
fossero coltivate, a qualsiasi fine fosse rivolto l'esercizio, la grammatica del volgare spunta accanto a
quella del latino, ombra d’essa. Quel di-rozzamento del volgare fatto dai
maestri nelle scuole e nei libri a pratici fini rettorici, nelle prime come
nell’ultime scuole, non poteva non far sorgere ne'principianti, negli studiosi,
negli scrittori come la coscienza riflessa delle forme grammaticali del
volgare, apprendendole loro senza che s’accorgessero, senza somministrarne paradigmi, definizioni,
classificazioni. Tra il volgare e il
latino e il latino e il volgare sono continui e necessari i confronti sia nella
scuola letteraria che in quella giuridica. Tanto per chi s'avvia per i pubblici
uffici, che richiedeno faconda e ornata
parola, e possesso dello stile epistolare, quanto per chi si dedica al
notariato, lo studio del volgare sia pure pella via della grammatica latina era una necessità. Negli statuti che la società de’notaj
di Bologna promulga, gl’aspiranti al diploma di notaro doveno dimostrare
qualiter scirent scribere et qualiter legere scripturas quas fecerint
vulgariter et literaliter, et qualiter latinare et dictare. E a ciò non poteva
bastare uno studio stilistico, ma occorre anche lo studio delle forme e delle relazioni sintattiche. A un tale studio dovevan esser invitati o
condotti anche i discepoli di quel Signa, che fu de'primi a far sentir
l'influsso della Toscana alla sua scolaresca di BOLOGNA, e, meglio ancora, di
quel Faba, il cui conato di far
trionfare il volgare sul latino non potè esser solamente individuale. Faba,
osserva Monaci, viene a prendere il primo posto nella serie di quei maestri
che, facendo passare dal latino al
volgare l'arte dei dictamina, contribuirono assai più di quel che non si creda
alla formazione del nostro idioma letterario, e perciò alla determinazione sia
pure orale delle regole d’esso. Che l'insegnamento fosse porto in volgare confermano
anche i testi grammaticali esplorati da Thurot, il (piale osserva: On einsegnait la gram- [È
superfluo ch'io ricordi quanto e insegna su
questi argomenti Xovati, di cui
ora si può vedere il saggio, a Milano, su
Le Origini. Intorno alle Artes dictandi discorre anche Lisio, L'arte del
periodo nell’opere volgari d’Alighieri, Bologna. Sulla Gemma purpurea e altri
scritti volgari di FAVA (si veda) o FABA (si veda), maestro di grammatica in
BOLOGNA, in Rend. Lincei.] maire aux petits enfants sous une forme tout élémentaire,
d'après le Donatus minor, et mème en langue vulgaire; car, quoique je
n'aie rencontré que deux manuscrits qui contiennent des grammaires élémentaires
rédigées en francais, le traduction de casus par le substantif féminin case et
de modus par meuf montre que ces termes
étaient assez souvent employés pour avoir été accomodés au genie de la langue
vulgaire. Nel prepararsi
inoltre a pronunziare in volgare le
dicerie preparate in latino, nel leggere nel testo volgare, dato per disteso o
in compendio, le formule epistolari modellate in LATINO, ognuno era
naturalmente tratto a osservare le regole del volgare. Medesimente
gl'innumerevoli traduttori dal latino e
dal gallo, e anche dal provenzale, come
avrebbero potuto condurre l'opera loro, così minuta e analitica, senza notare le differenze morfologiche e
sintattiche fra l'una e l'altra lingua?
Codeste stesse volgarizzazioni, specie di opera di filosofia pratica e di varia
erudizione storico-letteraria e retorica, così diffuse e popolari, venivano
indirettamente ma non per questo meno efficacemente a propagare la conoscenza e
l'uso della regolarità del nostro volgare. Anzi le riduzioni e le traduzioni
dei testi di rettorica Notices et
extraits de diverses manuscrits latins, pour servir à l’histoire des doctrines
grammaticales aie moyen àge, in Noi. et extr., ecc. dell'Istituto imp. di Francia, Paris. Gli stessi testi di
grammatica latina dapprima redatti, com'era naturale, in latino, e poi, quando
e dove la conoscenza del latini' si era venuta facendo più scarsa, corredati
della versione volgare almeno nelle parti più necessarie tvocaboli, verbi,
nomi, avverbi, locuzioni, esempi, temi, finiron coll'esser redatti unicamente
in volgare. Son note le vicende di quel fortunato trattatela di grammatica
latina che fu tramandato di generazione in generazione, di paese in paese sotto
il nome di Janna, e che usurpa spesso il nome a Donato e gli disputa la
supremazia nelle scuole. Copiata e ri-copiata
e ri-stampata talvolta anche col titolo di Donato al Senno, adottata nel
corso preparatorio di Guarino, edita da Mancinelli col titolo di grammaticae
aditus tanna, fu ben per tempo volgarizzata non soltanto da un anonimo
bergamasco, ma da Mancinelli stesso, e nuovamente in Milano col titolo di
Donato al Senno con il Calo volgarizzalo; trad. in greco da Planude, servì ai
Costantinopolitani per impararvi IL LATINO, come agl’umanisti per impararvi nella versione di
Planude il greco. Sabbadini Fior di rettorica, la Retorica di
Tullio, ecc., se non contenevano
precetti di grammatica volgare, mirano però direttamente a metter in grado gl'indotti che ignorano il
latino, di parlare ornatamente nel volgar materno. E il compilatore del Fior di
Retorica riduce in volgare gli esempi
latini. Chi non vede gl’effetti di simili libri e ammaestramenti? Ben a ragione
Villani, parlando nella Cronica, Vili, io, di Latini, lo chiama digrossatore
de'fiorentini in farli scorti in bene parlare, ed in sapere guidare e reggere
la repubblica secondo la politica; e con non minor verità la critica afferma di
lui che mostra un certo presentimento degli alti e utili uiticj a'quali
eran chiamati i nuovi volgari romanzi: lode che in parte spetta anche a
Barberino. Per quanto concerne il latino, sorsero ben presto vocabolari e
grammatiche latino-volgari, che rappre [Ancona
e Bacci, Manuale. Sull'insegnamento che potè aver impartito Latini a Firenze
intorno all'ars dictandi, v. Fr.
Novati, Lect. cit., Le
epistole. Nei Reggimenti e
costume delle donne Onestate dice a Elocjuenza:
E parlerai sol nel volgar toscano E porrai mescidare alcun volgar
consonante ad esso di que'paesi dov'hai più usato pigliando i belli e i non
belli lasciando. Cito, tanto per far qualche
esempio, il dizionarietto latino-volgare contenuto nel cod. della comunale
di Perugia; il VOCABOLARIO
LATINO-ITALIANO contenuto nel cod. della Riccardiana, diviso per materia,
o meglio per gruppi di parole aventi un
identico significato, una specie di vocabolario de'sinonimi: di contro, p. es.,
alla colonna di sepultura, tumulus, baralrum, sepulcrum, pilum, tumba,
monimentum, monumentimi, colossus, cenothaphius abbiamo le corrispondenti voci
volgari la sepoltura, el monimento; la grammatichetta latino-volgare contenuta
nel cod.
di Verona, Biadego, Cai. descr. d. mss. d. Bibl. Coni,
di V. Verona. Un frammento di
grammatica latino-bergamasca ha illustrato negli Studi medievali Sabbadini, il
quale ci ricorda l'osservazione fatta da Thurot che nelle grammatiche latine
del Mezzogiorno d'Europa, dove era più scarsa la conoscenza del latino, sono
interpretati in volgare i thaemata che servivano all'applicazione delle regole. Una nuova grammatica
latino-italiana [veronese] ex ha fatto cono sentano, in ogni modo,
l'ingresso del volgare nelle scuole e nei libri scolastici, come strumento
necessario allo studio del latino, e il primo passo d’esso mosso nel campo
teorico sulla via dell'emancipazione da questo, dove procedette sì ostacolato
ma senza mai fermarsi. Tuttavia, questo ed altro di che si potrebbe
agevolmente dire, non spinse alcuno a
trattar di proposito la regolarità grammaticale ne nei libri né, a quanto si
può sapere, nelle scuole. Anzi quanto si
fece a prò del volgare, agevolandone il naturai uso orale, può considerarsi
come un ostacolo ad avvertir la necessità di quella trattazione. Il concetto teorico
scere Stefani, Revue des langues romanes. È notevole, secondo T., che vi s’espongano
significazioni e costruzioni irregolari e difficili. Un glossario
latino-bergamasco è pubb. da Grion in
II Propugn., e da Lorch ne'suoi
Altbergamkischc Sprachdenkmaler.
Altri testi grammaticali indica Rajna, Introd. cit. Per la spinosa questione, v. Zenatti, Dante e Firenze. La tesi di
Zenatti è che Dante a Ravenna potè aver insegnato nello studio retorica
volgare. La Romagna annunzia che Amaducci pone fine a un lavoro in cui crede d’aver
dimostrato che Dante in Ravenna tenne l'insegnamento della rettorica. Noi ammettiamo la possibilità
dell'insegnamento dantesco di retorica e anche di grammatica volgare, solo per
ciò che abbiamo detto della dottrina d'Alighieri circa la grammatica, e del
carattere precettistico del De vulgari eloquentia;
che, comunque s'andassero ormai modificando le condizioni e l’esigenze degli
studi, un insegnamento di lingua, grammatica, retorica volgare con intenti
letterari non è possibile. Se Dante lo imparte, fu solo, come solo fu a elevare
l'edificio del De Vulgari Eloquentia in quanto ha di nuovo circa la lingua e la
grammatica. Colgo qui l'occasione per dichiarare che dalla vasta letteratura
dell'insegnamento pubblico nessuna luce ho potuto trarre pel mio argomento, non
riguardando essa che fatti del tutto esteriori. Non giovò neppure il fatto die
ormai nel corpo stesso della grammatica latina se ne veniva introducendo tanta
parte di quella volgare da quasi bilanciarla, se s’eccettuino le definizioni.
Le nostre biblioteche sono ricche non solo di Prisciani, di Servi e di Donati,
e di grammatiche latine di noti e
ignoti, ma di compendi e trattati grammaticali latino-volgari veramente
preziosi anche pella storia della lingua, come, p. es., quello contenuto nel
cod. della Riccardiana, in
margine: Bucinensis Epistolae quinque de nonnullis Piscium, Avium, Herbarum, Anima della grammatica identifica
la grammatica col latino, la lingua immutabile, regolata: e checché si pensa
dell' origine e dello svolgimento del volgare,
questo non appare al certo in quella sua anche troppo vistosa mobilità capace
d'esser regolato; anzi i prodigiosi monumenti letterari che il genio dei tre
coronati produce, di tanto superiori a quelli pur così ammirati del periodo precedente,
distolsero vie più dall'idea che fosse necessario osservar le regole della
grammatica d'una lingua in cui, senz'esse,
Dante, Petrarca e Boccaccio avevano assegniti, sì alti fastigi. Né alla
grammatica si fa ricorso ne'momenti in cui, cessando il primato toscano,
riaffermandosi le letterature regionali, che innanzi a quello avevano quasi
d'un tratto ammutito, spezzatasi l'unità linguistica nella stessa Toscana, potè
lium Artificium vocabuli, che raccoglie liste di vocaboli assai importanti
(berlingozzi, insalata, erbastrella,
starna, fagiani, merla, giandaia, ecc. Il riccard. L, contenente una traduzione
latina dell’Iliade, ne' Rudimenti grammaticali, ha lunghissime liste di
avverbi, preposizioni e verbi con tutte le corrispondenze italiane; gli è
simile il I3 della nazionale di Firenze; altre liste di verbi volgari
contengono gli Ashburnam della Mediceo-Laurenziana, il riccard., il misceli.
della Casanatense frammento colle
corrispondenze romanesche, vardare, robare, cengere: notevole, tra quanti ho
potuto consultare di siffatto genere, il
riccard. contenente un tractatus grammaticalis ne'cui margini, in
corrispondenza del paradigma latino, è, segnata sempre rosso per miglior uso e
servizio mnemonico, la parte morfologica e sintattica del volgare, che, presa a
sé, è abbondante quanto quasi le regole
di Fortunio. E gli esempi vanno dalla singola parola, el poeta, la musa, lo
homo, la donna, la forestiera a costrutti participiali e gerundivi insegnando
ogni dì, intesi bene principia, volendo il discepolo imparare, e periodici di
più ampia tessitura, avendoti io amato e servito più volte, tu dovevi
richordartene. Questi testi grammaticali, oltre che al comodo comune, servirono
all'istituzione degl’appartenenti a famiglie di qualche importanza. Nell'ultima
pagina del Prisciano contenuto nel cod. riccardiano, è detto: io Lorenzo de
girolamo di Domenico di tingho o venduto q" Prisciano a Alexandre de
Romigi degli Strozzi e al prezzo de lire nove e per fide, ecc. Noto qui, come
per incidente, che molto sarebbe da raccogliere di prezioso materiale
linguistico dialettale o semi-letterario
anche nelle grammatiche latine umanistiche, essendo che i loro autori, Guarino,
Perotti, Scoppa, ecc., abbiano fatto
uso, pelle corrispondenze, del loro dialetto o del dialetto italianizzato.] parere che la letteratura
nazionale è signoreggiata come d’uno spirito d'indisciplina: il che veniva a
ribadire il concetto tradizionale della grammatica. Gello racconta che i literati, che primi usano all'orto de'Rucellai si maravigliarono
di alcuni literati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in
prosa di questa lingua senza alcuna osservazione: parendo loro impossibile che,
avendo pur veduti gli scritti di que'tre famosi, e'non avessero aperti gli
occhi alle loro osservazioni e non si fossero accorti in quanta corruzione
fusse incorsa la bellissima lingua che
parliamo. Neppur la lettura pubblica nello studio, che pur non poteva non dar
occasione ad avvertimenti grammaticali, suggerì l'idea della compilazione delle
regole prima di Landino, che avvenne pelle ragioni che già vedemmo. Che più?
Dalla morte, anzi dagl’ultimi anni di Dante, che dove ascoltare i rimpianti di
Giovanni del Virgilio del non avere egli scritto in latino il poema, sin oltre l’invettiva di Rinuccini,
cioè fino agl’ultimi echi del giudizio di Niccoli, che ha dopo morte un
difensore in Poggio la quistione sulla preferenza di Dante pel volgare, che è
di quelle che parrebbero fatte apposta per fecondare la critica sulla natura e
la struttura delle lingue e il modo di studiarle, fu a questo proposito
inutilmente agitata: tanto le accuse come le difese non andarono oltre i termini vaghi e generali di
bruttezza e bellezza. Di fronte agl’attacchi e ai dispregi rivolti ad Alighieri
pella forma e la lingua onde compone la commedia non cessati neppur dinanzi
all'opera mirabile compiuta, Guido da PISA (si veda), nel commento latino della dichiarazione
poetica dell'Inferno, si scaglia contro gl’ignoranti che, perchè scritta in
volgare fructum qui latet in ipsa,
quaerere negligimi et abhorrent. Corteccia è la lingua anche per BOCCACCIO (si
veda), che in tre momenti per lui solenni, Epistola a Petrarca per accompa- [È
discretamente abbondante anche la letteratura dei commentatori di Dante e di Petrarca,
ma ben pochi elementi fornisce al nostro tema dal punto di vista teorico. È
largamente trattata da Zenatti in Dante e Firenze, I brani che T. cita in proposito son tutti di
qui, e a questo saggio rimanda per molte altre notizie che gettano luce
sul nostro tema. gnar il testo della commedia,
trattatello in laude d’ALIGHIERI (si veda), lettura in Santo Stefano, difese
con tanto calore il suo ammirato poeta di tutte le accuse. E quando
l'intemperante e intollerante umanista lancia contro Alighieri il titolo di
poeta da calzolai, Rinuccini risponde
osservando che gl’umani fatti dipigne in volgare più tosto per far più utile a
suo'cittadini che non farebbe in latino, e affermando ch’il volgar rimare è
molto più malagevole e meritevole che'1 versificare litterale. Ser Domenico di
maestro Andrea da Prato anda più in là. dicendo che esso volgare nel quale scrive
Dante è più autentico e degno di laude che il
latino e'1 greco ch’essi hanno. Dopo questo stadio acuto della questione
i giudizi s'andaron facendo più miti. E quegli stessi che vi partecipano d’avversari
del poeta, finirono coll'ammirarlo: Bruni, p. es., che dichiara ne' noti dialogi
ad Petrum Histrum, di pensarla come Niccoli, scrive contro questo 1'oratio in
nebulonem maledicum e la vita di Dante e di Petrarca. Il Eilelfo
non isdegna leggere tutte le domeniche al popolo la commedia.
S' intende, anche ora detrattori non mancano, e Filelfo stesso dove purgare il poeta
degli spregi d'ignorantissimi emuli. Ma ormai l'umanesimo trionfante poteva
guardar la passata letteratura
senz'inimicizia, avvicinarla, ammetterla: il certame coronario fu pos- Il
dissidio, s'intende, era più apparente che reale, era più nella mente de' dotti colpita dall’esteriorità e imbevuta di
pregiudizi che non nel fatto: quel latino e quel volgare sono legittimi
prodotti dello spirito italiano, sono due modi d'esprimersi che apparentemente
designano una doppia serie di spiriti diversamente conformati; ma non era né
poteva esser cosi. Era un'età di transizione, e come tale presenta i suoi
contrasti, che sembrano e sono più stridenti
quando il nuovo irrompe colla sfrenatezza e l'intemperanza che gli è
consueta. Negli stessi singoli individui s’avvertono apparenti discordanze:
anche nei tre maggiori non mancano a proposito di questa stessa questione, del
riconoscimento cioè del volgare: semhrano contraddirsi, sembrano oscillare, ma
in realtà essi son sempre d'accordo e coerenti con sé stessi e coll'età. Così
avviene per Bruni e per Niccoli: il
primo muove dal latino per andar verso il volgare; il secondo dagl’entusiasmi
pel volgare che gli fanno imparar a memoria la divina commedia, passa agli
oltraggi contro il poeta divino. Poi tutta la gloriosa schiera degl’umanisti
accoglie in sé latino e volgare, e Alberti,] sibile appunto, perchè le ire sono
sbollite, e il volgare poteva presumere di misurarsi col latino. È appunto, cred'io, per questi
raffronti istituiti senza fiere opposizioni, se non in amichevole accordo delle
parti contendenti, che le discussioni, che dovettero derivarne, poterono
avviarsi a qualche conclusione utile; ora era proprio di lingua, che si poteva
parlare, indipendentemente dalle persone e dalle dottrine poetiche. Il fatto è
che appunto di questi tempi ha luogo, comunque
originata, la già accennata controversia di Biondo e di Bruni, donde
abbiam visto uscire il concetto della regolarità grammaticale del volgare,
concetto veramente rivoluzionario rispetto a quello che si aveva prima della
grammatica. E coll'implicita affermazione della possibilità della grammatica
del volgare, sorgere la grammatica. Anzi
ci fu anche qualcosa di più che quell'affermazione; Landino, nell'orazione tenuta incominciando a
leggere i sonetti di Petrarca, accenna esplicitamente al bisogno di scoprire e
rissare le regole grammaticali del volgare, intorno appunto agl’anni in cui una
mano stende la prima grammatica della lineria italiana. Poliziano, Lorenzo, Sannazaro son glorie di tutt'e due
le letterature. é Medesimamente, quando si parla dello scadimento della lingua volgare, s’adopera un termine
improprio, pelle ragioni che non importa ripetere. Per quel che concerne poi la
copia della produzione, basta, pella
poesia, vedere il volume di Flamini, La lirica loscatia anteriore ai tempi del
magnifico, Pisa, e pella prosa, quel che ne discorre Baco, nel libro Prosa e Prosatori, Palermo, al qual
volume rimando pell’abbondanti notizie bibliografiche concernenti i rapporti tra il latino e
il volgare. E pell'interesse onde fu
proseguita la tradizione nazionale, basta pensare alla lettura di Dante, al circolo
di Coluccio, a quello del paradiso degl’Alberti, alle conversazioni del convento
di S. Spirito, all’improvvisazioni
de'canterini in S. Martino, alle radunanze di
S. Maria del Fiore, all'ufficio
dell'araldo della signoria, all'opera
letteraria de'giudici e notai della cancelleria,
al circolo della bottega di Calimala, a quello della bottega del Bisticci, all’accademia
senese, agl’Orti, e, in genere, all’esercitazioni poetiche mantenute tra le
faccende giornaliere della vita, nelle cancellerie, nelle case signorili, nei
ritrovi, ne'fondachi. In Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare,
Firenze. LANDINO (si veda) è eletto professore pella poesia e l'oratoria. Ma il
caso rimane isolato appunto perchè ormai il movimento a favore del volgare fu
così intensificato, che non ci fu il tempo perchè la via segnata dalla
grammatichetta vaticana potesse essere ila altri battuta. Si sa che dopo l'anno
del certame, L’ITALIANO anda guadagnando sempre maggiori sim-[Avemmo tentativi
parziali d’ortografia, e, anche più particolari di punteggiatura. Onesta
precedenza nella costituzione di regole ortografiche e di punteggiatura ebbe
due diverse cause, oltre quella del dissidio tra il latino e il volgare: le
esigenze create dall'invenzione dell'arte della stampa, e il gusto che il
classicismo veniva sempre più raffinando e che voleva dimostrare anche nei
minimi particolari della scrittura. Per tale rispetto il costituirsi di questa parte della grammatica in norme
speciali era un avviamento di progresso, perchè moveva dal bisogno sentito
dall'artista di conservare alla sua parola tutta quella vita o la parte di
quella sua vita di cui egli aveva coscienza. È, al proposito, della massima
importanza il vedere quello che recentemente s'è scoperto praticasse PETRARCA (si veda) in armonia con una teoria
quasi certamente sua nello stendere in
definitiva forma il suo canzoniere, egli che da quel grande umanista che era e
artista di squisitissimo sentimento, il più squisito che noi avemmo, ben è in
grado d’avvertire le più impercettibili sfumature d'accento e di suono ne'suoi
schietti e luminosi fantasmi. Egli, oltre il suspensivus (/), la nostra virgola, il colon (.), il nostro punto, l' interrogativus anche talora in forza d'esclamativo f., il
nostro interrogativo, adopera per speciali atteggiamenti di pensiero DUE ALTRI
SEGNI speciali: un punto sottostante a una virgola (.'), simile nella forma al
nostro esclamativo, pella clausola non chiusa
nell’INTENZIONE (vide Grice, “I KNOW vs. I know” -dello scrittore – R.
M. Hare sub-atomic particles of logic; e un punto attraversato da una virgola (/), per esprimere un'idea enfatica – cf. Grice on stress - di
particolare interesse per lui. Do un esempio del primo segno. Da be rami
scendea dolce nella memoria. Una pioggia di fior sovral suo grembo. Ed ella si
sedea Humile 7
tanta gloria couerta già de lamoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo.
Qual sulle trecce bionde Choro forbito e perle
Eran quel dì a vederle. Ed ecco un esempio del secondo. Voi cui
fortuna a posto in mano il freno delle belle contrade Di che nulla pietà par
che vi siringa. Codesti segni, che si trovano adoperati anche nel vat. hit.,
contenente il bucolicum cat'tnen e nel vat. lat., contenente il de sui ipsius et multorum ignorantia,
corrispondono perfettamente a quelli di cui si discorre in un’ars punctandi, attribuita
a PETRARCA, e che questi avrebbe esposto
in una lettera a Salutati in risposta a un quesito di lui. L'edizione è fatta a
Lipsia con i tipi d’Arnaldo da Colonia, e comprende tre opuscoli riuniti certo
per uso scolastico: Il modus epistola/idi di Saphonenn, l'ars patie e aiuti da
parte de'dotti, e dalla Toscana il moto si propaga con molta rapidità nelle
altre regioni d'Italia, specie nel Veneto, dove scrissero o insegnarono le regole della lingua volgare
Augurello e Gabriello, e punctandi di Petrarca, e il Dyalogus de arte punctandi
di Giovanni de lapide. Società filologica
romana, iI canzoniere di Petrarca riprodotto letteralmente dal cod. vat.
lai., coti tre foto-incisioni, cur. Modigliani, in Roma, presso la Società.
Ili, Prefazione. Per altro, devesi osservare che questi trattatelli di ars
punctandi, come altri d'altro argomento
affine, quale il trattato De aspiratione di Pontano, erano dettati non in
servizio del volgare, ma specialmente in servizio del latino. Il volgare v’entra
in ispecie pelle varietà che veniva offrendo rispetto al latino, e l’osservazioni
erano poi più o meno seguite dai nostri grammatici del volgare. P. es.,
Fortunio ci dice. Come che il dottissimo Pontano nel suo trattato d'aspiratione dice, la pre-posizione
di questa lettera g a'vocali [come
in Giano, gioco, Giove] nella volgar lingua esser processo da barbari:
ma, la Tosca pronunciatione seguendo, a me par che vi si convenga. Se non s’ebbero
speciali trattati ortografici, non manca peraltro chi nelle trascrizioni
seguisse un sistema determinato di pronunzia. Mi basti citare 1'esempio messo
in luce da Rajna, Osservazioni
fonologiche a proposito d’un ms. della
Magliab., il libro della storia di
Fioravanti, in II Propugu., Dell'insegnamento di Trifon Gabriele, autore d'una Institutione della
grammatica volgare, uno de'grammatici e critici più riputati, e chiamato il
Socrate di quella età, Sanctis, Storia, ci lascia notizia in uno de'suoi dialoghi
Speroni, dove introduce a parlare de'
propri studi Brocardo. Questo nostro buon padre primieramente mi fa noti
i vocaboli, poi mi die regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni di
nomi e verbi toscani, finalmente gl’articoli, i pronomi, i participii, gl’avverbi
e l’altre parti dell'orazione distintamente mi dichiara. Tanto clic accoltein
uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica con la quale scrivendo
io mi reggevo. In Sanctis. Per ogni
notizia riguardante Augurello, Gabriello
e altri, rimando al cit. libro di Cian, Un
decennio ecc. Per Augurello, in particolare, Serena, Attorno ad Augurello,
Treviso, e Pavanello, Un maestro: Auguralo, Venezia. 11 P. non sa dirci nulla se
l'A. scrive la grammatica; ma afferma l'esistenza dell'insegnamento a
Padova, a Venezia, a Treviso, e dà altre
indicazioni importanti circa uomini e cose di questo periodo e di quanti
sono in
relazione con Bembo. Bembo anda meditando quelle che poi divennero le
sue celebri prose, mettendo insieme, a
richiesta d'una sua amica, un libretto di Votazioni. La grammatica ormai cade
sotto il dominio della poetica del ri-nascimento e si sottopone al principio
dell'imitazione: la qualità di Toscano
non era più necessaria per occuparsi autorevolmente ed efficacemente del
volgare, che veniva a esser considerato come lingua morta, e come tale studiato
e regolato nella grammatica. E senza negare che pur in Toscana le cure spese
intorno ad esso né s'arrestano né s'affiochirono, che anzi troveremo non pochi
tra i Toscani escogitatori di concetti e di riforme veramente originali, pure il movimento si svolge segnatamente fuor di Toscana,
almeno nei rapporti della compilazione scritta delle regole. Ci basta il
ricordare che a confessione stessa di Bembo, sono alquanti che scriveno della
lingua volgare. Codesti dovevan esser certamente fuori di quel circolo cui egli
dirige il manoscritto delle sue prose e che era composto di Trifon Gabriele,
suo principale corrispondente, d’Augurello,
di Tiepolo, di Valerio, di Ramusio e di Navagero. Chi fossero non è ben chiaro,
ma nella mente di Bembo dovevan esser con ogni probabilità, oltre il Calmeta,
che accusa di plagio, Fortunio,
Liburnio, Colocci. Se tutti costoro
insegnassero o scrivessero, come Augurello e Trifone, regole della volgar
lingua, non sappiamo; come non sappiamo se e come si concretassero l’osservazioni della lingua che, secondo la
testimonianza di Trissino, sarebbero andati facendo Dolfin, Fracastoro, Giulio
Su Calmeta v. specialmente Rajna,
La lingua cortigiana Anche a Colocci sono attribuite d’Ubaldini regole
della lingua, che però dovrebbero essere state confuse, come ben suppone Cian,
non tanto col vocabolario, che effettivamente esiste nei due codd.
vaticani, sì bene coll’annotazioni su
varii autori volgari e latini o colla
Colleclio vocum Petrarchae et aliorum, die realmente esistono ancora Oggidì fra i codici vaticani. Per
Colocci, Rajna, recens. cit. del libro di Belardinelli, nella
quale -ohm anche messi a profitto due
altri scritti riguardanti Colocci, l'uno di Neri, Nota sulla letteratura
cortigiana del Rinascimento, in Bull. il. di Bordeaux, e l'altro di Debenedetti, Intorno ad
alcune postille di A. C, in Zeit. f. rom. Philol.. 4S Sforici
della Grammatica Camillo, e quel Amaseo di cui, mentre
pronunzia una gonfia orazione a BOLOGNA in difesa del latino, ormai
detronizzato, si sa che spiegava al proprio figliuolo e a un altro scolaro le regole della volgar Ungila,
e l'altro gruppo di letterati di cui ci tiene parola Dolce nelle sue Osservazioni, Cappello, Veniero, ZANE (si veda), Gradenigo, Baroer, Amalteo,
ecc. – TUTTI VENETI. Ma se non tutti sono stati intenti a scriver e
compilar grammatiche, di cose grammaticali certo s'occupano e molto s'
intendevano, specie coloro a'quali Bembo richiede l'opera di correttori e di
consiglieri, e, per tornare in Toscana, i frequentatori di quegli orti
Oricellari, alle cui discussioni presero
parte, tra gli altri, TRISSINO (si veda), che vi espone le sue dottrine
ortografiche, e il grande segretario fiorentino che bolla d'inonestissimi i
seguaci di Trissino, sostenendo che quella tale lingua curiale non esiste se non in quanto il fiorentino
de'sommi si sarebbe imposto all'uso letterario di tutta Italia, arricchito nel
vocabolario, ma invariato nella grammatica,
e che, primo Per una grammatica di Camillo
v. più innanzi. Zambaldi, Delle teorie ortografiche in Italia, estr. dagl’Atti
del R. Istituto veneto, Venezia. Sensi
(M. Claudio Volo/nei e le controversie
sull'ortografia italiana, non è disposto
a cedere la priorità e la maggior importanza del movimento grammaticale toscano
di contro a quello delle altre regioni d'Italia, e raccomanda che questo punto sia meglio riveduto. Egli anche
a parer mio ha perfettamente ragione, (pianilo parla d’un interessamento dei
Toscani vivo, continuo e intenso versoli loro idioma, che manifestano specie in
radunanze e ritrovi, nello sforzo di parlarlo meglio che possono; ma in fatto di produzione di
grammatiche, fatto concreto e accertabile e accertato quella vaticana è
l'eccezione che ha il valore che abbiam
visto il posto d'onore spetta a non toscani. Quella stessa testimonianza di
Pazzi quel che noi ridiente diciavamo, loro si sono messi a far sul serio
indica la coscienza che di questo fatto avevano i toscani; e vedremo che fino a
Giambullari, la Toscana non ebbe un vero e proprio grammatico del volgare, e
quando i Toscani vi posero mano tu proprio anche per un certo sentimento di vergogna che li punse nel
vedersi legiferare la loro lingua dagl’altri – “which reminds me of Otto
Jersperson!” H. P. Grice. Su gl’Orti, Scott, The Orti Oricellari, Firenze. Pella
composizione del Dialogo intorno alla
lingua di Machiavelli, v. Rajna, in
Rend. d. Acc. d. Lincei, fra tutti, intuì il valore dell'elemento
sintattico nella lingua, come fecero
poi, tra gli altri, il Martelli e
Gelli. Tutto questo è detto per dimostrare che, quando Fortunio pubblica le sue
regole, la necessità dello studio grammaticale del volgare era largamente riconosciuta, sia come effetto della sorta
coscienza dell'importanza della letteratura, sia in tanto in quanto a parlar
bene nel patrio idioma occorr, in ordine al canone dell' imitazione formulato
dal classicismo, osservare la regolarità
de'nostri sommi. Quando Fortunio pubblica le sue regole, due fatti si maturano,
la vittoria definitiva del volgare sul LATINO e il comporsi della dottrina
dell'imitazione in una salda unità di principi. Anzi esse ne sono la prima comune manifestazione. Primo e
principale effetto di quella dottrina è lo studio della forma esteriore così
nella letteratura antica che nella
moderna, elevata ai medesimi onori di quella: della forma nessun aspetto
fu trascurato, parendo essa
quasi tutto il meglio del- [Regole
grammaticali della volgar lingua di
i/tesser FORTUNIO (si veda), reviste,
e con somma diligentia corrette. Aldus. La prima edizione ne è fatta in Ancona
per Vercellese. In poco più di trentanni sono ristampate diciotto volte.
Un'altra edizione da T. consultata è
quella di Vinegia, per Bindoni e Pasini compagni. Una
bibliografia de’nostri antichi grammatici s’ha nella Biblioteca
dell'eloquenza italiana di FONTANINI (si veda) annotata da Zeno, Venezia. Di
grammatici s’occupa di proposito anche Tiraboschi nella sua storia della
letteratura italiana, Roma. Grammatici italiani in volgare; Contese ortografiche, sul titolo della lingua, ecc.; GRAMMATICI FILOSOFICI TOSCANI. Notizie a
loro relative si possono raccogliere in tutte le storie letterarie: T. cita per
tutte quella scritta d’una società di professori e edita per cura di Yallardi,
ma ricordando in particolare la storia di Canello, Milano. Ai meriti di Sanctis
anche verso la storia, l'opera
d'arte, ivi scoprendosi tutto l'artifìcio dello
scrittore: quindi sceltezza di lingua,
correzione, regolarità, eleganza, armonia nel disegno totale e in
ogiir-rniirimo particolare sono le doti volute alla perfezione d'un' opera: si
discusse dove e come studiarle: sono studiate, poi legiferate, codificate in
altrettanti particolari trattati: grammatiche, vocabolari, disamine
linguistiche, metriche, rettoriche: l'osservazione è tradotta in legge: sorge
così il purismo classico:
l'erudizione cede il passo all'estetica.
Di queste particolari trattazioni, se stiamo alle date delle principali opere
critiche, sorge prima la grammatica: che le prose di BemboT dove, oltre la grammatica, son trattati
l'effetto poetico dei diversi suoni e il valore onomatopeico delle varie vocali
e consonanti, sono del 25, il De Arte poetica di Vida, dove si danno le leggi d’armonia
imitativa, è del 27, la Poetica di
Trissino, che discorre di lingua e metrica toscana, è del 29, del 35 è il primo vero vocabolario toscano, al
39 risale il tentativo di Tolomei
d'introdurre i metri classici nella poesia volgare ecc. Se ciò non dipese dal
caso, la ragione è da ricercare nel fatto che, come la regolarità grammaticale
è la caratteristica che prima colpisce l'occhio del lettore e dello studioso ed
è, diremo, la dote essenziale della
forma esteriore d'una scrittura, così è o sembra più facile e nel tempo stesso più utile e
necessario il codificarla. La grammatica inoltre, e questa della grammatica ho già accennato, e torna a
discorrerne direttamente a suo luogo. Notizie di grammatici s’hanno, naturalmente,
in tutti i libri che trattano la questione della lingua: bastera che T. ricordi qui: Caix, Die Streitfrage ilber d. ital. Sprache, neh'
Italia dell' Hillebrand; Ovidio, Le correzioni ai promessi sposi e la questione
della lingua; Napoli; Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua;
Catanzaro, Foffano, Giorn. si. d. leti. il., dove si tien conto de'grammatici con
molta diligenza; Luzzatto, Pro e contro Firenze, Sensi, Pass. Bibl.; ora, Belardinelli, La questione della lingua.
Un capitolo di storia della letteratura
italiana. Da Dante a Muzio. Con una fonte, Roma, cit.
receus. Rajna Su i primi
grammatici della lingua italiana è scritto, oltre che da Morandi già
cit., da Ferrari, Rivista europea.
Anche nel Canone è la prima scienza. è ragione forse di maggior peso che non la
precedente, è in intima connessione con ognuna delle trattazioni che possono
esser condotte anche separatamente;
perchè è linguistica, se indaga l'origine e lo sviluppo della lingua che
studia, è vocabolario in quanto registra, nei paradigmi e negl’esempi, molte serie
di parole, è storia dove tratta
d'etimologia, è metrica, e, fino a un certo segno anche rettorica, specie dove discorre dell'uso e
della collocazione delle parole e delle figure grammaticali. Lo sguardo
del grammatico, insomma, può spingersi
in ogni aspetto della forma, s’è largo e
profondo. L'opera del nostro Fortunio, infatti, di cui abbiamo i primi due
libri soltanto, l'uno del dirittamente parlare, morfologici, l'altro del
correttamente scrivere, ortografia, comprende, secondo quant'egli afferma nel
proemio, in altri tre libri, la trattazione delli più riposti vocaboli, etimologia,
stilistica, della costruttione varia
delli verbi, sintassi, e della volgare
arte metrica, svolgendo così tutta o quasi la materia grammaticale, senza dire
che nel primo e secondo libro sono spesso discusse delle questioncelle di
critica ermeneutica, quasi saggio d'un'ampia appendice, che pure aveva tracciata
nel suo disegno. Ad ogni modo, questo primo tentativo d'abbracciar tutta la
forma della lingua che s’offre ora allo
studio e alla imitazione, rivela il calore onde la critica s'applica alla letteratura.
Ma, in generale, all'elaborazione della grammatica volgare, com'è già avvenuto per quella vaticana, presede il
modello della latina. Dei grammatici latini quelli che conservano fino al ri-nascimento
la maggiore autorità, sono Donato, ch'alla
prima arte volle pella mano, e Prisciano
Cesariense, della turba grama
dantesca: Donato specialmente, nell’Ars minor, pella prima istituzione
grammaticale, e Prisciano, il più completo fra tutti, pello studio più elevato;
ma il ri-nascimento sente il bisogno d’adattarli per i tironi riducendoli e
integrando l'uno coll'altro. Un primo tentativo di riduzione ha eseguito per
tempo Zonino da Pistoia, che è il primo a imporre il nome di Reguìa~e~?i\\%. grammatica latina; ma non ha molta fortuna. Assai più largamente adottati sono invece
Guarino e Perotti. Quest'ultimo gode ancora il vivo favore dei discenti, come
vedremo sulla testimonianza del
Conte di
S. Martino, che lo copia
letteralmente nelle sue osservazioni di grammatica toscana. T. da in nota, per
comodità dei lettori e per evitarsi continui raffronti
e ripetizioni, un'indicazione sommaria
delle due arti di Donato e dell’instituzioni di Prisciano, valendosi
delle loro stesse parole: di Prisciano,
che non si presta pella sua abbondanza di
Ecco lo schema della Donati De partibus orationis ars minor, ed. Kiel,
Lipsiae. Partes orationis VIII – I nomen
II pro-nomen III verbum IV adverbium V participium VI coniunctio VII praepositio VIII
interiectio.Nomen est =df pars orationis cum casu corpus aut rem proprie communiterve SIGNIFICANS
(Grice ; ‘shaggy.’) Nomini accidunt, sex: qualitas, proprium – FIDO --, appellativum – shaggy conparatio positivo comparativo
supperlativo, genus, maschile, femmenile commune promiscuo numerus singulare
duale – ‘ambedue’ --, plurale, figura, simpice, conposta, casus VI. Pro-nomen est =df pars orationis –
Grice, “Someone, I, is hearing a noise, quæ pro nomine posita tantunden paene SIGNIFICAT
PERSONAMque – Grice, “PERSONAL IDENTITTY: “Something is hearing a noise” --
interdum recipit. Pronomini accidunt, sex) : qualitas, genus, numerus, figura. Verbum est (=df) pars orationis cum tempore
et persona sine casu aut agere aliquid aut pati aut neutrum SIGNIFICANS. Verbo accidunt septem
qualitas in modis indicativo imperativo ottativo
coniuctivo infinitivo impersonale. In formis perfecta meditativa frequentativa inchoativa.
Coniugatio PRIMA, AM-o, -as, -bo, -bor; SECONDA,
doceo; TERZA, lego genus attivo passivo neutro deponente
com.ì; numerus f singolare, duale, plurale
figura isimplice composta tempus praesens, praeterito imperfetto perfetto plusquamperfectum; futuro),
persona prima – Grice, “I am hearing a noise”, SECONDA TERZA “Someone is
hearing a noise). Adverbium
– e. g. ‘non,’ compostodi ‘ne’ e ‘on’ – est =df pars orationis, quæ adiecta
verbo SIGNIFICATIONEM eius explanat atque inplet. Adverbio accidunt tria: significano
loci temporis numeri NEGANDI (‘non’) affirmandi demostrandi optandi hortandi ordinis
interrogandi similitudinis qualitalis quantitatis dubitandi personæ vocandi
respondendi separandi iurandi eligendi congruendi prohibendi eventus comparandi
comparatiti figura. Participium est =df. pars orationis partem capiens
nominis, partem verbi;
nominis genera et casus, verbi tempora
et SIGNIFICATIONES, utriusque numerimi et figuram. Participio
accidunt sex: genus casus tempus SIGNIFICATIO numerus
figura. Coniunctio est =df. pars oratiois adnectens ordinansque
sententiam. Coniuctioni accidunt irta:
potestas coppulativa – e -- disgiunctiva – o -- expl. – ‘se’ --, caus., ration. figura ordo praep., subs.,
coiti. Prae-positio est =df. pars orationis quæ praeposita aliis partibus orationis SIGNIFICATIONEM casum aut
conplet aut mutat aut minuit. Praepositioni accidit unum: casus. Interiectio
est =df. pars orationis SIGNIFICANS MENTIS [ANIMAE] AFFECTUM VOCE INCONDITA.
Interiectioni accidit unum: SIGNIFICATIO (la
intelligimus cum multis aliis etiam comprehensivum, verbale, principale,
adverbiale. de comparativis et sup. et eorum diversis extremitatis: ex quibus positivis et qua ratinili
formantur; de diminutivis: quot eorum species, ex quibus declinationibus
nominimi, quomodo formantur de denominativis et verbalibus et part. et adv.:
quot eorum species, ex quibus primitivis, quomodo nasenntur. de generibus
dinoscendis per singulas
terminationes; de nunieris;
de figuris et
earum compage; de
casti. Genera: masculinum,
femininum, commune et neutrum vocis magis qualitade quam natura dinoscuntur,
quae sunt sibi contraria, epicœna vel promiscua. clnbia. Numerus dictionis
forma, quae discretionem quantitatis facere potest. singularis vel pluralis. Figura quoque
dictionis in quantitate
comprehenditur: vel eiiim
simplex, vel composita,
vel decomposita. Casus est
declinatio nominis vel aliarum casualium dictionum quae fit maxime in
fine. de nominativo casu per singulas extremitates omnium nominnm, tam in
vocales quam in consonantes desinentium, per ordinem; de genetivorum tam
ultimis quam penultimis
syllabis, de ceteris
obliquis casibus, tam
singularibus quam pluralibus, de verbo
et eius accidentibus. VERBVM est pars
orationis cum temporibus et
modis, sine casu, agendi vel patiendi SIGNIFICATIVM. accidunt octo. Significatio
sive genus, tempus, modus, species, figura, coniugatio et persona cum numero, quando afifectus
animi definiti. Significatio:
activus, passivus, neutrum (absolutum i, deponens. tempus: praesens, prateritum
et futurum: praeteritum in tria, imperi"., perf., plusquamp.
modi sunt diversae inclinationes
animi, varios eius affectus demonstrantes. sunt autem quinque: ind. sive
definitivus, imp., opt., subiun., infinitus. ind.us, quo indicamus vel definimus, quid agitur a nobis vel ab aliis,
qui ideo primus ponitur, quia perfectus est in omnibus tam personis quam
temporibus et quia ex ipso omnes modi accipiunt regulam et derivativa nomina sive verba vel participia ex hoc
nascuntur, et quia primo positio verbi, quae videtur ab ipsa natura esse
prolata, in hoc est modo, quemadmodum in
nominibus est CASVS NOMINATIVS, et quia substantiam sive essentiam rei SIGNIFICAT,
quod in aliis modis non est. neque enim qui imperat neque qui optat nequi qui
dubitat in subiunctivo substantiam actus vel passionem significat, sed
tantummodo varias animi voluntates de re cavente substantia. Species sunt verborum duae,
primitiva et derivativa, quae inveniuntur fere in omnibus partibus orationi.
diversae species inchoativa, -sco, meditativa, -urio, frequentativa,
desiderativa, et aliæ a nominibus
(patrisso) et a verbis (albico).
Impersonalia Figura quoque accidit verbo, quomodo nomini. Coniugatio est consequens verborum
declinatio. Sunt igitur personae verborum tres. Numerus accidit verbis uterque,
quomodo et omnibus casualibus, singularis, pluralis. de regulis generalibus
omnium coniugationum. de praterito perfecto. de participio. de pronomine. est pars orationis, quae pro nomine
proprio uniuscuiusque accipitur
personasque finitas recipit.
accidunt sex: species,
personae, genus, numerus,
figura, casus. species: primitiva derivativa, persona prima et secunda
persona singula habent pronomina, tertia sex
diversas voces. demonstrativa, hic, relativa, is, praesens iuxta, iste,
absens vel longe posita, ille, demonstrativa et relativa. genus: m., f., n.
figura: s., e. numerus: s., pi. casus: quemadmodum nominibus. De præpositione. Apolloni
auctoritam in omnibus sequendam putavi. pars orationis indecl., quae prep.
aliis part. vel appositione vel comp. cognationes de potestate separatae
praepositiones vel acc. vel abl. adiunguntur.
De adverbio et interiectione. Pars orationis ind., cuius significatio verbis
adicitur. accidunt species,
significatio. figura species prim. der. conp. sup. dim.
significatio adverbiorum diversas
species liabet tempus locum
dehortativa confirmativa figura: simpl. conp. deconp. iurativa dub. discretiva
ord. intentiva comp. super, etc.
Interiectionem Graeci inter adv. ponunt,
quoniam haec quoque ve] adiungitur verbis
vel verba ei
subaudiuntur, ut si
dicam papae, quid video?',
vel per se
'papae', etiamsi non
addatur 'miror', habet
in se ipsius
verbi significationeni. quae res maxime fecit, Romanorum artium
scriptores separatim liane partem ab adverbiis accipere, quia videtur affectum
habere in se verbi et plenam modus animi significationem, etiamsi non addatur
verbum, demonstrare. interiectio tamen non
solum quem dicunt græci
oxerMao/uóv significat, sed etiam voces, quae cuiuscumque passionis
animi pulsa per
exclamationem intericiuntur. habent
igitur diversas significationem: gaudii,
doloris, timoris, etc optime tamen
de accentibus earum
docuit DONATO E PRISCIANO, quod non sunt certi, quippe, cura et
abscondita voce, id est 6r non piane expressa, proferantur et prò affectus
commati qualitate, confunduntur in eis accentus De coniunctione. e. est pars
orationis ind. coniunctiva aliorum o. quibus consignìflcat, vini vel ordinationem
demonstrans: vim, piando simul essires aliquas significat, ut et pius et fortis
fnit Ænaeas; ordinem, quando consequentiam aliquarum demonstrat
rerum, ut si ambulat, movetur.
accidunt: figura et species, quam alii poteitatem nominant, quae est in
significatione coniunctionum, praeterea ordo. figura: s., e. species: copulativa,
continuativa, subcontinuativa adiunctiva causalis effectiva approbativa
disiunctiva subdis. disertiva abl. praesump. advers. abneg. collect. vel
rationalis dub. completiva ordo: praeponuntur. subponuntur. de
constructiono sive ordinatione
partium orationis, inter se. Quoniam
in ante expositis
libris de partibus orationis in plerisque Apolloni auctoritàtem sumus
secuti, aliorum qtwque sive nostrorum sive Graecorum non intermittentes
necessaria et si quid ipsi quoque novi potuerimus addere, nunc quoque eiusdem
maxime de ordinatione sive constructione dictionum, quam Graeci ovvra^iv vocant,
vestigia sequntes, si quid etiam ex aliis vel ex nobis congruum inveniantur,
non recusemus intercipere.
necessariam ad auctorum
expositionem. est oratio
comprehensio dictionum aptissime ordinatarum, quomodo syllaba comprehensio
literarum aptissime coniunctarum, et quomodo ex syllabarum coniunctione dictio,
sic etiam ex dictionum coniunctione perfecta oratio constat. Exempla: per
abundantiam: literae, relliquias, syllabae, tutudi, dictionis, me, me adsum qui
feci; literae prorfest, syllabae, inafoperator, dictionis, sic ore locuta est: per defectionem: literae,
audacter, syllabae, commovit, dictionis, urbs antiqua fuit quam, Tyrii
tenuere coloni. Quomodo autem literarum
rationem vel scripturae inspectione vel aurium sensu diiudicamus, sic etiam in
dictionum ordinatione disceptamus rationem contextus, utrumque recta sii an
non. nani si incongrua sit, soloecismum faciet, quasi elementis orationis inconcinne coeuntibus, quomodo inconcinnitas literarum
vel syllabarum vel eis accidentium in singulis dictionis facit barbarismum.
sicut igitur recta ratio scripturae docet literarum congruam iuncturam, sic
etiam rectam orationis compositionem ratio ordinationis ostendit: dementa,
syllabae, dictiones, orationes praeponuntur et postponuntur, dividuntur et
coniunguntur, transmutantur, aliae prò
aliis accipiuntur. Solet quaeri causa ordinis elementorum, quare a ante
b et cetera; sic etiam de ordinatione casuum et generum et temporum et ipsarum
partium orationis solet quaeri. restat igitur de supra dictis tractare, et
primum de ordinatione,collocatio, partium, quamvis quidam suae solacium
imperitiae quaerentes aiunt, non oportere de huiuscemodi rebus quaerere, suspicantes fortuitas esse ordinationum positiones. sed
quantum ad eorum opinionem, evenit generaliter nihil per ordinationum accipi
nec contra ordinationem peccari, quod existimare penitus stultum. si autem in
quibusdam concedunt esse ordinationem, necesse est etiam omnibus eam concedere,
sicut igitur apta ordinatione perfecta redditur oratio, sic ordinatione apta
traditati sunt a doctissimis artium
scriptoribus partes orationis, cum primo loco nomen, secundo verbum posuerunt,
quippe cum nulla oratio sine iis completur, quod licet ostendere a
constructione, quae continet paene omnes partes orationis. a qua si tollas
nomen aut verbum, imperfecta rit oratio; sin autem cetera subtrahas omnia, non
necesse est orationem deficere, ut si dicas: idem homo lapsus ben bodie
concidit, en omnes insunt partes orationes ausane comunctione, quae si
addatili, aliarti orationem exigit. Possumus autem et amplioribus
rationibus de ordinatione partium demonstrare; sed quia non de ea propo sitimi
nobis est, sumciat hucusque dicere. Quaestio quare interrogativa dictionum in
duas partes orationis solas concesserunt, id est in nomen et in adverbium: an
haec etiam approbatio est, principales duas esse partes orationis nomen et
verbum, quae quando in notitia non sunt, habere de se interrogationem
frequenter accipiendam? Ouoniam de bis, quae loco articulorum accipi
possunt apud Latinos in supra dictis ostendimus et de generaliter infinitis vel
relativis vel interrogativis nominibus, quae relationis causa stoici inter
articulos ponere solebant, et de adverbiis, quae vel ex eis nascuntur vel
eorum diversas sequuntur
SIGNIFICATIONES, consequens esse existimo, de pronuininimi quoque
constructione disserere. Partes orationis ad aptam coniunctiones ferri
debent. per figurarti, quam Graeci à.kkoiòxt\xa vocant, id est variationem, et
per nQÓÀrjynv vel ovMeipiv, id est
praeceptionem sive conceptionem, et per geBypia, id est adiunctionem et
concidentiam, quam ovvé/ATtxcùOiv Graeci
vocant, vel procidentiam,
id est àvrwirwow, et numeri diversi et diversa
genera et diversi casus et tempora et personae non solum transitive et per
reciprocationem. sed etiam intransitive copulanti, quae diversis auctorum
exemplis tam nostrorum quam Gra osservarle, a insegnarle, a compilarle sono
ormai una schiera, e il fine questo conta ancor più è in tutti unito: trovar i
principi onde condur con profitto lo studio e la 1 Vó stretto; per la s dolce
propose il 0, per il eh seguito da i atono il
k, per il suono gì la grafia Ij, lasciando il e e il g col suono gutturale
dinanzi a tutte le vocali, e il eh e gh pel palatale, e il digramma se. Sicché
il suo alfabeto, quale ci è messo sott'occhio nella Grammatichetta, presenta 33
rappresentazioni: a b e d e f g eh e gh k i 1 j m nopqr^stouz v § x y th ph h, delle quali
fa 28 SIGNIFICATIV, cioè, rappresentative degl’elementi
della voce, V
oziose -- x, y, ph, th, h -- benché
“h” non lo consideri
una *lettera*, ma
un accento aspirato. Le SIGNIFICATIVE distingue in VII vocali
(aeeiocju) e 2i consonanti. Colle vocali
forma 13 dipthomgi, ai au ei eu
ei ia ie ie io ico iu oi uo e un triphthngG>
(iu 99 renze e a Siena se ne fosse parlato, non mancali prove che l’attestino.
Lasciando dell'atteggiamento preso contro Trissino e quant'è di personale nella
polemica, e la contestata possibilità di conseguir l'intento in materia
siffatta, gl’oppositori accettarono la distinzione per Vu e
il v, quella dell', per convenzione. Tratta
poi del nome, e non va più innanzi, perchè da
lui rivegna a noi, di tutte le cose conoscimento, forma e sostanza.
Secondo il novero e il grado, secondo che SIGNIFICA Corpo o ver Cosa, che sia
d'altrui qualità propria o
comune, otto ne
sono gli osservamenti: Specie Qualità Comparazione Geno
Novero Forma Grado e Terminazione. Date tutte [È
la vera traduzione
dell' alviariKÓv de’greci.
Trattandosi della prima grammatica dove si affacci un
intendimento classificatorio – o tassonomico, i. e., non-esplicativo –
adequazione descrittiva --, credo meriti
la spesa il riferire le definizioni di quest’accidenti grammaticali. Specie ee,
una natia disposizione, di che che sia voce; per cui de'1 primo suo essere
discernimento riesca, o soccedente dopo. Geno ee egli, uno racconoscimento
dell'un sesso all'altro, dallo anziposto articolo, naturalmente tratto, o
dall'autorità degli scrittori, alle genti rimase. Novero e egli, uno
accrescimento di quantità, d’uno a più procedente; per terminazione distinto.
Forma ee ella, uno racconoscimento della parola sempiamente detta, o congiunta
e apposta altrui. Grado fia egli, un certo movimento della variazione,
ne '1 Novero, racconoscimento per anziposto
articolo sempiamente addetto, o con
preposizione riposto. I casi son detti: nominativo vocativo genitivo acquisitivo
causa-] guaito le relative definizioni, porge i paradigmi delle terminazioni, declinazioni,
di cui fa cinque classi a; o; e; i; Gerì,
Portici, Napoli; cons. David, Babel e
infine un Notamente vocabolarietto de Nomi di che sia detto nello costui ragionamento. La medesima
applicazione del concetto di TRISSINO D’ORO del volgare illustre al canzoniere
fa un altro curioso seguace di Bembo, il conte di S. Martino nelle sue osservazioni
grammaticali e poetiche della lingua d’ITALIA, dove lo schematismo grammaticale
acquista quanto e più che nella grammatica dell'Ateneo un considerevole
sviluppo. Difendendosi dall'accusa rivoltagli d'incapace, qual nato sul confine, a osservar le regole del volgare,
egli fa intendere che non occorre esser toscani per comprender Petrarca, il
quale non iscrive nel puro fiorentino, ma nell'ITALICOi, che rappresenterebbe
per noi quel che per i Greci la Kotvfj
òià/.EKTos(l). Egualmente
dichiara d’attenersi ai modi facili e intesi da tutti, non tolti di mezzo la
Toscana, e usando anche vocaboli latini un
m. Nicolò Tani dal Borgo a S.
Sepolcro che, pur trattando della nostra lingua toscana, scrive i suoi avvertimenti sopra le regole toscane colla
formazione de’1 verbi, e variatione delle voci, non pe'toscani, tivo,
Terminativo. Qualità ee, un partimento di nomi, de gl’uni agl’altri, altri
fatto commone o proprio, a cose divertevoli tratto.Comparazione ee un
accrescere o scemare di qualificato accidente, con anziponimento di se: per l’additioni
fattone, significanti diminuzione, o accrescimento d’appellazione che sia. Terminazione,
osservamento sezzaio, una fine esser diciamo, di che che sia Appellazione; variata per gradi, et in uno de
vocali pello sempre finiente; con barbari alquanti in consonante formati. I
nomi son divisi in essistenti, sostantivi, e adherenti, aggettivi, shaggy. La
doppia uscita è chiamata geminamente
chiostro, -a; calle,
-a; martire, -o. Delle parti del discorso fa nove classi: nome, pronome, articolo, dittione, verbo, partecipante,
additione, avverbio, preposizione, congiuntione, interposizione: che
corrispondono press'a poco alle nostre, tranne che fa una classe del participio
e non dell' 'aggettivo, che fonde col nome. A questo raffronto hanno ricorso
altri propugnatori dell'italiano comune, a cominciar da CALMETA, che se ne
sarebbe servito per persuadere, ma indarno, la sua dottrina a TRIFONE. Cfr.
Ra.ina, La lingua
cortigiana cit.In Venezia,
per Giovita Ripario. Sono lodati da Fedeli in una sua lettera posta dietro le rime di
Torelli. E infatti pell'uso a cui la destina l'autore, sono esposti con certa
bravura didattica, e ricchi principalmente
di paradigmi. S'in- [ma per
quei fuori d'Italia. Un bel riscontro alla precedente offre questa
dichiarazione che Citolini, autore della Tipocosmìa, fa nella sua lettera in
difesa della lingua volgare: io voglio starmi nella Toscana non come in una
prigione, ma come in una bella e
spaziosa piazza, dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono. Né mancarono
de'seguaci di Trissino più trissiniani di lui – more Griceian than Grice -- come
Arezzo nelle sue osservaniii della LINGUA SICILIANA O e Achillini
nel dialogo dell’annotazioni della volgar lingua [Arezzo, partendo dal
concetto che l'antico siciliano è lingua più pulita che non sia il moderno, e
tale concetto appoggia coll'autorità di Dante, scrive la grammatica _p_er icojr^ regger questo e ridurlo all'antico splendore,
sicché i siciliani possano adoperarlo
come lingua propria letteraria. Non è una
grammatica completa, perù che io
non altro fari intendo chi purgar la nostra lingua mutando alcuni palori non
ben usati. Cita l'autorità di poeti siciliani viventi; ammette per necessità
l'uso di parole latine e fiorentine per ragioni di stile italianizzate. E dà
una raccoltina di sue canzoni per mostrare come sarebbe da scrivere, ponendo in
margine il commento. dugia molto sui mutamenti di vocali in principio, nel
mezzo e nel fine delle parole; dei vocaboli composti; del troncamento e
dell'accrescimento. E notevole l'osservazione riguardante i participi
sincopati,che sono ancor oggi una delle
caratteristiche del dialetto della regione di cui è l'autore: ingombro, cerco,
scuro, inchino, desto, franco, molesto, stanco, lasso, ecc. da ingombrato,
cercato, scurato, inchinato, ecc. Oggi vi si sente, p. es., 'nsénto per
insegnato. La lettera è datata da Roma; ed è edita in Venezia per
Marcolini da Forlì.
Vi si dice
che il Citolini
conversava con m.
Trifone; e che
la lettera trovavasi
manoscritta nelle mani
di Zane. Fu ripubblicata
in compagnia d'una
lettera del Ruscelli
al Muzio, in
Venezia al segno del Pozzo Osservaniii; Della lingua siciliana ecanzoni, j
in lo, proprio idioma, Arezzo,
| gititi/' Homo, sa | ragusano.
Ad instantia di Siminara. In Missina per
Spira. Annotationi della volgar lingua d’Achillino, Bologna da Bonardo da Parma
e Marcantonio da Carpo dall'originale dell'Autore. Eccone un esempio: Vinci disdegno d'ogni amor la forza: Volsi diri:
chi cosa
Muta lo cori, e trasforma la vogla: nixuna pò mutar [Achillini loda ed
esalta Dante, Petrarca e Boccaccio perchè lo meritano, e quando gl’accade
volentiera gVimita: gli piace anche il fiorentino quando è pronunziato bene, ma
ritiene più corretta, in qualche parte, la comune e bolognese nostra: perchè
derogar' alle più belle parole nostre non intendo, non sol alle nostre
bolognesi, ma di quale altra si voglia patria, che sono delle thosche migliori,
le piglio, e le thosche abbandono. Non però di libertà privando coloro, che
thoscanamente vogliono procedere. E con pieno sentimento della bontà della parola
viva, argutamente soggiunge; A noi ìntraviene come a coloro ch'hanno in casa
bianco e ben cotto pane, e vanno in prestanza dal vicino a tuorne de'1 negro et
mal cotto. E s' argomenta rafforzare questo sentimento estetico della lingua
colla ragione storica. Così preferisce Olempo ad Olimpo, perchè questi due
elementi i ed e hanno sì grande insieme l'amicitia che quando quella / dalla
romana ovvero latina si parte per farsi volgare, ed ella in molti dittioni in e
si trasforma, come in ancella da anelila; più Olempo gli fa comodo perchè rima
con tempo! E preferisce zeloso, che viene da zelo, -as, a geloso, perchè noi
bolognesi, toscanizzando geloso, si fa come il gentil che butta via la gentil
moglie, e ne piglia una bastardella. Bologna docet dal tempo di Teodosio:
dunque Bologna è la madre, dunque a Bologna la lingua volgare nostra il suo
rifugio sempre mai d'aver deve, specialmente ne'1 bene, e che li figli
cordialmente ama. Achillini è E lo mio cori mai forzao: nen forza: lo cori so,
di lo amor Ne lo rimossi di l'antica dogla: della sua donna, Anzi la vidi
vigurosa smorza stanti la fidi e Foco, chi di disdegno si ricogla, la
constantia, E la costantia: chi di novo sforza: la qual costringi la Costringi
la radici a nova soglia. radici di l'arboro di lo amori a novi effetti. Pulejo
Ettore, Sul più antico abbozzo di grammatica siciliana, Atti e rend. dell'
accad. dafnica d’Acireale; e Sabbadini, Studi medievali. Con questi criteri
Achillini compone un suo poema didascalico ad imitazione del Dittamondo, intitolato
il Fedele. Frati, Giorn. st. d. leti, it. Ad Achillini dobbiamo quelle
Collettame grece, latine e vulgari sulla morte dell'ardente AQUILANO (si veda)
in un corpo redutte, che Ancona illustra, Studi, e dove sono rappresentate
quasi tutte le città della pe- [l'unico che voglia parlar la propria lingua,
lasciando piena libertà agl’altri, ai toscani di parlar la loro. Ed è il più
logico. O meglio, chi mostra anche più buon senso in tanto variar d'opinioni e
meno vaga coscienza di quel che sia la lingua, è Bolzani, il cui dialogo è male
che non vede la luce che quasi un secolo dopo da che era stato disteso, sotto
l'impressione di dispute avvenute, presente Trissino. Lelio, uno
degl’interlocutori, a' quali nisola. Non possiam forse parlare d'una dottrina
del volgare illustre dantesco che gli serva di fondamento ideale; ma nel fatto
nulla vieta di considerarlo un omaggio a tutte le parlate di Italia che
l'Achillini egualmente rispettava. Dialogo della volgar lingua di Valeriano,
Bellunese, non prima uscito in luce. In Venetia, nella Stamperia di Gio.
Battista Ciotti. Fu ristampato dal Ticozzi, Storia dei lett. e degli artisti
del Dipartim. della Piave, Belluno. La composizione di questo Dialogo, il
secondo dopo quello del Machiavelli, in cui si riflettono le discussioni sulla
lingua che il Trissino avvivò discorrendo del De Vulgari Eloquentia, di cui
possedeva uno de' pochi esemplari, si suol riportare (G. Percopo, Giorn. st. d.
lett. il., cioè a un tempo di poco lontano alla composizione del dialogo
machiavelliano e alla breve fermata fatta dal Trissino in Firenze e alla
probabile visita dell'anno successivo alle medesime radunanze. È ben noto che
discussioni simili a quelle degli Orti e nelle quali medesimamente, come
apprendiamo in ispecie dal Cesano, il trattato dantesco era oggetto e materia,
avvennero in Roma, presente anche qui il Trissino, che risiedette colà. (Rajna,
Introduz. eh., p. L'I. Ora, il Dialogo del Valeriano, che, come ogni scritto
consimile, se non è riproduzione dal vero, è finzione che nel vero deve avere
qualche radice, a me sembra che rispecchi assai meglio le radunanze romane del
24 che non le fiorentine del 13 e 14. La scena è collocata in Roma e ne sono
interlocutori Lelio, il Marostica, e Angelo Colotio (il Colocci): e il Colocci
vi riferisce agli altri due il dialogo avvenuto la sera innanzi in altra casa,
dove egli fu trattenuto, in Roma stessa. Può esser tutta finzione questa e il
contenuto del riferito Dialogo appartenere alle discussioni fiorentine; ma
l'allegazione del pensiero del Papa e il richiamo della tirannide che il
fiorentinismo aveva impiantato alla capitale e le macchiette di quei
canzonatori fiorentini, sono indizi a' quali mal si sa dare una realtà tutta
immaginaria. Quel che, per altro, secondo noi, basta a dirimer la questione, è
la teoria del Tolomei intorno al volgare, la quale corrispondeva perfettamente
a quanto il Tolomei veniva pensando e scrivendo appunto in quel bat- il Colocci
riferisce il Dialogo avvenuto tra il Trissino, il Tolomeij il Tibaldi e il
Poggi, dice: Io non sento la più sciocca cosa, che '1 parlar toscano da uno,
che non sia Toscano; e riesce ridicolo per lo più, chi vuol parlar la lingua
d'altri, perchè non può star tanto sull'aviso, che a lungo andar non iscappi
nel naturale, poiché la radice tien sempre della sua natura (p. 15). Il
Marostica, un altro interlocutore, si duole in modo veramente spiritoso di non
aver assistito al dialogo. Dio, perchè non mi smi io trovato a questi
ragionamenti per poter finalmente risolvere, se ho da parlar con la mia lingua,
o con quella d'altri, eh' è una compassione il fatto mio, ogni volta, che ho da
scrivere a un amico, star a freneticar, s' io ho da usar la mia lingua, 0
mandar per un'altra al macello. Messer Angelo, non si può più vivere, dapoichè
son usciti fuora certi soventi, certi eglino, certi uopi, certi chenti, e
simili strani galavroni; non posso passeggiar per Parione, che vengano questi
giovanotti dottarelli, barbette recitanti, e stanno ascoltando, quel che
ragioniamo insieme, e ci puntano negli accenti, nelle parole, e sulle figure
del dire, che non sono Toscane senza una compassion al mondo, ridendosi di noi,
che se ben ha verno messo la barba bianca tagliero 24, e che non so da quale
altra fonte, se non dal ricordo delle radunanze romane, Valeriano avrebbe
potuto attingere. E anche la presenza del Pazzi è ben significativa. Cosicché
io inchino a credere che questo caratteristico scritterello sia da riferire a
un tempo non anteriore. L'oggetto della disputa che vi è riferito era stato: se
questa lingua Volgare era nostra, o d'altri, e se l'era toscana, e di che
paese, e se si poteva scriver in volgare altramente che con forme Toscane. Poi
si trattò, se per Lingua Toscana, s'intendeva solo la Fiorentina, e sopra tutto
qual convenisse a un galant'homo. La disputa, invece, quale è rispecchiata nel
Dialogo del Machiavelli, che da ogni accento mostra esser vero, è ben diversa.
E anche le parole, che si potrebbero allegare per metter il Dialogo del
Valeriano in relazione con le discussioni degli Orti: Misser Giangiorgio
[disse], che stava sopra una fantasia di certe lettere, che mancavano nel
nostro alfabeto, poiché avendo la pronuntia diversa, si notavano con la
medesima figura, vanno assai meglio pel 24, l'anno appunto in cui la riforma
trissiniana fu resa pubblica. Noto con piacere che anche Rajna nella già cit.
recens. (che vedo ora nel riveder le bozze) del saggio di Belardinelli, su cui
parimenti getto lo sguardo ora appunto per la spinta di quella recensione, con
quest'ultimo de' miei argomenti e altre parole propugnata nuovamente dal
Belardinelli.] negli studi, non sapemo quello, che mai non ci sognassemo
d'imparare. Non dico già, che, poiché havemo un Principe Toscano, e di tal
dottrina, virtù, e benignità dotato, non debba ogniuno accomodarse, ingegnarse,
arfaticarse con tutta l'industria, che può, di fargli cosa grata. Ma io povero
vecchiarello, come posso hora imparar di nuovo a parlare, che, come vedete,
m'incominciano cascar li denti? Certo, che m'è venuta qualche volta tentatione
di partirmi di Roma per non esser tenuto forse per ribello, perchè non parlo
toscano, e mi scappa di quando in quando mi, e ti (pp. io-ii). E il Colocci
risponde con altrettanta arguzia, e fors'anche verità storica: Messer Antonio,
la cosa non passa in questo modo. Il Principe non ha fantasia, ne pensier, ne
interesse alcuno in questa materia; è homo universale, dotto come sapete, in
lettere greche, e latine, et esercitato in tutte l'arti, che appartengono a un
vero, e gran signore; e si prende piacere d'ogni esercitio d'ingegno, ma
particolarmente di queste dispute, et osservationi; perchè havendo la lingua
nativa, e libera, se ride di questi, che la mendicano, ma molto più di quelli,
che la vogliono restringere, e limitar tutto il dì, e farla star a regola nelle
stinche, si che non pensate che questo si faccia per adularli, che tanto amerà
egli una cosa ben detta nella Cappella di Bergamo, quanto un'altra detta sotto
la Cuppola di Firenze. La quistion è fra questi begli ingegni e scientiati de',
nostri tempi. E tale quistione è riassunta nel Dialogo con molta esattezza, s'
intende riguardo allo spirito: le dottrine del Tebaldo, che rappresenterebbe la
corrente dialettale non toscana; del Pazzi, sostenitore del fiorentino, del
Tolomei, propugnatore del Senese o meglio del Toscano in genere, del Trissino,
che vagheggiava dantescamente l'uso cortigiano, sono con obiettività tale
riferite, da far apparir appena che il Valeriano stia più dalla parte del
Trissino che non de' Toscani. E anche l'ultimo pensiero messo in bocca al Trissino
a conchiusione del dialogo e come sintesi dei principi da seguire, è di tal
forma che i Toscani stessi avrebbero potuto accettarlo. Infatti, ciascuno, come
avrò più volte osservato, aveva perfettamente ragione dal suo punto di vista, e
tutti, come su per giù convenivano, per quant' era possibile, nella pratica
(ciò che avviene poi in ogni secolo, perchè in ogni secolo o periodo storico
gli spiriti sono su per giù tutti conformati all'ìstesso modo), così, tra tante
divergenze e contradizioni anche con sé stessi, finivano per convenire nella
teoria d'una lingua letteraria comune, che, fatta ragione di particolari
predilezioni dialettali o letterarie, era e non poteva non essere che il
fiorentino (piale la letteratura nazionale l'aveva adoperato. Il Machiavelli
stesso si trovava più d'accordo con Dante, di quel che certo egli e gli altri
non credessero. Era proprio come diceva il Colocci: La quistione è fra questi
begli ingegni e scientiati de' nostri tempi. L'importanza derivava dal modo e
dalle ragioni della disputa: e anche per noi quel che importa, è che una tale
questione fosse stata agitata, e si tenesse così vivo l' interesse per il
linguaggio. Ma i più camminavano sulla via nella quale s'era messo il Bembo,
trattando nelle grammatiche la regolarità trecentesca, specialmente del
Canzoniere, e raccogliendola in dizionari. Annotazioni su vari autori volgari e
latini e una Colleclio vocum Petrarchae et aliorum , intorno a cui avrebbe
lavorato nel medesimo tempo in cui il Bembo stendeva le Prose, ci ha lasciato,
come vedemmo, Angelo Colocci suo grande amico, cui, pertanto, spetterebbe il
merito di priorità nella compilazione d'un vocabolario volgare sul Liburnio {Le
tre Fontane), sul Mi nerbi che diede una raccolta di voci del Decameron e ne
prometteva una del Canzoniere, sul Luna che nel 36 ne diede una di cinquemila
vocabulì toschi del Furioso, Bocaccio, Petrarcha ed ALIGHIERI, sul Di Falco,
autore d'un Rimario, dove rimanda al J Vocabolario della Fingila Volgara di
prossima ma non mai avvenuta pubblicazione. Osservazioni sopra Petrarca, puro
lessico della lingua, come lo chiamano Carducci e Ferrari, del resto
utilissimo, ma qua e là arricchito di qualche breve spiegazione , come aggiunge
il Morandi, compilò Francesco Alunno, che nel 50 ne diede fuori una seconda
edizione meglio ordinata e più compiuta, dopo che aveva messo in luce le altre
due voluminose raccolte delle Ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio
e della Fabbrica del mondo, che con- Sono ancora tra i codd. vaticani. Cfr.
Cian. Cfr. Morandi] tiene le voci di Dante, del Petrarca e del Boccaccio e di
altri, ed è anche una specie di enciclopedia. Di grammaticale nelle opere di
questo eccellente anatomista delle composizioni volgari , come egli stesso
modestamente si fa chiamare in una lettera che finge direttagli dal Petrarca
medesimo, c'è poco più che la classificazione dei vocaboli nelle varie
categorie delle parti del discorso. Il di più consiste in qualche notazione
etimologica come in Donna, quasi domina levata la / et mutata la M in N...;
nell'unione degli epiteti o agiettivi ai loro sostantivi; in regolette e
osservazioni riguardanti le particelle; e nell'indicazione de' vari modi in cui
i verbi si variano secondo le variationi de i suoi tempi; nelle
osservazioncelle ortografiche che sono in fine alla raccolta; non entrando nel
campo strettamente grammaticale, non dico alcuni cenni biografici o storici, ma
le dichiarationi delle voci , onde le voci sono accompagnate. Le Ricchezze
furono ristampate da Aldo in Venezia, con le dichiarazioni, regole,
osservazioni, cadenze e desinenze di tutte le voci del Boccaccio e del Petrarca
per ordine d'alfabeto, e col Decameron secondo l'originale ecc. La forma tipica
di questi zibaldoni tra lessicali e grammaticali e spositivi quali eran
richiesti dai bisogni di chi s' introduce nello studio e nel culto del volgare
con la guida del Bembo, ci è data nella sua opera intitolata Vocabolario,
Grammatica et Orthographia de la Lingua volgare, con ispositioni di MORANDI.
Lombardelli giudica così l'Alunno: Fin'oggi, è il più facile, più comune, e più
utile scrittor di questa schiera, per quanto però da una semplice e debol
Teorica si penda alla pratica, per ordinario può far benefizio ai Giovani e a'
principianti; a certe occasioni levar fatica a' bene introdotti; e per dubbi
che nascono all'improvviso intorno all'uso delle voci Toscane giovare
ugualmente a' nostri, forestieri, deboli, gagliardi. Nelle osservazioni sopra
il Petrarca esamina principalmente le voci, e le locuzioni poetiche; nelle
Ricchezze i parlari, che alla prosa convengono; nella Fabbrica le voci e le
guise di dire comuni, e popolaresche, scelte però da lui con assai buon
giudizio da tre principali scrittori Toscani e talvolta dal Sannazaro,
dall'Ariosto e dal Bembo. In certe dichiarazioni se ben per lo più vi è gito
pesato, o sospeso, non è la più sicura cosa del Mondo. / fonti, pp. 55-6. Delle
opere lessicografiche dell'Alunno riconosceva l'opportunità il Giraldi, Scritti
estetici, Milano. Cfr. L. Arrigoni, F. Alunno da Ferrala, ecc., Firenze.] molti
luoghi di /laute, di Petrarca e Boccaccio, d’Accarisio, che già nel 38 aveva
mandato Cuori separatamente una grammaticheita, certe regolette latte leggendo
il Bembo e grammatici, spositioni delle prose del Bembo in brevità redotte, et
tale che chiunque vorrà imparare, piglierà speranza in breve di vedere il fine.
L'Accarisio ha cura di tener distinto il linguaggio della prosa da quello della
poesia, come aveva inteso di fare il Minerbi col vocabolario petrarchesco da
lui annunziato, e come su per giù intendevano ormai far tutti più o meno
esplicitamente: Regole, osservanze, e avvertimenti sopra lo scrivere
correttamente Cento. Una seconda edizione con Privilegio di N. S. et d'altri
Principi per anni A" ne fu fatta in Venetia alla bottega d' Erasmo di
Vincenzo Valgrisio. La Grammatica volgare di M. Alberto de Gl'Acharisi da
Cento. In Venezia per Nicolini da Sabio. Ad instantia di M. Merchiore Sessa. Fu
ristampata più volte. Di questo libriccino io ho potuto vedere, per cortesia
del prof. Teza, l'edizione del 43: La Grommati ca volgare di M. Al | berto de
gli Acha | risi da Cento. Dopo II fine: stampata in Vinezia per Francesco
Bindoni e Mapheo Pasini, piccolissimo di fogli 4. È dedicata al sig. Conte
Giulio Boiardo signore di Scandiano. Alti lettori l'A. dice di non aver voluto
essere scrittore di regole volgar, ma che per imparar leggendo le prose del
Bembo e altri auttori, da i loro scritti per mia utilità questa brevissima
regoletta mi feci... saranno spositioni delle prose del Bembo in brevità
redotte. Raccomanda di studiar Bembo, Boccaccio, Petrarca e Dante: apprendete
la facilità del dire, l'abondantia, le belle sententie, le clausole numerose,
et fuggite gli antichi vocaboli, che hoggi se eglino vivessero non userebbono,
per lo nuovo uso mutatisi, et scrivendo thoscanamente, scrivete con tale
facilità, et vocaboli sì, che da chi gli scritti vostri leggerà, siate intesi,
acciocché del vitio deiraffettione non siate ripresi. Poi scrive: Incominciamo
le regoli (sic) volgari dell' Acharisio , e tratta degli Articoli, del Nome,
del Pronome. È notevole che nella trattazione de' pronomi parli della forma
latina, che declina in tutti i casi, sicché si ha una doppia declinazione
italiano-latina di ipse, ille = quegli (per Egli non trova la corrispondente
latina), iste, alius, idem, nullus, quis. Poi espone le quattro regole o
maniere del verbo, e toccato dei Gerundi e Partecipi, tratta Degl'avverbi
locali, e qui ritorna la corrispondente latina, hic, huc, hinc, ecc. Molt'altre
ne lascio facili d'apprendersi da sé. Accenna, al proposito di tornar sopra
all'argomento per mostrar che sia da fuggire ciò che non è toscano. S la
li?igìia Toscana, indifferente (l'aquila, il passero), comune (portatore,
-trice). i') Definisce l'accento temperamento, et armonia di ciascuna sillaba,
o lettera significante, dividendolo in grave,' acuto, misto "•), converso
(', apostrofo). Capitolo quarto 127 espressivo. Il che accade sempre quando si
perdono i contatti con la parola viva. Fra tutte le parti, due sono di maggior
pcrtettione, che l'altre. Il nome, et verbo, li quali giunti insieme fanno per
sé stessi concludere una perfetta sententia come Rinaldo scrive. T. Dico per
tanto il nome esser tra le parti, diesi variali, quello, per cui l'essenza, et
la qualità di ciascuna cosa corporale, o non corporale che sia particolarmente
et in universale si discerne: corporali son quelle cose che toccar si possono,
et vedere come libro. Rinaldo. Homo. Non corporali son quelle, che con
l'intelletto solo si comprendono, come studio. Ingegno et valore. Da questa
funzione logica attribuita alle categorie grammaticali e dalla conseguente
interpretazione di regolarità data alle forme, deriva l'accoglimento fatto dal
Corso ne' suoi fondamenti alla parte della concordia delle parti principali
insieme (sintassi di concordanza), e delle figure, che sono deviazioni di
pronunzia, di forma, di costrutto, di ortografia dalla regolarità tipica. Per
la strada in cui s'era messo il Corso, ritroviamo un altro poligrafo assai più
prolifico, Lodovico Dolce, del quale il Lomdardelli disse che può dare una
facile introduzzione, e commoda assai per li principianti , e che da sé si
rannoda al Fortunio che poteva esser più copioso nelle cose necessarie , e al
Bembo, che volendo vestir questa materia con i ricchi panni della eloquenza,
ragionò solamente a Dotti. Egli si rivolge, pertanto, ai principianti, e
tratterà la grammatica volgare, come gli antichi grammatici trattarono della
latina. Le osservazioni constano di quattro parti: la I contiene le regole
della volgar gramatica; la II l'ortografia, nel modo che c'è insegnata dalla
ragione, dimostrata dall'uso, e conlermata dall'autorità; la III X ordine del
puntare e gli accenti; la IV poetica, metrica e ritmica. Della concordanza
delle parti discorre nella I sezione, dove non tralascia le figure grammaticali
: di fonologia discorre sotto l'ordine dell'accento. Di molta importanza è
anchora l'ordine e la testura delle parole; Dove, quando fosse chi della Volgar
Grammatica trattasse in quel modo, che gli antichi Grammatici trattarono della
Latina; senza dubbio essi quel medesimo profitto ne trarrebbero, che ne hanno
tratto molti appo i Latini, senza niuna contezza haver della Greca. Pref.
all'ottava ediz. di Gabriel Giolito de' Ferrari.] ma questa è parte, che
appartiene al Rhetore, e non a scrittore di Grammatica. Si propone anche il
Dolce il quesito se La volgar lingua si dee chiamare italiana o thoscana , e lo
risolve nel senso voluto dal Bembo, cui prodiga grandi lodi anche di scrittore
e poeta, ripetendo per lui il detto di Quintiliano: ille se proferisse sciat
cui Cicero valde placebit; crede perciò che si debba chiamare volgare e
thoscana, ma non in modo che i Toscani se ne insuperbiscano ! La facultà di
lettere, com'anche è chiamata l'arte di parlare e scriver bene, si divide in
lettera, sillaba, parola, che da i latini è chiamata Dittione , e parlamento,
detto da' medesimi oratione. Ammette (citando particolari trattatisti, non
escluso Pontano) 22 lettere: a b e d e f g h i 1 m n o p q r s t v x y z, di
cui V vocali e XV consonanti (escludendone l' “h” e il “v” semivocale), così
distribuite: 8 mutole, bcdgpqtz; 7 mezzevocali, f 1 m n r s x, di cui 4
liquide, 1 m n r. Delle parti del discorso due sono principali, il nome e il
verbo, le altre secondarie, pronome, participio, avverbio, preposizione,
interiezione, congiunzione. A proposito del nome, distinto in sostantivo e
aggettivo (shaggy), che a sua volta si suddistingue in generale e particolare,
tocca il problema dell'origine della favella se per natura o per convenzione.
Discorre poi, pur non avendone fatta una categoria, de gli articoli, e di quei
segni che a i nomi invece di casi si danno : a di da valgono per i casi retto,
strumentale o effettivo o operativo, e locale. Molto assottigliata, rispetto al
Bembo, è la trattazione de' pronomi, distinti semplicemente in principali (io)
e derivati (mio). Al verbo, parte principale e più nobile del parlamento ,
indicante o operazione, o cosa operata, attribuisce cinque tempi: pres., impf.,
pass., pperf., avvenire; cinque modi, dimostrativo, inip., desiderativo, cong.,
in/.; tre figure: semplice, composta, ricomposta; due numeri; tre pe?'sone; due
ma?iiere (coniugazioni), secondo il criterio della 3 ps. ind. pres. Dà i
paradigmi dalle due maniere, degli irregolari (come sono e vado), degl'
impersonali; tratta de' g erondi e participi, e degli anomali. Parla degli
avverbi secondo le significazioni (tempo, qualità, affermare, accrescere,
paragonare, luogo); delle preposizioni, divise in separate o aggiunte, e delle
loro combinazioni; dell' intergettione, che esprime vari sentimenti, come
mostra con molti esempi di versi; della congiun Capitolo quarto 129 tionc che
va incatenando e ordinando il parlamento. Le figure grammaticali sono villose o
bellezze: le prime dipendono dal cattivo suono (onde si ha il bischizzo, che
qualche volta ha grazia come nel v. del fiorir queste inanzi tempo tempie ),
dall'ai- giunqer paro/e di soverchio, dal tacerle, dall' invertirle, dall'
usarle iniproprianiente (ellissi, pleonasmo, inversione ecc.); le bellezze
dall'uso dell'ai, alla greca ( h umida gli occhi ), della parte per il tutto,
della ripetizione, del polisindeto ecc. Nella trattazione dell'ortografia segue
un criterio opposto a quello del Trissino, che chiama eretico, senza nominarlo,
ma limitandosi alle cose più elementari: Basta haver dimostro come si debba
fuggir il porre insieme alcune consonanti; come le lettere si cangino l'ima
nell'altra; come si ha ad usar 1' h, come a raddoppiar esse consonanti sì ne'
nomi come ne' verbi. Nel terzo libro segue la bellissima inventione del Bembo.
Tratta dell' accento (da ad-ca?itus, concento ), che è acido, grave e rivolto
(apostrofo). Sulla scorta delle dottrine degli antichi (Donato, Sergio,
Fortunantiano, Diomede) sul puntare, tratta della distinzione, suddistinzione,
mezzadistinzione, che si hanno secondo che il periodo ( clausola ) è terminato
in tutto, in metà, o in parte. Illustra così l'uso del punto, ., della coma,,,
del punto coma, ;, de' due punti, :, dell 'interrogativo, ?, della parentesi o
traposizione (()). Raccomanda infine lo studio del Petrarca e del Boccaccio, ma
non lascino da parte Dante. Perciocché anchora che egli non sia, (come nel vero
non si può negare) molte volte, delle regole osservatore; dal suo divino Poema
molte belle forme di dire si potranno apprendere. Il libro IV sulla Poetica,
che occupa quasi un terzo dell'opera (pp. 87-115)0 si fonda principalmente su
Antonio da Tempo e sul Bembo. L'opera di Dolce, specie nella sua prima edizione
("), non Osservazioni nella volgar lingua. Di 31. Lodovico Dolce divise m
quattro libri. Con privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari.
La più completa e corretta è la seguente: I quattro libri delle osservationi di
m. Lodovico Dolce di nuovo ristampate et con somma diligenza corrette. Con le
postille e due tavole: una de' capitoli e l'altra delle voci, et come si deono
usare nello scrivere. In Vinegia presso Salicato. Nuove osservazioni C
Trabalza. q Storia de/la Grammatica andò esente né da critiche né da beffe, da
parte soprattutto del Ruscelli, col quale ebbe una fiera polemica, e dal Muzio,
ai quali certo non potevano mancar appigli: essa è una compilazione
abborracciata secondo il costume del Dolce, che vi mise di suo ciò che poteva
metterci un compilatore in questo periodo, la parte schematica e 1'
ordinamento, favorendo il processo di cristallizzazione delle osservazioni
condotte personalmente dai primi grammatici con discreto senso della lingua
sulle opere degli scrittori. Un piemontese, Matteo Conte di S. Martino e di
Vische , riattaccandosi egualmente al Fortunio, al Bembo, da cui forse più di
luce prende , e al Trissino, delle cui dottrine abbiam visto 1' applicazione
fatta alla forma petrarchesca, nelle sue Osservazioni grammaticali e poetiche
della lingua ita/iana (1), adottò interamente, con piccolissime varianti, lo
schematismo dei Rudimenta gramatices di Perotti divulgatissimi(!)/ Basti recar
l'esempio della trattazione del nome. Esso è diviso: A secoyido la sustanzia: I
proprio; II comune: 1. -a) primitivo (es. Giulio), primitivo-appellativo
(terra), derivativo proprio (Giuliano); derivativo-appellativo; corporale
proprio (Pietro), corporale appellativo (huomo); incorporale proprio e
appellativo; 5. univoco proprio e appellativo; 6. equivoco proprio o sinonimo
appellativo; B secondo la qualità: 1. sustanziale a) proprio; b) aggiuntivo
(epiteto); 2. (il sostanziale e l'aggiuntivo comprendono poi) 17 classi di
appellativi: I. intelligibile al detto (patre, tìglio); 2. id. (giorno, notte);
della lingua volgare scelte da Lodovico Dolce con gli artifici usati dal T
Ariosto nel suo Poema. In Venezia per li Sessa (-8n). Si devono al Dolce anche
Modi a/figurati^ e voci scelti et eleganti, Venezia, 1564. In Roma presso
Valerio Dorico e Luigi fratelli. Le osservazioni poetiche (che l'autore
intitola // Poeta) sono una poetica che l'autore stesso dichiara compilata sul
Filosofo e sui nostri principali trattatisti, Dante, Antonio da Tempo, Bembo e
Trissino; ma riguardano particolarmente l'elocuzione e la metrica. 1 Nicolai
Perotti, ed. cit. (:t) Quod est ad aliquid dietimi? Quod sine intellectu eius
ad quod dicitur proferre non potest: ut fiiius: pater. (Perotti). Quasi ad
aliquid dictum quod est? Quod quamvis habeat contrarium et quasi semper
adherens: tamen neq. ipso nomine significat etiam illud: nec secum interimit:
ut nox: dies. (Perotti.). gentilizio (greco); patrio (torinese); interrogativo
(chi?); infinito (quale); relativo (larga esemplificazione); collettivo
(volgo); distributivo o dividilo (ciascuno); io. faciisio (crich); generale
(animale); speciale (elefante); ordinale (primo); numerale (ventuno); assoluto
(Dio); temporale (ora); locale (vicino); C secondo la qua?itità, dal derivativo
uscendo 9 maniere: patronimico; comparativo; superlativo; possessivo;
diminutivo; denominativo; verbale; partecipiate; adverbiale. Abbiamo dunque una
cinquantina di classi o categorie solo del nome ! Il quale ha cinque accidenti:
genere (m. e f.), mimerò (s. e p.), caso (diritto e obliquo in sei forme),
specie (primitiva o derivata), figura (sempl. o comp.); sette regole
(declinazioni): i.a sing. -a, pi. -e, opp. sing. -a, pi. -i; i.a -e, -i, opp.
-o, -i; 3." -o, -a opp. -ora; 4." eterocliti; 5.11 -a o -e, -i; 6.a
comuni; 7/1 di doppia forma {lodo, loda). Una vera ridda. Di contro a tale
interesse per lo schematismo, che corrispondeva, anzi derivava dall'esaurimento
dell'attività osservatrice delle forme realmente prodotte dagli scrittori,
dalla infecondità stessa del criterio d'osservazione assunto fin da principio e
che aveva dato quanto aveva potuto dare e da tutte le circostanze alle quali
siamo venuti alludendo, sorse il bisogno non che di ristampare le grammatiche
più o meno originali che s'erano desunte dalla diretta osservazione delle opere
letterarie, non che di ridurle a metodo, di raccoglierle come in un corpo unico
d'erudizione grammaticale, dove le une integrassero le altre e sodisfacessero
così all'esigenze ancor vive e urgenti dell'apprendimento della lingua e del
complicato maneggio di essa richiesto dalle teoriche poetiche e rettoriche. Per
tal modo si ebbero ben presto le Osservazioni della lingua volgare di diversi
uomini illustri, cioè del Bembo, del Gabbriello, del Fortunio, dell' Accarisio
e d'altri scrittori^) (che si riducono tutti al Corso), per opera del
Sansovino, distinte in cinque libri, quant' erano appunto le grammatiche
integralmente ristampate, con brevi relative notizie caratteristiche: del Bembo
(lib. I), riprodotto specialmente per la questione dell'origine e del nome
della lingua, vi è detto che imitò YOrator; del Fortunio (II), che imitò i
Grammatici In Venezia per Francesco Sansovino; più volte ristampate. 132 Storia
della Grammatica antichi della lingua latina : del Gabriello, che ebbe le
regole da suo zio Trifone; del Corso (IV), di cui è dato il giudizio che già
conosciamo; dell' Accarisio (V), che ha tenuto l'ordine de' latini o per meglio
dir di Donato... Ma io direi che innanzi che altri leggesse le cose del Bembo,
o del Gabriele, o del Corso, si arrecasse innanzi quelle dell' Accarisio,
conciosia che risolutamente abbozza nella mente degl' imparanti le regole pure
et semplici de' nomi, de' verbi, e de gli altri membri di questa lingua, li
quali appresso ria poi agevol cosa il capir ciò che ne ragionali gli altri
scrittori. Voglio anco che lo studioso, habbia innanzi /'osservatone del
Petrarca fatte dall'Alunno, la Fabrica e le Ricchezze pur del medesimo... Più
tardi un f. Giovanni da S. Demetrio, Aquilano, O.F.M., diede un manuale di
Regole della lingua toscana con brevità, chiarezza, et ordi?ie raccolte, e scielte
da quelle del Bembo, del Corso, del Fortunio, del Gabriele, del Dolce, e dell'
Accarisio (son gli stessi del Sansovino, aggiuntovi il Dolce) che trattano
quelle parli che ?iella seguente faccia si notano: Nome, Articolo, Pronome,
\erbd, Gerundio, Participio, Verbo passivo, impersonale. Avverbio,
Preposizione, Interiezione, Congiunzione, Lettere. Punti. Accenti, Ortografia,
forma di comporre o vero scrivere. Le Prose del Bembo, già ristampate con
indici e tavole, furono ridotte a metodo sotto il nome di M. A. Flaminio a
Napoli. Prima degli Avvertimenti del Salviati, appena due o tre grammatichette
(") dell'indirizzo che fin qui abbiamo esaminato, furon pubblicate: (*)
meritano appena tra queste d'esser particolarmente menzionate Venezia. Minturno
e il Tiraboschi ricordano un'Opera divina sulla toscana favella di Giambattista
Bacchili i modenese (Vivaldi, Le Controversie), che io non ho potuto vedere.
(iraniniatiche vere e proprie non si posson chiamare né la Regola della lingua
losca dell'ortografia volgare e latina raccolta da m. Girolamo Labella dalli
discorsi fatti dal diligentissimo //umanista Girolamo Gafaro nella Accad.
Cafarea. Novamente mandata in luce. In Venetia, Appresso Fr. Rampazetto (vi si
danno avvertimenti vari sull'art., sui nomi sost. e agg., sui pronomi, sulle
coniugazioni: poi alcune regole ortografiche: 1. santo da sanctus; 2. dotto da
doctus, ecc.), uè II Tesoro della votgar lingua di Reginaldo Acceto. In Napoli
per Cacchi (contiene appena XXIII regole grammaticali delle CLVIII che secondo
Zeno dove contenere). Capitolo quarto 133 le Regole della Thoseana lingua di m.
Yinckntio Menni Perugino, con un Breve modo di Comporre varie sorti di RimeQ),
sunterello elementare del terzo libro delle Prose del Bembo e poco più'(e).
Rimasero inediti alcuni scritti grammaticali di Alberto Lollio(3) e nuli' altn
che zibaldoni latino-volgari sono al[In Perugia per Andrea Bresciano (di pp. 40
un. nel recto). Al M. dobbiamo la versione della Bucolica (Perugia, Bianchini)
e dei primi sei libri dell' Eneide (Perugia, Bresciano. M. esalta su tutti il
Bembo di supreme lodi dignissimo veramente.... Ma perciocché [le regole in cui
egli ridusse la lingua toscana] paiono a molti ardue, et difficili, mi è caduto
nell'animo di riducere.... le regole della Toscana lingua in brevissimo volume,
con tale facilità, che.... qual si voglia persona senza alcun principio di
latina grammatica potrà facilmente apprendere il modo del parlare, et scrivere
Thoscanamente: Alla quale opera ho voluto aggiungere alcuni brevissimi precetti
circa il modo del comporre varie sorti di rime, acciocché da questa mia fatica
si possano cogliere vari), et diversi frutti. Senza l'aiuto [de' Grammatici]
non possiamo venire ad apprendere scienza alcuna. Del Bembo conserva anche la
dicitura dei termini grammaticali, e tutti i criteri d'armonia, ma
meccanizzandoli al punto da specificare quali sono le vocali più buone e quelle
meno buone. Un punto è tolto dal Cesano del Tolomei, quello cioè in cui si
parla dell'eccezione di alcune parolette terminanti in consonante piuttosto che
in vocale {in, con, per, ecc.). Come il Petrarca è il modello degli antichi, co
sì il Sannazzaro e '1 Bembo sono vivacissimi lumi della moderna poesia. Chiude
ponendo per ordine di Grammatica e d'Alfabeto quelle voci che sono del verso et
non della prosa, et così anchora quelle che alla prosa et non al verso si
concedono. Cf. Filippo Cavicchi, Scritti grammaticali inediti di A. Lollio in
Rass. bibl. d. lett. it. Sono in due cedici della Com. di Ferrara: a\ tav. di
alcune voci delle Prose del Bembo (dalla Historia vinitiana: a doppia colonna,
vocaboli e frasi, confrontata col latino, osservazioni ortografiche e
sintattiche, dichiarazioni storiche, quasi un indice analitico); b) brevi
regolette sopra la volgar lingua (sono 79 senz'ordine, ma riferentesi a tutte
le parti del discorso, con esempi tratti dall'uso vivo, e riferimenti al
latino, le più di morfologia, poche di sintassi); e) due lunghi spogli di Dante
e Petrarca (questioncelle metriche); d) Osservazioni di M. Giulio Costantino
sopra la volgar lingua; Compendio di alcune voci proprie della lingua toscana e
provenzale (ma delle voci provenzali promesse non ci dà nulla affatto: il resto
è un vocabolarietto italiano-ferrarese ì; b) Proverbi e motti. A stampa abbiamo
un'Orazione della lingua toscana, Venezia, ripubblicata nel 63 e poi in Prose
fiorentme del Dati. Il L. è per l'opinione del Tolomei, che vuole doversi
chiamar toscana la lingua. 134 Storia della Grammatica cune delle molte
abborracciate compilazioni di cui riempì il mondo letterario per più d'un
ventennio Orazio Toscanella, e elucubrazioni superricialissime quelli, in
genere, epistolari del Citolini, il noto miracolo di natura, cui già s'è
accennato. Le ristampe come le raccolte e le riduzioni a metodo, che tennero il
campo in vece di più recenti grammatiche dove quasi nullo era il contenuto e
sviluppatissimo lo schematismo, e che anzi impedirono il moltiplicarsi di
siffatte manipolazioni, se da una parte attestano d'una diminuzione di fervore
e d'interesse nella ricerca diretta o, per lo meno, d'un' incapacità ad
allargare e ad approfondire il campo dell' osservazione, sono indizio però,
dall'altra parte, d'un certo bisogno di mantenersi a contatto almeno con la
voce e l'esempio degli scrittori che più erano stati studiati, d'un
interessamento confa dire estetico, più o meno fervente e cosciente, verso
l'opera d'arte, piuttosto che verso lo schema per sé stesso. Il cinquecento è
secolo di passione artistica, che la critica formalistica non riesce a
smorzare, e pur sotto l'imperio sempre più assoluto di essa e tra lo svolgersi
d' una letteratura grammaticale-retorica conserva sempre j vivo il sentimento
della bellezza sia pure esteriore: passione I multiforme, che intendeva
sodisfarsi pienamente nel possesso cTP^ I soli titoli delle opere del T. ci
rivelano i caratteri di certa produzione scolastica del tempo: Istituzioni
grammaticali volgari, et latine a facilissima intelligenza ridotte da O. T.
della famiglia di maestro Luca fiorentino: et dichiarate per tutto dove è stato
necessario, con piena chiarezza dal medesimo, fatica utilissima a tutti quelli
che ad imparare Greco, Latino e volgare si datino. Et con una tavola
copiosissima. In Vinegia Appresso Gabriele Giolito de' Ferrari. Nella chiusa,
pp. 507-23, è un trattatello Dell'ortografia volgare e punti, e in fine
dichiara che stamperà a parte la metrica, e la grammatica greca che egli
insegna con la lingua latina. Ma in codeste Istituzioni, d' italiano non e' è
che la traduzione dei vocaboli e frasi latine, e la grammatica è soprattutto in
servizio del latino. L'ortografia è divisa in a) parola; b) punti; e) accenti.
Delle congiugationi dei verbi qui non scrivo; perchè ne ho scritto a pieno nel
volgareggiare le congiugationi dei verbi latini; come si può veder più su al
luoco loro. Concetti e forme di Cicerone, del Boccaccio, del Bembo, Venezia per
Lodovico degli Avanzi, Eleganze latine con i suoi volgari. Venezia per
Bariletto. Dictionariolum latino gallicuvi, Ciceroniana Epitheta, Parisiis per
Michaelem Sonnium.] tutti gli clementi formali della prosa e del verso, e della
lingua voleva saggiare tutte le essenze. Un libro che mirava ad appagare
codesta passione, qualunque sia il suo valore speciale come esecuzione, e che è
sulla linea di svolgimento che abbiamo seguita sin qui, sono i Commentari della
lingua italiana^) d' un fecondo quanto abborracciante poligrafo, Girolamo
Ruscelli, usciti postumi per cura del nipote nel 15H1, ma terminati almeno un
decennio innanzi, e composti tra il 55 e il 70, nel periodo cioè in cui si
conchiudeva l'attività grammaticale esercitata sull'opera dei primi grammatici
originali, quando già erano usciti i Tre discorsi a Dolce, coi quali il
Ruscelli aveva preso posto fra i grammatici del suo tempo. Questi Commentari
sono un grosso zibaldone di 574 pagine in-8": de' sette libri onde si
compongono, solo il secondo, che però è il più lungo, tratta di vera e propria
grammatica: il primo discorre dell'origine e dell'eccellenza della favella ; il
terzo è un' epitome del secondo, in servizio de' meno introdotti; il quinto è
un ricettario degli vitii da fuggire, ma non di quelli commessi da' forestieri
o dagT Italiani delle varie Provincie, sì bene da' Toscani o Toscanizzanti, e
ne parla sistematicamente seguendo l'ordine delle parti del Discorso (Articolo
' parte principale del Nome ', Nome, ecc.), per ciascuna delle quali fioccano i
vitii, libro ben caratteristico del purismo grammaticale del Ruscelli (?); gli
altri sono un miscuglio di precetti di ret In Venezia per Damian Zenari. Dei
Commentarti della lingua italiana del sig. Girolamo Ruscelli Viterbese, Libri
VII. In Venetia, appresso Zenaro, alla Salamandra. Dobbiamo al Ruscelli Tre
discorsi al Dolce: Atmotazioni sopra il Decamerone, Annotazioni al Furioso, un
Vocabolario: più un Dialogo ove si ragiona della ortografia, cioè del modo di
regolatamente scrivere, così nelle parole come ne gli accenti, et ne' punti.
Cavato novamente dalle scritture di m. Girolamo Ruscelli. Et agiuntovi la
sottoscrittione, et soprascrittione di componimenti di lettere. In Venetia,
Appresso Pietro de' Franceschi. (") De' vitii son fatte due categorie: a)
contro l'eufonia (il spirito, il studio non lo spirito, lo studio; ma li scogli
non gli scogli); b) contro la grammatica ('vitii espressi'): l'osservo/gli
osservo, con il/col, con i/coi, dalli/da i, d' i/de i, per i/per li, de '1/del,
el/il, gli, o li/a loro, a lei, i/li, o gli/a lui, cotesto per questo/questo,
le gente/le genti, dua/due, leggeno/eggono, pariamo/par- [torica grammaticale
(Dell'ornamento): specchio, per quanto appannato, se non riassunto, delle varie
indagini condotte sull'organismo della lingua dai precedenti grammatici e
retori, le cui opinioni vi sono spesso richiamate, con le antiche e nuove
definizioni di termini, con la loro varia nomenclatura; ricco di confronti
dell'italiano con altre lingue, specie la ebraica; discorsivo, frondoso. Da
alcuni luoghi della trattazione degli articoli e de' verbi, parrebbe che il
Ruscelli avesse dovuto aver sott'occhio la prima Giunta castel vetrina (1562),
ma del metodo del grammatico modenese, egli è la negazione: la sua è grammatica
empirica; il suo principale maestro e autore è il Bembo. Fu raccomandato dal
Lombardelli con qualche riserva, e dal Meduna, ma biasimato da altri, e
specialmente da un intendente sicuro di cose linguistiche, il Borghesi. Ma non
è sull'ordinamento e la compagine del libro né sulle trasgressioni contro la
lingua, che si ferma la nostra attenzione, sì bene sul principio che serve di
fondamento alla grammatica, logica e necessaria conchiusione dell'elaborazione
a cui avea dovuto soggiacere: il principio della perfetta regolarità, dell'
ordine più assoluto della nostra divina favella, col quale è accolto nel corpo
della gram liamo {havemo, senio si possono adoperar con discrezione, perchè li
adoperano anche i Trecentisti), amono = amano, andavo = andava, andorno,
andassimo, andaressimo, andarci, venesti, contenirà, odesti, habbi, facci, ecc.
Questa trattazione rettorica incorporata in un trattato grammaticale dimostra
che ormai la poetica in quanto elocuzione si era staccata dalla rettorica e che
la prosa richiedeva una trattazione a parte. R. altresì può giovare et a'
principianti, ed a gli introdotti, parlo, ne' Commentari; perchè tratta la
nostra Gramatica distesamente declinando, e dando molti avvertimenti comuni, e
utili. Ha ben certe oppenioni che se non gli passano agevolmente, e spende
anche molte parole nel suo discorrere, riavendo hauto per natura dell'Asiatico.
Ne'discorsi a Dolce ricerca di belle sottigliezze, e contengono un certo gastigo
di coloro, che troppo ardita, e baldanzosamente si mettono a scrivere in questa
lingua. Nell'Annotazioni al Furioso, e sopr' al Decamerone, e nel detto
Vocabolario, dichiara e voci e modi di dire, ove un forestiero può imparare
assai. Fu studioso di più lingue, e di questa particolarmente: onde mi sovvien
d'avvertire, che egli corresse, o illustrò molti scrittori: per lo che si
potranno quasi legger sicuramente, quando nel principio si troverà suo proemio,
giudizio, censura, o elogio. I fonti.] matìca tutto ciò che è regolato (l), e
ripudiato, cacciato nel vocabolario, come in luogo di pena, tutto il resto che
non si presta a misurazione, o abbandonato a sé stesso: lo spirito estetico
animatore della favella è così completamente distrutto, e conservata dell'espressione
soltanto la forma geometrica. La ripugnanza all' irregolare si esprime nel
Ruscelli in una forma che ha del comico, come (piando se la prende coi
moltiplicatori delle difficoltà con dir Muta in questo, Togli in quello,
Aggiungi in quell'altro. Né codesto principio è professato così all'ingrosso:
anzi è dedotto a fil di logica, in un ragionamento che vai la pena di
riassumere, e porre qui come pietra miliare sul cammino della nostra storia.
Prima fu il parlamento che le leggi sue. L' uomo ha da Dio o LA NATURA (GRICE)
il dono di comprender coll’intelletto e ESPRIMER COLLA FAVELLA quanto si
contiene nella gran macchina dell'universo in forma perfettamente ordinata,
ripugnando la mente nostra dal disordine. Onde nell'osservazione delle lingue,
i grammatici scartarono tutto ciò che è scorrezione d'ignoranti, usando dello
stesso criterio de’giudiziosi che nel fare le regole delle bellezze d'un corpo,
o d'un volto, elessero o i volti più belli, e più conformi con l'ordine,
riuscendo a prevalere sull'USO SCORRETTO (Grice: meaning not = use) di chi neh'
usarla o nel porla in regola s'attenne al peggio. La nostra grammatica si
stampò sulla latina per la dipendenza della nostra lingua e anche della greca,
e l'averla compilata primi il Bembo e altre persone rare, fa che non gioverebbe
rinnovarla. Perciocché, s'ella fosse lingua [l'italiana], che hor nascesse, et
che noi fossimo i primi che la riducessimo in osservatione, et in regole, ci
governeremmo con la ragione, et con l'ordine della Natura, come fanno gli
Ebrei, et come nella Greca era opinione d'Aristotele, cioè che le parti del
parlamento fossero solamente tre... Et in queste potean veramente contentarsi
di divider la loro i nostri Latini, et ogn'altra natione. Nondimeno, perchè,
come cominciai a dire, non scriviamo hora regole di lingua, che hor nasca nella
sua grammatica, et perchè ancora questa nostra ha fondamento, imi Nel secondo
de' Tre discorsi al Dolce (Venezia, cioè nelle Osservazioni di lingua volgare,
infierisce contro l'autore delle Osservazioni anche perchè oltre ai discutibili
errori di grammatica vi aveva trovato scorrezioni di questo genere: lotto per
lóto, ametto per ammetto e Ameto, bevvo per bevo. 13S Storia della Grammatica
tatione, ornamento, et forma dalla Latina, per questo parve a i nostri di
volerle tenere congiunte, et conformi tra esse quanto più sia possibile ne i
modi principali, et nell'ordine universale di tutto il composto con le sue
parti (pp. 72-6). Insomma, il Ruscelli in omaggio alla venerabile antichità,
all' imperio della tradizione, mantiene la grammatica così come lui T ha
trovata, ma se la cosa dipendesse da lui, ne divorerebbe per lo meno due terzi:
tanti ne sono superflui, e la ridurrebbe a due o tre categorie, sotto le quali
dovrebbe ubbidire servilmente l'umano pensiero, inquadrandovisi nel più
perfetto ordine. Giustificare e difendere, di fronte e di contro il latino, la
lingua volgare, studiare i mezzi adatti a condurla alla perfezione, secondo la
corrente concezione del linguaggio, era ornai intento comune de' letterati
italiani: la differenza sorgeva ne' criteri da adottarsi per conseguir codesto
intento, differenza che corrispondeva alla varietà della cultura, delle
disposizioni, e delle condizioni etniche de' letterati medesimi. La dottrina
bembesca raccoglieva le maggiori adesioni, anche presso i Toscani, i quali,
però, come quelli che sapevano di non essere stati punto estranei al movimento
in favor del volgare e, si badi, al tentativo di una legiferazione grammaticale
di esso nel fatto, codesto movimento nel Quattrocento era stato quasi
esclusivamente toscano, anzi fiorentino, né tra il chiudersi dell' un secolo e
l'aprirsi dell'altro, rispetto alla sorta attività degli altri Italiani, era
punto diminuito l'interesse de' Toscani per la loro lingua non potevano aver
caro che [Sensi, M. Claudio Tolomei e le controversie sull'ortografia italiana.
Nota da tener presente anche per altri luoghi di questo capitolo. (2) A non
rammentar molte prove, basti la cit. lettera di Alessandro de' Pazzi a
Francesco Vettori, e il Dialogo du Machiavelli, donde appare quanto vivo fosse
in Toscana e in Firenze il culto dell' idioma natio e l' interesse che si
poneva nello studiarlo anche analiticamente. Tra i criteri onde negli Orti si
140 Storia della Grammatica i non Toscani si fosser mossi e gareggiassero a
discorrer di lingua toscana e a dettarne le regole: una tale legiferazione non
poteva non risolversi in una violenza contro il loro senso linguistico, tanto
maggiore quando a fondamento di quelle regole non era assunta la toscanità
trecentesca, ma l' italiano parlato presentemente nelle varie corti d' Italia.
Sicché, tra le cercava di determinare le affinità e le differenze tra le varie
lingue e i vari dialetti, si applicò anche quello strettamente grammaticale. Il
Machiavelli, appunto, ci dice: e dicono che chi considera bene le otto parti
dell'orazione, nelle quali ogni parlar si divide, troverà che quella che si
chiama verbo, è la catena, ed il nervo della lingua, ed ogni volta che in
questa parte non si varia [cioè non c'è differenza tra la lingua e lingua],
ancoraché nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue abbiano una
comune intelligenza, perchè quelli nomi che ci sono incogniti, ce li fa
intendere il verbo, il quale infra loro è collocato, e così per contrario dove
li verbi sono differenti, ancoraché vi fusse similitudine ne' nomi, diventa
quella lingua differente: e per esemplo si può dire la provincia d'Italia, la
quale è in una minima parte differente nei verbi, ma nei nomi differentissima,
perchè ciascuno Italiano dice amare, stare e leggere, ma ciascuno di loro non
dice già deschetto, tavola, e guastada. Intra i pronomi quelli che importano
più, sono variati, siccome è mi, in vece di io, e ti, per tu. Quello che fa
ancora differenti le lingue, ma non tanto che elle non s'intendano, sono la
pronunzia, e gli accenti. Li Toscani fermano tutte le loro parole in sulle
vocali, ma li Lombardi, e li Romagnoli quasi tutte le sospendono sulle
consonanti, come Patte, Pan. Discorso. Qui abbiamo un germe, se non un cenno
schematico di grammatica italiana, ed è il primo, come s'è già osservato, nel
Cinquecento avanti delle Regole del Fortunio. Il più notevole è, oltre la
verità estetica, che con questo e con altri argomenti il.Machiavelli dimostra
acutamente l'origine fiorentina della lingua letteraria d'Italia. Quella lingua
si chiama d'una patria, la quale converte i vocaboli ch'ella ha accattati da
altri, nell'uso, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano,
ma ella disordina loro, perchè quello ch'ella reca da altri lo tira a se in
modo, che par suo.... Ma tinello che inganna molti circa i vocaboli comuni, è,
che tu [Dante], e gli altri che hanno scritto, essendo stati celebrati, e letti
in varj luoghi, molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti forestieri,
ed osservati da loro, talché di propri nostri son diventati comuni. Quanto poi
sia calzante la dimostrazione che Dante scrisse in fiorentino, è cosa già ben
assodata. Non così esatta è l' interpretazionidel trattato dantesco, ma il
dedottone ammaestramento, gli uomini che scrivono in quella lingua, come
amorevoli di essa, debbono far quello ch'hai fatto tu [Dante], ma non dir
quello ch'hai detto tu, è tra le cose più acute che siano state osservate in
tanto e tale dibattito. Capito/a quint 14 [ voci ili protesta impregnata
talvolta di sarcasmo, venner fuori ben presto anche inviti ad accingersi alla
compilazione della grammatica. Il Norchiati nel dedicare al suo molto honorando
messer Pierfrancesco Giambullari il Trattato dei Dittonghi^, constatando che
rin allora molti non Toscani avevano scritto ordini, regole e modi d'imparar la
lingua, senza voler giudicare, pur ringraziandoli, se avessero giovato o no,
ammoniva che era ormai tempo che i Toscani si ponessero a dettar essi quelle
regole: ciò che egli intanto faceva per i dittonghi. E nel trattatello
notevole, nell' esaltare sui Greci e Latini i suoni Toscani, assai più
abbondanti, perchè rendono gratia et leggiadria inestimabile all'orecchio ,
osserva che al pronuntiar bene quadrisona {tuoi) bissogna grandissima pratica
et attitudine a far sonare in essa gli quattro suoni delle sue quattro vocali,
senza lassarne adietrio o gittarne via alcuno: e che tutti si sentino chiari
speditamente in tal pronuntia, come noi in Firenze, e gli altri toscani con
grandissima facilità, sonorità, et dolcezza perfettamente pronuntiano; e
avvertiva che nell'elisione i fiorentini non gettai: via nulla, pronunziando
assa' meglio 1' i che non sappian fare i non Toscani. Il Lenzoni nella sua
Difesa della lingua fiorentina se la prendeva più tardi coi grammatici non
Toscani che pretendevano insegnar la grammatica, e, con una certa bravura
schermistica, postillava in margine le sue osservazioni con questi motti:
questo va al Ruscelli et all'Alunno, et questo al Bembo. Ma all'elaborazione
della grammatica volgare i Toscani avevano contribuito anche a prescinder dalla
grammatichetta vaticana e contribuirono più di quanto essi stessi non
credessero, e certo con effetti assai migliori per lo sviluppo delle idee sul
linguaggio. (M Trattato de Diphthongi Toscani, di messer Giovanni Norchiati
canonico di S. Lorenzo. In Vinezia per Giovanni Antonio di Nicolini da Sabio.
Ad instantia di Sessa. Difesa della lingua fiorentina, e di Dante con le regole
di far bella, e numerosa la prosa. In Firenze per Lorenzo Torrentino. Fu pubbl.
da Cosimo Bartoli, e avrebbe dovuto esser pubblicata dal Giambullari, che
preparò per la stampa, gli appunti lasciati dal Lenzoni. La p. Ili è costituita
tutta di frammenti. Dalla pag. 76 incomincia la mano del Giambullari. 142
Storia della Grammatica I Toscani, che si trovavano in possesso della lingua
adottata dalla letteratura, non sentirono mai il bisogno d' apprenderla dai
libri, e nello sforzo di perfezionarla, secondo l'esempio dell'Alighieri,
perchè potesse competere con le lingue classiche, non solo non perdevano il
senso della parola viva, ma eran condotti a dar assai minor importanza al
precetto grammaticale, che seguiva non produceva il fatto linguistico: questo
affermarono il Tolomei, il Gelli e il Salviati medesimo. Essi, vedremo,
ammettevano la possibilità e l'opportunità della grammatica sol quando si fosse
potuto giudicar giunta alla sua perfezione, la lingua, e le attribuivano
ufficio di conservazione, più che di regola. Questa riconosciuta forza intima
del linguaggio, la sua capacità a svolgersi e perfezionarsi sotto il soffio
delle idee e della civiltà progredienti è il vanto della scuola toscana, anche
se la grammatica che ne usci, quella del Giambullari, non supera d'un grado
solo la contemporanea letteratura grammaticale, e tutto il movimento toscano
non potè sottrarsi al dominio dello spirito classico. Alcune delle idee
espresse nel suo Dialogo dal Machiavelli, vero principe, per l'altezza del suo
punto di vista, di questa scuola, valgono assai più di parecchie grammatiche di
questo periodo prese insieme: come quella già riferita sulla forza che ha la
lingua particolare d'un popolo intellettualmente forte, di convertire in
proprio uso i vocaboli accattati da altri, non solo senza rimanerne disordinata
ma in modo da disordinar essa loro, perchè quello ch'ella reca da altri lo tira
a sé in modo, che par suo: concetto a cui non mancherebbe nulla per esser
profondamente estetico, se nella mente del Segretario fiorentino il linguaggio
fosse stato tutt'uno con l'espressione, perchè, nel vero, il realmente parlato
non è se non il vecchio materiale linguistico rielaborato nelle nuove
espressioni. Nello studio grammaticale, storico e poetico della lingua che si
fece per oltre un trentennio, dal sorgere delle controversie ortografiche
all'inaspriménto della battaglia linguistica provocata dalla famosa Canzone de'
Gigli d'oro, il senese Claudio Tqlprnei, si può dire che faccia parte per sé
stesso in virtù della sua maggior cultura e penetrazione filologica, onde
anche'a ragione è reputato uno de' più fecondi precursori della grammatica
storica. Non digiuno di filosofia, cultore appassionato delle muse, oratore
politico di qualche nerbo, epistolografo de' meno sonnolenti, egli cercò sempre
di slanciarsi a più alto volo che le penne del puro grammatico non consentano,
benché la grammatica restasse pur sempre la sua principale occupazione, e alle
scoperte e innovazioni ivi fatte, ortografiche, metriche, fonologiche, sia
legata la sua rinomanza. Stando alle testimonianze che si posson raccoglier
dalle sue lettere, il suo animo fu sempre diviso tra le compiacenze che pur gli
procuravano i resultati in gran parte nuovi delle sue ricerche e il fastidio
che un tale studio recava con sé. In una lettera al signor Alessandro V.
dichiara d'aver trovato per li campi della grammatica... più tosto spine che
fiori , e chiama la grammatica cosa fastidiosissima. Non che non la ritenga una
scienza vera e propria come le altre; non che giudichi inutile l'apprenderla
come corpo di dottrina e come mezzo indispensabile alla piena intelligenza
degli scrittori; ma nega che possa mai apprendersi indipendentemente dallo
studio degli autori, e annette la più grande importanza a la destrezza del
maestro, il qual deve con bei modi infiammare il discepolo a li studij,
sforzandosi di agevolarli, e addolcirli queste vie spinose de la Grammatica,
acciocché si possa senza troppo offesa caminare. Lo scritto che ora tocca più
davvicino il nostro tema, è il Cesano, divulgatissimo, e meditato, se non abbozzato,
contemporaneamente alla collaborazione al Polito del Franci. Consta nella Delle
lettere di m. Claudio Tolomet, libri sette. In Venetia, Appresso i Guerra.
Cesano, Dialogo di m. Claudio Tolomei, nel quale da più dotti Huotnini si
disputa del Nome, col quale si dee ragionevolmetite chiamare la volgar lingua.
In Vinegia Appresso Gabriel Giolito De Ferrari, et Fratelli, MDLV, pp. 198-9.
Sulla composizione, la fortuna e i manoscritti del Cesano, e le sue relazioni
col trattato dantesco, è da vedere l'importante % 2, Le allegazioni di Tolomei
della più volte cit. Introduz. del Rajna alla 'sua ediz. crit. del De Vu/g.
Eloq.. p. LX sgg. Il Dialogo ci riporta a Roma e agli anni 1524-5; il signor
mio Illustrissimo a cui il Cesano è diretto, sarebbe il card. Ippolito de'
Medici, patrono del Tolomei, che apparisce propriamente a' suoi servigi da una
lettera; è probabile che a scrivere il Cesano deva il Tolomei essersi messo per
effetto del mancato Concilio di cui s'è parlato. Del Cesano, a conoscenza del
Rajna, sono quattro testi a penna: uno è a Firenze (Magliabech.), due si
trovano a Siena (Bibl. Com., G. e K, e il quarto è a Roma, alla Vittorio
Emanuele (Fondo S. Pantaleo, S6 [5.8]. Il romano fu nelle mani di Celso
Cittadini, il quale, per 144 Storia della Grammatica '-1 esposizione del Cesano
di due parti oltre l'obbiettiva esposizione delle teorie del Bembo, del
Castiglione, del Trissino, del Pazzi: T una, generale, riguarda il linguaggio e
il nome da dare alla lingua volgare, l'altra, speciale, il confronto tra le
forme del latino e quelle del toscano, propugnato dal Tolomei. Il parlare ,
basterà metter in rilievo alcuni particolari pensieri per riassumere la
questione speculativa, a gli huomini è naturale, ma i vocaboli, che le cose ci
mostrano, sono non dalla natura: ma dall'arte, o dal caso in sul fondamento
della natura formati, la quale ci fece tutti et disposti al parlare, et a
sceglier la lingua in queste parole et in quelle. Né fu mai l'oppinione di
Nigidio Figulo ricevuta per vera, il quale istimava che tutti i vocaboli
fossero naturali, perchè quantunque alcuni se ne trovino, che par sieno dalla
natura, et midolla della cosa, che significano, cavati fuori: come strepito,
crepito, fischio, tuono, et altri simili a questi non però il monte grande de' vocaboli
si governa da [questa avvertenza. E come sorgono le lingue particolari? Il
parlar chiaro , cioè la facoltà di esprimer chiaramente i propri pensieri, data
dalla natura all' uomo ( non alli angeli per non esser loro necessaria, non
alle bestie per non esserne degne ), riceve ne' suoi effetti varie
modificazioni dalla varietà de i tempi, et la differentia de' luoghi, che sono
sempre di diversi vocaboli et di diverse lingue produttrici . E superfluo
avvertire qui l'eco delle antiche dispute circa l'origine del linguaggio: a noi
importa rilevare l'importanza che ha l'averle riprese, e l'applicazione
fattane. Non essendo altro vero Idioma, che un raccoglimento di più e più
vocaboli ordinato a servire a una diversità di più huomini per potere isprimere
i secreti de gli animi loro, certo di coloro sarà sempre, compiacere, a quanto
pare, al desiderio di Belisario Bulgarini, che doveva esserne il possessore, vi
segnò molte correzioni, tenendo a riscontro la stampa del Giolito, e spesso vi
restituì le usanze linguistiche dell'autore di cui nessuno per certo poteva
avere maggior pratica di questo suo grande depredatore. La fonte del Tolomei
parrebbe risultare il codice di Grenoble del De l'ulg. Eloq. La prerogativa del
Tolomei si riduce secondo ogni verosimiglianza ad essere il primo studioso a
cui apparisca noto il codice del D. V. E. che perverrà nelle mani del
Corbinelli, e forse l'avrà visto a Padova nell'estate o autunno del 1532
nell'occasione di una sua andata in Austria. che da teneri anni con le madri et
co i padri hanno imparato, et poscia cresciuto ad ogni movimento del pensier
loro, con gli altri di quella Città parimente usato. Cosi è naturale che il
Tolomei prenda posizione pel se?iese, lasciando che il Bembo adduca le ragioni
in favor del nome volgare, il Trissino per Vitaliano, il Castiglione per il
cortigiano, e Alessandro de' Pazzi pel fiorentino. Affermato il carattere
peculiare de' vari Idiomi, esce in un'osservazione acuta, che, se meglio
meditata e fecondata, avrebbe gettato un insolito sprazzo di luce sulla natura
del linguaggio, là dove afferma che il parlar prima dee esser notissimo a
colui, che lo parla, perchè con lui è più unito, che con alcun altro. Di qui al
riconoscere che il linguaggio è individua creazione spirituale il passo non sarebbe
stato davvero lungo. Dalla questione speculativa passando alla storica, il
Tolomei si fa a seguire le vicende della nostra lingua, derivandola dalla
trasformazione del latino operata, come si credeva general Su questo punto,
che, come sappiamo, non è una scoperta del Tolomei, mentre è suo peculiar vanto
l'aver tracciate alcune ben ferme linee di grammatica storica, debbo osservare
che mi sembra caratteristico l'atteggiamento onde il Tolomei guarda il
problema. Il filologo moderno, descrivendo il trasformarsi della parola latina
nelle varie parole romanze, non solo tratta il suo tema, sereno, senza
predilezione per il latino o per i nuovi volgari, ma vede in quella
trasformazione un fatto che si svolge naturalmente con le sue leggi precise e
costanti, un divenire continuatamente regolare, che, quasi facendo scomparire
agli occhi di lui l'esistenza di due lingue distinte, attira sopra di sé tutto
il suo interesse e glielo esaurisce. Invece, il Tolomei, volendo dimostrare che
la lingua toscana è propria lingua, indipendente dal latino, bella per conto
proprio, e libera da ogni debito verso quello, ha sì coscienza di quella
trasformazione e, se non nel Cesano, ne' suoi trattati inediti, ne addita e ne
determina le leggi, ma guarda il fatto non come una necessità, in cui il latino
almeno come materia ha la sua funzione, ma quasi come un continuo sforzo di
riazione e di ribellione compiuto dal volgare per differenziarsi dal latino,
staccarsene, anzi voltargli bruscamente le spalle, per ricomparirgli poi dinanzi,
sotto forme nuove e in abito di gala per dirgli, tra il gnive e il
canzonatorio, ' eccomi qua, ci sono anch'io, e posso anche misurarmi teco'.
Questa è l'impressione che desta la lettura del Cesano; onde non è maraviglia
che chi potè esser informato dei discorsi del Tolomei o direttamente o
indirettamente, fosse tratto ad attribuirgli l'erronea opinione che il toscano
non derivasse dal latino: Non vi concedo , si fa dire al Tolomei nel Diati.
Trabalza. io 146 Storia della Grammatica mente, dalle incursioni barbariche e
dalla questione storica è condotto a comparare le caratteristiche del toscano
con quelle I del latino, concludendo che, se bella è la lingua latina, nulla /
deve invidiarle la nostra che, pur essendo stata manomessa dai barbari, si
piegò mirabilmente a esprimer con arte efficace i| nuovi pensamenti del popolo
e si concretò e si organò in opere di letteratura immortali. Ecco i risultati
di tale comparazione dedotta per tutti gli -4 ordini della grammatica, e che
riesce, però, quasi a un abbozzo della grammatica stessa del toscano: 1. I
suoni e gli ' elementi ' (lettere), come fu dimostrato dal Polito, non son più
nel Toscano gli stessi che eran nel latino, perchè alcuni di quelli si
perdettero ed altri se ne produssero di nuovi. 2. Nella testura degli elementi
il Toscano fugge l'asprezza come non fa il Latino: a) due mute diverse che
fanno aspra testura il Toscano non le tollera; ò) né ogni muta può trovarsi
innanzi alla.S; e) lo / e lo V liquido si usa dopo ciascuna consonante, che
addolcisce con quel distruggersi et liquefarsi tutta la parola : nel latino
questo avviene solo in due casi. IL LATINO fugge generalmente il RADOPPIAMENTO
delle consonanti. Nulla di questo aggrada più al Toscano. logo del Valeriano,
messer Giangiorgio, che LA LINGUA TOSCANA si' peggior della cortigiana, o come
voi dite, della commune, perchè si discosti più della latina; ne vi concedo,
che la toscana venga dal latino, perchè è lingua propria e separata, e
indipendente, et ha le sue proprie inflessioni, e forme, e figure, et eleganze
di dire forse assai più, che non ha la latina. Et come questa vostra commune,
Italica dite esser derivata dalla latina, così la toscana moderna potemo
creder, che venga dall'antica lingua Etrusca, ecc. Aggiungerò che il tentativo
di riformar la nutrica italiana, secondo quella classica, mosse nel Tolomei dal
medesimo principio della virtuosità e dell'eccellenza del toscano rispetto al
latino. Ora questo atteggiamento in uno che pur seppe stabilire qualche
principio irrefutabile di grammatica storica, da che era determinato se non
dalla coscienza della bellezza della nuova lingua, cioè dall'attribuire alla
parola viva la virtù artistica propria dell'espressione? Ma qui debbo avvertire
che, come vedremo parlando del Cittadini, codesto atteggiamento muta nelle
operette grammaticali inedite, dove di proposito s'indaga il modo della
derivazione dell'italiano. Lo L in mezzo delle mute e delle vocali cambiasi nel
Toscano in un / liquido ('pieno, chiave, fiato'): e i vocaboli in cui lo L si
trova (come in ' Plora, implora, splende, plebe') • non furono presi dal mezzo
delle piazze di Te scana: ma posti innanzi da gli scrittori : il popolo avrebbe
detto ' piora, implora, spiende, pieve', come di quest'ultimo ne habbiamo
manifesto segno, che volgarmente pieve si chiama quella sorte di Chiesa
ordinata alla Religione d'una Plebe. I vocaboli latini finiscono spesso in
consonante, o mute, o liquide, o mezze vocali: il Toscano termina sempre in
vocale, tranne alcuni pochi monosillabi (' non, in, con, per, il, ver = verso,
pur, ancora che il Boccaccio usi pure '). Questi fenomeni avvengono nelle '
pure dittioni ', ossia in quelle di formazione popolare. 6. I vocaboli si
partono da la natura o per prolungamento o accrescimento e per accorciamento
(cfr. il d eufonico e epentetico; i suffissi ' facissigliene gli si ce ne fa ',
nel primo caso; nel secondo, oltre la sinalefe, comune ai Latini, Greci e
Toscani, il troncamento delle sillabe in liquida / m n r, spesso anche quando
la liquida sia doppia: ' augel, han = augello, hanno '): a) codesto troncamento
non può aver sempre luogo in causa dell'accento: nel Toscano non si patisce mai
che per qualunque o accrescimento, o sminuimento della medesima dittione
l'accento trapassi di una sillaba in un' altra ; non è possibile il troncamento
nel fine de' nomi femminili in a, tanto nel sing. che nel plur. Gli altri casi
raccogliere con ogni cura minutamente lascieremo a coloro, che la Toscana
Grammatica ci vogliono interamente insegnare. A noi basta per hora intender,
come questa usanza dello sminuir così le parole nel fine, è bella et varia, et
de' Toscani molto propria. Ma passiamo più oltre a ragionare di quegli
ornamenti, che vestono la parola, che sono tempo, accento et fiato, overo
aspiratone, et veggiamo per Dio se in questa parte ha la nostra lingua
ricchezza alcuna propria, che a' Latini renderla non bisogni. La quantità. Noi
non abbiam più lunghe e brevi, benché et forse non senza ragione io non istimi,
che ancora nella lingua nostra vi sia la misura, tempo lungo et breve, lo quale
se conosciuto ben fusse a musiche regole temperato, vie più dolce renderebbe il
parlare et il comporre de' Toscani. Vedremo dell'esito della folta caccagio?ie
alla quale annunziava il Tolomei di porsi per ritrovarli e dell'uso che dei
trovamenti egli fece nella sua nuova poesia. \J accento. Più largo certo et più
spazioso è '1 corso de gli accenti Toscani, che non è quel de' Latini , che non
s'estende più là dell'antipenultima, mentre i Toscani si sospendon lontan dalla
line otto sillabe, quattro per conto della prima parola, et tre per conto delle
affisse: es. ' favolanosicenegliene '. E torna a ribadir la regola
dell'immutabilità dell'accento, ancora, che vi si aggiunghino quattro
particole, ciò che non avvien del Latino, dove l'enclitica que basta a
trasportar l'accento di pattern all'ultima sillaba: patremque. L ' aspiratio?ie
è anche diversa, perchè i Latini aspiravano il principio delle sillabe, se pur
honor e hieri e simili non succedessin dal greco, mentre i Toscani non aspirano
niuna sillaba che habbia in principio la vocale, ma quelle sole, che
incominciano da quattro lettere, et l'altre due giunte dal Polito, secondo eh'
egli brevemente et per verissime regole ne parla, nelle quali non si trova
simiglianza alcuna con l' aspiratione latina. io. I dittonghi toscani o non si
spatriano per la Toscana quali erano i cinque latini, o molti più di questi
senza dubbio alcuno. Gli articoli. Usangli anchora i toscani, come i greci, e
ne' maschi et nelle femmine e nel maggior numero, et nel minor differenti. Li
quali oltre, che distinguono l'un sesso dall'altro, et questo numero da quello,
hanno forza di terminare et far più certa quella cosa, alla quale sono
applicati. Et evi differenza di sentimento in quelle parole, che hanno
l'articolo in quelle, che non lo hanno. I casi. Variasi per cagione de' casi
molto più. La struttura (sintassi de' casi). Et ordina senza dubbio diverso in
tutto et differente forma di struttura. La tela et V orditura delle nostre
parole (costruzione) son diversissime nell'una e nell'altra lingua, com'è
dimostrato dalle traduzioni, perchè chi voglia far toscano Cicerone o latino il
Boccaccio col medesimo filo e corso di parole, s' avvedrà chiaramente quanto la
prima fatica sia sciocca, la seconda fasti-' diosa. E sintetizzando le
riassunte osservazioni, conclude: Che direni dunque? non esser questa propria
lingua, (piando et ne' suoni.Ielle voci sue, et nella struttura delle sue
lettere insieme, et nel finimento delle parole, et nel modo dell'accrescere, o
sminuire quelle, ne' gli accenti, et ne’tempi, nell' aspirationi. Che più? ne'
dittonghi, ne' gli articoli, ne' casi, nelle costruttioni, et ordinatimi delle
parole, nelle figure del dire, et finalmente nella maggior parte delle cose sia
dall'antica Romana cotanto differente? Forse perchè ella serba molti Latini
vocaboli, ma epiesto che ci noia, per Dio, non ha ella nel thesoro suo cpiasi
infiniti, ancora, che non dirò forma, propria pur ritengono dal Latino? Leggasi
Dante, trascorrasi il Boccaccio, odansi gli huomini parlar da' paesi nostri, e
vedrassi quanto quella heredità, che gli fu da' Latini lasciata, ella fusse
riccamente vestita.... ben si può dire quasi della vecchia moneta esserne nella
Zecca stampata moneta nuova. E all'obiezione dell'alfabeto risponde che questo
è un meccanismo, un espediente qualsiasi inventato dall'arte, dove la lingua è
dono della natura per aprire le fantasie di ciascuno a coloro, che intorno gli
sono. Dall'aver descritti i caratteri naturali del Toscano, passa a
magnificarne l'eccellenza, la bellezza, la ricchezza, la dolcezza, scagliandosi
contro tutti i pedanti che s'astengono dallo scrivere perchè i loro pensieri
non nacquero già nella mente de' tre sommi trecentisti da poterli dipingere col
loro colore. Che ci bisognerebbe fare se '1 Boccaccio non havesse il suo
Decamerone scritto, o Petrarca i suoi versi? tacer forse per questo, o punto
non scrivere? Insomma la nostra lingua non è tutta ne' libri: le sue ricchezze
ella con la viva voce le va a parte a parte discoprendo. La misura della
ricchezza è nell'avere per ogni cosa un distinto vocabolo. Così è condotto a
far l'elogio della nostra letteratura, dove trova che ciascuno scrittore nel
grado suo, et nello stil suo arriva a ogni maggior finezza di pregiata
eccellenza. All'obiezione che la lingua Toscana non obbedisce a regole di
grammatica, il Tolomei risponde che è la Grammatica che nasce dalla lingua e
non questa da quella, e che se non sono state trovate le regole ancora (il che
tutto non si può dire, essendoci stato già il Fortunio e aspettandosi le Prose
del Bembo), le si troveranno, e saranno complete quando altri tragedie, altri
Comedie, Satire altri, et altri altissime Poesie partoriranno: né mancherà chi
l'infiammato stile dell' Oratione, il piano e l'aperto della Historia, il
familiare della Epistola faccia illustre, adornarsi con questa lingua quella
parte di Philosohia, che a' costumi s'appartiene, quella che al disputare, et
l'altra forse, che alla natura, et finalmente non fia o arte nobile, o bella
disciplina, che dipinta con le parole di Toscana non si mostri agli occhi de'
riguardanti vaghissima, et '1 potersi con quelle honoratamente le cose
scrivere, facendo segno non oscuro i nostri antichi scrittori, i quali quello,
che volsero così facilmente con la penna scolpirono, che si conosce esser più
tosto insino alla nostra età mancata copia di eccellenti scrittori, che ella
sia già alli scrittori mancata . A questo accrescimento, a questo
perfezionamento del volgare, il Tolomei veniva pazientemente dissodando il
terreno della fonetica, per ritrovar i principi su cui fondar la nuova poesia
onde doveva aumentarsi la patria letteratura, sì che non avesse nulla da
invidiare alla latina, pagando così il suo tributo a quel classicismo, contro
cui intendeva innalzare l'edificio delle nuove lettere. Furono indagini
laboriose, e di cui aveva piena coscienza. E notevole ciò che scrisse al
Benvoglienti circa taluni belli ingegni co' quali ebbe a ragionare dell'
inve?itione della nuova poesia, e che crederono, e dissero che tutta quest'arte
si doveva risolvere in queste poche regolette, che voi udirete. Tutte le
sillabe, dove è l'accento acuto son longhe. Tutte le sillabe, che son dinanzi a
l'accento acuto son brevi, se già non v' è l'addoppiamento. Tutte le sillabe,
che son dopo l'accento acuto son brevi, ancora che vi sia l'addoppiamento, e
così volevano, che tessonsi, romperne, volgerlo havessero la sillaba di mezzo
breve Io alhora assomiglia' costoro a medici, che da sé stessi si chiamavan
Metodici, li quali per lo contrario Galeno soleva chiamare àjiièvoòovs; perchè
con quattro, o sei regolette volevano, insegnar tutta la medicina, omne laxum
astringendum, omne strictum laxandum, omne cavum implendum: e in ciò non
considerava!! né età, né veruna altra cosa buona. Ma veramente sì come ne la
medicina fa mestiero riguardar tutte queste cose distintamente, così nella
nostra inventione bisogna contemplar tutta la lingua insieme, le parti
separatamente, e veder molto Concluderemo più presto esser mancati alla lingua
uomini, che l'esercitino, che la lingua as;ii uomini e alla materia. Lorenzo
de' Medici, Commento alle rime, in Torraca, Manuale d. I. bene da qual fonte
nasce la Longhezza, o la brevità del tempo, e come ciascuna parola con l'altre
e con sé stessa si misuri e si contrapesi; e per qual riferimento e jroog to il
longo sia longo, e '1 breve sia breve, e come in questa contemplazione si pigli
il mezzo e l'estremo. Che più? bisogna sottilmente considerar, se tutte le
sillabe longhe, sono egualmente longhe, e le brevi, brevi, e le communi,
communi parimenti: il che è principio e origine di grande intendimento. E oltre
di ciò è forza scoprir alcuni segreti, li quali insieme con l'altre cose spero
vederete distintamente dichiarate ne la nostra operetta sopra di ciò fatta .
L'operetta usci col titolo Versi e Regole de la nuova poesia toscana^),
contrassegnando, come è stato ben avvertito, un'epoca nelle lettere del secolo
XVI , per il movimento che presto se ne propagò in tutta l'Europa occidentale
(). Scopo dell'operetta era di difendere l'uso de' metri classici nella lingua
volgare, offrendone le regole e gli esempi, forniti da un gruppo di letterati
riuniti in un circolo, Y Accademia della nuova poesia, di cui il Tolomei doveva
esser ritenuto fondatore e espositore dell'innovazione. All' inventione non dovè
esser estraneo quel medesimo spirito aristocratico, che palesemente affermarono
in Francia il Du Bellav, l'autore della Défence et illustration de la langue
fra?icaise), il programma della nuova scuola che si chiamò la Pleiade, e Jean
de la Taille, autore di La manière de faire de vers en franfois, comme en grcc
et in latin e che ispirò Jean Antoine de Bai'f a istituire sull'esempio appunto
de\Y Accademia della nuova poesia, un' Académie de poesie et de musique,
accettando le riforme fonetiche propugnate da Ramus nella sua Grammar. La
concezione aristocratica che della poesia si sarebbe fatta il Tolomei non
sfuggì agli stessi cinquecentisti : così il Ruscelli raccontava che la facilità
di far versi volgari.... comune ad artegiani, femminelle, et perfino a
fanciulli di X o XII anni fu prima et perfetta cagione di muovere Tentativi
d'introdurre i metri classici nella poesia volgare e relativi saggi risalgono,
è noto, in Italia al Quattrocento. Carducci, La poesia barbara, Bologna. Nel
voi. carducciano ora citato. E cfr. G. Mignini, Saggio di gramm. st. it.: i
versi italiani in metrica latina, Perugia Spingarn Spingarn Tolomei, et tutta
quella bellissima schiera a ritrovare una sorte di versi nella lingua nostra,
per li quali si conoscessero i dotti da gli indotti, che per far versi il
Molino, il Veniero, il Contile, il Varchi, il Costanzo, il Rota, il Tansillo,
il Tolomei, il Caro, il Cinthio et ogn'altro dotto, et giudicioso scrittore,
non venissero a farsi fratelli, et d'una schiera, o scuola stessa con Baldassare
Olimpo e mille altri tali . Con la De f enee del Du Bellay il Cesano ha non
pochi punti di simiglianza, non solo quanto alla condotta e tessitura generale,
ma anche ai vari elementi classici e romantici che vi sono egualmente
contemperati, come dove, rispetto alla lingua, di contro alla necessità che l'
idioma volgare s'elevi alla perfezione de' classici, si afferma l' indipendenza
dagli scrittori, decidendosi in quella contro les tradictions des règles, in
questo contro l'avversione dei timidi a parlare e a scrivere per non essere
altrettanti Boccacci e Danti. Più notevole è la corrispondenza nella
motivazione di queste decisioni: il non esserci regole che si possano
accettare, non essendosi raggiunto ancora quel grado di perfezione che sarebbe
desiderabile. Quanto al problema capitale le due opere mostrano un'altra
corrispondenza: nella prima parte esso consiste in questa tesi, che niente
vieta alla lingua volgare di conseguir la sua perfezione; nella seconda,
riguardante i mezzi, la corrispondenza non è altrettanto piena: pure se nella
determinazione di essi il Du Bellay non vede altra via che l' imitazione del
greco e latino, in molte premesse e in certi altri resultati l'accordo è
abbastanza notevole. Entrambi sostengono che la diversità delle lingue ne' vari
paesi si deve ascrivere al capriccio degli uomini (il Tolomei aggiunge anche
quello del caso e le modificazioni d ell'ambiente), e che perciò il
perfezionarla è dovere di quei che la parlano, e a nessuno è lecito esimersi
dall' obbligo di concorrere al perfezionamento dell'idioma nativo: che non
basta attenersi agli antichi autori nazionali, perchè altrimenti non ci sarebbe
progresso. Qui il Du Bellay consiglia di studiare i greci, i latini e
gl'italiani, astenendosi dal comporre rondò, ballate, strambotti e épiceries,
che corrompono il gusto, e di adoperare le migliori forme poetiche, epigrammi,
elegie, odi, ecloghe, sonetti; il Tolomei non insiste (1j Discorsi.] troppo su
queir imitazione, ma, oltreché pel verso, p. es., propugna la quantità degli
antichi, fa derivar la perfezione della lingua dal trattar tragedie, commedie,
satire, orazioni, istorie, epistole ecc., che vuol dire le forme più elevate
delle letterature classiche. La lingua, la poesia, la letteratura, la
filosofia, dei moderni devono venire, insomma, per vivere e prosperare, a patti
con quelle degli antichi, nonostante l'affermata totale indipendenza della
struttura del toscano dal latino. Altri resultati delle ricerche del Tolomei
venivano comunicati occasionalmente agli amici nelle lettere, spesso, com'era
l'usanza, scritte con lo scopo della pubblicazione, e che furono Questo
ravvicinamento occorrerebbe dirlo? non importa che la Défence derivi dal
Cesano; ma, poiché lo Spingarn ha additato come probabile fonte della Défence il
De Vulvari Eloquentia e il Yossler ha sollevato de' dubbi su tale derivazione,
e il Farinelli li ha confermati di sue ricerche, senza che però lo Spingarn
abbia rinunziato alla sua tesi, che anzi ha ribadito col dire che l'affinità è
tale che merita ulteriori studi e più particolari, il nostro ravvicinamento
potrebbe gettar un po' di luce sulla questione, e servire a dimostrar che il
problema del volgare, quale era stato impostato dall'Alighieri, veniva ora
ripreso, con e senza l'aiuto dell'operetta dantesca, alle medesime basi da più
parti, per le condizioni in cui di contro alle lingue classiche permaneva
ancora il volgare. Quel problema è in fondo una gagliarda espressione della
coscienza della nuova letteratura e da Dante al Salviati, per tutto cioè il periodo
in cui si maturò la dottrina poetica del Rinascimento, tutti i maggiori
letterati vi si travagliarono intorno. In ogni modo, che al Cesano dia molta
materia il trattato dantesco è fuor d'ogni dubbio: anzi, si può affermare che,
seguendo le varie esposizioni che ciascun interlocutore (Bembo, Castiglione,
Trissino, De' Pazzi) fa della propria dottrina appoggiandola con passi del
trattato che sembrano confermarla, siamo per un buon pezzo in compagnia
dell'Alighieri; e con esso ci ritroviamo ancora coll'ultimo interlocutore, il
Cesano, il quale, fatto il dilemma che il trattato (come aveva sostenuto il
Martelli non è di Dante, o, se è di Dante, non prova nulla contro i Toscani per
la promiscuità dei termini da lui adoperati a designar il toscano, penetra nella
sostanza della distinzione circa il latino e il volgare e nel significato
stesso dell'operetta, nel modo, secondo noi, più acuto: quand'ella [la lingua]
è chiamata Volgare, è all' hora da coloro, che così la chiamano considerata,
come distinta dalla latina, la quale in questi tempi non era più nelle bocche
del Volgo, né naturalmente da ciascuno si parlava, ma per arte e studio solo
s'acquistava. Parmi finalmente che il Tolomei avesse veduto anche il Discorso
del Machiavelli, specie per la parlata che mette in bocca al De' Pazzi e, in
genere, per l'opposizione a Dante.] pubblicate infatti in un grosso volume.
Sono tra esse assai notevoli, oltre le citate al Firenzuola e ad Alessandro V.
per quanto concerne il Congresso bolognese e l' insegnamento della grammatica,
quella al Caro, dove avvertisce alcune cose sopra l'ortografìa grammatica
Toscana, come dir s'egli è meglio dir celarò nel frutto [futuro] che celerò, et
altri simili, una al Citolini, dove dichiara che cosa sia H in Toscano, e dove
si proferisca con aspiratione, e quale uso sia d'essa , e quella al
Benvoglienti, dove ragiona di una disputa fatta sopra l'inventione nuova del
verso Hesametro in Toscana . Tolomei morì nell’anno stesso in cui il Giolito
gli pubblica il Cesano, che forse sarebbe rimasto inedito, quantunque il
Giolito dicesse d'averlo pubblicato per sottrarlo a una cattiva stampa, come
inedite rimasero le molte operette grammaticali del filologo senese. Perdute
del tutto gli andarono, vivo ancor il Tolomei, un'opera de V eccellenza de la
lingua Toscana (svolgimento, forse, d' idee già sostenute nel Cesano) ed altre
scritture, durante quello scellerato sacco di Roma, il quale oltre agli altri
gravi danni che mi fece, non si vergognò por la brutta mano ne le scritture, e
dispergermi questa insieme con alcune altre mie povere, e misere fatiche.
Frequenti sono i cenni e i richiami nelle sue lettere ad altre scritture. Nella
lettera al Caro in cui rispondeva circa l'uso di celarò per celerò e simili e
di alcune forme ortografiche, diceva che l'avrebbe giustificato a suo tempo,
quando avesse condotto a compimento altri suoi lavori: onde mi sarà forza finir
prima e poi stampar que' libri, ch'io ho incominciato de' principi '/, e de gli
altri delle nature, e que' terzi delle forme della lingua Toscana, oltre a
certi piccoli volumi di grammatica, che io ho scritti sopra questa nostra
lingua. Dell'anno della pubblicazione delle due Orazioni è un'altra sua lettera
al Citabili da Parma, nella quale gli annunziava di acconciarsi per iscriver
una operetta de le quattro lingue di Toscana , da mandare a M. Annibal Caro, la
quale aprirà una grandissima finistra per illuminar il corpo de la nostra
lingua, e crediate per certo che senza questo lume ci si cammina al buio.
Notevole è anche sotto il rispetto grammaticale l'altra al Caro sopra l'abuso
del dire altrui Sua Signoria, Sua Eccellenza, intorno a cui molto allora si
disputò. È riprodotta nella bella raccolta del Faxfam. Lettere precettive di
eccellenti scritturi, Firenze. Le operette grammaticali che ci restano del
Tolomei e formano il noto cod. della Comunale di Siena, vertono tutte su
questioni di fonetica, anche quando riguardino la morfologia e la metrica:
Grammatica Toscana (lettere dell'alfabeto e loro classificazione); Tratta/o
delle forme (passaggi de' suoni latini negl'italiani la teoria de' suoni in
relazione con le loro rappresentazioni grafiche); 3. La rima che cosa sia e
quante lettere bisogna rimare; Delle rime proprie e delle improprie; De lo e
chiaro e fosco; De l'o chiaro e fosco (che sono i due trattati che andarono a
costituire il cap. VI delle Origini del Cittadini); Stili'* sordo e sonoro;
Stillo z sordo e sonoro. Su di esse, che certo rappresentano il maggior titolo
di lode pel Tolomei e gli assegnano un posto eminente nella storia della
filologia romanza, crediamo opportuno discorrere quando incontreremo il
Cittadini col quale vedono in qualche modo la luce, entrando direttamente nel
circolo delle idee. Intanto osserviamo che fu male che questi trattatelli, che
avrebbero potuto fecondare un più intenso e metodico studio storico della
lingua, non vedessero la luce; ma una discreta parte si deve credere che ignota
del tutto non rimanesse al mondo letterario, date le relazioni del Tolomei e il
costume letterario dell'età. In ogni modo l'opera del Tolomei, considerata nel
suo complesso, avanza in valore la comune produzione grammaticale del tempo,
per le idee critiche generali sul linguaggio e gì' idiomi in particolare e le
conoscenze positive circa l'evoluzione del Toscano. Se non così notevoli, certo
importanti, non pel fatto della grammatica concreta che ne derivò, ma sì per i
canoni linguistici ripresi in discussione e le vedute per cui die luogo circa
la possibilità della grammatica, furono i resultati a cui menò l'iniziativa
presa dall' 'Accademia fiorentina l'anno stesso in cui si rinnovellava sul
tronco non vecchio ma infrenato degli Umidi, allegroni ben degni di godere il
frizzo del Lasca, che dai solenni uomini della riformazione generale fu con
l'espulsione punito de' suoi ribelli sdegni contro la pedanteria stravincente
sulla giovialità. Gelli e Giambullari furono de' quattro che l'Accademia elesse
all'ordinamento grammaticale della lingua, divenuta l'oggetto della sua
attività dalla compiuta riforma. E l'uno e l'altro si diedero infatti a
osservare e a comporre le leggi della lingua fiorentina. Ma Gelli, dopo un anno
di studio amoroso, rinunziò all'impresa, che gli parve fortemente difficile,
anzi quasi impossibile ad essere attuata. Egli, se non fu un filosofo, esercitò
però il pensiero sui problemi morali meglio di molti suoi contemporanei : da
questi suoi amori con la filosofia dovette esser tratto naturalmente a
considerare il difficile problema d'una grammatica toscana, e, con acume degno
del suo fine intelletto, lo risolse negativamente; in ciò è sopratutto il suo
merito, anzi per questo merita una nota particolare in una storia come questa,
anche se a codesta soluzione non giunse con ragioni critiche sempre e in tutto
fondate e dedotte da un criterio scientifico. Egli ne fece l'esposizione (a
richiesta del Giambullari stesso, che nella prima tornata era stato rieletto
nel numero di quegli uomini, che debbono riordinare et ridurre a regola la
nostra lingua fiorentina , e dell'esposizione si valse come di acconcia
prefazione alla sua grammatica già da tre anni composta e in quello stesso
della rielezione pubblicata) in un Ragionamento, che egli finge avvenuto o che
avvenne il giorno stesso di quella tornata e poi distese per iscritto, infra
Bartoli et Gelli (sé stesso) sopra le diffìcultà del mettere in Regole, la
nostra lingua. Le ragioni , comincia col confessare il nostro critico, et le
diffìcultà che non solo mi hanno fatto levar via l'animo da questa impresa; ma
ancora giudicarla quasi impossibile, sono et molte, et molto potenti: et quanto
più vi pensava intorno, più mi se ne offerivano sempre alla mente, dell'altre
nuove. Così mentre che io stava lontano al mettere in atto questa formazione
delle Regole; me le imaginava piccola cosa. Ma Egli apprende ed applica
tenacemente; sì che un' idea sola, il contrasto fra so/so e ragione, regge
tutta l'opera sua, nei dialoghi morali e ne' commenti, anch'essi morali, a
Dante e al Petrarca; ma non è ingegno che avanzi, nemmeno d'un punto, che sulle
cognizioni apprese operi attivo per arricchirle, per trasformarle in sé, per
acuirle a nuovi concetti. F. Ne., recens. delle pubblicazioni gelliane
dell'Ugolini e del Fresco in Giorn. st. d. lett. il. Giambullari, Della lingua
che si parla e scrive in Firenze, e un Dialogo di Gelli, Sopra la difficoltà
dell'ordinare detta lingua, In Firenze, per Torrentino.] quando poi tentammo
porla ad effetto, quanto più la considerai, tanto più mi parve difficile. L'
impresa anzi sarebbe al tutto impossibile per la diversità di nomi et delle
pronunzie che si trovano per le città di Toscana: ciascuna delle quali
pregiando più le sue cose, che quelle d'altri, stimerebbe et terrebbe errore
quello che in Firenze sarebbe regola : che è già un bel principio positivo
contro la possibilità d'una grammatica che voglia abbracciare un nucleo di
linguaggio più ampio di quel che sia il proprio d'una sola città, e dal quale
non era difficile dedur l'altro che, un fiorentino non essendo l'altro, la
grammatica d'uno non può esser la grammatica dell'altro. Ma per meglio esplicarvi
ancora questo capo, mi bisogna cominciarmi da un altro principio. Ditemi chi fa
l'ima l'altra, o le regole le lingue, o le lingue le regole? E chi non sa che
le lingue fanno le regole, essendo quelle innanzi che queste: et non essendo
fondate queste in altro uè avendo altra pruova chi le confermi, se non la
autorità di esse lingue? Et da questo essendo egli com'egli è vero, nasce che
e' non si può far regola alcuna che sia veramente regola: non solo alla lingua
Toscana; ma anche alla Fiorentina . Solo delle lingue invariabili come quella
sacra della Bibbia, certamente cosa fuori di Natura; et che non può attribuirsi
se non a Dio , si posson far regole: e è pur cosa certa che anche si posson
agevolmente metter in regola le variabili morte, come sarebbe la lingua latina:
ma de le vive che e' non sia solamente difficile il farvi regola alcuna
perfetta e vera; ma che e' sia quasi al tutto impossibile. Perchè le lingue
vive progrediscono fino a un massimo di perfezione e poi, dopo una certa stasi,
come avviene del sasso che lanciato a una certa altezza, per calare, deve pur
fermarsi un istante, decadono; ma, non potendosi conoscere questa loro stasi di
perfezione, perchè, la civiltà continuamente avanzando, non e' è grado di
perfezione che non possa esser superato da un grado più eccellente, viene a
mancare la fonte più pura donde si cavino regole perfette ed intere. Dice molto
meglio di noi il Gelli> Non si potendo sapere nelle lingue vive, quando sia
questo loro stato et questo colmo della loro perfezione: Egli non si può ancora
conseguentemente farne regole perfette ed intere. Perchè sebbene e' si può
sapere mediante gli scrittori di quelle quando meglio che mai, elle si sierto
favellate per il passato: Nessuno è però che si possa promettere per il futuro,
che insino a che elle non mancano, elle non si possino favellar meglio; Et così
che e' non possino surgere ancora alcuni scrittori, ch e le iscrivino molto
meglio. Qui appaiono evidenti tutti i concetti erronei che servono di base al
ragionamento del Gelli: quello della lingua considerata come organismo staccato
dal pensiero, quello della sua evoluzione coi relativi gradi di ascensione,
perfezione, decadenza, quello della lingua perfetta o modello e l'altro, che ne
conseguita, della facoltà acquisibile di parlar con piena correttezza mediante
regole perfette ed intere cavate da una lingua nel colmo della sua perfezione.
Qui l'atto del linguaggio come cosa viva non è più libera creazione spirituale,
e la grammatica viene argomentata possibile: conclusione assolutamente
contraria alla tesi annunziata: la grammatica è ineseguibile ignorandosi il
grado di perfezione della lingua e mancando altre condizioni, come una ricca
letteratura; ma, eliminati questi ostacoli, è possibile. L'altra difficoltà è
la seguente. Quel che fu concesso ai Grammatici latini non si può fare nella
lingua Fiorentina, et molto meno nella Toscana, che et vivono ancora, et non
hanno scrittori da fondarvi lo intento suo, non si sapendo, se elle sono ancor
pervenute a '1 colmo dello Arco. Et se questo non si può fare per via de gli
scritti; chi vieta che e' non si faccia almanco per via dello uso? Et di quale
uso? Oh questa è l'altra difficoltà, et non punto minore della precedente. Et
perchè? In sostanza, perchè i Romani, padroni del mondo, potevano imporre la
loro lingua, e noi Fiorentini che si vale? Noi non ci abbiamo Imperio alcuno
così grande, che e' muova (come i Romani) le città sottoposteli, a cercare
spontaneamente di favellare et onorare quella lingua, che favelli che le
comanda. Nientedimanco e' si vede pur manifestamente ne' tempi nostri che molte
persone di qualche spirito, così fuor d'Italia come in Italia, s' ingegnano con
molto studio, di apprendere, et di favellare questa nostra lingua, non per
altro che per amore. A questo punto il Gelli tira il ragionamento a sostenere
garbatamente il primato di Firenze, nella lingua, non che sul1' Italia, sulla
Toscana stessa, e a dar ragione del decadimento di esso dai tempi del
Triumvirato e del suo risorgimento presente avvenuto per effetto della
rinascenza, dell'amore e del culto, cioè, degli studi classici, latini e greci.
Et da che vi pensate che nasca questo? Se non da l'essere oggi in Firenze così
gran numero di Persone che hanno bonissima cognizione) della lingua Latina: La
quale essendo state necessitate nello impararle, a vedere i veri Poeti hanno
assai chiaramente conosciuto, che cosa sia Poesia; et quanto sia verbigrazia
contro i precetti dell'Arte, il ridurre, tutta la vita di un huomo, o pur le
azzioni di XXV o XXX anni, in due, o tre ore di tempo che si consuma nel
recitare. Oltre a questo, avendo appreso per via di Regole, quelle due lingue,
conoscendo quante e quali sieno le parti del Parlare, et in che modo elle
debbino accompagnarsi j cominciano a favellare tanto rettamente, et con tanta
leggiadria, che io mi persuado gagliardamente la nostra lingua esser molto
vicina a quel sommo grado della perfezione, oltre il quale non si può salire. I
nostri tre massimi scrittori stessi, aggiunge il Gelli, furono i primi in
questi Paesi ad aver notizia e a diffondere la conoscenza del latino e del
greco, essi stessi cominciando a parlare rettamente et ordinatamente,
migliorando et inalzando tanto il nostro Idioma da quello che egli era Ma che
e' non furon già poi seguiti né imitati nello allevarla, secondo i modi posti
da loro , come ora s'è tornato a fare in gloria della lingua. Inoltre
concorrono a ciò altre cause: l'imitazione di coloro che non voglion esser da
meno e nel parlare e sì co '1 tradurre, arrecandoci le scienze et l'arti che
elli imparano nelle altre lingue; l'uso più esteso della lingua materna fatto
da parte dei principi e gli uomini grandi et qualificati, a scrivere in questa
lingua, le importantissime cose de' Governi degli Stati, i maneggi delle
Guerre, e gli altri negotij gravi delle faccende che da non molto indietro si
scrivevano tutti in lingua latina. Perchè non vi date a intendere che una
lingua diventi mai ricca et bella, per i ragionamenti de' Plebei, et delle
Donnicciuole, che favellali' sempre (rispetto a lo avere concetti vilissimi) di
cose basse: che e' sono solamente gli huomini grandi e virtuosi, quelli che
inalzano, et tanno grandi le lingue. Imperoche avendo sempre concetti nobili et
alti, et trattando et maneggiando cose di gran momento, et ragionando benespesso
et discorrendo sopra quelle in prò et in contro, persuadendo o dissuadendo,
accusando o lodando: Et tal volta ancora ammonendo et insegnando; fanno le
lingue loro, copiose, onorate, ricche, et leggiadre . Conseguentemente il Gelli
conclude che la lingua fiorentina non essendo però ancor pervenuta a lo stato
suo, non se ne i6o Storia della Grammatica possa far regola, che in tempo non
molto lungo, non abbia a scoprirsi defettuosa; et non più tale, quale oggi
forse ci apparirebbe . Ma si fa opportunamente obiettare dal suo interlocutore:
Orsù, ponghiamo per le tante cose allegate da te, che alla Accademia non si
convenga il fare queste Regole: vuoi tu però affermare al tutto, che una
Persona privata et particulare; lasciando favellare ad arbitrio loro qualunque
Città et luogo della Toscana, senza difettargli, o riputargli da meno per
questo: Non possa almanco da i tre primi nostri scrittori et da l'uso di
Firenze, formare le Regole, che a' tempi d'oggi, insegnino favellare rettamente
a Fiorentini stessi, et a chi pur volesse imitargli ? E gli risponde: Oh questo
Nò, messer Cosimo, perchè io mi credo pure, che un' solo, in suo nome proprio,
et non di Accademia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette,
sicuramente le possa fare . Fattosi poi domandare et con qual'ordine? e in che
maniera? quelle regole si potrebber formare, risponde distinguendo nella lingua
due parti principali, la materia ciò è et la forma: la materia sono le parole
de le quali ella è fatta: et la forma è quel modo et quell'ordine, col quale
son' contestate et tessute insieme l'una parola con l'altra, che si chiama
ordinariamente la costruzzione . Quanto alla materia, trova facile ordinarla in
un Vocabolario, ricordando a questo punto il lavoro poi perduto del Norchiati,
e permettendoci cosi da questa citazione di argomentare che il Gel li avrebbe
voluto un Vocabolario metodico. Quanto alla forma, dopo aver accennato alla
maggior dolcezza del periodo e delle clausole della favella fiorentina, osserva
che i grammatici anteriori troppo s' indugiarono e si distesero nelle
declinazioni solamente , passandosi della costruzione senza parlarne se non
pochissimo: come cosa troppo difficile; et ad essi forse (appunto perchè
forestieri!) mal riuscibile. Là onde circa al formar queste regole, non mi affaticherei
molto nella prima parte: Ma dichiarate le parti della Orazione, et dimostrate
le declinabili et le indeclinabili, et gli esempli de' verbi massimamente con
quella diversità che è tra l'uso moderno, et quello che è dicono de' nostri
antichi, me n'andrei tutto alla costruzione. Nella quale, consistendovi (come
ho detto) tutta la importanzia eli questa lingua, vorrei io certamente usare
una diligentia più la che estrema: Togliendo da' tre sopra detti, tutto quel
che fusse ben detto. Il che al giudizio mio solamente sarebbe quello, che l'uso
di oggi si ha mantenuto: Essendo l'orecchio nostro inclinato naturalmente a
lasciar sempre le cose aspre, dure, et difficili; et seguitare le dolci e le
facili . Ho riportato questo brano anche perchè mi risparmia un più lungo
discorso sulla grammatica del Giambullari, in quanto che il Gelli si fa dire
dal Bartoli: Questo è appunto l'ordine stesso, et il modo che il nostro
Giambullari, tenne in quelle sue Regole, che egli già son tre anni, donò allo
illustrissimo signor Don Francesco de' Medici primogenito di S. Eccellenza . E
il Gelli lo conferma aggiungendo d'averle viste, poiché il Giambullari gliele
aveva conferite molte volte et massimamente l'anno passato, quando eravamo in
questo maneggio , e parergli che egli avesse trovato la vera via, et con una
diligenzia maravigliosa, fatto ciò che fusse possibile farsi in questa materia
. E chiesta la ragione per cui ormai non le comunica con la stampa a tutte le
Genti che le desiderano , il Bartoli gli annunzia d'aver finalmente a ciò
indotto il Giambullari: et così fra non molti giorni, comincerò a farle
stampare, che di tanto son convenuto co '1 Torrentino. Nell'eseguire però il
programma tracciatogli dal Gelli, il Giambullari, secondo quanto anche afferma
il Lombardelli, sulla fede del Giambullari stesso proemiante all'operetta,
tenne per quanto gli fu lecito, la maniera del vostro Linacro in quella
eccellente opera de struchira latini sermonis, e seguitò anco la strada comune
de' Gramatici latini, e forse di Costantino Lascari greco; onde può ammaestrare
i principianti, e giovare agl'introdotti; e io per me gli ho grande obbligo;
come anco voi dite di avergliene, persuaso a pigliarlo in pratico da quelle
lodi, che io già gli diedi nel Proemio della Pronunzia Toscana . Degli otto
libri onde il trattato si compone, due son dedicati alla morfologia, e non
senza rincrescimento dell'autore, che ne avrebbe voluto far un solo (p. io), e
gli altri sei alla sintassi. Definite le lettere, le sillabe, le parole,
l'orazione (diceria, parlare, la nostra ' proposizione ' ) che divide in
perfetta o imperfetta (' elittica '), e classificate le parti di essa (nome,
pronome, articolo, verbo, avverbio, participio, preposizione, inframesso =
interiezione, legatura = congiunzione), passa a trattare i ' | I /otiti delle
cinque declinabili nel primo libro, e delle quattro indeclinabili nel secondo,
dando di tutto poco più che gli schemi. Così nella trattazione del nome, son
quasi del tutto abolite le declinazioni ; del pronome ha tagliato via tutta
l'esemplificazione che trovammo nel Fortunio e nel Bembo; dell'articolo fa una
sola classe; del verbo conserva solo la distinzione di transitivo e
intransitivo, distinguendo invece tra i modi l'esortativo, il desiderativo, il
potenziale; ammette una quinta coniugazione dei verbi che partecipano della
terza e della quarta, come porre; del participio tratta anche il passivo futuro
{reverendo). Più rapida e schematica è la trattazione del secondo libro.
Distingue le preposizioni in a) segni di casi (de, di, a, da) e b) preposizioni
vere e schiette: più parla delle affisse; enumera le varie 'specie' e
'sottospecie' di avverbi, dell' inframesso (es. d'inframessi ' timidi ': sta
sta, zi, babà, appartenenti al linguaggio degli uomini bassi, non degli scrittori);
chiude con alcune poche specie di legature. E viene a trattare della '
costruzione '. L'esposizione è notevole, perchè ci richiama una recente
distinzione della sintassi in regularis e figurata nelle relative forme di
ellissi, pleonasmo, inversione o per imitazione . Infatti Giambullari ammette
della costruzione 'due spezie' principalmente: l'ima delle quali non manca e
non soprabbonda di cosa alcuna, né ha in sé stessa trasmutamento, od
alterazione, come p. es., la bellezza diletta l'occhio: Et l'altra per
l'opposito, manca [ellissi], e soprabbonda [pieo?iasmo] di qualche cosa, o
riceve alcun mutamento [inversione^, come p. es. La vita il fine, e '1 dì loda
la sera . Chiama la prima ' costruzzione intera ' [' syntaxis regularis '], la
seconda ' figurata ' [' fgurata ']. Quanto al giudizio dell'una e dell'altra,
il Giambullari approva e raccomanda ai giovinetti la prima, e giustifica
l'altra sull'esempio de' grandissimi nostri scrittori, che non debbono però
essere imitati dai giovinetti. La costruzione intera è trattata in tre libri,
abbracciando la SINTASSI del nome, dell'articolo, del pronome, nel IV quella
del verbo, nel V quella delle parti indeclinabili: hi fgurata comprende gli
ultimi tre, di cui il VI è tutto dedicato allo scambio (enallage, antimeria),
il VII alle figure di parola, ('] L'ordine con cui tratta dello scambio, è
questo: comincia da] nome, e parla di tutti gli scambi del nome (una spezie per
un'altra, l'YIII alle figure di sentenza: oggetti questi del rettorico, ma di
competenza anche del grammatico, perchè anche il grammatico spiega gli
scrittori (enarratio poetarum). Delle figure ne sono inventariate coi loro
rispettivi nomi greci, latini e italiani, coniati bizzarramente dal
Giambullari, circa dugento! Così, teoricamente, neppur con questo valoroso
gruppo di Toscani, che avevano invocato per sé il diritto di legiferare in
punto grammatica, nessun punto di vista nuovo veniva conquistato con cui meglio
scrutar la natura del linguaggio: praticamente, la grammatica normativa, diremo
così, ufficiale era elaborata sul vecchio stampo, ridotta nella parte
morfologica, accresciuta in quella SINTATTICA, gonfiata a dismisura in quella
retorica delle figure (quella che fu appunto compilata da Giambullari, non
esiterei a chiamar un regresso rispetto all'abbozzo grammaticale che troviamo
nel Cesano del Tolomei, appunto perchè qui si notavano le caratteristiche del
toscano vivo senz' intendimento precettistico): teoria e pratica, prese a
trattare con certo spirito nuovo, quasi di ribellione, e non nascosto
intendimento di progresso, rimanevano sostanzialmente sotto il dominio del
classicismo e delle regole. Pure, guadagni se n'ebbero e non scarsi. Il
maggiore e più positivo fu l' indagine storica condotta con così bei resultati
dal Tolomei: i suoi accertamenti vanno soggetti a correzioni non poche né
lievi, ma contengono un elemento conoscitivo irrefutabile per la filologia
moderna, né del tutto disutile per la stessa ricerca speculativa: quei fatti
linguistici (come li chiamano) da lui de ovvero il proprio per lo appellativo,
p. es. Imagine per Imaginazione: Petrarca, ' Et sì diviso | da la imagine vera
' |; lo appellativo per il parti/ivo; il proprio per il possessivo, ecc.), e
del nome scambiato per un'altra parte del discorso (il nome per il participio,
per la preposizione, ecc.); poi dello scambio del pronome, e così di seguito,
di quello di tutte le altre parti del discorso: litania interminabile di
classificazioni, definizioni, esempi. Come a Gelli un Trattatello dell'origine
di Firenze, così al Giambullari dobbiamo un Ragionamento, intitolato il Getto,
della prima ed antica origine della Toscana e particolarmente della lingua
fiorentina, dove, com'è risaputo, il famoso storico tanto spropositò nella
spiegazione di quest'ultimo problema. Per entrambi i libretti, cfr. M. Barbi,
// trattatello sull'origine di Firenze di G. G. Gelli, Firenze, 1894. Sul
Giambullari, cfr. Valacca, La vita e le opere di P. F. G., Bitonto. scritti non
sono il linguaggio reale, ma non sono neppure semplici e astratte categorie: e
certo valgono assai più del precetto, delle regole come aiuti a penetrare la
natura dell'atto che li crea. Nell'ordine delle idee, germi di progresso
contengono quella calda difesa del volgare, e particolarmente di quello parlato
in Toscana di contro al latino e all'italiano del Trissino, astrazione
d'un'astrazione, che il Tolomei fece con tanto acume; la poca simpatia di lui
per la grammatica come disciplina precettiva, in cambio della quale era
consigliata più francamente la lettura degli scrittori; quel travagliarsi del
Gelli intorno alla difficoltà e all' impossibilità del mettere in regola la
lingua viva che è in continuo moto, anche se il fondamento della dimostrazione
è erroneo; quel riconoscer necessaria una maggior trattazione della sintassi,
un'altra categoria di più, che permette di veder meglio per entro lo spirito
della lingua; il riconoscere che la lingua s'accresce e si perfeziona non tanto
per la virtù del precetto quanto pel predominio del popolo che la impone, per
l'aumento della cultura, il dibattito delle idee, il coltivar nuovi generi
letterari; e quant'altro s' è messo particolarmente in rilievo: lievito, di
poca forza espansiva, se vuoisi, ma lievito, senza cui la scienza non si
sviluppa. La revisione della grammatica e il consolidarsi del purismo.
Svolgimento della grammatica storico-metodica. (A. Caro L. Castelvetro B.
Varchi G. Muzio). Il naturale determinarsi e permutarsi del principio direttivo
della critica letteraria del Cinquecento nelle sue forme di imitazione, teoria,
legge, fu rapido quanto intenso era il movimento che il ricomparire delle opere
classiche e segnatamente della Poetica aristotelica aveva avvivato. Col
codificarsi delle regole, lo spirito critico divenne, come doveva accadere,
sempre più restrittivo e sottile, e, nelle applicazioni, pervicace e litigioso:
nacquero così, com'è noto, numerose dispute letterarie e polemiche personali
che, peraltro, giovarono assai allo sviluppo della ritica medesima: né la
grammatica, meno d'altre discipline, potè rimanerne immune. Già prima che il
Sansovino nella sua raccolta dei principali grammatici della prima metà del
secolo, aveva il Varchi ristampate le Prose del Bembo: ora, se tali ristampe
erano, come abbiamo mostrato, una conseguenza dei metodi ond'era stata
elaborata la grammatica del volgare, questa, in quella forma tanto poco
sistematica e tanto, incompleta e così poco imperativa, non corrispondeva più
al nuovo spirito critico, al nuovo orientamento: quindi doveva necessariamente
soggiacere a un lavoro di revisione e di correzione. E l'uomo proprio ad hoc fu
Ludovico Castelvetro, che impersona e incarna, meglio d'ogni i66 Storia della
Grammatica altro di quei gagliardi letterati, lo spirito e la cultura della sua
età. E dalla ristampa del Varchi mosse appunto a rivedere tutta l'opera
bembesca tanto favorevolmente accolta. Ne venne fuori un volume molto grande ,
in cui, a detta del Castel vetro iuniore, erano minutissimamente [trattate?]
tutte le parti della grammatica della lingua volgare, nella guisa che fa
Prisciano quelle della latina . Di codesto volume, a cui l'autore dovè
attendere parecchi anni, e che si perde a Lione di Francia, quando si ruppe la
guerra la seconda volta tra il Re ed i suoi sudditi per conto della Religione,
una parte, la Guaita fatta al ragionamento degli articoli et de' verbi, era già
venuta fuori anonima, ma con l'indubbio segno della paternità, pei tipi del
Gadaldini di Modena : altre, non sappiamo se rifatte o superstiti alla perdita,
riguardanti il secondo e il terzo libro delle Prose, furono pubblicate postume
a Basilea. Sembra che l' incentivo alla edizione della prima Ghinta sia stata
la polemica col Caro, che non aveva ancor permesso al Castelvetro di mostrare
tutta la sua valentia di linguista e di grammatico. Comunque, è certo che il contenuto
di questa lunga polemica dal primo Parere del Castelvetro sulla Canzone de'
Gigli d'oro del Caro sino all'ultima sua fase esclusa (Ercolano del Varchi,
composto verso il 1560 ma pubblicato solo nel 70, e Correzione del
Castelvetro), è, sotto il rispetto puramente filologico e grammaticale, molto
scarso. Poiché la controversia tranne, s'intende, nella parte diremo personale,
che è senza dubbio divertente e anche, pel costume, interessante s'aggirò tutta
e sempre, nelle varie scritture dell'un partito e dell'altro, sul potersi o no
usare questa o quella parola nel rispetto della loro legittimità e del loro
significato {falli di parole e falli di sentimento sono le due categorie della
Ragione^*) del Castelvetro); e, per quanto l'uno e l'altro polemista abbian Nel
1536 aveva recato in ordine d'abicì li vocaboli latini di Valerio con la
spositione volgare, fiducioso che tale fatica sarebbe stata a ognuno utile.
Castelvetro jun., Biogr. di L. C. {Race. Calogerà), in Bertoni, op. qui
appresso cit.. C) In G. Cavazzuti, Lodovico Castelvetro, Modena, 1903, p. 122.
(:i) Giunta fatta al Ragiona \ mento degli articoli et \ de verbi di Messer
Bembo. | KEKPIKA. In fine: In Modona, Per gli Hcredi di Cornelio Gadaldino.
Parma] cercato di deviare dalla question principale nello svolgersi del
dibattito, pure il carattere di essa riman sempre quello che benissimo è
espresso nelle tanto discusse parole del Castelvetro: il Petrarca [codeste voci
adoperate dal Caro] non le isserebbe. La polemica verte essenzialmente sur una
questione di elocuzione poetica: argomenti e sofismi son sempre cavati dai
comuni criteri estrinseci e arbitrari della forma: tra l'aspra selva delle
osservazioni del Castelvetro e i fiorami umoristici e eleganti del Caro e
compagni di difesa, potete sempre scovare il serpentello della rettorica
corrente, il criterio delle voci belle e delle voci brutte. Valga
quest'esempio: Inviolata. Se questa voce non vi piace, vi puzzano le viole, e le
rose. Non potendo essere, ne la più soave, né la più moscata di questa. Se '1
Petrarca non l'annasò; forse quando le capitò alle mani, era infreddato. Ma il
Boccaccio, che non aveva si delicato bocchino, né sì schifo naso, come voi; la
volle pure in certe sue insalitine (sic): e la fiutò volentieri. Leggete ne
l'Ameto. E però con solecitudine i fuochi nostri, che di qui porterai, fa che
Inviolati servi. Et appresso. Acciocché quelle di costumi, e d'arte, Inviolata
serbandomi ornassero la mia bellezza. La Ghmta castelvetrina, invece, ha ben
altra importanza, ed è veramente a dolere che le sue compagne relative alle
altre parti del discorso siano andate perdute, perchè avremmo avuto un
ammirevole esempio di grammatica metodica e storica: essa in ogni modo è, anche
così, un documento de' più significativi! perchè, per la prima volta, viene
svolto di proposito nella grammatica normativa l'elemento propriamente storico
e introdotto il vero metodo. Questo avea già ben visto un giudice di
grammatiche assai autorevole, come quegli che le leggeva e le sapeva leggere da
un punto di vista elevato, Francesco De Sanctis. Il quale, dopo aver osservato
che la grammatica italiana dapprima non fu se non una raccolta di regole ed
osservazioni sulla nostra lingua succedentisi a caso , mette bene in rilievo i
pregi delle opere grammaticali di grammatici superiori come il Bembo, il
Castelvetro e il Salviati per quanto concerne la parte storica, la diligenza
del raccogliere, la conoscenza delle proprietà de' vocaboli, ecc., e segnala
particolarmente il Castelvetro e il Salviati ('i Apologia, Parma, pp. 52-^ i68
Storia della Grammatica come perfezionatori della grammatica storica e
avviatori di quella metodica . E su questa Guaita fermeremo in particolare la
nostra attenzione, benché a chi voglia portar un giudizio complessivo
sull'attività filologica del Castelvetro, quale ricostruttore e interprete di
testi, indagatore dell'origine e della natura dei linguaggi, esploratore di
etimi ignoti ("), convenga tener presenti, oltre la Poetica, tutte le
altre opere di lui. Castelvetro, nella grammatica come nella poetica e nel
resto, manifesta assai chiaramente il carattere del suo ingegno. L'avevano ben
capito gli stessi suoi contemporanei, tra i quali mi basti citare il
Lombardelli: Il Castelvetro, con le sottigliezze di sua dottrina, fa star
sospesi molto dallo scriver toscano, tanto in teorica quanto in pratica, e di
vero può molto aiutare i fortemente introdotti, sì per gli avvertimenti
particolari, sì per la finezza del giudizio, che altri vien acquistando in
legger le costui scritture, fondate nelle scienze, e nelle lingue più famose .
Lambiccato e falso nelle sue sottigliezze lo disse già Sanctis. Recentemente,
per un fortunato incontro della storia letteraria e della filosofia, il Castelvetro
ha avuto il suo degno biografo e i suoi degni critici, sicché ora la sua figura
sorge intera e vera: le analisi del Vivaldi e del Capasso da un lato, la
biografia critica del Cavazzuti da un altro e per un terzo i cenni del Croce e
dello Spingarn e [Sulla notevole pagina dei Nuovi Saggi Critici (Napoli),
riportata opportunamente dal Fusco nella sua Poetica del Castelvetro, Napoli,si
deve peraltro osservare che il Bembo trattò la parte storica della lingua non
nel senso di Castelvetro: il Bembo ci mette sott' occhio V uso storico della
nostra lingua; il Castelvetro ci dà la storia, dirò, interna, delle forme,
quali si svolsero dal latino, subordinandone però l'indagine al precetto
grammaticale che veniva così incorporato a un elemento conoscitivo. Fusco. Un
notevole posto tra queste occupa la Spositionc a XIX canti dell Inferno
(Modena. I fonti. SANCTIS. Una polemica e le controversie intorno alla nostra
lingua, Napoli. Note critiche su la Polemica tra il Caro e il Castelvetro,
Napoli. la monografia del Fusco hanno ormai messo in piena luce così la vita
come l'attività individuale e il pensiero vario di lui. Acato l'uomo e sottili
le cose da lui scritte , torna a ripeter l'ultimo suo critico, il Fusco, sia
che si affatichi a dare un certo che d'armonico al sistema e a farne vedere le
parti legate L'ima all'altra dal vincolo di causalità; sia che per distinguersi
proponga dimostrazioni originali di tesi in sé sgangherate e interpetrazioni
bizzarre di problemi insoluti e insolubili; sia finalmente che, conscio de'
vuoti, cui non gli riesce di colmare, si sforzi di dissimularli e di coprirli
con foglie più trasparenti che pietose dommatico come un pontefice, dottorale,
fiero, soprattutto insopportabilmente lungo e secco, innegabilmente lambiccato
e falso nelle sue sottigliezze; [sempre] lui, lo scolastico colla somma di
difetti propria degli scolastici, pe' quali la presunzione di essere a priori
in possesso della verità è ostacolo a trovarla, arzigogolanti in un mondo, che
è quello delle nuvole, aventi a supremo fine la forma, non la sostanza del
discorso; di tutto sprezzanti che non si adagi nel rigido schema di un
sillogismo: lui, il critico ottuso, più che mai ottuso alle pure e immediate
impressioni dell'arte; lui, "un curioso miscuglio di dotto acume e di
vuota sofisticheria che ondeggiava tra un pedantesco timore e un linguaggio
scorretto, artificiale e provincialesco, come nello stile riusciva insieme
arido e prolisso,, ("). Specialmente in fatto di poetica, dalla prima
all'ultima pagina rivela costante l'oscillazione del pensiero, la perplessità
psicologica, l'incertezza tra il sì e il no. Il risultato... ein bedenklicher
Rùckfall in die Unklarheit der ersten theoretischen Versuche, come si esprime
il Klein (3). Ed era inevitabile quando il metodo della ricerca e dell'esame,
comunque allargato, restava invariato nella sostanza: al fatto particolare e
mutabile dato il valore di legge universale e meccanica: il capriccio
dell'artista di ieri assegnato come norma all'artista di oggi: l'empirismo
sostituito alla scienza; l'arte messa alla dipendenza immediata del lavoro
scientifico e della storicità; la poesia, che si appartiene tutta alla
fantasia, edificata e giudicata con criteri Son parole d’Ovidio, Le correz.)
Der Chor in den wichtig sten Tragòdien der franzòsischen Renaissance, Erlangen
und Leipzig] logici o pratici, morali o intellettuali: l'estetica fondata
sempre o quasi sempre su motivi extra od anti-estetici . Sicché il volerlo
mettere in linea, caratterizzarlo, ridurlo sotto uno degli indirizzi che dominarono
nella coltura italiana è impossibile o difficile e non senza pericolo di
confusione; tutti i venti lo fecero piegare un po', nessuno lo vinse. Non
classicista, non romantico, non aristotelico, pure lascia tracce non lievi e di
classicismo e di romanticismo, figura multiforme, a diverse facce, changeante,
che sta sola a sé e per sé in tutto il suo secolo: novatore e continuatore di
pregiudizi; progressista ne' gesti e retrogrado nel fatto... ebbe acuto
ingegno, indipendenza di giudizio, superiorità di critico: nondimeno sopravvive
pedante tra pedanti: primus inter aequales . Filosofo del linguaggio, dunque,
il Castelvetro non poteva essere né fu: anzi, quant'egli scrisse intorno al
lato teorico della forma poetica e intorno al lato pratico {precettistica), non
lo pone certo al di sopra d'altri grammatici che, come vedemmo, ebbero più
d'una felice intuizione circa la natura dell'espressione. N'ebbe anch'egli, a
dir vero, come quando scrisse queste che sono veramente come il Fusco le ha
chiamate auree parole: Con lo splendore della favella non si deve oscurare la
luce della sententia...; perchè deve essere stimato vitio che la favella sia in
guisa vaga che altri riguardi più in ammirar lei che in considerare il
sentimento, essendosi trovata la favella per lo sentimento e non lo sentimento
per la favella. Ma i precetti della vecchia rettorica, teoria dell'ornato e
teoria del conveniente, l'arbitraria distinzione di prosa e versi, ecc. ecc.,
son tutti dal Castelvetro mantenuti, anzi moltiplicati. Dove, invece, il
Castelvetro, per comune consenso, eccelle, è nella filologia (erudizione
linguistica spicciola, grammatica storica) e nella grammatica normativa; e se è
impresa tutt'altro che facile il tirare la somma di tanti suoi accettabili o no
accertamenti e dati positivi in fatto di lingua, fonologia, etimologia,
morfologia, ortografia, lessico, sintassi, versificazione, tuttavia dalla
limacciosa e dilagante corrente di tanta sua dottrina quasi tutta d'
intonazione vivacemente, ostinatamente, sofisticamente polemica, balzano fuori
in tutta la loro chiarezza la giusta tesi Fusco.] dell'origine del volgare e il
diritto metodo della dimostrazione e della relativa indagine delle forme. Egli,
infatti, non si limita ad affermare che il volgare italiano (e, è lecito
ammettere, anche il provenzale e gli altri idiomi romanzi) , derivò dal latino
e dal latino parlato, che non era quello che i dotti scrivevano o gli oratori
adoperavano ne' pubblici discorsi, ma osserva che la diversità del nostro
idioma volgare da quel volgare latino è nella declinazione, principalmente, non
nel lessico, ossia nella variazione che le voci hanno subito e non in una
diversità di etimi: e, prescindendo per ora dalle leggi fonetiche da lui poste,
ingegnosissimo si mostra nello spiegare le circostanze, le cause esterne delle
trasformazioni del volgare (:ì): e la nostra ammirazione certo aumenterebbe se
di molta parte de' suoi studi sull'antico italiano non dovessimo lamentare la
perdita. Non è cosa, peraltro, da maravigliar troppo chi ripensi quanto propizi
volgessero ormai i tempi per gli studi romanzi, di cui bene può il Castelvetro,
nei rispetti della grammatica italiana, considerarsi uno de' principali
campioni anche a fianco del Barbieri e del Corbinelli, per citar solo i
maggiori, i quali, per l'uso sapiente fatto del criterio comparativo, godono,
l'uno nell'ordine storico letterario, l'altro nell'ordine linguistico, un vero
primato ( "). Meno coerente e avveduto fu forse nella famosa que ('
Cavazzuti. Delle prove dell' esistenza del latino volgare il Castelvetro non fu
ricercatore compiuto, poiché non ebbe l'occhio specialmente, come doveva, al
materiale epigrafico, ma quelle che indicò in vocaboli e modi di dire popolari
della letteratura scritta e massimamente nelle commedie, colpiscono nel segno.
Cavazzuti. Castelvetro non ignorò altri idiomi neolatini, ma in essi non
acquistò una speciale competenza: quanto al provenzale, p. es., sono state
ridotte a cinque o sei note linguistiche quella che dal Canello era stata
chiamata straordinaria erudizione; in questo campo valse assai più, non dico il
Barbieri, che a dir del nipote Ludovico avrebbe insegnato il provenzale al
Castelvetro e se lo sarebbe associato nel trasportar in volgare le vite de'
migliori trovatori (Cavazzuti), ma il Bembo stesso. Cfr. V. Crescini, Di J.
Corbinelli, in Riv. crii. d. leti, il., II, col. 189 (cit. dal Bertoni nell'op.
qui appresso cit.). Per la storia degli studi romanzi in Italia nel sec. XVI,
v. V. Crescini, J. Corbinelli in Per gli studi romanzi Saggi ed appunti,
Padova, e Bertoni, Barbieri e gli sludi romanzi nel sec. XVI, Modena. stione
della lingua italiana; ma ciò dipese dall'essere in sostanza, ossia nella
veduta e nella direttiva principale d'accordo col Bembo, col Caro e anche col
Varchi, e dall'aver voluto, troppo indulgendo al suo bollente genio,
combatterli ad ogni costo e ad oltranza, per abbattere il loro edificio e
costruirne un altro con diverso materiale e diverso metodo ma d'eguale
architettura e decorazione. Il D'Ovidio dice: La sua polemica col Caro rientra
solo di sbieco nella questione generale della lingua... Se si prescinde dal
modo come il Castelvetro scriveva e criticava le scritture altrui, se si
riguarda alla sua astratta teoria quale si disviluppa dalle infinite
perplessità delle sue Giunte alle Prose del Bembo, si può dire che col Caro
egli s'accordasse interamente, proclamando che si debba scrivere nella lingua
del proprio secolo e che sia impossibile gareggiar nella lingua del Trecento
coi trecentisti, e che i fiorentini si trovino per lo scrivere in condizioni
migliori di tutti gli altri (Giunta. Il Castelvetro non era ingegno da star
saldo in un principio e concentrarvisi tutto intorno. A note di fonetica lo
conduceva da una parte la sua passione per l'etimologia, dall'altra il proposito
di combattere Bembo nelle questioni specialmente morfologiche. Codeste note,
per altro, sono sparse un po’dappertutto. È miracoloso, scrive Castelvetro
iuniore, nel DEDURRE L’ETIMOLOGIA DALLA LINGUA LATINA per servirsene nella
lingua volgare. Il PARTICIPIALE DI SPERANZA-GRICE: “Etymologically speaking,
‘mean’ means ‘mind.’” Scelse tutte le parole oscure e non intese dagli altri,
che sono nelle Novelle antiche e l' interpretò tutte coll'etimologie, e le mise
in un volume sotto ordine dell'alfabeto, il qual saggio s'è perduto con altre
scritture in Lione. Conviene pertanto spigolare le sue note etimologiche.
Cavazzuti segnal, illustrando il metodo che Castelvetro segue nel cavarle,
alcune etimologie di lui, quella di mai, di punto, di cavelle o cove/le, dell'articolo
il, di arancia, di bozze, di niente, e altre. Ma più che queste e le moltissime
altre che con speciale predilezione si sofferma a tirare, è da ammirare in
Castelvetro, a giudizio di Vivaldi, l'aver ammessa la possibilità della
scienza, quando altri, come Varchi, contro cui validamente la sostenne, la
nega. Un esem- [Le correz. V. anche Cavazzuti. In Cavazzuti] pio caratteristico
dell'acume che Castelvetro adopera nel terreno della fonetica, è la spiegazione
ch'egli da del futuro italiano, dove puo dimostrare la sua dottrina in tatto di
consonantismo. V non vuole, egli dice, innanzi a sé C, G, P; 15. D, H; LI, M,
Nn, Rn, Ou, T, Tt, Ct, Nt, V; quindi avviene che accostandosi le predette
lettere a V consonante, essa si tramuta in S, e quelle sono costrette a
tramutarsi in quelle consonanti, o a prendere di quelle, che possono comportare
la compagnia della S, o a dileguarsi; sì come B è costretto a tramutarsi in
simile caso in P {scripsi), o in S (iussi); D in S (cessi), H in C (traxi); M
in S {pressi); Mn in Mp (tempsi); V in C (yixi), ecc. .Su queste basi egli
osservava: è da sapere che la lingua nostra non ha voce semplice futura, se non
tre sole in un verbo disusato, o non usato mai... ma le ha composte del
presente del verbo avere, e dello infinito del verbo, il cui futuro si
richiede; dicendosi dire ho nella guisa che si dice appresso i Greci
Àsyrive^to, e appresso i Latini dicere habeo, significandosi il futuro Aé^oj,
dicam , spiegazione integrata da un luogo della Correzione, dove riferisce un
colloquio avuto su tale argomento col Varchi: .... mi domandò come del verbo
Amo la voce del tempo imperfetto Avi ab avi veniva in vulgare. Et io gli dissi
che mutata B in V, et gittato M finale riusciva Amava. Perchè, adunque,
soggiunse egli, se B si muta in V in Amava, non si può ancora in B in Amabo
vegnente in vulgare mutare in R con trasportamento dell'accento, et dirsi
Amerò? Non si può, gli risposi io, perciò che B si può mutare, e si muta in V,
conciosia cosa che V, B, P, F sieno lettere pazienti et cambievoli l'una
nell'altra, della schiera delle quali non è R, senza che non si potrebbe
mostrare quando anchora concedessi questo, come di Legam et d'Audiam si potesse
dire leggerò et udirò. De' mutamenti fonetici vide la causa in quei principi
fisiologici che tentano di resistere ancora alla critica negativa di essi Q:
Non ha dubbio, scriveva, che [In Cavazzuti. Corr. /.éyeiv è/o secondo l'Errata
Corride del Castelv. stesso non vista dal Cavazzuti. V. più innanzi. Giunta
LXVIII, in Cavazzuti. In Cavazzuti. Croce, La Critica.] la diversità dell'aere
generi diversità di lingue; poiché opererà che si proffereranno le parole più o
meno addentro nella gola; e appresso che alcune consonanti si distingueranno o
più o meno l'ima dall'altra; e per avventura ancora alcune vocali; e si darà il
fine alle parole o più o meno perfetto. Questo egli scriveva molti anni prima,
dunque, che del massimo fonologo del Cinquecento, Bartoli, fosse apparso quel
mirabile trattato che il Teza illustrò da par suo con tanto compiacimento. E,
valga o non valga una tale dottrina, non si può lesinare l'ammirazione che il
Castelvetro certo si merita, anche non dimenticando i progressi del Tolomei su
questa parte della grammatica storica.Vero corpo di scienza grammaticale,
storica e precettiva e metodica insieme è la prima Gninta. Consta di due parti:
ia, [15] corpi [de' quali la maggior parte suddivisi in paragrafi] delle cose
contenute nella Giunta di ciascuna particella degli articoli (pp. 2-16); 2a,
[70] corpi [suddivisi parimenti in paragrafi] delle cose contenute nella Giunta
di ciascuna particella de' verbi. In tutto dunque 85 giunte, in 77 -h 273 (2U
parte) = 350 paragrafi, ossia osservazioni (selva selvaggia ed aspra e forte!);
che son poi altrettante contraddizioni a quelle del Bembo. Nella prima parte,
Degli Articoli, non parla soltanto di questi, come parrebbe, ma trova modo di
toccare anche delle parti declinabili del discorso (nomi, [sostantivi e
adiettivi], vicenomi) ; trattazione metodica perchè condotta quasi sempre sul
filo conduttore della storia. Dove il Bembo aveva chiamato gli articoli parte
de' nomi, egli, fondandosi sull'origine dell'articolo dal pronome latino, ne
rivendica V indipendenza. Dove il Bembo aveva ammesso i vicecasi non sapendoli
distinguere dai veri proponimenti, egli par escludere l'esistenza de' vicecasi,
sostenendo che la decimazione volgare ha due soli casi (il diretto e
l'oggetto), e riconoscere solo l'esistenza de' proponimenti co' quali si
formano tante combinazioni (complementi) quanti essi sono. Tratta ampiamente
della declinazione e dell'uso degli articoli: il, lo, 1", la, i, gli, le,
che deriva non solo da ille, ma da hoc, citando per i pi. da hi e o sing. (1 In
CAVAZZUTI.] da hoc le vecchie stampe e l' iscrizione a un quadro esistente in
una sala del palazzo Fulvio Rangone di Modena in cui era dipinta l'historia
della Teseide del Boccaccio: O re Theseo, A o re Theseo = il re Teseo, al re
Teseo, della cui forma afferma esser riscontri nella lingua gallica più antica
e del regno di Napoli (o re = il re). Qui comincia a delinearsi il metodo del
Castelvetro, che se non coincide con quello della filologia moderna (è facile
vederne le differenze), lo precorre però almeno per l'uso del criterio storico
genetico e comparativo insieme, e in ogni modo non è il puro empirico degli
altri grammatici. Invece di seguire passo passo il Castelvetro nella sua
confutazione del Bembo e di istituire un confronto perpetuo, abbiamo creduto
meglio di ricavarne una specie di trattatello grammaticale, onde insieme con la
materia da lui esposta ne appaia anche il metodo della trattazione, pienamente
sistematica pur tra tanto apparente intrigo. Dell'articolo. J articolo è voce
separata e non parte di nome perchè ha origine dal vice-nome ille e ne conserva
la forza, tanto che può esser sostituito da quello, ed è declinabile. Di da de,
al da ad, da da de non sono vicecasi neppur essi, ma proponimenti, come tutte
le altre propositioni e sono d'altronde altrettanti supplimenti de segni di
casi, essendo che la nostra lingua ha due soli veri casi, l'operante e
l'operato, ne' sostantivi come in molti vicenomi, e gli altri casi essendo
tanti quante sono le combinazioni del sostantivo o del vicenome con i
proponimenti. Gli articoli vulgari si originano dai vicenomi latini e si
adoperano nel modo seguente: o da lioc. Es. O re Theseo neh' " historia
della Theseida di Boccaccio dipinta non molto tempo dopo la morte di lui in una
sala del conte Fulvio Rangone in Modena Il re Theseo. O re (nel regno di Napoli
e nell'ant. frane.) = Il re b) i, pi. m., dal pi. di hoc, cioè hi '). S\ota. Il
co in compagnia, puro o mutato, non è più articolo, perchè non si declina
(cotale, questo, quello), eccetto in uguanno da Così, analogamente, qui da
hicqui, qua da hacqua (per hoco orig. da hocquo, cfr. hoco + ilio quello. Non è
biasimevole chi li deriva dai greci o e 01! 176 Storia detta Grammatica
hoco-anno, dove rimane in forza d'articolo, perchè uguanno è voce fermata in su
un senso e in su un numero, né di nuovo può ricevere altro articolo, anchora
che io l'habbia per voce averbiale di tempo . il sing. m. dinanzi a cons. nel
i° e 4" caso, da ilio, per essersi dovuto restringere sotto l'accento del
nome come bel giovane, quel giovane da bello e quello giovane. b) lo sing. m.,
dinanzi a vocale, o s impura, o, nei casi né primo né quarto, a semplice cons.,
come non si può troncare bello e quello davanti a Intorno e scelerato. Lo si
usò (cfr. Petrarca e Boccaccio) in. tutte e due i casi, e come rimase nelle
combinazioni con mi ti si ci vi, onde melo, telo, ecc., dove potè troncarsi
dinanzi a cons., così rimase e si potè troncare in tutte le proposizioni
articolate: del (= delo), al (= alo), dal, col, ecc., voci che non si devono
spiegare con di -f il, ecc., perchè da di + il verrebbe dil e non del. Quindi è
errato scrivere de 'l, co 'l, da 'l cielo, ecc. A. i da hi, pi. m. dinanzi a
cons., non comportandosi il contrario per l'iati) (l'it. non ha voci
comincianti da ia, ie, ii, io, hi; quindi non è lecito i amori, i heretici, i
italiani, i homicioli, i humidori; né i stormenti, perchè potrebbe confondersi
con istormetiti). B. li da i/li, pi. m., dinanzi a voc, a s impura, a semplice
cons. di nomi non usati al primo e quarto caso. li diventa gli dinanzi a vocale
per la forza di questa (cfr. vaglio, voglio); ma dovrebbe restar //davanti a s
impura; li stormenti, e non gli stormenti. Li, come lo conservato in del, ecc.
da delo, ecc., conservasi nel pi. de' casi secondo, terzo, sesto: quindi deli,
ali, dati, ecc., riducibili a de, a, da, come quali si riduce a qua, e elli a e,
e tolti a to, poiché non iscrivesi de', a', da' per dei, ai, dai da de i, a i.
da i, essendo questa derivazione errata. la da illa, sing. femm.; le, pi. di
la; e) sta da ista in stamane, stamattina, stasera, stanotte, benché siano
avverbi. 2 4. L'elisione della vocale finale dell'articolo è regolata da questa
legge": che la lingua nostra non comporta ordine di vocali per accidente
se non le può comportare per natura , Spesso si elide, invece che la finale
voc. dell'art., la iniziale del nome quando comincia per in o im disaccentata:
es. lo 'nventore, la 'mperfettione. ('i Monsignor lo, Messer lo son comuni;
analogamente: tutto il mondo, ambe le mani ecc. Nel Petr. quattro nomi hanno
lo: qua/, cuor, mio, bel, per conservar l'uso antico. Boccaccio n'ù pieno. I
lei ha sempre //, nel Petrarca. Capi fola sesto Lo e // o;7/ si conservano con
/éT dinanzi a consonante nei casi secondo, terzo e sesto analogamente a lo
delle preposizioni del, al e da/, ecc. Es. per lo petto, per li fianchi. Per
quanto s'è detto, non si deve raddoppiar 17 in de/o, alo, da/o, ne lo, ecc.
(benché anche l'autore segua l'uso invalso di raddoppiarlo: mirabile e raro
esempio d'ossequio in un tal contradittore); ma sì in collo perchè viene da con
e lo. Il d di ad volgare è eufonico e non d'origine latina, come od, sedi ned,
c/ied. A/lui, asse, dal/ui, dassc sono errori, ma non son tali accendere,
apportare e simili. Il ri da re, in composizione. 2 8. Sottrazione di di a
Colui, Colei, Coloro, Costui, Costei, Costoro; di a, a Lui e Lei (da il li
/mie, illae ei); di di e a a Loro, Altrui, Lui; di con, di, a, in, per, da a
Che; di di a nome dipendente da Casa, a Dio dipendente da Mercè; di di e
dell'ara, a Giudicio dipendente da Die e a nomi dipendenti da Metà, e a nomi
delle famiglie dipendenti da nomi propri maschili, e a Quattro Tempora
dipendente da Digiuna: di per a Mercè, a Gratia, a Bontà; di per a Tempo; di a
a Malgrado. Nei complementi di specificazione l'uso dell'articolo (prep.
articolata) è determinato dal significato o forza che l'art., analogamente al
vicenome quello, ha di preterito (reiteramento), futuro (premostramento),
presente (additamento), dal suo scopo di particolareggiare o universalizzare il
significato del nome, e dal significato particolare o universale del nome
disarticolato. Ci sono poi dei nomi (Capo, Testa, Collo, Tavola in compagnia d'
In z: Su; Piede, Dorso, Gola in compagnia d' In = Intorno) che rifiutano
l'art.; altri (Città, Casa, Piazza, Palazzo, Chiesa in compagnia d' A, d' In,
di Di, di Da; Mano in compagnia di Con, e Cintula in compagnia di Da, e Lato in
compagnia di A e di Da, e Bocca in compagnia d' In e d' A) e gli aggettivi Mio,
Tuo, Nostro, e Vostro antiposti a nomi, possono lasciare l'articolo. \ io. I
nomi propri femminili comportano l'art, det.; de' ma X schili solo quelli in
cui operi una notabile qualità (antonomasia), o che siano preceduti da un
aggettivo e in cui l'agg. funga da sostantivo il cattivello d'Andriuccio).
Quando l'aggiunto si pospone, l'art. segue il nome sia maschile che femminile.
I nomi femminili di continente, d'isole maggiori (eccetto Lift~^ pari, Cresi,
Ischia, Maiorica, Minorica e simili), stati e regioni, seguono la regola de'
nomi propri di persona, cioè possono ricevere l'articolo. I maschili non
seguono la regola de' nomi propri maschili; ma anch'essi possono ricevere
l'articolo. I nomi di città e castelli rifiutano l'articolo (eccetto gli
edificati dopo la perdita del latino: Il Cairo, La Mirandola, ecc.i; de' fium
i, possono riceverlo e rifiutare; de' fonti, i più lo rifiutano. Preceduti da
un aggiunto, tutti lo ricevono. Fratelmo, Patremo, Matrema, Mogliema,
Figliuolto, Signorto, Moglieta, fiammata, Signorso; Dio; gli honorativi (Papa,
Sere, ecc.); i pronomi personali o no e il relativo rifiutano l'articolo; i
nomi antonomastici e i congiunti con tutti e numeri seguenti, e i vocativi
possono ricevere l'articolo. Ma Vaghe le montanine e pastorelle è dell'uso
della favella vile, non della nobile. Le quattro coniugazioni del verbo si
determinano solo dall'infinito (-are, -ère, -ere, -ire), essendo in volgare la
2a ps. ind. uguale in tutt' e quattro. La primiera voce (cioè, meglio, la ia
ps. pres. ind. att.) ne' verbi volgari varia. Agli esempi del Bembo: Seggo
Seggio Siedo, Leggo Leggio Veggo Veggio Veo Vedo, Deggio Debbo, Vegno Vengo,
Tegno Tengo Seguo Sego, Creo Crio Credo, Voglio Vo, sono da aggiungere: Muoro
Muoio, Paro Paio, Salgo Saio, Doglio Dolgo. Toglio Tolgo Sono Son So, Ho Habbo
Haggio, So Saccio, Fo Faccio, Deo (Deggio Debbo), Supplico Supplico, Rimagno
Rimango, Coglio Colgo, Chiedo Chieggio, Vado Vo, Scioglio Sciolgo, Scieglio
Scielgo, Fiedo Feggio Beo Bibo Descrivo Describo Appruovo Approbo Ripiovo
Repluo Priego Preco Miro Mirro Replico Replico Foe Fo Soe Sono Do Doe Vo Voe
(Vado) Haio (Ho) Deio (Debbo) Creio (Credo) Cado Caggio Sospiro Sospir Uccido
OccidoAncido Ubedisco Obedisco Allevio Alleggio Cambio Caggio Manduco Mangio
Manuco, Giudico Giuggio, Vendico Veggio, Simiglio Semblo Sembro Annumero
Annovero, Ricupero Ricovero Valico Varco, Sepero Scevro, Delibero Delivro Dimentico
Dismento, ecc. Ragioni fonetiche: D, B davanti a voc. i (da e) seguita da voc.
= g geminato: Deggio (Debeo), Haggio Habeo), Seggio (Sedeo). Veggio (Video;, e,
per analogia, Creggio (come da Credeo), Feggio (come da Fedeo), Caggio (come da
Cadeo), [Tu] Regge (Dante) da Redeo. Il gg e ce si dileguarono nell'ant. ital.
agevolmente. P davanti a voc. i seguita da voc. = Ch: Schiantare (da Piantare),
Schiazzare (da Piazza), Saccio per Sacchio (da Sapio), cfr. prov. Sapche. e) L,
N \i -j-'voc. vogliono g avanti, o anche L, N -je -fvoc: Nap. Chiagnere
Piangere. Consiglio, Bologna, Sanguigno, Oglio. Quindi Saglio, Vegno, Tegno,
Rimagno e, per analogia, Voglio (quasi da Voleo) come Doglio (da Doleo). Il g e
1 si possono posporre: Doglio, Dolgo. d) R prec. da A o O e seguita da I o E
prec. da voc, si dilegua via: Frimaio, Cuoio, Aia (Primarius, Corium, Area).
Quindi Muoio, Paio. L tra vocali = i: ìtaXóg gaio, pitllus buio. Quindi Voio
(da volo) lomb., Yoo \'o. f) L'è paragogico di doe, foc, ecc., tue, sue, ecc.,
coste, ecc., die, ecc., è avvenuto per cagione di più soave e riposata
preferenza . I di Seggio è naturale. In Debbo, Habbo ecc. è caduta. Di queste
voci alcune sono poetiche altre prosaiche. La ia ppl. ind. pres. att. si è
formata dal pres. del cong. confuso col pres. ind. in due modi: a) dalla ia pi.
della 2a e 4" valeamus, sentiamus = sentiam, valeam); b) dalla i"
ppl. della 1* (amemus), amemo e, per analogia, valemo, leggemo, sentemo. Mai
leggerlo deriverebbe da legimus! E lo conferma anche il senio da shnus. \ 4. La
2H ps. ind. pres. è presa dalla 2a ps. sogg. o dall'indicativo, confusamente.
Non mai si origina dalla 1" ps. ind. pres. La voce volgare si origina
sempre dalla latina! Un argomento fortissimo della derivazione dal sogg. sono:
giacci, dagli, pai, vinchi, proferiscili, sagli. \ 5. La 3a ps. pres. ind. si
passiona per tre vie o per mutamento, o per levamento o per aggiugnimento.
Esempi e ragioni fonetiche. La 2a ppl. deriva dalla 2a ppl. latina. Nella 3a
coniug. avviene egualmente per analogia. Leggete quasi da Legetis. Neil' uso
antico anche sull’esempio della quarta: leggile, vedile. Bembo aveva detto che
Vi di tieni da tengo, di siedi da seggo, Vii di duoli da doglio, di vuoti da
voglio, di suoli da soglio, di puoi da posso, è vocale di compenso per la
caduta del g e del ss. Il C. dimostra che quelle vocali sono effetto d' uno
scempiamento, tant'è vero che scompaiono fuori d' accento, e che il g è
naturale nella ia ps., e sarebbe fuor di luogo nella 2*. Quanto a. posso
rimanda alla trattazione di sono. 2. I verbi che nella 2" ps. perdono la
cons. o le cons. della ia appartengono alla 2* e 3" coniug:. e quattro
sole sono in effetto le cons. che si perdono (C e G, V e P, D e T, L). Verbi in
-io di tutte e quattro le coniug. che nella 2a ps. perdono o non perdono una
vocale o una cons. nella 2a ps. 3. Altre particolarità fonetiche sulla ia e 2a
ps., specie sulla fogliazione di L e R, sulla geminazione di GG, di RR in
Trarre, ecc. sull'elisione di R in Paro e Muoro. Del G e dell' N naturali si
ragiona nella Giunta. Il G fognato nei GERONDI. La 3a ppl. dalla corrisp.
latina, esemplandosi la 3* coniug. sulla 2*. Eccezioni, dipendenti dai
mutamenti fonetici. Particolarità di altri verbi. \ Il pendente (= imperfetto).
Il V della i" e 2* ppl., poiché è in sillaba accentata, non può
dileguarsi. Nella 3 sin^. e pi. e nella 2a sing. il V non si elide quando
lascerebbe due vocali eguali: dunque non amaa, amaano, e [tu] udii (per udivi),
come vedea, vedeano, dovei. Riguardo alla forma della 3a ppl. haviéno, moviéno,
serviéno, conteniéno, si osservi che la ia e 3" ps. pres. ind. della
2" e 3a coniug. in provenzale e italiano si modellarono sulla 4" che
aveva audibant e andiebant onde udivano, udiano e udieno, quindi havia, solia,
credia, potia, vincia, vinia. Analogamente la ia e 2a ppl. della 2a, 3" e
4" coniugaz. si modellarono sulla 1"; quindi credavamo, credavate.
Del preterito. La ia ps. ha sei regole; la ia ppl. due. in cong. 2a e 3B 4'1 /'
ps.: -ai (o -iaij -ei (iei) -etti, -si, e lat. -i, son tutte dalle corrisp.
latine. I finienti in -si e i ritenenti il fine latino non mutano l'accento
della sillaba radicale, come tutti gli altri finienti ne' modi predetti. I
mutamenti di -avi lat. in ai vulg., di -idi, in -etti e, per analogia, anche in
quelli non provenienti da -idi, sono facili a spiegarsi. Così il -si'. Di
questo son due classi, secondo che conservano l'istesso numero di consonanti
che nel presente, o ne hanno di meno o di più. I verbi col finimento latino
sono io della 2", 11 della 3", 1 della 4a: malagevolmente possono
cadere sotto la regola d'un fini-. Nella 4a più forme: audivi, udij (udì), e
udìo. Verbi in -are e in -ire (colorai, colorii) ecc., cioè della ia e 4",
della 2" e 4" (offersi e offerii). j" ps. i° conili"-, -ó,
-io. Ant. dial. siciliano: Passao, Mostrao, Cangiao, ecc. 2a e 3° coniug. -é, o
-ié (-éo), se la ia è -ei o -iéi; -ette, -se, da -etti, -si. 4a coniug. -i
(-io), -ie. 3" Ppl- -ero, -ono; -éttero, -éttono; -àrono o -iàrono, -aro e
-iàro quando la 3" sg. è -ó, -io; -érono, -iérono, -èro, -iéro, se -é,
-ié; -irono, -irò, se -ì. L'o finale è troncabile. Questa 3a ppl. deriva dalla
corrisp. latina. In poesia si sincopa: levórno, usato anche in Lomb. Finalmente
c'è la terminazione -enno, -eno, -inno, -onno. Faro e Foro. /"ppl1° e 4a
coniug. da -àvitnus, -ivimus, àvmus, ivnuis, -animo, immo e per analogia -emrao
nella 2* e 3", come se si dicesse valevimus, legevimus. l) finimento
lutino, per ora. Medesimamente si formò la jK ppl. e sitig., osservandosi:
i" l'accento si trasporta sulla seguente sillaba: da vàhti, valeste, da
legi, leggeste (fummo come da fùvimus e non fuimus, gimmo da ivimus); che si
dice udiste e sonaste, benché la i" è odo, suono. \ io. Pariefici
preteriti. -ato, -ito, -uto, -so dalle corrisp. latine. In quei in -ato si ha
il raccoglimento, che del resto già era avvenuto nei latini Saucius, Lassus,
Lacerus, Potus per Sauciatus ecc. In quei in -ito (4" coniug. sulla quale
si modella anche Resistito benché sia della 3'), ant. -uto n'è rimasto venuto)
per l'analogia che alcuni verbi della 4" avevano con quelli della 2"
e 3" (cfr. uscì e uscetti, udì e udetti, feri e ferretti, venni e
vennetti). Quando nel part. -ito, e' è r, avviene la sincope: morto, proferto,
ecc.; ma non ferto, perto, smarto e sim.; ratto da rapito, sepolto. Nella 2a e
3" coniug. -uto e iuto a) to puro 6) to con cons. o impuro; -so puro e -so
impuro. a) -to puro (dalla forma di /oattiis, tribntus, cautus e sim. e sui
preteriti in -èi o -ici e -ètti e -ietti della 2" e 3a coniug., e su
quelli che hanno il finimento latino. Irregolarità e doppioni (pentuto e
pentito, perduto e perso, conceputo e concetto ecc.). b) -io impuro, 1" e
3" coniug. pret. in -si prec. da cons. che si conserva se è L, N, R, e si
muta in T se è S. Tuttavia -si prec. da R o R dà -so, conservandosi R e S. Es.
volsi volto (assolto e assoluto), (ma salito, caluto, valuto); giunsi giunto
(ma stretto da strinsi); sparsi sparto (in verso sparso; porretto per porto nel
volgarizzator di Giudici), strussi, strutto (fisso per fitto). -so puro, scesi,
sceso (impeso e impenduto; accenso e acceso, offenso e offéso, nascosto e
nascoso). Ma risposto, chiesto, posto e messo (poet. miso). -so impuro, pret.
-si con r o s; tersi, terso (presso e premuto) scossi, scosso (visso e vivuto);
scisso da scindo, ma scosceso da sconscindo. Ma arroto (da arroguto) e non
arroso, pret. arrosi. Poet. priso preso e altri partefici che sono latinismi
veri anche in prosa: digesto, deposito, inquisito, ecc. Critica della trattaz.
De’partefici di Bembo. Si può osservare: la vocalizzazione del v cons. di ivi
in docni, explicui, sapui ecc. non potendosi dire dóc(i)vi, explìc(i)vi,
sàp(i(vi; la sibilizzazione del v cons. in duri, finxi, repsi, non potendosi
dire dic(i)vi, fìng(i)vi, rè- [Morto sarà da morsi (morii) come dicesi in
Lombardia , a Lombardia ha in Castelvetro il senso generico che ha anticamente)
e quindi profferta e simili non saranno d;escludere dalla schiera de"
participi in -ito? pCi)vi. Sicché il x non sarebbe da cs ma da cv, gv, pv.
Medesimamente il V non può avere stato dopo B, D, H, LL, M, MN, RN, QV, T, TT,
CT, NT, V (cons.). Indi il V di ivi, volendo conservar natura di consonante, si
tramuta in s, obbligando le precedenti cons. a dileguarsi o a assimilarsi. Onde
B = P o B = S ecc. con tutta la lunga e facile tramutazione. Insomma il si de'
pret. latini non è mai originario. TEMPI COMPOSTI. SIGNIFICATO. “Havere”
congiunto col partefice passato affigge termine certo all'attione perfetta, il
qual termine si ferma nel tempo del verbo “Havere”. PASSATO PRESENTE: “ho
amato”: affigge il termine del fatto al principio del presente [cf. H. P.
Grice, on von Wright, “Actions and events”. PASSATO IMPERFETTO (haveva amato):
congiunge il fine del fatto col principio dell’imperfetto. PASSATO PASSATO:
hebbi amato”: congiunge il fine del fatto col principio del fatto. PASSATO
FUTURO, “havrò amato”, congiunge l'estremità dell'unione perfetta col principio
del futuro. Consecutio temporum. Concordanza del participio de' tempi composti
col soggetto o coll'oggetto, secondo il valore del termine dell’AZIONE [cf.
Grice, “Actions and events”). Il futuro. La lingua nostra non ha voce semplice
futura se non tre sole in un verbo disusato, o non usato mai, e sono queste:
Fia, Fie, o Fia, Fieno o Fiano b Fiero. Ma le ha composte del verbo “havere”, e
dell'infinito del verbo il cui futuro si richiede, dicendosi “Dire ho,” nella
guisa che si dice appresso i greci Xèysiv ryo>, e appresso i latini, “dicere
habeo,” SIGNIFICANDOSI IL FUTURO. M§6ì Dicam . I verbi della itt coniug. si
modellano su quella della 2*. Quindi “amerò” e non “amaro” (ma cfr. sen.
“amaro”, “sarò” per “serò”, Possanza da Possendo, Sanza da Absentiaì. Avendo
avere nella r' ps. ho, haggio, habbo, avremo: amerò, risapraggio, torrabbo.
Analogamente, amerai, amerà, ameremo, amerete, ameranno. Consonantismo. Dileguo
della cons. verb. e della voc. anzi terminante. Es. “farò”, per “faceró”.
Dileguo della vocale: “andrò” per “anderó. Dileguo della vocale e mutamento
della cons.: merrò per menrò per menerò. Madonna Iancofiore havendo alcuna cosa
sentito de fatti suoi gli posa gli occhi addosso. Qui alcuna cosa fa
dell'averbio. Eccezioni e casi speciali. Del comandativo. a) Possiamo comandare
non pure cose presenti, ma future anchora, et non solamente con le seconde
voci, ma con le terze. Il comandativo ha una sola voce propria, la 2a sing.
della i" coniti gaz. Troncamenti della vocale e della sillaba tinaie. L'
inf. pel coni. nelle frasi neg. secondo i greci e gli ebrei: salvo se non
vogliamo dire, che v'habbi difetto di dei. Non dire in quel modo, Non dèi dire
in quel modo. Il che a me pare assai verisimile. \ 15. Dello infinito. 1
Nervazione. Habbiamo mostrato infin a qui le voci de' verbi vulgari nascere
dalle latine, dalle future dell’indicativo infuori, sì come anchora nascono
queste dell’infinito. Perchè non è da dire, che esse o reggano, o formino le
altre voci trattene le voci del futuro dell’indicativo, e quelle del
POTENZIALE, come si vedrà, o sieno rette, o formate da alcune delle altre. Uso
dell'infinito. Sono quattro casi molto tra se differenti, ne quali lo 'rifinito
richiede il primo caso della persona, o della cosa che fa. i° quando si pone in
luoo di gerondio, il che si fa: con le particelle Per, In, Con, A, Senza e
simili: In farnegli io una; o con 1' art. masch. sing. Il volere io le mie
poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'é di questa infermità stata cagione
. 20 con Chi, Cui, Quale, Che, Dove, Come, per ellissi del verbo: Qui è questa
cena e non saria chi mangiarla ecc. 3° quando ha forza di comandativo, forse
per ellissi del verbo: non far tu . 4° nelle frasi consecutive: queste cose son
da farle gli scherani. Uso dell'ausiliare coi partefici Potuto e Voluto, e coi
verbi stanti cioè intransitivi: verbi che finiscono in sé 1' attione . Infinito
futuro. Non ha voce propria, ma un’espressione fraseologica. La teoria generale
del MODO [cf. Grice, Mode, not Mood] si può restringere nel seguente prospetto.
Su essa torna Castelvetro nella Spositione della Poetica aristotelica. o E o re
~ n O O O c £ •- = ór. "1 ' £ 5 o o,-> . .5 c/5 tO l_l re -E ? T"
E ° ^ (u -a a u o o a> s 3 o 3 u O S cr > cr +: o ^ v . x > P e ^ o T3
•*-• a o e e q w O) ~ )Z -1 'o *** v -2 a e -O e r re re -E 2 2 "re re] È
dunque una concezione del modo un po' diversa dalla comune, derivando
dall'interpretazione diversa del sentimento che racchiude. Formazione del
comunemente detto Soggiuntivo', amerei 0 ameria, e amassi : amerei da amare 4
liei = hebbi ameresti + hesti = havesti amerebbe + hebbe ameremmo + hemmo =
riavemmo amereste + heste = riaveste,, ero i hebbe amerebb + ono I hebbono
parrave da pàr(eire + have (lomb.) =3 hebbe ameria ia ps. da amare + ibam
ameria 3* ps. -fibat (ameriamo 1" ppl. + ibamus ameriano 3' ppl. + ibant
opp. amerieno (per analogia con udieno). satisfarà (Dante) per satisfarla (eug.
e prov.) Così Fora, Forano, = foria, fonano da fore -fibat. Per e da a in
amerà, cfr. formaz. futuro (ma sarei e non serei). amassi da ama(vi)ssem. Nella
3 ps. perciò anche amassi come in Dante e Petr. amàssimo da ama(vi)ssimus
amaste da amàs(sijte da amà(vi)ssetis amassero e amassimo quasi da amavisserunt
per analogia della 3 ppl. pret. perf. ind., invece di amassino (come in alcuni
poeti o amasseno (come nel Petr.) da amai vi)ssent. La 2a e 3R coniug. in
queste voci si modellarono per analogia sulla ia e 43, leggessi e valessi come
da legé(vi)ssem e valé(vi)ssem ecc. Significato di amerei e ameria, e amassi.
Amerei (quasi Habbi ad amare; gr. potenziale con àv, lat. Amareni) significa
deliberatione, o ubligatione, o potentia cominciata già nel passato, et
riguardante all'adempimento futuro. Ameria ha questa medesima forza. Perciocché
deliberatione, o movimento a far significa, et poi che niuno comunemente si
muove a far, se non è ubligato, significa anchora per questa cagione
ubligatione, et oltre a ciò potentia essendo anchora il preterito imperfetto
appresso i greci potentiale. Secondo' l'uso di que d'ogobbio dove abitò |
Dante] alcun tempo. Amassi (benché derivi da Amavissem) significa tempo
presente o futuro a noi, che parliamo, ma passato havendo riguardo
all'essecutione della deliberatione, o dell'ubligatione, o della potentia, che
va avanti . Alcune particolarità di forma e di significato. Formazione del
presente del soggiuntivo. Le voci di questo tempo derivano dalle corrispondenti
latine, tranne la ia e 2a ppl. della 1" e 3a coniug. che si modellarono
sulla 2R e 4", amiamo e amiate, leggiamo e leggiate quasi da ameamus o
amiamus, ameatis o amiatis, legearnus o legiamus, legiatis o legiatis, e non
amemo e anche, leggamo e leggate come sarebbe naturale. Spiegazione delle
terminaz. in -e, -i, -a nella 3* p. sing.: vegga, vegghi, vegghe e veggi,
vegge. Gerondio. Formazione, Uso. I Gerondi vulgari seguitano i vestigi de
latini, conservando la consonante, o le consonanti loro verbali, che prese la
prima volta non si lasciano per modi, persone, tempi, et numeri del suo
verbo... et si contentano d'essere simplici, ma ne verbi che non continuano la
consonante, o le consonanti prese la prima volta per tutti i modi, persone, et
numeri: si truovano essere i gerondi doppi, cioè o con la consonante o con le
consonanti sue naturali, o con le prese di nuovo, o con alcuna delle prese. Il
gerondio dei verbi intrans, riceve indifferentemente il primo e il sesto caso
(cfr. l'uso del come da quomodo e da cum, del verb. essere, e del grido
affettuoso o schiamazzo, il nostro vocativo o esclamativo) ; quello di trans,
solo il primo. Osservaz. sui pronomi relativi e dimostrativi, e su luì e lei. \
21. Il passivo. Il si rende passive la 3" ps. e pi. e l'inf. (benché questo
sia fatto passivo dal veggo, da resto, da sono con le particelle r7 da di da
per per licenza e quasi per errore, essendo propri e regolati [passivi] que del
partefice preterito col verbo sono). Il si ha significato riflessivo (Narcisso
amasi o s'ama, cioè ama sé stesso), o reiterativo ossia intensivo (Eco s'ama o
amasi Narcisso). Nelle orìgini del volgare, quando il soggetto in questo
secondo caso era sottinteso per essere un nome indeterminato (nel qual caso
dicevasi anche huomo cfr. il fr. on e i nostri scrittori antichi), si perde la
nozione del quarto caso e questo sembrò primo. In s'ama la dorma, non si vide
più il soggetto alcuno o uom, e la donna sembrò soggetto, e il s'ama verbo
passivo. Così il si acquistò la virtù di far passivi i verbi. Verbi anomali.
(Accenniamo, per brevità, solo alla trattazione del verbo sostantivo, la quale
è fondata su questo principio, che le voci procedano da sei verbi: esso, ero,
o, fuo, fio e sto, cinque dei quali non usitati sono, ma alcune intere, alcune
diminuite, alcune dimuite insieme e accresciute, alcune diminuite insieme e
tramutate, e alcune dileguate ). Participio futuro attivo e passivo. Mancano al
volgare, benché abbi. insi futuro, venturo e reverendo, e, in Dante, fatturo,
passino, e, in Bocc, redituro, venerando, ammirando. Questa sorta di participi
futuri passivi hanno perduta la loro forza di tempi futuri. Ma la lingua
volgare usa alcune formazioni analoghe per i sost. femminili sul part. fut.
att.: scrittura, natura, creatura, lettura, ventura, tagliatura, copritura,
sull'esempio del latino (cfr. natura da nascitura). Ma non i maschili: habituro
è formato su tugurio. Cfr. il lomb. alturio, aiutorio, aiuto. Sul part. fut.
pass.: facenda, merenda, vivanda, randa (da haereo) cfr. arente opp. a rente a
rente. \ 24. Participio pres. att. e passato passivo (preterito). I partefici
vulgari che derivano dai corrispondenti latini significano attione o passione,
ma non mai tempo, tranne i preteriti in tre casi: i° col verbo havere; 20 col
verbo essere; 3" usati assolutamente. Dai partefici presenti si formano i
sost. in -anza e -enza. Dai partefici preteriti si formano i sost. in -ione,
-aggio, e gli aggiunti in -ivo, -iva. -ore, -trice. Concordanza del participio
e uso del gerondio. Giunti al termine del nostro rapido riassunto, possiamo
molto facilmente stabilire i meriti di Castelvetro verso la grammatica.
Confrontando il trattato castelvetrino con le analoghe parti delle recenti
grammatiche storico-comparative dell'italiano, in quanto concerne le
conclusioni della storia delle forme, ci accorgiamo subito che una non iscarsa
parte di esse ebbe la sua prima sistematica elaborazione dal Castelvetro:
osservinsi, particolarmente, la derivazione dell'articolo, le desinenze delle
persone verbali, la derivazione de' tempi, e specialmente del futuro e del
condizionale, e molti mutamenti fonetici specie consonantici." Fuori del
campo strettamente fonetico e morfologico, sono poi da segnalare specialmente,
come altra proprietà esclusiva del Castelvetro, il tentativo d' interpretazione
psicologica de' modi, la spiegazione del significato del futuro e della doppia
forma del condizionale (amerei, ameria), e la determinazione del significato
de' tempi composti dell' indicativo. Senza dire delle etimologie e dei
ravvicinamenti nuovi se non sempre esatti disseminati per entro la Giunta; ne
della trattazione incidentale delle altre parti del discorso (vicenomi,
sostantivi, aggiunti, verbi, segnacasi, congiungimenti, schiamazzi). Ma tutti
questi accertamenti, come si vogliono .chiamare, positivi, veri in gran parte,
non sono propriamente quel che iS8 Storia della Grammatica costituisce il
principal merito del Castelvetro; questo è soprattutto, in linea generale:
i" sulla conoscenza quasi completa del materiale linguistico di studio,
che si può dire che non c'è forma, non dico d'articolo, ma verbale dell'antico
e del moderno italiano (senza distinzione di dialetti toscani, meridionali e
lombardi) che il Castelvetro non conosca, o mostri di conoscere, come si può
vedere da un confronto con le forme studiate nella Grammatica del Meyer
Li'ibke; 2° il metodo dell'indagine, arieggiarne nella sua naturale e parziale
imperfezione, quello che informa la moderna filologia: è poco dire che il
Castelvetro muove sempre dalla parola latina e che si serve della comparazione
(estesa al greco e all'ebreo, oltre che al provenz. e al francese): egli ha
anche altre virtù, come quella essenziale di porre la fonetica a base d'ogni
sua ulteriore ricerca; 30 il metodo della trattazione: abbiam visto che, a
proposito de' verbi, p. es., eglb muove dallo stabilire le coniugazioni, poi,
tempo per tempo, studia le desinenze delle persone, e la formazione de' tempi e
de' modi, con l' illustrazione degli esempi ricca e varia. In linea particolare
: i° l'importanza data 2W accento: 2" la funzione della legge de\Y
analogia. Qui anzi, più che in qualunque altra parte, per noi è il merito
principalissimo del Castelvetro. L'importanza dell'accento non era stata ignota
neppure al Fortunio, come vedemmo: di fonetica ammirammo la competenza nel
Tolomei; ma l'analogia, prima di Castelvetro, era un fatto pressoché ignoto ai
nostri grammatici: e anche sorprende di meraviglia il modo, se non sempre
sicuro e preciso, sempre però acutissimo, che il Castelvetro usò nell'
applicarla nella spiegazione delle forme. Col Castelvetro fa un passo notevole
non solo la grammatica storica, ma la metodica e la precettistica: egli nelle
parti che elaborò e con tutte le sue manchevolezze è il grammatico più
completo, per larghezza d'indagine e pel metodo, non solo di tvitto il
Cinquecento, ma di tutto il periodo anteriore alla moderna filologia. Il che
vuol anchedire che non solo le sue ricerche non furono proseguite e fecondate
sistematicamente, ma che, salvo forse pel Salviati e pel Buommattei, che pure
si deve confessare che non seppero in tutto profittarne, avemmo certamente un
regresso: un regresso rispetto s'intende a (pul ehe, nel terreno puramente
empirico, si suol chiamare progresso. Nella polemica originata dalla Canzone
de' Gigli d'oro e chiusasi con la pubblicazione postuma della Correzione del Ca
Capito/o sesto 1S9 stelvetro all' F.r colano di Varchi, l'esaminata Giunta
castelvet rina alle Pi ose del Bembo è, piti che una parentesi o una
digressione, un assalto di fianco da schermidore destro e coraggioso: codesto
scritto pare ed è, di fatto, rivolto ad abbattere l'edifìcio grammaticale tanto
ammirato del Bembo, ma il fine dell'affrettata e parziale pubblicazione, non
v'ha dubbio, fu quello, come ha bene intuito il Cavazzuti, di mostrare al Caro
e compagni la soda e straordinaria dottrina filologica dell'autore. Abbiam
visto se un tal fine fu conseguito e con (pianto buon aumento della scienza
grammaticale. Dobbiamo ora vedere se Y Er co latto di Varchi, nato ed elaborato
nel modo che si sa, portò a codesta scienza un ugual contributo. benedetto
Varchi fu tutt'altro che un meschino e puro grammatico: è nota la risposta data
al Celimi che l'avea pregato della revision della Vita, piacergli più il
simplice discorso di quell'opera, in quello stile, che essendo rilimato e
ritocco da altrui . Ed è la l'ita il capolavoro più sgrammaticato che abbia la
nostra letteratura, e forse non la nostra soltanto. In una di quelle lettere
dirette allo Strozzi, che, come benissimo ha dettoli Manacorda, racchiudono
come un piccolo trattato di propedeutica allo studio delle umane lettere ,
quanto a' conienti, lo confortava, non solamente a non leggergli, ma a non gli
havere pure in vicinanza, non che in casa, salvo Donato sopra Terentio et Virg.
et Servio sopra Vir. et simili; dico simili, ciò è che non siano moderni d'
hoggi, perchè Asconio sopra Cicerone è divino, et volessi Dio si trovassi
tutto, e '1 Vittorino sopra la Rettorica di Cic. non solo si può, ma si clebbe
leggere: io intendo i commenti: il Beroaldo, il Pio, Ascensio et tutti gli
altri simili veneni et pesti, et se peggio è che peste et veneno, che sono da
sbandire non meno che i gramatici. L' Ercolano dialogo di M. Benedetto Varchi
nel quale si ragiona delle lingue ed in particolare della Toscana e della Fiorentina.
Culla Correzione ad esso fatta da ///esser Lodovico Castelvetro; e colla
Varchino di ///esser Girolamo Muzio. Impressione accuratissima come si può
vedere nella seguente Prefazione. In Padova, Appresso Giuseppe Cornino.
Benedetto Varchi, l'uomo, il poeta, il critico, Pisa, 1903, (Estr. dagli Annali
della R. Scuola Normale di Pisa.Carte Strozz., e. 95, in Manacorda. Varchi fu
tra i più enciclopedici de' letterati del Rinascimento. Critico, ripete con
Manacorda, poeta, storico, filosofo, in quasi tutti i rami dello scibile umano
diede prove della mirabile sua operosità . Si procurò una discreta conoscenza
delle lingue antiche e moderne; ebbe cultura giuridica e artistica; ma, come la
sua cultura, se pur svariata, non fu profonda, così la sua erudizione fu
pedantesca, grave, spesso non ben digesta. Forse il meglio che produsse fu
nella critica letteraria e nella poetica: dalla monografia dello Spingarn
s'argomenta che non fu solo un divulgatore della Poetica aristotelica, ma fissò
dei canoni nuovi ed ebbe qualche veduta modernista non in tutto trascurabile:
ma resta sempre vera l'affermazione del Manacorda che la critica letteraria del
Varchi portò in sé il gran difetto d'essere applicazione rigida sempre e
inflessibile di principi, che avrebbero dovuto intendersi con molta larghezza
D'altra parte non la palesa matura la tendenza a voler costringere entro limiti
troppo precisi le manifestazioni letterarie anche più complesse, a considerare
l'opera d'arte semplicemente qual'è, non quale s'è formata. L'opera più
importante del Varchi, una delle più importanti fra le migliori trattazioni
cinquecentesche sulla lingua, sia o no, come s'afferma dal D'Ovidio e si nega
dal Manacorda, un capolavoro, è V Ercolano. Esso, nella sua parte essenziale, è
veramente, come il Manacorda l'ha definito, una trattazione compiuta (s) de'
tre punti del problema a cui principalmente si riducono tutte le questioni per
tanto tempo dibattute: l'origine, la struttura e l'apprendimento e l'uso della
nostra lingua, con l'immancabile preambolo metafisico circa l' origine della
favella e la classificazione dei linguaggi. A non ripeter cose per noi non più
nuove, ci basti qui ricordare che il Varchi fu un sostenitore della
fiorentinità (che esaltò anche sul greco e il latino) sia nel rispetto storico
che pratico, d'una fiorentinità scelta ma rinfrescata via via nell'uso de'
meglio parlanti e del popolo {letterati, idioti, (Da vedere per la storia degli
studi romanzi: De Benedetti, B. V. Provenzalista, Torino, (Estr. dagli Atti d.
Acc. delle scienze di Torino; ma v. tutto il riassunto del Dialogo. iqi non
idioti)^ e la propugnò specialmente contro il Trissino, giovandosi
indubbiamente del Dialogo cK-1 Machiavelli, che però non cita, come e pel
preambolo e per la rassegna de' quattordici volgari italiani ebbe ricorso al
trattato dantesco. Di esso a noi interessa la parte strettamente grammaticale,
la quale, anche col complementi! di altre scritture linguistiche del Varchi,
come le due Lezioni di lingua, il Discorso sopra le lingue, la Lettera a*, la Lezione
sul verbo farneticare (a tacer della Grammatica provenzale, versione del Donato
provenzale^, e il frammento del Trattatello ms. delle lettere e dell' alfabeto
toscano (*), non è davvero un gran che: anzi, non solo a confronto della Giunta
castelvetrina, ma di altre grammatiche anteriori, non rappresenta alcun
progresso, se non in quanto, allargando la trattazione linguistica e sollevando
l'importanza del problema, riscalda e tiene vivo il dibattito e prepara il
trionfo del fiorentinismo : che, del resto, non solo il suo naturale carattere
empirico, è, dirò troppo empirico, ma non contiene alcun elemento storico. Che
ci sembra strana cosa assai. Forse la sua tendenza più filosofica che
filologica, il suo guardar l'arte e il linguaggio più attraverso i canoni
aristotelici e rettorie! che non nella loro vita reale, lo distolse dal
ricercare nella parola le leggi della sua formazione storica: il certo è che,
come nella parte generale della grammatica non disse nulla di nuovo ne di
originale, così nelle parti speciali, a prescindere da un certo contributo che
reca all'arricchimento del Vocabolario, col registrare parole e locuzioni
raccolte dalla viva parlata, non fu più che un osservatore comune. La
GRAMMATICA RAZIONALE O RAGIONATA è, per VARCHI (si veda), una facilità o
disciplina come la Rettorica, la Logica, la Storia e la Poetica, che FA PARTE
DELLA FILOSOFIA. Solo per traslato puo dirsi scienza od arte, ma non è l'una
cosa né l'altra, perchè l'arti e le scienze fan parte della filosofia e la
superano quindi in nobiltà. Dovendosi d’ogni disciplina ricercar sempre il
subbietto ed il fine, si dice che subbietto della grammatica è IL FAVELARE.
Fine: 'l'insegnare FAVELARE RETTAMENTE. Più propriamente tuttavia lsu subbietto
la dittione, cioè le lettere, le sillabe e le parti del discorso. Nelle ('i
Biadexe, in Studi d. FU. rovi.. Ili 1SS5. Manacorda. prime dovranno
considerarsi il numero, il nome, l'ordine e la figura (la rappresentazione
grafica): nelle seconde il numero, l'accento, lo spirito e il tempo. Le parti
del discorso poi sono VIII. Quattro sono DECLINABILI: Nome, Pronome, Verbo e
Participio. Quattro sono IN-DECLINABILI: Preposizione, Avverbio, Interiezione e
Congiunzione. Ciascuna delle declinabili presenta naturalmente vari accidenti,
come sarebbero: genere, numero, caso, persona, e cosi via discorrendo.
Manacorda, che ha riassunto la parte generale della trattazione grammaticale
sparsa nell' Ercolano e altrove, dopo aver ricordato la definizione e le
classificazioni della grammatica e la funzione attribuitagli da Varchi, gli ha
fatto merito d'aver riconosciuto, meglio che non fa Bembo, il valore speciale
di ciascuna delle parti declinabili. Ma tra Bembo e Varchi corre quasi un
quarantennio di produzione grammaticale, nel quale c'è stato chi tratta delle
parti del discorso con maggior compiutezza di Varchi. Anche nell'escogitazione
dell’alfabeto rimasta ms. non sappiamo vedere nulla di notevole, tranne appunto
la riconosciuta importanza della rappresentazione grafica delle parole, che non
è ormai più un merito particolare. Nei punti specialissimi poi, come sarebbero
quelli indicati da MANACORDA (si veda), e cioè gl’articoli, gl’affìssi, i gradi
degli aggettivi, il valore dell’etimologia, troviamo ragioni più di sorpresa
che d'ammirazione. Mentre Castelvetro fa le scoperte che abbiamo dovuto
veramente ammirare, Varchi non sa osservar altro che LA LINGUA VOLGARE HA
GL’ARTICOLI I QUALI NO HA LA LATINA, ma sibbene la lingua grecia, i quali
articoli sono di grandissima importanza, e apparare non si possono, se non
nelle citile, o da coloro clie nelle zane, cioè nelle cune, apparati gl’hanno,
perchè in molte cose sono diversi dagli articoli greci così prepositivi, come
suppositivi; e in alcuni luoghi, senzachè ragione nessuna assegnare se ne
possa, se non l'uso del parlare, non solo si pos [ i1) Op., II, 796 e passim e
Lett. a * in .Manacorda. Ecco l'alfabeto proposto da Varchi: a b e (ten.) eli
fasp.i d e (chiuso) è (aperto) f g tenue gh (aspirato g molle i voc. e
consonante, o ver liquida), ! m u (> 1 chiuso, lungo) o (aperto, tonda) p qu
r s dura s molle / u (voc.) V consonante v liquida z zeta dolce Z aspero.
.Manacorda] sono, ma si debbono porre. E quando osserva che “ del” e “al” NON
sono articoli, ma segni de' casi, fa esclamare. Questa vostra lingua ha più
regole, più segreti e più ripostigli, che io non avrei mai pensato! Nulla sa
della legge dell'accento né dell'analogia. Ognuno pronunzia nel numero del
meno. Io odo, tu odi, e in quello del più. Noi udimo, ovvero udiamo, voi udite;
ma ognuno non sa (neppure Castelvetro?) perchè “vo” si muti in “u.” Similmente,
ciascuno pronunzia nel singulare. Io esco, tu esci, e nel plurale, noi uscimo,
ovvero lisciamo, voi uscite, ma non ciascuno sa la cagione perchè ciò si fa, e
perchè nella terza non si dice “udono” ma “odono”, e non “uscono” ma “escono.”
Buona, quando è positivo, si scrive per u liquida innanzi Vo; ma quando è
superlativo, non si può, e non si deve profferire, né scrivere buonissimo, COME
FANNO MOLTI FORESTIERI. Ma bisogna per forza scrivere, e pronunziare bollissimo
senza la u liquida (:t). Per dimostrare la ricchezza di lingua meravigliosa fa
un interminabile trattato degl’affissi, intorno ai quali già tanto a lungo
vedemmo indugiarsi Bembo, ma non riuscendo ad altro che a fare infinite
combinazioni di forme e radici verbali con particelle pronominali da servire
per ottimo esercizio di scioglilingua. In luogo del vocalismo e del
consonantismo, tratta così, sull'esempio di Bembo, Dolce ed altri, le qualità
fonetiche delle parole e delle sillabe. Tutte le lingue sono composte
d'ORAZIONE (Grice: SENTENCE), e l'orazioni di PAROLE (Grice: WORD), e le parole
di sillabe, e le sillabe di lettere, e ciascuna lettera ha un suo proprio, e
particolare suono diverso da quello di ciascuna altra, i quali suoni sono ora
dolci, ora aspri, ora duri, ora snelli, e spediti, ora impediti, e tardi, e ora
d'altre qualità quando più, e quando meno. E il medesimo, anzi più, si dee
intendere delle sillabe, che di cotali lettere si compongono, essendone alcune
di PURO suono, alcune di più PURO, e alcune di PURISSIMO, e molto più delle
parole, che di sì fatte sillabe si generano, e vie più poi dell’orazioni, le
quali dalle sopradette parole si producono ; onde quella lingua è più dolce la
quale ha più dolci [Vi IJ Er colano.] parole, e più soavi orazioni. Dunque la
dolcezza delle lingue nella dolcezza consiste delle orazioni. E seguita così a
parlare delle tre dimensioni delle sillabe : lunghezza, altezza o profondità, e
larghezza. Di questo spirito rettorico è tutto pervaso ERCOLANO (si veda), il
quale deve la sua celebrità, non solo alla storia della controversia in cui
venne a trovarsi episodio importantissimo, non solo a certe sue qualità formali
di stile e di classica struttura e larghezza di variata esposizione, non solo a
qualche indubbiamente ammirevole intuizione, ma soprattutto a una felice
contemperanza di tante argomentazioni altrui a prò della tesi che dove poi
esser ripresa e fatta trionfare, in quel che è possibile, da MANZONI (si veda)
e al lucido e elegante riassunto delle teoriche dell’elocuzione quali sono
lungo il secolo eloborate. Nessun valore scientifico nella trattazione concreta
di tutte le questioni linguistiche connesse a codeste tesi. Ma per la scienza
non è del tutto trascurabile il (significato e la tendenza della difesa che
Varchi fa del volgare e della sua letteratura, che è un'altra più profonda
affermazione d'una coscienza critica dell’importanza e dell’indipendenza
artistica di esso dalle antiche letterature, e spiana la via al trionfo che
specialmente per opera di Salviati avrebbe ha il fiorentino nell'elaborazione
della grammatica. Le vicende d’Ercolano non sono certo ingloriose. Ha ristampe
e commenti e postille, ma le scritture più celebri che ad esso si congiungono
direttamente sono la Difesa d’ALIGHIERI di MAZZONI (si veda), la Correzione di
CASTELVETRO (si vda) e la Varchina di MUZIO (si veda). Ma grammaticalmente,
com'è naturale, poco o nulla c'è da raccogliere sia nelle postille, sia nelle
opposizioni, data la scarsezza con cui è trattato di grammatica propriamente
detta neh' Ercolano stesso. La tartiniana di Bottari, la cominiana diSeghezzi,
la milanese di Mauri, la fiorentina del Dal Rio, quella che fa parte delle
Opere di Varchi, tra l'altre. Bottari, Seghezzi, Mauri, Dal Rio, Alfieri,
Tassoni, Volpi. Mi meraviglio non poco di lui, dice Castelvetro (Cor)e:., che
avvilendo tanto la materia della mia disputa, nobiliti tanto quella del
presente suo Dialogo delle Lingue, dove non si parla, co- [La parte più
notevole che e' interessa della Correzione, fatta astrazione, s'intende, da
questioncelle minute di linguistica, è quella che concerne Y etimologia. E
facile immaginare quel che poteva osservare l'autore della Giìinta al filologo
n>iatica cese (e tedesca) raffrontate alla nostra: comparazione non
ispregevole e di cui piacemi dar qui un esempio. Nello spagnolo: i. talvolta /
non si pronunzia; 2. //si pron. come il gì del nostro egli; 3. nn si pron. come
il nostro gn ; 4. lo j si usa pel nostro ii e si pronun. come il g del nostro
seggio; 5. x si pron. come se del nostro sciocco, ecc. Nel fraticese: 1. ai ora
si pron. a: lignaige pr. lìnnage, ora £.• satisfaire, pr. satisfere. 2. ajy si
pron. £: z^raj/, wumenlo sopra alcuni versi della Cometa del /J/7 dove anco si
dimostra la nobiltà e Capitolo settimo 217 Il Sai viari occupa un posto
notevole anche nella storia della poetica: ma il vero suo regno fu la
grammatica, dove potè meglio sfoggiare tutta la sua vasta e minuta erudizione
linguistica. L'impulso all'opera principale e maggiore in tale campo di studi
gli venne dalla correzione del Decameron (1582) che gli fu commessa dal
Granduca Francesco di Toscana, per compiacere a Sisto V, entrambi mal contenti
che i Deputati alla correzione del 73 non avessero castrato a bastanza e a
dovere il grande novelliere fiorentino. Il Decameron fu da quanto il Canzoniere
e ancor più nella seconda metà la bibbia grammaticale del Cinquecento, poiché
offriva il miglior modello di prosa numerosa secondo le teorie rettoriche che
si venivano svolgendo: e le ristampe più o meno corrette e le correzioni che se
ne fecero per ridurlo a edificante universal lettura, dimostrano quanto viva
fosse la fede nella forma esteriore di quel libro veramente per il rispetto
dell'arte maraviglioso, e qual fosse il credo grammaticale di quell'età, come
anzi fossero andati in generale sempre più restringendosi i criteri linguistici
e grammaticali del secolo a mano a mano che quella forma accresceva intorno a
sé l'ammirazione, nonostante il progredir della grammatica storica e
l'allargarsi del giudizio critico e certe parziali intuizioni della vera natura
del linguaggio. Il meglio che e ristampe e correzioni produssero nel campo
linguistico-grammaticale furono, oltre varie osservazioni del Borghesi e del
Castel vetro, giustamente aspri censori delle storpiature del Ruscelli, da un
lato le Annotazioni dei Deputati alle correzioni del 73, dall'altro gli
Avvertimenti del Salviati. la vera pronuncia della lingua italiana, Venezia,
1579; Alberto Bissa, Gemine della lingua volgare et latina ( dotte locutioni e
modi eloquenti di parlare usati da più illustri : la parte latina è
indipendente dall' it. (Milano, Pacifico Pontio); Institutiones linguae
italìcae cum interpretatione gallica in gratiam exterorum, opera et sedulitati
Lentuli Scipionis neapolitani, Antonii Francisci M addii f. Patavini editio
postrema, Patavii, 1641 (La lettera del Maddi. Il Fontanini ricorda due opere
perdute di natura etimologica, l'una di Niccolò Eritreo, Lo Stoico, Dialogo
delle origini della nostra lingua volgare, l'altra, Seminarla linguae
vertiaculae di quel Celio Calcagnimi che, contrariamente a quanto sosteneva li
Salviati circa l'eccellenza del volgare, in un lavoro indirizzato al Giraldi
Cintio.... manifesta, fra l'altro la speranza che la lingua italiana e tutte le
opere in essa scritte vengano dimenticate dal mondo. (Spingarx). Di quelle già
il Lombardelli ne' suoi Foriti ebbe ad osservare che arrecano in mezo
avvertimenti diversi intorno alle voci et alle forme del dire, che possono in
gran maniera giovare a chi vuol da vero, e solennemente studiare in questa
favella: perchè son guidati con fondamenti saldi, con ragioni isquisite, e con
esempi notevoli . Le Annotazioni furono nella massima parte opera di quel
Vincenzio Borghini che è stato ben a ragione chiamato il principe de' critici
(critici nel senso di editori di testi) e eruditi del Cinquecento , e
interessano così direttamente il linguista come il filologo, contenendo
osservazioni di lingua e di grammatica storica e pratica illustrate dalla
comparazione di esempi perspicui quasi sempre criticamente vagliati. Vincenzo
Borghini fin dal 1569 aveva avuto in animo di scrivere un trattato sulla
lingua, che né la Difesa del Lenzoni né la Grammatica del Giambullari erano
tali da sodisfar i Toscani e ridurre al silenzio gli avversari: anche dopo la
Giunta castelvetrina aveva scritto al Varchi non aver nessuno sino allora
aperta la natura della lingua italiana. Quando arò parlato dell'origine, sito,
edificazione, territorio, et altre particolarità di Firenze, e risposto alle opposizioni
e contradizioni che ci son del Mei e d'altri e che ci potessero per avventura
essere, et a questo proposito tocco tutto che bisogna, della cittadinanza
romana, delle colonie, delle legioni, delle divisioni de' terreni e molte altre
cose, venire a parlare di questa lingua, ove ho questi capi: onde ella è nata e
cresciuta, che ella è nostra propria, perchè è sì bella, e della sua qualità,
ultimamente il modo di conservarla e liberarla dalle forestiere che la
imbrattano e guastano. Sicché, quando il Granduca ordina una compilazione delle
regole della lingua fiorentina da leggersi in tutte le scuole, Borghini fa
plauso con gioia al magnifico decreto e scrisse a B. Baldini, suggerendo con-
[Per la stima in che è tenuto già da' suoi contemporanei BORGHINI (si veda), si
ricorda qui le parole che, quanto all'edizione del Decameron, scrisse
Corbinelli in una delle sue lettere già ricordate al Pinelli. Quel che non ha
fatto a sufficienza Don Yinc." Borghini non credo il possa fare [non che
il Salviati] altri, in Ckkscim. Quitti., Naz. Firenze, cit. in Barbi, Degli
studi di V. Borghini, sopra la storia e la lingua di Firenze [Il Pr optigli.),
di cui mi giovo per questi cenni intorno al Borghini. Capitolo sei ti ìlio 219
sigli: si deputassero alla bisogna tre o quattro intendenti con facoltà ili
aggregarsi de' giovani. Nel 1574, come l'ordine granducale non aveva avuto
effetto, tornava al proposito di far della lingua un trattato a sé. La
conoscenza dei precedenti grammatici (dei quali taceva molto stima del Bembo,
corifeo, che giudicava però scarsetto; il Giambuilari non gli pareva molto
gagliardo né sicuro; migliore il Varchi, ma non finito; il Tornitane bisognoso
d'essere burattato; il Castelvetro non meno sottile che sofistico nelle sue
prose contro il Caro e il Bembo: Dubio non è che la sua dottrina non è
generalmente sana. Io dico in conto di lingua, ma dall'altra parte e' non manca
di letteratura ; ha visto assai e non è privo d'acume, e può essere sprone a
far considerar molte cose; il Ruscelli, vano, pochissimo intendente di lingue;
nomina il Fenucci, il Dolce, l'Acarisio, Fortunio, il Corso, il Gabriele, il
Muzio, il Trissino), la conoscenza, dico, di tutti i precedenti grammatici e
gli studi larghi fatti in specie per la rassettatura del Decamerone e del
Novellino su tutti gli scrittori grandi e piccoli del Trecento, lo designavano
veramente pari all'impresa ideata con tanta ampiezza. Ma il trattato non fu
compiuto. Ne restano alcuni appunti su argomenti ne' quali era riuscito a esser
sicuro: essere e qualità della lingua fiorentina; natura sua, delle sue parti e
proprietà e aiuti e mancamenti (la lingua varia in una medesima provincia e
città; l'italiana derivò dalla latina con le favelle degl'invasori); il nome
(non ha casi, ma due generi; ha gli articoli); il verbo (non ha passivo), ecc.
Il Borghini, essendo sotto la vecchia concezione della natura del linguaggio,
che è 1 In una leti, a Varchi del 9 maggio 1563, l'anno della pubblicazione
della Giunta castelvetrina, fin Salvini, Fasti Cons., cit. dal Fontanini), lo
spronava a tirar avanti il suo Dialogo, lodando il Bembo e biasimando il
Castelvetro, annunziando ebe l'Accademia Veneziana non sarebbe rimasta muta.
Lasciò in vece un volume di Lettere filologiche e un altro di Discorsi. In
Fiorenza presso i Giunti, oltre, s' intende quanto è suo delle Annotazioni e
discorsi sopra alcuni luoghi del Decamerone di m. Giovanni Boccacci, fatti dai
molto magnifici signori Deputati di loro Altezza Serenissima sopra la
correzione di esso B. stampata in Fiorenza nella stamperia de' Giunti. Noto
qui, come testimonianza del conto che s'è fatto modernamente dal Borghini, che
dal suo nome fu intitolata una rivista filologica, // Borghini, non inutilmente
vissuta. Storia della Grammatica mutarsi, crescere, abbellirsi e peggiorare
ancora, perdere e pigliare voci di nuovo e simili altri accidenti , ritiene il
Trecento il secolo d'oro della lingua: Io ho veduto (scriveva nella lettera del
71 circa la compilazione delle regole) libri scritti fino all’anno della gran
mortalità, e scritti pur da persone idiote e semplici, e non vi si trova un
error di lingua. Havvene alcuno intorno all'ortografia, della quale i nostri
antichi non seppero né curarono troppo. Similmente ne ho veduti, e si veggono
regolatissimamente osservate le coniugazioni, i numeri, i modi, i tempi, e
tutto quello, ove oggi si pecca assai bruttamente. E si conosce, che la natura
stessa o l'uso comune, che sia me' dire, era in quella età regola vera e
sicura. Si comincia a trovare qualche errore, ma non tanti e un pezzo quanti
oggi. Ella da un gran tracollo, e di questo tempo in qua è venuta di mano in
mano talmente peggiorando, che quasi si può dir guasta in alcune sue parti, che
quel tutto buono e come naturale corpo del vero e puro toscano si è per sempre
mantenuto. Oltre a questa classificazione de' pregi della lingua per
cinquantenni, il Borghini ne faceva un'altra per gradi: prosastica e poetica;
nobile, media, plebea ecc. Così anche la lingua, come la poesia, era
rigorosamente chiusa nel codice delle regole più assolute e ristrette: a tale
che la grammatica diremo degl'Italiani, che aveva preso a fondamento l'uso
letterario non pur del Trecento ma del Cinquecento, quando si trova e vi si
trova spesso in discordia con l'uso fiorentino, qual era consacrato nel Decameron,
veniva senz' altro combattuta e ripudiata. Cosi avemmo una singolare reazione
contro la grammatica da parte di quegli stessi che vi dovevan necessariamente
credere. A questo menava la correzione del testo del Deca?neron, ch*e col
criterio dell'uso comune s'era venuto guastando dall'edizione ventisettina per
tutto un cinquantennio e che ciascuno aveva tirato a documentar quelle regole
che meglio gli piaceva di porre. I Toscani, e specialmente i Fiorentini, non
potevano lasciar correre tanto strazio, e benché anch'essi fossero credenti
nella grammatica, tra la grammatica e il Decameron, stavano per questo,
naturalmente, e non si stancarono mai di ripetere [In Barbi, op. e loc. cit.
Capitolo settimo che le regole furori sempre cavate dall'uso naturale, e non
l'uso da quelle (l). Gli Annotatori all'edizione del 73 si giovaron perfino de'
notai di que' tempi, la grammatica [intendasi il latino] de' quali era poco
meno che un semplice corrente volgare che finisse in us et in as. Così
parallela a quella del purismo grammaticale, vediamo svolgersi in Toscana e
particolarmente in Firenze una tradizione che potremmo chiamare del purismo
antigrammaticale, o che intanto accettava la grammatica in quanto essa
rispecchiava fedelmente l'uso popolare trecentesco, che era quello seguito dal
Boccaccio e dagli altri trecentisti e risonava ancora, salvo qualche
modificazione di pronunzia, sulle bocche de' Fiorentini. Tutto era ridotto
all'uso, appo il quale è tutta la balia, anzi, che direni meglio, il quale è la
balia, la ragione e la regola del parlare. A proposito d'un esempio di quei
molti ' AvavóXofìa o ' Avavranóbara ond'è pieno il Decameron, gli Annotatori
escono in questa osservazione: Quegli che volsono fuggire questo o figurato o
vizioso parlare che e' sia, e che pur hanno fitto nell'animo quello ' Ego amo
Deum delle prime regole, mutarono Il quale in Del quale, e cosi appianarono
questo scoglio. Queste sono dichiarazioni gravi contro la grammatica, e
Annotazioni e Discorsi sopra alcuni luoghi del Decameroti di M. Giovanni
Boccacci, fatti da' Deputati alla correzione del medesimo. Quarta edizione
diligentemente corretta, con aggiunte di Borghini, e con postille del medesimo,
e di A. M. Salvini, riscontrate sugli Autografi ed emendate da gravi errori.
Firenze, Felice Le Monnier. È anche notevole quel che dicono dell'analogia: è
una cotal regola che va dietro al simile, e suol esser il riparo di chi è
straniero in una lingua, o sa poco della propria natura . (4) Op. cit., p. 70.
In questo stesso luogo si conclude così: Noi in questi luoghi tutti abbiamo
fedelmente mantenuta la lezione dei migliori libri, amando in questo più la
verità, che o la facilità di quel parlar così piano, o la stitichezza di certe
regole, che più servono, chi ben le guarda, a lingua composta e artificiata,
che a naturale e propria. Altrove la lingua è assomigliata a un mare p. 91).
Oltre le già addotte, eccone un'altra: E generalmente nelle voci del tempo, et
in quelle del luogo, non è molto scrupolosa, né tanto fastidiosa la lingua
nostra, quanto per avventura alcuni troppo sottili si credono, che lutto il di
cercarlo di legarla, e (direni cosi) impastoiarla stranamente. Del resto si può
dir che queste tanto ammirate e ammirevoli Annotazioni siano una protesta conti
Storia della Grammatica devono essere ricordate per non mettere tutti in un
fascio i puristi del Cinquecento. S' intende, anche codesti franchi assertori
dell'uso, erano sotto l'imperio delle regole: seguire il Boccaccio perchè era
stato il Boccaccio, era una regola anche più grave de\Y Ego amo Deiun; ma il
Boccaccio era più vicino ad essi, che certi regolatissimi prosatori del
Cinquecento, e stavano con Boccaccio. Non solo, ma essi riuscivano
all'annullamento della grammatica anche per un'altra strada. Per loro ogni
forma adoperata dal Boccaccio diventava legge: ora a far d'ogni più piccolo
fatto linguistico una regola, la grammatica veniva ad annullar se stessa in
questa sterminata selva di regole e il buon senso era vendicato. E tra le
Annotazioni del Borghini, gli Avvertimenti del Salviati e le osservazioni del
Borghesi, il volgar fiorentino veniva a esser codificato e preparato così per
il travasamento nel Vocabolario della Crusca. Gli Avvertimenti nel Salviati
erano stati concepiti in tre parti, ma videro la luce solo il i" e 2"
volume. nuata contro la grammatica, tendendo esse a giustificare l'uso del
Boccaccio, sia stato o no ratificato dalle grammatiche cinquecentesche. E si
noti che la giustificazione non è fatta sempre con la ragion dell'uso, ma
spesso s'appoggia a considerazioni anco artistiche. Citerò un esempio per
tutti. In Landolfo Luffolo è detto: Venutagli alle mani una tavola ad essa si
appiccò, se forse Iddio, indugiando egli lo affogare, gli mandasse qualche
aiuto. Alcuni interpreti avevan interpolato sperando avanti a se forse Iddio.
Orbene, gli Annotatori, restituendo, sulle testimonianze d'altre simili
costruzioni, il testo antico, osservano: Queste locuzioni così un pochetto
rotte (che in somma son proprie di questa lingua) danno talvolta più grazia, e
mostrano più forza, e fanno il parlar più vivo, come poi avviene; dove questa
costruzione non così piana e facile, ma alquanto alterata {alterata però quanto
e a que' che vorrebbero le locuzioni sempre a un modo, e quelle senza industria
o cura nessuna), scuopre più l'affanno e periglio del misero Landolfo, e par
quasi (per dir così) che fortuneggi anch'ella , pp. 88-9. Non è critica neppur
questa, ma per lo meno vi si avverte lo sforzo di penetrar la visione
dell'artista senza la mediazione della grammatica. 1 Degli avvertimenti della
lingua sopra ' l Decamerone. Volume Primo del cavalier Lionardo Salviati Diviso
in tre libri: il I in tutto dependente dall'ultima correzione di quell'Opera:
il II dì quistioni, e di storie, che pertengono a' fondamenti della favella: il
III diffusamente di tutta l'Ortografia. Ne' quali si discorre partitamente
dell'opera, e del pregio di forse cento Prosatori del miglior tempo, che non
sono in istampa, de' cui esempli, quasi infiniti, è pieno il [La correzione fu
fatta nel 1582 e fu edita non senza notizie grammaticali: gli Avvertimenti sono
il necessario svolgimento di esse. Noi ci restringeremo qui a toccar delle
questioni generali che più e' interessano e a esporre il metodo grammaticale
del nostro e a dar conto dello sviluppo del corpo della grammatica precettiva,
sebbene il Salviati tratti solo delle regole a cui porge occasione il
Decameron, lasciando da parte quanto si riferisce alla critica del testo e
all'ermeneutica boccaccesca. Vedemmo come Gelli rinunziasse a dettar le regole
del volgare e ne dimostrasse l'impossibilità. Pare non sia stato solo a
sostener questa ragionevole tesi, perchè il Salviati al principio del secondo
libro del primo volume s'indugia a confutar gli argomenti di alcuni che tolgono
alle lingue vive il ristringnerle, con ammaestramenti raccolti in iscrittura,
sotto alcuna ferma regola. Gli argomenti addotti da quei tali, erano: 1.
vivendo la voce del maestro, ciò si è il popolo, che la favella, quella fatica
è soverchia; 2. la cosa esser vana, perchè il popolo, non tollerando che gli
sia tocca la sua giurisdizione, seguita a parlare a modo suo; 3. quand'anche si
potesse dettargli legge, l'effetto non potrebbe esser che dannoso. Noi non ci
fermeremo neppure a -notare quanto sien giudiziosi siffatti argomenti, per quanto
non si vedano fondati in una tesi filosofica; e indicheremo il pensiero del
Salviati, il quale non può non riconoscere che quelle sian belle ragioni e che
hanno forse dell'efficacia ; ma tuttavia, guardandole con alcune distinzioni,
crede di potere e dover giustificar la grammatica così: si tratta non di
formare, ma di raccoglier le regole per conservar i guadagni fatti, in modo
che, deteriorandosi la favella, tutto non sia andato perduto. Né si lega per
tutto ciò, come essi dicono, le mani al volgo, o se gli mette quasi la
museruola; ma tuttavia lasciandolo nella sua libertà, si pone in sicuro il
guadagno, che s'è fatto fino allora, sì che il tempo avvenire noi possa più
portar via, e del futuro se gli lascia quasi libero il traffico nelle mani (p.
71). Né la fatica è vana, perchè il popolo non si può aver volume. Oltr'a ciò
si risponde a certi mordaci scrittori, e alcuni sofistichi Autori si ribattono,
e si ragiona dello stile, che s'usa da' più lodati. In Venezia. Presso
Domenico, et Gio. Battista Guerra, fratelli S" gr. sempre appresso, né, se
ciò fosse possibile, parla tutto a un modo. Onde conviene prender dal popolo il
materiale e vagliarlo al vaglio degli scrittori, tra i quali, naturalmente, il
Salviati dà la preminenza ai Trecentisti e al Boccaccio del Decameron in
particolare. Risorge il vecchio concetto bembesco e con esso tutta la critica
ammirativa delle qualità eccellenti del volgar fiorentino degli scrittori
dell'aureo secolo, l'efficacia, la brevità, la chiarezza, la bellezza, la vaghezza,
la dolcezza, la purità e la semplice leggiadria. Ma è facile notare come l'uso
vivo venga solennemente affermato, e come sia largo il criterio fondamentale
della grammatica. L'esempio e l'autorità degli scrittori sono appunto quelle
cose, che le regole della lingua si chiamano comunemente. Del favellare sia
arbitro il popolo, dello scrivere l'uso approvato dal consenso de' buoni:
sicché nel formar le regole venga primo il Boccaccio, poi i contemporanei di
lui, indi il popolo, il cui presente favellar è meno nobile di quello del
Boccacio. Nel fondo, però, pur con tutte queste larghezze, il Salviati riesce
un un gran purista. Disapprova il parlar degli scapigliati che non adoravano il
bembesco e il boccaccevole stile; cita come un barbarismo X applauso universale
da loro usato. Si scaglia contro il gergo cancelleresco cortigiano,
segretariesco, contro V autore della Giunta che scrive al buio volendo imitare
il Boccaccio; contro il latino, i latinizzanti e le scuole di latino che
contribuirono a corrompere il volgare. Esalta invece le benemerenze del
Poliziano e più di Bembo. Toglie parzialmente agli scrittori del buon secolo il
vanto delle cose pertinenti a gramaiica, e glielo dà in purità di vocaboli,
modi del dire, breve, vaga e semplice legatura. Propugna la pubblicazione d'un
Vocabolario della Toscana linguai^. . Indi sbozza una storia critica degli
scrittori del buon secolo. Conclude col dire che la grammatica resterà fissa
sugli scrittori del 300, e che il vocabolario potrà continuamente migliorare,
distinguendo tra prosa e poesia per quanto riguarda l'ortografia, i solecismi
ecc., al qual punto rimanda alla sua Poetica.] in ultimo accenna alla prova
[Questa discussione del Salviati fece fortuna, perchè, staccata dagli
Avvertimenti, fu riprodotta a parte in una miscellanea di Regole, di cui avremo
occasione di parlare, in Firenze, col titolo: Se le lingue sien da restringer
sotto Regole e spezialmente il volgar nostro. Da chi si debbano raccor le
Regole, e prender le parole nelle Lingue che si favellano, con un Sunto
d'alcuni avvertimenti dilla Lingua, sotto il nome, s'intende, del Salviati.]
proposta dal Varchi di paragonar il fiorentino con gli altri dialetti d'Italia,
riportando in fin del volume varie versioni italiane della novella boccaccesca
del re di Cipro. Il III libro svolge la parte dell 'ortografia. Dichiara che
rispetterà la nomenclatura grammaticale ormai in uso (quindi pronome, non
vicenome, participio non partefice, congiunzione non giuntura, esclamazione non
schiamazzio, che fa ridere), e la comune esposizione, forma , cioè
distribuzione e condotta, già ricevuta dall'uso delle scuole, benché in tutto
non perfetta, sacrificando il suo particolar modo di vedere all'utilità comune
che dalle novità sarebbe stata frustata. Sicché questi Avvertimenti del
Salviati, sotto questo rispetto, ci rappresentano il consentimento ufficiale
scolastico intorno al corpo e allo schema della grammatica; anzi essi si
possono considerare la prima vera grammatica scolastica dell'Italia, quale la
didattica secolare se l'era venuta formando. Consideriamo dunque brevemente il
contenuto speciale che il Salviati, desumendolo dallo studio del Decameron, ha
di suo versato in quello schema. Le Lettere sono nella vista (segni) della
scrittura 21: a b e defghil. mn'opqrstuxz, ma nella voce (suoni) 32. Delle
lettere h è mezza lettera, il q è inutile, il k è fuor d'uso perchè non dolce.
Confuta la riforma trissiniana. Vocali Q) in scrittura son 5: a, e, i, o, u in
fonetica 8: a, è, é, i sottile, i grasso, ó, ò, u. Diltongi, 49, quanti sono
gli accoppiamenti ( distesi Es. làude delle vocali e sono . \ raccolti guato.
Trittongi e quattrittongi che si possono raccogliere in una sillaba sola:
lacciuoi. Ricorda le divisioni di Platone, nel Cratilo (vocali, mezze vocali, e
mutole), ripetute da Aristotile nella Poetica. Nella Storia degli animali
Aristotile accenna anche alla formazione delle vocali dalla voce e dal
gorgozzule, delle consonanti dalla lingua e dai labbri. Su questa base
fondarono retori e grammatici latini la loro fonetica. Platone dice le vocali
la catena, e '1 legame senza '1 quale l'altre lettere esprimer non si
potrebbero. Le consonanti in vista son 16, semivocali, che partono ^dall'ugola
madre delta nella zw^, almen 25 (sauere, sapere), tra la / e la n (calonica,
canonica), tra la / e la r (albori, arbori), tra la / e la d (olore, odore),
tra la / e \\g (li, gli articoli, quelli, quegli, cavalli, cavagli, salì,
saglì, dolgo, doglio), tra la n e il g (piangere, piagnere), tra la r e il d
(dierono, diedono), tra la s e la z aspra (solfo, zolfo), tra la ^ e il e
(Sicilia, Cicilia), tra la ^ e la f (sino, fino), tra la .? e il / (nascoso,
nascosto), tra chi e sii (schiena, stiena), tra la. s e z aspre e sottili di
altri popoli (pesso, pezzo; strossare per istrozzare; Orazio per Orazio), tra
la z sottile o aspra e il e ora scempio ora doppio (beneficio, benefizio), tra
la z rozza e il d (fronzuto, fronduto), tra la z e il g (ammonigione,
ammonizione), tra il b e il g (abbia, aggia), tra il b e il p (brivilegi,
privilegi), tra eh e ce (Antioco, Antioccio), tra il “c” e il “g” (“Caio,”
“Gaio”), tra il de il g (vedendo, veggendo), tra il d e il / (cadmio, catuno).
Passa poi alle jnllabe. Qui fa una distinzione curiosa: dice che quel che
significa sillaba è stato determinato dai filosofi, e che a dividerle insegnano
i pedagoghi, non più; ma sarebbe stato importante che ci avesse accennato
qualcosa di particolare intorno alla definizione data dai filosofi. Chiude il
trattato parlando del modo di scrivere molte parole, della copula, degli accenti,
delle maiuscole, e de' segni di punteggiatura. Assennatissime le osservazioni
sulla punteggiatura. Ricorda le moderne dottrine circa la storia della
punteggiatura, inclinando a credere, sulla testimonianza di Aristotile, che gli
antichi punteggiassero con minuzia. Si dichiara soddisfatto de' punti usati al
suo tempo , ma riconosce che questa .:;, ? f ) cioè punto fermo, mezo punto,
punto coma, coma, interrogativo, parentasi. Del fermo, per altro, fa, secondo
la necessità della posa (pausa), quattro specie: fermo, trafermo, fermissimo,
trafermissitno . ]materia è meno che altra atta a esser legiferata, e convien
lasci.ire alla pratica degli scrittori la più ampia libertà, acciocché siano
ben rese e la tela (costruzione) e la SENTENZIA (SIGNIFICATO) del discorso.
Rispetto, non dico alla fonetica di Castelvetro, ma anche alle spiegazioni
d'altri grammatici che s'occuparono di questa parte, non escluso il Fortunio
stesso, il primo di quelli editi, questo trattato del Salviati è certamente un
regresso, per quanto qualche osservazione supponga una teoria meno empirica: se
non che, e la giustificazione della grammatica fatta dal Salviati e la
relatività assegnata alle regole di esse da una parte, e la legiferazione così
minuta dell'ortografia intesa nel senso più largo fondata su dati storici
positivi, sui caratteri del volgare cinquecentesco usato dal popolo, non
escluso quello della dolcezza e musicalità dell'idioma fiorentino, dall'altra,
assegnano agli Avvertimenti del famoso accademico un discreto valore scientifico
nel primo rispetto, e, nel secondo, un notevole posto nella storia di quei
prodotti che indirettamente concorsero alla dissoluzione del loro stesso
contenuto : nella somma di questa duplice qualità, dunque, il pregio di
documento principalissimo per la nostra narrazione. Dell'importanza data dal
Salviati alla grammatica abbiamo già fatto cenno. Quanto alle osservazioni
donde son ricche le particelle della sua trattazione, in questo senso noi
affermiamo che sono notevoli, che, legiferando un'infinità di esigenze formali
dell'idioma nostro, sviluppando quasi all'infinito il corpo della grammatica e
nell'istesso tempo assottigliandolo fino a ridurlo un'ombra di sé stesso, col
fare d'ogni minimo caso una legge, riducono ai minimi termini il rigore, la
rigidità, l'inflessibilità della legge grammaticale, preparandone il totale
annullamento. Ho detto esigenze formali, ma non sono solamente tali. Quelli che
sono stati chiamati i criteri formalistici dei letterati del Cinquecento dal
Bembo, appunto, al Salviati, di fatto erano criteri estetici sostanziali. Gli
abiti mentali di quella generazione di scrittori e di critici, il loro ideale
di bellezza, il loro modo d'esprimere e riflettere nel verso e nel discorso
sciolto il proprio contenuto, questo stesso contenuto, conducevano tanto chi
esercitava l'arte quanto chi esercitava la critica a quella concezione della
forma che a noi può sembrare pretta esteriorità vuota di contenuto, ma che per
loro era la sostanza stessa del loro pensiero. Il formalismo dunque legife
rancio sé stesso, sodisfaceva a un bisogno, esprimeva in regole la scarsa e
superficiale vita interiore, che era vita formale essa stessa, riuscendo così a
una critica indirettamente negativa della grammatica, dove a noi parrebbe di
dover vedere un rafforzamento di fede grammaticale. In altre parole, a me par
di poter mettere sulla stessa linea progressiva il Salviati e i migliori
recenti costruttori di categorie grammaticali e rettoriche a base di
psicologia, con questo profondo divario ridondante a tutto onore degli ultimi,
che questi han coscienza di quel che fanno, cioè di fare una critica della
grammatica, e il Salviati no. Il Salviati legifera gli atteggiamenti della
lingua, gli affetti, quasi direi, delle parole e degli elementi di essa (tant'è
vero che parla dell'a?nisià delle lettere) rispondenti alle tendenze del
pensiero; quelli descrivono le forme in che si concretano i movimenti dello
spirito: in fondo menano dritti sì gli uni che gli altri all'affermazione della
formula tal contenuto tal forma, che non dà più luogo a grammatica, a legge
veruna regolatrice della favella (l). Nel secondo volume degli Avvertimenti
("), dedicato a Francesco Panicarola architetto dell'arte del ben parlare
, tromba del nostro secolo , tratta, ne' primi due libri, del nome,
deWaccompagnanome, dell' articolo e del vicecaso; ma quello che fu il desiderio
de' contemporanei e, particolarmente, del Lombardelli, che cioè venissero
trattati con la medesima felicità l'altre parti, rimase inappagato, nonostante
che l'impulso a pubblicar questo secondo volume venisse al Salviati e lo
dichiara nella dedicatoria con viva compiacenza dal giudizio favorevole dato
sul [Per questo problema fondamentale della critica della grammatica, si
ricordi in particolare la polemica Vossler-Croce, originata dal saggio di
Vossler sulla Vita del Cellini, e precisamente: Atti d. Acc. Pont.,
Literaturblatt f. gertn. u. rovi. Pini., 1900, 1; Flegrea, 1 apr. 1900;
Zeitschr. f. rom. Pliil.; La Critica. Della polemica fa la storia lo stesso
Vossler, nel suo recente libro, Posilivistmis inni Ldealismus, già citato,
riuscendo ad un pieno accordo con la dottrina sostenuta dal Croce. Cfr. anche
Rossi, Contro la stilistica, Firenze. Del secondo volume degli Avvertimenti
della Lingua sopra il Decamerone. Libri due del Cavalier Lionardo Salviati. Il
Primo del Nome, e d'una Parte, che l'accompagna. Il Secondo dell'Articolo, e
del Vicecaso. In Firenze, nella Stamperia de' Giunti.] primo da tre
valent'huomini di sottilissimo intendimento: il utilissimo Cavalier Batista
Guarirli, delizie delle belle lettere de' nostri tempi, il Patrizio, le cui
scritture e spezialmente quest'ultime della Poetica, hanno fatto stupire il
mondo, e quel Mazzoni, huomo, se mai ne fu alcuno, in supremo grado scienziato,
cittadino in tutti i linguaggi, maestro perfettissimo in tutte le l'acuità: che
tanto sa, di quanto si rammemoria; di tanto si rammemoria, (pianto egli ha
letto: cotanto ha letto, (pianto oggi si truova scritto, al quale sia sempre,
per lo nostro maggior poeta, obbligata la patria mia. Nella trattazione di
queste parti del discorso ritornano, per altro, le infinite e complicate
classificazioni e distinzioni che rendono la morfologia fastidiosa e difficile
e di scarsa efficacia all'apprendimento della grammatica. Il nome è diviso
secondo la sentenza e secondo la voce: sotto questo rispetto, è semplice o
composto, primitivo o derivato; sotto l'altro sostantivo o adiettivo: il
sostantivo è proprio o appellativo e questo collettivo o no; V adiettivo è
perfetto e ha 3 gradi {positivo, comparativo, superlativo) o imperfetto, e si
divide in 3 gruppi: appartengono al primo il relativo, il rassomigliativo, il
renditivo, V interrogativo, il dubitativo, il relativo indefinito; al secondo
il partitivo, Y universale, il partictdare, il distributivo, il numerale o
denominativo; al terzo il possessivo, il materiale, il locale (patria, nazione,
distanza). Ha tre accidenti: il genere (maschile, femminile, neutrale, comune,
dubbio, indifferente), il mimerò (singolare, plurale o maggiore; non duale
altrimenti ci dovrebb'esser il triale, il quattrale, il cinqualé), il caso (uno
pel singolare, uno pel plurale). Si declina in quattro modi: a) maschili sing.
-a, pi. -i; b) femminili, -a, -e; e) comuni, -e, -i; d) comuni, -o, -i. L '
accompagnaìiome sarebbe l'articolo indeterminativo uno, una. Quasi un cento
pagine son dedicate, al solito, alX articolo, il cavai di battaglia di tutti i
maggiori grammatici del Cinquecento. Il Salviati ne ragiona in due pagine con
gran solennità la definizione; polemizza contro chi non lo vorrebbe in
italiano, non essendoci nel latino che è lingua più nobile: ne spiega la forza,
V ufficio, V opera, che è di determinare la cosa precisamente....e di tutta
insieme abbracciarla. E qui spiega un'infinità di sottili distinzioni,
indulgendo a quel fine senso estetico formale di cui ho parlato più sopra.
Ripiglia la questione del mortaio della pietra, affermando che nessuno,
insomma, fin qui ebbe confutato in ptibblico il Bembo. Neppure il Castelvetro?
Eppure spesso il Salviati si ferma a discuter col critico modenese, del quale
non ha certo la sottile e abbondante dottrina filologica né il metodo. L'opera
di Salviati suscitò un vero entusiasmo al suo tempo, e il Lombardelli, che fu
quasi sempre il fedele interprete dell'opinione comune, cosi ne discorse ne'
suoi Fonti: Il Salviati ha ritrovati i principi, le parti e gli ornamenti di
questa lingua; et ha scoperto i modi, e le strade vere di conoscerla,
d'affinarla e di tenerla in riputazione. Nel I volume scioglie molti bellissimi
dubbi; fa la censura degli scrittori antichi, e tratta nobilmente i fondamenti
più generali della lingua. Ne' due primi libri del II volume tratta del Nome,
Accompagnanome, Articolo e Vicecaso, con tal copia, e spirito, e vivacità, e
chiarezza; che ne fa desiderar di veder trattate con la medesima felicità
l'altre parti. Queste e l'altre scritture sue, dove si tratta di teorica,
possono arrecar giovamento aiuto e forza tanto maggiormente, quanto più fiero
sarà l'intendimento di chi si metterà a studiarla, ed a trarne frutto. Non
tacerò che, a chi legge, oltre a quel che impara capo per capo e parte per
parte, se gli affina a maraviglia il giudizio di maniera che può aspirare alla
perfezion dell'intender gli Autori, del parlar bene, e dello scriver con lode.
Quest'affinamento di giudizio veniva certamente prodotto in altrui dal Salviati
appunto con quel suo discuter parte per parte, capo per capo, gli esempi
addotti in gran copia, secondo il suo fine sentimento formale. Di modo che, sia
per questo sia per esser fondata la sua trattazione sopra la critica e
l'esegesi del testo decameronico, cioè sopra una base concreta, sia ancora per
la infinita serie di regole, il Salviati più che una grammatica nel senso
pedantesco e scolastico della parola, in questi suoi Avvertimenti ci ha porto
un esempio notevole della larghezza con cui dovrebbe esser condotto
l'insegnamento grammaticale, mentre, dall'altro canto, ha sviluppato il corpo
della grammatica in siffatto modo, che il progresso del disfacimento ne veniva
certamente accelerato. Salviati, a cui dobbiamo anche oltre un giudizio alcune
aii7iotazioni tra linguistiche e grammaticali sul Pastor fido del Marini, Ma
l'ammirazione non fu senza contrasti. Accennerò alla polemica che, un anno dopo
la pubblicazione del secondo volume, s'accese tra il Papazzoni e Beni. Il primo
nella sua Ampliazione della lingua volgare ( fondata parte in ragion
chiarissima, e parte in autorità d'autori principali) , rimproverò al Salviati
il modo onde aveva legiferato intorno alla grammatica e la corruzione fatta del
testo boccaccesco. Gli rispose nell'anno medesimo il Pescetti, uno dei più
litigiosi grammatici che abbia avuto l'Italia. Era di Marradi dalla diocesi di
Faenza passata alla signoria de' Fiorentini : un toscano un po' bastardo, dunque.
Insegnò grammatica a Verona, dove, un anno dopo della polemica col Papazzoni,
s'attaccò con Giandomenico Candido per la Difesa della Zeta, intorno a cui
aveva pubblicato un'operetta il Lombardelli, e la contesa si fece così
accanita, che dovette mettersi in mezzo Valerio Palermo dirigendo una lettera
latina ad ambedue. Il Papazzoni replicò ancora con una Apologia in difesa dell'
Ampliazione contro r opposizione del signor O. P. Ma ormai divampava la
tremenda contesa tassesca, a cui prese parte quasi tutta l'Italia e le piccole
gare grammaticali e ortografiche perdettero il loro interesse. Sicché, rimase
senz'eco anche il dialogo di Pierantonio Corsuto, // Capece ovvero le
Riprensioni, diretto contro gli Avvertimenti del Salviati. Non solo, ma anche
la produzione grammaticale ora diminuì, intese alla compilazione non solo di
quello dell'Accademia, ma d'un suo proprio Vocabolario, che però non vide mai
la luce. In una di quelle annotazioni, egli stesso dice: Tutto che' io m'
assicuri d'affermarlo assolutamente senza vedere la bozza del mio imbastito
Vocabolario, il quale ora non ho appreso, crederei all'improvviso che di fora
per fosse o per fossi, non vi abbia esempio sicuro.... Prose inedite del Cav.
Leonardo Salviati raccolte da Luigi Manzoni, Bologna. Sembra ormai fuor di
dubbio che del Salviati sia il Discorso nel quale si /nostra l'in/perfezione
della Commedia, diffuso ms. piu tardi pubblicato. Cfr. Flamini, Avviamento allo
studio della D. C, Livorno. In Venezia per Paolo Meietti, 1587, 8°. (2) Epistola
lalerii Palermi ad Orlandum Pescettium, et Io. Dominicum Candiduiu de uso
litterae Z disceptantes, In Verona, presso Girolamo Discepolo. In Padova, per
Meietti.] tanto che avremo quasi da arrivare al Buommatteri per ritovare un
corpo di regole da gareggiare con gli Avvertimenti e le altre fondamentali
opere grammaticali del Cinquecento. Il s££q1ol_sì chiudeva con la ristampa
delle Osservazioni del Dolce, e l'altro si apriva con la compilazione del
Vocabolario della Crusca. Più gravi, per la competenza e l'autorità di chi li
moveva, e un più vivo clamore avrebbero suscitato, se espressi in pubblico, gli
appunti che contro gli Avvertimenti rivolse il Corbinelli nelle molte lettere
dirette al suo amico Pinelli, tra le quali ha così proficuamente spigolato il
Crescini . Il Corbinelli, che aveva avuto il Salviati quasi scolaro a Firenze,
havendo il medesimo homore da giovinetti , non confidava troppo nella valentia
linguistica del Salviati, che giudica uomo di non grandi spiriti, ma diligenti,
giuditio mediocre , sofisticuzzo nelle sue cose , e torna a qualificare, dopo
lettine gli Avvertimenti, vago di non lasciar nulla indetto , incline a
spezzare il cervello in minutar mille e... nerie , principalmente per una
sostanziale differenza circa i criteri e al metodo, coi quali condurre lo
studio della nostra lingua. Il Salviati, come pareva anche al Corbinelli,
tirava di lungo e non vedeva più oltre che la lingua sua; il Corbinelli,
conscio della sororità o fratellanza delle due lingue cioè franzese et italiana
, convinto che dalle lingue barbare [francese, provenzale] noi haviam ritenuto
una infinità di cose: et che bisogna saperle per volere fare il grammatico: non
dico per scrivere , procedeva nell' indagine linguistica col metodo
comparativo, non per proporre niente da imitare e odiando le regole (%): l'uno
era un empirico precettista, l'altro uno storico comparatore. Che il
Corbinelli, anche non spiegando esattamente, come gli accadde spesso, le forme
linguistiche nella loro formazione storica, potesse aver buon giuoco sul
Salviati per ciò che riguarda questo [Per gli studi romanzi cit.. In Crescini,
op. cit., p. 194, 195, 204, 206. Col Salviati il Corbinelli appaiò il Muzio, di
cui così scrisse: Io lo trovo quasi quanto il Salviati et sì bene egli è
ignorante nella maggior parte delle cose, ancor si ha egli osservate molte, se
non altamente, curiosamente, et bene mi piace, che e' dice volentier male. V'ho
trovato il mio povero Corbaccio . Crescini. In Crescini] aspetto del problema
della lingua, è più che naturale ; mala presunzione che il Salviati, perchè non
intendente del francese e del provenzale, dovesse essere impari al suo compito
che era di grammatico normativo e non di storico, è illegittimo, poiché i due
punti di vista sono protondamente diversi: con l'uno si descrive la lingua
quale fu prodotta e fissata nella scrittura, con l'altro si compie uno sforzo,
per quanto disperato, di apprenderne il valore espressivo: con l'uno si lavora
in un piano, con l'altro in un altro, pur non disconoscendosi che la grammatica
normativa, in quanto espediente didattico, sarà tanto più efficace quanto più
fedelmente elaborerà le sue regole sui risultamenti dell' indagine storica. Il
Corbinelli odia le regole, perchè il suo è un interesse storico, e come egli
trova i libri scritti variare, così stima queste cose indifferenti, et se in
parlando suol dire et udire ' andavo ', ' facevo ', ' stavo ', tanto scriverà
così, se la penna harà fatto un v òvofiàrcìv) ; questioni agitate confusamente
e che Alcune linee di questo brevissimo riassunto della storia della grammatica
presso i Greci toljjo dalla Histoirc de la Littérature grecque par Alfred et
Maurice Croiset, Paris. Per maggiori e più sistematiche informazioni, oltre l'
Egger che citiamo più innanzi, H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft
bei den Griechen uud Romeni mit besonderer Riieksicht auf die Logik,'Berlino,
1890-1. Y. l'interpretazione del Benfev, accettata dal Bonghi, nelV Appendici'
seconda al Cratilo in Dialoghi di Plafone tradotti da Ruggero Bonghi, voi. V, Roma,
1S85, pp. 404-10. Capitolo ottavo 243 hanno il loro monumento nell'oscuro
Cratilo platonico, che sembra ondeggiare tra soluzioni diverse . Poco o nulla
progredì la teoria grammaticale coi teorici della grande eloquenza attica e gli
storiografi che s'informarono ai loro principi e imitarono i grandi oratori,
sebbene un d'essi, Eforo, scrivesse anche un trattato sullo stile (jtsqì
Àé^eoc;), come nessun impulso era venuto alla grammatica dai primi retori
siciliani. Ln_ Aristotile la teoria grammaticale si congiunge ancor più
direttamente e intimamente con la logica che non con la retlorica e la poetica,
dove ne' rispettivi capitoli sull'elocuzione, pur si parla di parti del
discorso. Nella Rettorica (1. IID, affermato che il principio della buona
locuzione è la correttezza, si spiegano i vari modi di conseguirla, che sono:
1. collocar bene le congiunzioni; 2. usare i nomi propri e non circoscritti; 3.
non usare i dubbi; 4. dare a ciascuno il suo genere, maschile, femminile e
neutro; 5. dare il numero suo, singolare, duale, plurale. Nella Poetica, tutto
un capitolo (il XX), che sembra a ragione interpolato (2), è dedicato alle
parti dell'orazione, che sarebbero: lettera o elemeyito, sillaba, congiunzione,
nome, verbo, [articolo], caso, orazione. Ma le vere categorie grammaticali che
Aristotile realmente e in modo chiaro elaborò, sono il no7ne e il verbo, i due
termini della proposizione enunciativa, di cui tratta nei pochi capitoletti
jtvoì 'Eoneveiag (De in Croce, Estetica cit., p. 176. •) Tale lo giudica l'ultimo
editore della Poetica aristotelica, che espunge anche, come interpolazione nel
brano interpolato, la categoria dell'articolo (òodQOv). The
Poetics of Aristotle edited with criticai notes and a translation by S. H.
Butcher, London. Osservo che l'
interpolazione del paragrafo era stata già avvertita dal Barthélemy
Saint-Hilaire, ma con una considerazione che non ci sembra del tutto opportuna.
Il gran divulgatore d'Aristotile osserva infatti que toutes ces théories
quelle sull'elocuzione, d'ailleurs très contestables, quand elles ne sont pas
tout à fait erronées, sont très-déplacées dans un ouvrage tei que celui-ci.
Cesi de la grammaire ; ce n'est plus de la poétique. Je n' hésite pas à
déclarer qu 'elles ne peuvent ètre d'Aristote, et je me fonde surtout pour les
repousesser sur V Herménéia, qui prouve une connaissance de ces matières, si ce
n'est plus étendue, du moins beaucoup plus exacte. Les chapitres qui vont
suivre [XX sgg.] sont donc une interpolation. Poétique d'Aristote trad. en fr.
et accomp. de notes perpètuelles par]. Barthélemv Saint-Hilaire, Paris. De', meriti del
nostro Castelvetro sotto il rispetto della critica del testo, s'è già accennato
e torneremo qui a darne altre prove. 244 Storia della Grammatica terpretatione,
o Della proposizione, secondo è stato tradotto il vocabolo). Uno svolgimento
ancor più considerevole che in Aristotile ebbe la grammatica dalla dialettica
degli stoici, pe' quali la logica era la scienza preliminare delle condizioni
della conoscenza o del metodo, e che si servirono del linguaggio per determinare
le leggi che segue la ragione: essi conobbero cinque parti del discorso, nome,
pronome, verbo, avverbio, congiunzione. Fondata la Biblioteca d'Alessandria,
con tante opere da curare e studiare, segnatamente i poemi omerici,
l'elaborazione della grammatica ebbe la spinta verso il suo completo assetto
con le dispute suW analogia e V anomalia. Aristofane di Bisanzio volle vedere
in tutti i fatti linguistici una razionale regolarità, e si diede a svolgere la
declinazione greca per darne la prova convincente, seguito da Aristarco che ne
divenne un caldo sostenitore: Crate di Mallo, uno stoico condotto dalla sua
stessa filosofia agli studi grammaticali seguendo Crisippo, sostenne invece la
teoria dell'irregolarità grammaticale. La conclusione della disputa fu come
sappiamo, l'accettazione del principio della recta coìisìictudine, cioè della
contradizione organizzata . Chi sistemò tutta la scienza grammaticale
dell'antichità fu Dionigi Trace, la cui Tèyyr) yQajufiaxatr} tenne il campo per
oltre due secoli fino ad Apollonio Discolo, compendiata, commentata,
amplificata. Per dare un esempio dello spirito ancor tutto greco sottile e
classificatorio di Dionigi, è stato già osservato che egli coniuga anche le
forme verbali logicamente corrette, benché non usate. I Romani, di questo
periodo, copiarono i Greci: Varrone è sotto l'influenza della disputa tra
analogisti e anomalisti, nella quale non riesce a veder chiaro. La sofistica
ebbe ancora un'ultima e non meno forte efficacia sulla grammatica, con Apollonio,
il quale si sforza di darle un carattere scientifico, rapportando ogni singolo
fatto linguistico a una legge logica. Egli sostiene il principio che ogni parte
del discorso procede da un'idea che gli è propria: 'Ekclotov òè ui'Tox' è§
ìòiag èvvoiag àvàyeuai, e vi fonda su tutta una nuova sintassi di reggimento,
che, accettata poi dai grammatici romani, segnatamente da Prisciano, ritornò
quasi integra dopo la deformazione che n'ebbe fatto il Medioevo, al
Rinascimento, e in molti particolari accolta dai Portorealisti e dai grammatici
logici dell'Enciclopedia, rimane ancora, con le debite mo Croce, Estetica cit.,
p. 498. Capitolo ottavo 245 dificazioni che il tempo apporta, in tutta la
grammatica moderna. Ma, com'è stato ben osservato, Apollonio, non fondando la
sintassi sullo studio della proposizione, ma sulle singole categorie
grammaticali, non ha costruito una grammatica filosofica. Dopo di lui (sec. II)
fino appunto a Prisciano (sec. VI) la grammatica ebbe dai trattatisti romani
vari rimaneggiamenti, ma nella sostanza non fu modificata ('")• Con Donato
(sec. IV), il più metodico, e Prisciano, il più infuso di spirito
"filosofico, servì al Medioevo e risorse tal quale nel Rinascimento, che,
come abbiamo già visto sull'esempio del Perotti, congiunse Donato e Prisciano,
perduta però ogni coscienza dell'origine della funzione delle categorie.
Codesta perdita era già avvenuta nel Medioevo, Apollonio ha avuto un diligente
e acuto illustratore in un grecista di gran valore, l'Egger, il quale per altro
lo critica dal punto di vista della grammatica generale quale era stata
sistemata in Francia. V. Apollonius Dy scole. Essai sur l'histoire des
thèories grammaticales dans l'antiquitè par E. Egger, Paris. À part des erreurs
de détail qui seront relevées dans les chapitres suivants, sa classification
des parties du discours est, en general, fort louable, parce qu'elle ne
méconnait ni l'unite essentielle de la proposition, ni la variété très-réelle
des mots qui concourent à former une phrase. Réduire à trois les parties du
discours sous prétextes que la proposition n'a que trois termes élémentaires,
c'est taire abus de logique; comme se serait, en quelque sort, faire abus de
grammaire que d'admettre douze ou quinze partie du discours en donnant ces nom
aux espèces secondaires au lieu de le réserver pour les véritables genres.
L'observation des mots et l'analyse des idées, la grammaire positive et la
logique sont deux sciences distinctes, dont l'alliance produit ce qu' on
appelle la philosophie des langues. Pp73'4L'Egger è un credente nella grammatica e anche
nella logica formalistica: come non si abusi né della grammatica né della
logica a riconoscere otto o nove parti del discorso, invece di tre o di
quindici, è un segreto che sanno solo l'Egger e i suoi compagni di fede: che
cosa sia poi la filosofia del linguaggio fondata sull'alleanza della grammatica
e della logica, ci è ben noto. (2) Un particolare contributo all'elaborazione
della grammatica antica avrebbero recato i grammatici romani specie per ciò che
concerne la sintassi dei casi, secondo il Sabbadini, Elementi nazionali nella
teoria grammaticale dei Roma?ii, in Studi di filologia classica, dove, anche si
nega, contro Golling [Ristorisene Grammatik der latemischen Sprache) che la
riforma della grammatica scolastica latina risalga a Guarino, per la storia
delle cui Regole il Sabbadini stesso rimanda al suo libro La scuola e gli studi
di Guarino Guarirti veronese, Catania] in cui logica e grammatica si
disciolgono dai comuni vincoli onde fin dalla nascita s'erano mantenute legate
nei GRAMMATICI RAZIONALI come Apollonio, per sottomettersi entrambe a un
processo di decomposizione e di degenerazione: la grammatica, prima delle
scienze del nuovo canone, e, rimasta, ne' secoli di maggiori tenebre, quasi l'unica
a esser coltivata, diviene un campo di esercitazioni pedantesche e di polemiche
interminabili su argomenti oziosissimi (se tutti i verbi, p. es., abbiano il
frequentativo; se ergo abbia il vocativo ecc.; la logica, analogamente, che pur
con Aristotile s'è sollevata alla scoperta di principi di vero carattere
scientifico, ha nella scolastica la sua massima espansione formale, perdendo
tutta la vitalità che aveva avuto da Aristotile, il quale peraltro rimase al
giudizio dei critici del Rinascimento il responsabile dello strazio che s'era
poi fatto di lui. Contro la doppia degenerazione della grammatica e della
logica sorsero ben presto le proteste. Rinuccini lamentato che i grammatici
passassero tutto il loro tempo in fantasticherie, lasciando il più utile della
grammatica; lunga da se la fanno lunghissima, ma la significazione, la
distinzione, la temologia de’vocaboli, la concordanza delle parti
dell'orazione, l'ortografia, il pulito e proprio parlare litterale niente
istudiano di sapere. Di quelle terribili dispute è documento notissimo il
Bellum grammaticale, così fortunato, di Guarna salernitano, dove quei due
potentissimi re che sono il nome e il verbo inter se contendtint de
principalitate orationis . Le riforme, già in qualche modo invocate dai corifei
[Testimonianze varie e numerose delle lotte tra le scuole grammaticali del
medioevo si possono raccogliere nella monografia d’Ancona, Le rappresentazioni
allegoriche delle arti liberali nel m.-e. e nel rinasc., in L' Arte. In
Wesselofskv, // Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1.389.
Romanzo di Giov. da Prato, Bologna. (Vi Parisiis, Ex officina Roberti Stephani.
VI (ma la prima ed. è Parmae, per Fr. Ugolettum et Octavianum Salàdum): a. e.
3, Griimaticale bellum nominis et verbi regi!, de principalitate orationis
inter se contendentium, Andrea Salernitano patritio Cremonensi authore. La
sentenza della lite fu che: in conficienda solenni oratione uterque Grammaticae
rex cimi suis sequacibus conveniat, Verbum scilicet et Nomen, Participium, Adverbium,
Prepositio, Interiectio, et Coniunctio. In quotidiana vero et dell' Umanesimo e
particolarmente dal Petrarca, che si scagliò contro gli scolastici insanum et
clamorosum vulgus , degeneri d'Aristotile, schiccheratori di frascherie ,
guastatori dell'insegnamento elementare (l), furono richieste con insistenza
nei primi anni del Cinquecento: esse miravano al contenuto, al metodo e alla
lingua dell'insegnamento scolastico della logica. Il Vives, nel II libro
intitolato Grammatica della sua opera De causis corruptarum artìum sosteneva
che la lingua dovesse esser presa dall'uso vivo (3). Ramus lamenta che VARRONE
(si veda), Prisciano, Diomede, Festo non si leggessero più, e di sé racconta.
Grammaticam puer miseris adhuc temporibus et dialecticam fere eodem modo doctus
sum, disputando de praeceptis et altercando. La grammatica poi voleva che fosse
insegnata sugli scrittori: nec familiari oratione, soli Nomen et Verbum, onus
sustinebunt, arcessentes in patrocinium suum quos ex suis volent. e. 35. Qui
s'è inteso fare all'ingrosso una distinzione di poesìa e prosa, di arte e
pensiero, di fantasia e d’intelletto, insomma della funzione estetica e della
funzione logica, su questo fondamento vacillante, sebbene fosse appunto qui da
fondare la distinzione, che il parlare artistico, poetico, sia il solenne, il
fuori dell’ordinario, e il prosastico, non artistico, puramente logico, il
quotidiano e familiare. Altre minori sentenze in Bellitm riguardano i rapporti
tra il relativo e l'antecedente, tra l'aggettivo e il sostantivo, tra il
reggente e il termine retto, il determinante e il determinato, la orazione
perfetta e la non perfetta, la novità, il barbarismo, ecc.: materia, come ognun
vede, quasi tutta logica, che ci spiega, confermando la nostra tesi, la fortuna
del libretto; ristampato spesso (p. es., Cremona), è anche tradotto in versi
{Race, d'opusc.), e in sestine anacreontiche da Ricci, Firenze. In N. Busetto,
Fr. P. satirico e polemista. Caldi, La critica contro la logica aristotelica e
l' insegnamento scolastico, Udine. Le citazioni seguenti di Vives, Ramus e
NIZOLI (si veda) son prese da questa esposizione riassuntiva. Vives è un gran
propugnatore del metodo pratico nell'apprendimento delle lingue (cfr. De studii
puerilis ratione, Oxoniae), e lo applica in un'opera [Flores italici ac latini
idiomatis: ho l'edizione di Venezia), che ristampata con la traduzione nel 1779
(del Carlini, in Venezia, col titolo Colloquj latini e volgari), è raccomandata
in nuova veste anche oggi, se non erriamo, dal Turri. E una conversazione
perpetua tra maestro e discepolo su cose e fatti della vita ordinaria llevata
della mattina, il primo saluto, l'accompagnamento a scuola, quei che vanno a
scuola, la. lezione, il ritorno a casa e i giuochi de' fanciulli, la refezione
scolastica, ecc.). grammaticam puerum solis grammaticae praeceptis futur.um
putamus; sed exemplis poétarum, oratorum omnium denique hominum pure et latine
loquentium eognoscendis imitandis. Anche il Nizoli raccomandava lo studio della
grammatica e della rettorica senza cui omnis doctrina est indocta et omnis
eruditio inerudita, e confrontandole con la dialettica e la metafisica diceva:
grammaticae et rhetoricae praeceptiones ac traditiones sunt multo veriores
dialecticis et metaphysicis, et omnino ad veritatem investigandam, recteque
philosophandum longe utilior magisque necessaria est grammaticae et rhetoricae
cognitio quam dialecticae et metaphysicae . L'anno in cui il Ramus otteneva il
grado di professore nell'Università di Parigi, sostenendo vittoriosamente la
tesi che le dottrine di Aristotile, nessuna eccettuata, erano false, e in cui
in Italia si pubblicava la Poetica nel testo greco dal Trincaveli, nella
versione latina del Pazzi, può essere riguardato, ha ben osservato lo Spingarn,
come il principio della supremazia di Aristotele in letteratura e del declinare
della sua autorità dittatoria in filosofia. Con la Poetica aristotelica, come
poco appresso con la sua Retorica, risorgeva appunto la critica delle categorie
grammaticali, che avevano nell'una e nell'altro la loro descrizione: nei
medesimi anni si ripubblicava il De iyiterpretatione, già diffuso con
lunghissimi commenti per le stampe sul finire del Quattrocento, e con esso
medesimamente era ripresentata alla disputa la teoria della proposizione. Nelle
versioni ed esposizioni di queste opere aristoteliche viene, come dicevano,
esaurito quell'interesse per la grammatica generale che abbiam visto mancare
alle grammatiche empiriche: e i medesimi problemi, benché sotto altra forma, ci
ritroviamo dinanzi con BORDONI (si veda) Scaligero e il Sanzio critici della
grammatica tradizionale latina, e rappresentanti d'un aristotelismo
ammordernato. La differenza tra le opere critiche anteriori o estranee alla
diffusione dei testi aristotelici e delle loro versioni e quelle posteriori, e
che ne subirono gli effetti, è sensibilissima. Ba[ (1 Magentini in Aristotelis
librum de interpretatione explanatio Joanne Baptista Rasarlo interprete,
Venetiis apud Hieronymum Scotum. Aristotelis jtsqì 'JEQfirjveias, hoc est, de
interpretatione liber, a magno Angustino Nipho Philosoplw Suessano interpreta
tus et expositus, Venetiis, apud Octavianum Scotum D. Amadei.] sterà addurre
qualche esempio. Un testo di rettorica che veniva ristampato intorno agli anni
in cui si ripubblicavano i testi della poetica d'Aristotile, è la Retorica di
Ser Rrtinetto Latini in volgar fiorentino . Orbene, la trattazione grammaticale
di codest' opera è ridotta a semplici accenni. Nel Libro primo della inventione
over trovamento di M. T. C. tradotto e comentato in volgare fiorentino per Ser
Brunetto Latini Cittadino di Firenze è detto: Dittare è uno diritto et ornato
trattamento di ciascuna cosa convenevolmente a quella cosa aconcia. Questa è la
diffinitione del dettare, e perciò convien intendere ciascuna parola d'essa
diffinitione. Onde nota che dice diritto trattamento, -perciò che le parole che
si mettono in una lettera dettate debbono essere messe a diritto sì che
s'accordi il nome col verbo, e '1 mascolino col feminino, e '1 plurale, e '1
singolare, e la prima persona, et la seconda, et la terza, et l'altre cose che
s'insegnano in grammatica, delle quali lo sponitore dirà un poco in quella
parte del libro, che sia più auenante, et questo diritto trattamento si
richiede in tutte le parti di retorica dicendo, et dictando (z). E al luogo
indicato l'esposizione va veramente poco più in là di queste semplici linee
della sintassi di concordanza: tutto, come si vede, si riduce all' affermazione
del principio della rettitudine: è il principio grammaticale puro e semplice
della antica rettorica di CICERONE (si veda) quale conserva il medioevo, senza
che tra esso e IL FONDAMENTO RAZIONALE (“logico”) DEL DISCORSO – Grice – è
avvertito alcun altro nesso e sia affatto accennato il problema delle CATEGORIE
grammaticali e sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Medesimamente nelle divisioni
della Poetica di TRISSINO (si veda) apparse in luce nel 1529 (:ì), dove si
seguono ALIGHIERI (si veda) e Antonio da Tempo (Aristotile, qui semplicemente
nominato per la definizione della poesia, è invece il maestro seguito nella
quinta e sesta divisione), la trattazione grammaticale non [Stampata in Roma In
Campo di Fiore per M. Valerio Dorico, et Luigi fratelli Bresciani. Il testo è
corredato di un'esposizione marginale. K. In Vicenza per Tolomeo Janiculo. Nel
MDXIX, Di Aprde. La quinta e la sesta divisione della poetica di Trissino. In
Venetia, appresso Andrea Arrivabene. ...e non mi partirò dalle regole, e dai
precetti de gl’antichi, e spetialmenK' di Aristotele nel LIZIO, il quale scrive
di tal arte divinamente.] si distende molto di più che nel De vidgari
eloqueyilia, mentre è assai più sviluppata quella della scelta delle parole.
Illustrata la elezione, che fa ALIGHIERI (si veda) de le parole, che si denno
usare ne le canzoni: la quale ne in tutto loda ne in tutto vitupera , espone la
particolare elezione che egli ha escogitato, le varie forme del dire
(chiarezza, grandezza, bellezza, velocità, costume, verità, artificio), che si
debbono adoperare, e le passioni de le parole , che è materiale .grammaticale,
e che non son altro che le quattro tradizionali figure grammaticali:
Soprabondantia, mancamento, mutazione e trasposizione (Div. I). A proposito de
le rime (Div. II), tratta a) de le lettere; b) de le sillabe; e) de li accenti
(*). Nella terza divisione ( De l'accordar de le desinenzie ) e nella quarta
(Del Sonetto, delle Ballate, delle Canzoni, de' Mandriali, de' Sirventesi),
nulla vi ha, naturalmente, di grammaticale. Viceversa nella quinta e sesta, le
quali trattano della inventiva della Poesia, e della sua imitatione, e dei
modi, coi quali si fa la detta poesia, cioè della Tragedia, dello Heroico,
della Comedia, della Ecloga, delle Canzoni e Sonetti, e d'altre cose simili ,
ritorna, certo per effetto del maggiore svolgimento che la teoria dell'elocuzione
aveva ormai avuto, a parlare più ampiamente delle conversioni, e le figure del
parlare, di quello che nella Tragedia havemo fatto, la qual cosa apporterà
molta utilità, et ornamento a tutti i poemi, che havemo detto, e che dicemo .
Così tratta delle conversioni [tropi] delle parole (onomatopeia, epiteto,
catacresi, metafora, metalepsi, sinecdoche, metonimia, antinomasia, antifrasi,
ecfrasi), e delle conversioni della construttione (figure: pleonasmo,
perifrasi, iperbato, parembola, pallilogia, epanafora, epanodo, homoteleuto,
pariso, paronomasia, elipsi, asindeto, asintacto, che si ha scambiando il
genere de' nomi, il numero (Enalage), spetie e casi, congiunzioni,
preposizioni, adverbi, lasciando preposizioni ecc., benché queste cose si po Io
sono stato un poco diffuso in questi toni, perciò, che sì come i Latini, et i
Greci governavano i loro poemi per i tempi, noi, come vederemo, li governiamo
per li toni; benché, chiunque vorrà considerare la lunghezza, e brevità di
alcune sillabe, così gravi, come acute, trarrà molta utilità di tal cosa, e
darà molto ornamento a li suoi poemi. Qui è come un germe della dottrina del
Tolomei su la nuova poesia, quale espose dieci anni dopo.] trebberò anchora
riferire all’elipsi, facendo apostrophe ecc., prosopopeia, diatyposis, ironia
(e sarcasmo), allegoria, iperbole). Così nella Dichiaratione, onde SEGNI (si
veda) accompagna la sua versione ITALIANA della Rettorica e della Poetica
d'Aristotile, già si avvertono tracce d' un maggior interesse per le categorie
grammaticali e sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Qui cade in acconcio
un'osservazione. Saint-Hilaire, per impugnare l'autenticità di quella parte
della poetica aristotelica, dove si tratta della locuzione, ha detto, come s' è
visto, che ce n'est plus de la poetique, c’est de la grammaìre. Ma tale
considerazione muove dal pressupposto che l'espressione linguistica è di
esclusiva pertinenza della logica, mentre, se la grammatica non è ne la logica
né l'estetica, in quanto materiale espressivo, è di pertinenza d'entrambe.
Questo spiega come (sia o non sia, così come e' è pervenuto, d’Aristotile, il
brano che si giudica interpolato) il filosofo, che fa un’osservazione capitale
circa l'esistenza di altre proposizioni, oltre l’emendative esprimenti il vero
e il falso (logico), che non dicono né il vero né il falso (logico), come
l'espressioni delle aspirazioni e dei desideri (£##)) e che son perciò di
pertinenza non già dell'esposizione logica, ma della poetica e della rettorica,
spiega, dicevo, come il filosofo tanto nella poetica e nella rettorica qifanto
nella logica è tratto a occuparsi in quelle d’analisi grammaticale-rettorica,
in questa di analisi logico-grammaticale, nelle proporzioni e differenze volute
da quelle discipline – o rami della filosofia -- particolari. Infatti nella
poetica, la disciplina o rama della filosofia dell'arte pura, sono formate con
maggior compiutezza le parti di tutta la locuzione non senza accennare alla
bontà della locutione (barbarismo – solecismo, malaprop – A nice derangement of
epitaphs --, METAFORA –you are the cream in my coffee --, nome ornato, nome
proprio – Fido --, allungamento, concisione e cambiamento del nome). Nella
rettorica, la disciplina o rama della filosofia della parola ornata in servizio
della mozione degl’affetti -- prottesi di H. P. Grice -- e della persuasione,
s' illustra con egual compiutezza la dottrina dell'oratione (pendente
Rettorica, et Poetica d'Aristotile, Trad. di Greco in Lingua Vulgare Fiorentina
da SEGNI (si veda), Gentil' Incorno, et Accademico Fiorentino. In Firenze,
appresso Torrentino, Impressor' Ducale. Croce, Logica e grammatica. Croce,
Estetica.] distesa (Caro ), distorta = ripiegata (Caro)) nel periodo; nel jteqì
'EQ/Lirjveias, teoria della proposizione emendativa, l'espressione più semplice
dell'attività logica, si tratta del nome e del verbo in quanto nel giudizio
rappresentano lLuno il sostantivo, il soggetto, l'altro il predicato.
ypfL'autorità d'Aristotile ha perpetuato tali dottrine e tale sistematica, che
l'era classica dell'aristotelismo letterario, e anche dopo, NON SOLO IN ITALIA,
ma fuori, attrassero invincibilmente l'attenzione e lo studio dei dotti.
Ripresa la disputa medioevale intorno alla classificazione delle rami o
discipline della filosofia imperniata sul raggruppamento aristotelico,
s'indagarono con sottigliezza pedantesca i rapporti delle varie rami o
discipline della filosofia e particolarmente della grammatica razionale o
filosofica, della rettorica, della poetica, della isterica e della logica,
congiunte, come già la seconda, la terza e l'ultima sono state da Aristotile,
nell'unica categoria di filosofia pratica. E anche in questo si può constatare
il progresso del logicismo aristotelico, fin tanto che i termini di gusto e di
fantasia non sorgono a detronizzare quello di ragione. Lìl isterica, iniziata
dagl’umanisti (Pontano, Actius dialogus e Valla, Dialedicae disputationes
contra Aristote lieo s), ha nella classificazione di Varchi il suo
riconoscimento ufficiale, quando già flveva avuto dal Robertello, De historica
facilitate, un ampio trattato, e, per effètto dell'importanza assunta dalla
storiografia umanistica e di quella che vienne assumendo con gl’eminenti
storici nostri, feconda in questo secolo una letteratura ricchisima. Pure
alcuni dei medesimi trattatisti la mettono come in una posizione d'inferiorità
rispetto alle altre rami o discipline della filosofia, quasi una loro schiava:
l'historico, dice Speroni, bene accorderà, se in descrivendo le cose sue
ricorrerà alla Gramatica, et alla Retorica, et tali' hora anche alla Poesia, a
lor precetti artificiosi di tutto core obbligandosi; la Poesia esser arte
[Rettorica d'Aristotile fatta in lingua Toscana dal Conmi. Annibal Caro, in
Venezia. Essendo il parlare composto di nomi, et di verbi, et essendo i nomi di
tante sorti, di quante nella Poetica s'è dimostrato: Intra tutte le dette
sorti, dico, ecc.. Rhet.y III, nella cit. versione di Segni. Vedine i titoli in
Bernheim, La storiografia e la filosofia della storia, trad. Barbati, Palermo,
App. Bibliografica. Dell' Historia, Dialoghi II in Dialoghi.] più nobile
dell'Historia, pruova Aristotile, perchè eli' è dell'Universale, e la Historia
è del particolare. Insomma: la Grammatica – o letteratura --, insegna parlar
drittamente, la Historia parla, la Poesia imita, la Rhettorica prova
persuadendo nelle città, la Dialettica prova sillogizzando la opinione . Ma
ZABARELLA (si veda), interlocutore, con Antoniano e Manuzio, nel Dialogo di
Speroni), che è uno degl’ultimi rappresentanti dell'insegnamento aristotelico,
nella sua ampissima opera sulla natura della logica, va ancora più in là, e,
mentre fa della rettorica e della poetica due parti sì bene distinte della
logica, nega quest'onore, non che alla grammatica, alla isterica, che bistratta
spietatamente. Ars tamen historica non modo ab Aristotele, sed a nemine
hactenus -- ma questo non era affatto vero -- scripta comperitur. nec fortasse
digna est, in qua scribenda tempus conteratur: ea namque in simplici, ac nuda
rerum gestarum narratone consistit. At Historia nil huiusmodi tractat. sed est
nuda gestorum narratio, quae omni artificio caret, praeterquam fortasse
elocutionis, quod quidem, et alia eiusmodi quisque sanae mentis extranea, et
accidentaria ipsi historiae esse iudicaret; quicquid enim artificij in historia
notari potest, illud omne vel a Grammatica, vel a Rhetorica, vel ab aliqua arte
desumptum est. GRAMMATICA ENIM NON EST LOGICA, Historica ars non datur.
ZABARELLA (si veda), Opera Logica, Coloniae, Sumptibus Lazari Zetzneri,
CI3I3CII (ma la prima ed. del De natura Logicae è anteriore. In che senso
ammetta lo Zabarella che la poesia sia una forma di FILOSOFIA, fu già spiegato
dallo Spingarn. Quanto alla relazione della rettorica con la logica, basti qui
osservare che ZABARELLA si fonda sull'autorità di Aristotile, il quale (Rhet.)
dice che oratoriam artem in argumentationibus consistere, quas etiam ipsius
orationis corpus asserit, e riprende i retori de’suoi tempi, che, lasciando la
parte argomentativa, insegnano solo l’elocutio, estranea alla natura di
quest'arte. Compito del retore è movere gl’affetti -- la prottesi di Grice,
influencing and being influenced -- per mezzo degli argomenti. Elocutio autem
est saltem accidentaria, et secundaria respicitur. Patet igitur non esse
necessariam, neque perpetuala inter has duas artes differentiam illam quae per
manum clausam et apertam significatur. L'immagine della mano chiusa e aperta
per dinotare la dialettica e la rettorica è già definitivamente consacrata
nell' Origini d'Isidoro. In queste trattazioni vienne naturalmente a esser elaborato
il concetto della grammatica e delle sue categorie, e, più particolarmente
ne’luoghi in cui veniva esposta la teoria dell'elocuzione specifica per
ciascuna di quelle scienze o arti o facoltà, come variamente è apprezzata. Si
determinarono così quattro diverse nature di periodo. Lo storico, il retorico,
il poetico o ritmico, il logico, e la grammatica è riservata a insegnarne la
dirittura formale. Questi nostri dotti si trovarono così per le mani il vero
problema delle manifestazioni di tutte le attività nostre conoscitive, MA IL
FILO D’ARIANNA, CHE È LA NATURA DEL LINGUAGGIO, NON È RITROVATO, E SI PERDE NEL
LABIRINTO. Il periodo retorico e poetico, che la scienza moderna, identifica, è
la forma espressiva della verità, intuita, il logico del concetto, l'istorico
della realtà. Il filosofo, dirò con parole eioquentissime, che guarda il cielo
e non riconosce la terra sulla quale pone i piedi, è un'astrazione o una
deficienza: il concreto, il perfetto è l'uomo che immagina, pensa e riconosce
l'immaginato: l'uomo, che vive la realtà nell'intuizione artistica, la pensa
nel concetto filosofico, la rivive nella riflessa intuizione storica, nella
quale si acqueta compiutamente, perchè il circolo del pensiero è chiuso (2).
Delle categorie grammaticali e sintattiche elaborate fuori delle grammatiche
propriamente dette e' informano largamente, e su esse pertanto fermeremo la
nostra attenzione, due opere ben caratteristiche e. importanti, la Retorica deb
Cavalcanti O e la Poetica_de\ Castelvetro. Quella, anche per quanto riguarda
[Si ricordino a questo proposito e per maggiormente convincersi che non è
possibile un'indifferenza teorica per uniforma che in pratica, cioè nella
coscienza dei produttori di letteratura, ha un così grande valore, l’acute
osservazioni di SANCTIS (si veda) sopra il periodoe l’ottava, le due forme
analitiche e descrittive di Boccaccio, divenute la base della letteratura,
Storia, e sulla parodia che della loro degenerazione ne fa col suo LATINO
MACCHERONICO Folengo. Croce, Lineamenti d’na logica. La storia come il
resultato dell'arte e della filosofia. La retorica di Cavalcanti. In Vinegia,
appresso Gabriel Giolito de'Ferrari. Poetica d' Aristotele vulgarizzata, e
sposta per Castelvetro. Riveduta, ed ammendata secondo l'originale e la mente
dell'autore. Stampata in Basilea ad istanza di Sedabonis.] la logica, di cui
olire un largo, minuto, chiaro riassunto. Naturalmente, la prima ci mette
sott'occhio le CATEGORIE SINTATTICHE E MORFO-SINTATTICHE, la seconda le
grammaticali. Della rettorica di Cavalcanti ci riguardano più direttamente il
libro della dialettica, e quello dell'elocuzione. Le vie del persuadere
riassumeremo quanto più brevemente è possibile sono tre. Provare con argomenti,
muovere l'auditore -- o IL RECETTORE, dato che l’emissore puo ussare gesti –
GRICE -- con passioni -- la prottetica di Grice: influencing and being
influeced -- ; procacciarsi fede e favore da lui con quella maniera di parlare,
la quale nomina costume. Di qui è manifesto, che questa facultà è quasi un
rampollo della dialettica e di quella facultà la quale il LIZIO chiama civile.
Le persuasioni sono artificiose e SENZA ARTIFICIO – Grice, “Those spots mean
measles – Grice’s FROWN. L’artificiose si dividono in argomenti, affetti,
costumi. Per trattar d’esse convien considerare quattro cose: la forma, la
materia, i luoghi, il modo di sciorre gl’argomenti. In ultimo le sentenze.
Argomento è ragione colla quale si prova una cosa dubbia; argomentazione è
espressione dell'argomento, ed essa forma che gli si dà. Conclusione è quello
che con argomento viene provato e manifestato. Ora, perciò che la retorica,
quanto agl’argomenti, dipende dalla dialettica e gl’istrumenti, con i quali
ella argomenta, e che come suoi propri le sono stati assegnati, rispondono
agl’instrumenti della dialettica, e da quegli derivano: e' pare, che non si
possa dichiarare bene la forma degl’argomenti retorici, se quella dalla quale
questa ha origine, prima non si dichiara. Quest’inclusione dei principi logici
nella rettorica è giustificata da Cavalcanti colla considerazione che IL LIZIO
ne tratta separatamente, perchè i suoi libri della logica sono ben noti, mentre
non ha ancora, ch'io sappia, la nostra lingua parte alcuna della logica, o
dialettica, che dire vogliamo. Le maniere dell'argomentazione sono due: il
sillogismo e 1'induttione, donde discendono l’entimema -- ragionamento
implicito di Grice -- e l’esempio, che, secondo Aristotile, sono propri della
rettorica. Il sillogismo categorico o assoluto si fa di proposizioni assolute.
La proposizione assoluta è un parlare il quale afferma o nega qualche cosa [Non
è perfettamente esatto. Per lo meno s’ha già la Loica di MASSA (si veda). In
Venezia per Bindoni.] dì qualche altra, afferma quando a una cosa ne dà
un'altra, come questa. “La virtù è laudabile.” Nega, quando toglie, come
questa. “Lw ricchezze NON sono il sommo bene.” – Grice, “Negation and
priation,” “Lectures on negation.” Quindi le proposizioni rispetto alla qualità
si dividono in affermative e negative. Per quantità in iiniversali,
particolari, determinate, ed indeterminate. Si hanno così queste varie
CATEGORIE – kantiane --. Universali affermative e negative; particolari
affermative e negative; indeterminate; determinate affermative e negative. La
proposizione si compone di soggetto e di predicato (‘shggy’). Es., “L'uomo è
animale.” Llhuomo è il soggetto, del quale si dice, e si manifesta l'essere
animale. Il predicato è “animale,” o shaggy, che si attribuisce all'uomo, et si
manifesta di lui. Il soggetto e il predicato sono i due termini –iniziale e
finale -- della proposizione. Le altre particelle congiuntive NON sono termini.
I termini sono semplici o composti. Semplici come uomo, arte, edifica,
discorre, e in somma nomi e verbi. Composto è un parlare imperfetto fatto di
più termini semplici, come questo: “l’arte della guerra”. Nella proposizione si
possono trovare termini semplici e composti, un semplice e un composto, ambidue
semplici, ambidue composti. Es. “l'arte della guerra” -soggetto, composto di
termini semplici – “... porta ai soldati molti pericoli -- che è l'altro
parlare simile, PREDICATO. Il sillogismo è una specie di parlare, nel quale
essendo poste alcune cose ne seguita per virtù di quelle, una diversa da
quelle; le quali sono, o universalmente, o per lo più. Vi concorrono TRE termini
– Grice: Barbara --, due proposizioni, una conclusione. I termini sono maggiore
– SOGGETO – iniziale --, minore (estremità) – PREDICATO, finale --, mezano
(termine comune): perchè essendo il sillogismo un certo discorso, nel quale noi
INTENDIAMO [Grice: intending is essential! -- ] di fare conclusione, e in
quella unire l'una estremità con l'altra, non si può far questo, se noi non
usassimo un mezzo, che con l'una, et con l'altra estremità ha qualche
convenienza. La figura del sillogismo varia secondo la disposizione del medio.
Essa è una ordinata disposizione dei termini: e ciascuna delle figure contiene
più modi: e modo pare, che altro non sia che una certa ordinatione delle
proposizioni: e circa la quantità, come universali e particolari; e circa la qualità,
come affermativa, et negativa. Le figure sono tre: della prima, distinta in
quattro modi, le conditioni sono due: l'ima che la maggiore proposizione sia
universale: l'altra, che la minore sia affermativa -- Barbara; della seconda,
in quattro modi, che la maggiore sia universale, et che la minore sia dissimile
da quella; della terza, in sci modi, che la minore sia affermativa, e la
conclusione particolare. I LATINI, come CICERONE (si veda), vuoleno estenderle
a cinque, aggiungendo le prove. Ma queste fan parte delle proposizioni, o sono
nuovi argomenti. L'entimema è sillogismo imperfetto, composto di verisimile, E
DI SEGNI – semiotica di Eco. Aristotile vuole che esso è il sillogismo
rettorico. Vi manca una proposta che è concepita mentalmente. Vi è poi, SECONDO
I LATINI, il sillogismo hipotetico o SUPPOSITIVO o CONDITIONALE – da: con-dire
– ‘se p, q” -- dove il legame delle assolute si fa col se e simili (o), onde le
proposizioni risultano condizionali o disgiunte, e anche copulate o copulative.
La condizionale dividesi in precedente e consegìiente. Analogamente si ha
l’entimema condizionale. Nell’induttione le universali si conchiudono per mezzo
delle particolari. Ma Aristotile le nega schietta natura rettorica.
L'induttione rettorica per Aristotile è Y esempio, un modo cioè di procedere
dal particolare al particolare, che si può moltiplicare e variare per
affermativa, et negativa assoluta, et condizionale. Superflue, rettoricamente,
sono le altre forme del dilemma ('complexio', sillogismo condizionale, congiunto
o disgiunto), dell' enumeratio (entimema assoluto) e della subiectio (altra
forma di enumeratio), submissio, oppositio, violaiio, collectio. Alcuni
ammettono, infine, il sorite, che è una massa di sillogismi, e può esser anche
condizionale. Sì come la forma, che io ho dichiarata, è la naturale, e (per dir
così) pura forma degl’argomenti; così e' si può alterarla, et variarla senza
mutare la sostanza, et la virtù di quella. Nel vero la eloquenza molto meno
ammette (ed ecco che la natura fantastica dell'espressione non logica richiede
i suoi diritti!) quella superstiziosa osservatione, e schifa volentieri ogni
fanciullesca, minuta, et bassa cosa; abborrisce tutto quello, che porta seco
odore di scuola, et di MAESTRO (Grice sotto Strawson), né può patire d'essere a
così strette leggi sottoposta. Sì come adunque è necessario dichiarare la
naturale, et pura forma de gli argomenti. Così fa di mestieri la tramutata et
alterata dimostrare. E qui Cavalcanti si fa ad esporre tutta la varietà
degl’esempi, spesso valendosi, come anche pel resto, degli schemi periodici del
Decameron. Infine tratta della materia (il probabile, il verisimile, I SEGNI –
la semiotica d’Eco), dei luoghi e del modo di scìorre gl’argomenti e delle
sentenze. Basta, pel nostro argomento, riassumere la dottrina de' luoghi. Pongo
i luoghi in tre gradi. Il primo contiene quegli, che sono nella sostaìiza della
cosa: cioè la diffinitionc. la descrittione –cf. Grice, ‘the,’ definite
descriptor --, 1' interpretatione del nome. Nel secondo pongo quelli che
seguitano et accompagnano la sostanza, et sono d' intorno alla cosa; i quali,
senza fare distintione di gradi tra loro, dico essere questi. Genere, spelte,
differenza, et proprio, tutto, parte, numero di spetie, et di parti, overo
divisione, forma, fine, causa efficiente, materia, effetto, uso, generatione,
corruilioìie . adherenti, luogo, tempo, modo, congiogati. Nel terzo grado sono
i luoghi presi di fuore, et disgiunti dalla cosa, sì che sono massimamente
estrinsechi: e questi sono il simile, la proportione, il dissimile, i pari, il
più et il meno, i contrari, i privativi, i rispettivi, i contraditlo?i, i
ripugnanti, l'autorità, la transuntione . Quanto all' elocuzione, Cavalcanti
dichiara di presupporre e di non voler replicare le cose che nella Grammatica
di questa lingua lussino dichiarate, o si dovessino ancora (non era dunque
molto sodisfatto delle grammatiche già compilate) più esquisitamente dichiarare
circa la nettezza, et l'altre conditioni del regolato parlare . Ma già questa
presupposizione dimostra, dato il fondamento di tutto il sistema, l'
inscindibilità anche di rettorica e grammatica. Muove perciò dalle parole sole,
che divide in proprie e improprie e, seguendo i grammatici, in animate e
inanimate; tratta della composizione delle parole, che, specialmente rispetto
al suono sono alte, basse, dolci, aspre, pigre correnti ; ma io non intendo far
qui una fastidiosa e quasi fanciullesca (per dir così) disamina di lettere,
sillabe, parole (era stata già fatta e minuziosa da Bembo, da Tomitano, da
Lenzoni e da altri). Si trattiene perciò di più su quel che nella continuazione
del parlare si richiede, circa 1" l'ordine e la commissura delle parole
l'una coll'altra; 2" i membri, i concisi, i periodi. Due sono i criteri
principali: 1" le parole di maggior forza e significazione devono 'esser
collocate prima, e le altre dopo; 2" è necessario che qualcosa divida e
posi il nostro parlare. Quel che in poetica è il verso, nella prosa è il
membro, un parlare, il quale finisce, o tutto un concetto separato da per sé, o
tutta una parte d'un intero concetto . Quando è breve, il membro si chiama
inciso o conciso: es., conosci te stesso; questa fu la rovina d'Italia. Tanto i
membri che gl'incisi sono legati o disgiunti. Il periodo, quale è definito da
Aristotile, è un parlare che ha principio, et fine per se stesso, et grandezza
da poterlo agevolmente tutto insieme comprendere: esso Capìtolo ottavo 259 é
una composizione di membri, et di concisi bene acconci a far compito e perfetto
tutto il concetto, che ella contiene, come dice Falereo . Qui, fatte altre
distinzioni del periodo, si affaccia a Cavalcanti un altro grave problema, che
egli risolve in modo in vero acuto e, date le premesse della dottrina generale,
conseguente: v òè negi Tfp> Aètjiv . Altro è invece il quesito da risolvere,
ed è precisamente questo: se le voci del verbo chiamato comandativo da
grammatici possano ricevere il significato del pregare, si come si sa, che
ricevono quello del comandare (l). E il Castelvetro lo risolve affermativamente,
anzi affermando che quanto al significato tra le voci del verbo del modo
chiamato da grammatici comandativo, e tra le voci del verbo chiamato
desiderativo non vi è differenza alcuna. E qui richiamandosi a quanto ha già
detto nella sua giunta al trattato de' verbi di messer Pietro Bembo , si fa a
spiegare come la sospensione della certezza dell'atto, 0 della privatione ,
quindi il modo del desiderio e della preghiera (desiderativo, ottativo), si
ottiene in due maniere, o manifestando i due sentimenti (del desiderio e della
cosa desiderata) o uno manifestandolo e l'altro no: Ami io o Priego dio,
acciocché io AMI, valgono la medesima cosa. Protagora, invece di vedervi una
sospensione, vedeva nelYàeiòe una disposisione, mentre vi si può vedere e l'una
e l'altra, il che è affar di grammatica. E confuta un altro difensore di Omero,
Eusthathio, che intende Y àride come incitamento, perchè si comanda al minore,
si conforta, o s' incita l'uguale, et si priega il maggiore , e nel comandativo
non si ha determinazione di certezza, ma pure lo loda perchè mostra, meglio
d'Aristotile, d' intendere e riconoscere il vigore del comandativo. La
questione della funzione espressiva de’modi de’verbi è risorta anch'essa di
recente con rinnovate teorie grammaticali. Ma la definizione di essi s'è
dimostra inseguibile, perchè se può esser vero che, p. es., il CONGIUNTIVO –
cf. Grice, INDICATIVE conditionals -- esprima il pensato, non è vero l'
inverso, che cioè [Crediamo superfluo rilevare qui l'acutezza onde Castelvetro
pone il problema, meglio che non abbian saputo i moderni editori d'Aristotile,
non escluso Barthélemy Saint-Hilaire. La questione sollevata da Protagora, per
quanto sottile, è di grammatica, e il Castelvetro l'ha risoluta colla
grammatica e certo non meno acutamente di quanto avrebbe saputo fare un
qualsiasi moderno credente nella grammatica. Sicché, per un certo rispetto, si
potrebbe dir di lui, quel che è stato detto di filologi moderni, che ha ridotto
la grammatica da muro di bronzo a un sottilissimo velo, in cui. basti soffiar
dentro per distruggerlo, senza più adoperare il piccone: merito non piccolo,
certamente.] il pensato si esprima sempre col congiuntivo. Ed è il problema di
tutta la grammatica: dall'estetico al logico è lecito il passaggio, ma non è
lecito ripassare dal logico all'estetico, e dare una funzione espressiva alla
categoria ottenuta con una elaborazione logica dell'estetico e relativo
annullamento dell'espressione. Neil' iniziare l'esposizione delle parti della
favella poste da Aristotile (elemento, sillaba, legame,, nome, verbo, articolo,
caso, diffinitione), Castelvetro fa una prudente dichiarazione preliminare, che
cioè le cose di che si ragiona nella poetica possono anchora essere communi
alla prosa, ciò è alla ritorica, o anchora ad altra arte, et ad altri, che a
poeti, come alla grammatica, et a coloro che imparano a leggere: e su questa
distinzione torna più spesso ad insistere, mentre altra volta non tralascia
d'avvertire che queste differenze (delle vocali e delle consonanti) da quella
della lunghezza, e della brevità in fuori pertengono alla compositione (prosa),
et non a l'arte versificatola; e che versificatola e poetica non sono arti
disgiungibili, il che menerebbe ad ammettere, ciò che per lui non è, potersi un
poema comporre in prosa. Castelvetro sente vagamente il carattere intuitivo
della parola, ma la concezione fornialistica gl’impedisce di penetrarlo e
assumerne coscienza. Onde anche le infinite e minute distinzioni. Quelle parti
della favella egli classifica come SIGNIFICATIVE, non significative – “pirot”
--, divisibili e indivisibili, ricostituendole poi in tre gruppi: significative
e divisibili (diffinitione, verbo, nome, caso); non-significative e divisibili
(articolo – “the” – cf. “THE THE” Grice, ‘formal device’ --, legame, sillaba);
non-significative e indivisibili (elementi). Divisi gl’elementi (lettere) in
vocali e consonanti, classifica le une: per quantità di tempo; per diversità di
snono: di spirilo; di acce?ito; di preferenza; di nome (osservando che questa
consideratione tocca ne alla verificatola, ne alla compositione, ma alla
grammatica, et a colui che insegna a leggere); e le altre: 1" per
siniplicità, et compositione; per cominciare, et finire la sillaba; CROCE (si
veda), Siile, ritmo e rima, in La Critica. La definizione, che, correggendo
quella d'Aristotile ( OTOi%£tov /iri' inni' tp jteqì èQfir}veiag {Part.). Su
questo punto essenziale s’osserva, seguendo CROCE (si veda), che Aristotile ha
intuita la natura fantastica delle proposizioni non-logiche, ma che non riusce
a separare la funzione linguistica dell’espressioni dalla funzione logica, il
che lo conduce a gettare le fondamenta dell'estetica come è intesa
modernamente. Né purtroppo Castelvetro riesce a vedere nel grave problema più
chiaramente d’Aristotile. Ma è suo merito l'averne vista tutta l'importanza e
l'averlo riagitato. Da questo punto fino alla fine della sposizione della terza
parte della Poetica (Particelle) la trattazione esce dal campo strettamente
grammaticale per entrare nel dominio particolare della teoria dell’ornato, che
non c'interessa che indirettamente e per particolari punti di vista (p. es. pel
barbarismo e l’aggiunto). Onde ci fermiamo nella persuasione d'avere
sufficientemente dimostrato, esponendo, in ispecie, le teorie di Cavalcanti e
di Castelvetro, che il problema delle categorie grammaticali e sintattiche è
sebben fuori della grammatica propriamente detta, ampiamente e intimamente, per
quanto i tempi lo concedevano, trattato: sicché tutti gli schemi grammaticali
si può dire che sieno stati illustrati nelle loro origini e nelle loro
funzioni, e non solo gli schemi, sì grammaticali che logici, ma tutte l’altre
classi di accidenti grammaticali: il caso, la persona, il numero, il genere, il
modo, il tempo, ecc. Il punto di vista generale rimane, s' intende,
l'aristotelico, cioè il logico. Ma anche in questo, non che nel fatto stesso
d'aver ripreso il problema fondamentale della grammatica, è un progresso. SI
PREPARA LA VIA ALL’ELABORAZIONE DELLA GRAMMATICA RAZIONALE O FILOSOFICA alla
Groce. E al medesimo fine e coi medesimi mezzi forniti d’Aristotile, riuscivano
i critici della grammatica LATINA, BORDONI (si veda) Scaligero e SANZIO (si
veda). La divampante polemica tassesca, attirando sopra di sé o le attività
critiche o l'attenzione curiosa della maggior parte de' letterati d'Italia, non
è l'ultima cagione per cui, smorzandosi le minori polemiche intorno
agl’avvertimenti di Salviati e alle questioni linguistico-grammaticali, gli
eruditi e i grammatici sono come distratti dall'opera di legiferazione del
volgare, o meglio dalla continuazione d'un lavorio ormai secolare a cui per
forza d' inerzia e per quel consenso che sempre viene accordato alla tradizione
forse avrebbero, in mancanza d'altro, potuto attendere. Cade qui in acconcio
un' osservazione già stata fatta da altri a proposito della smoderata
letteratura dantesca contemporanea. Vi è in ogni periodo storico una folla di
spiriti inerti e oziosi, benché nelle loro ilia ca Una sommaria esposizione
degli studi e delle compilazioni di lingua, di grammatiche e di vocabolari nel
Seicento, come complemento del suo contributo alla storia della critica, ' La
critica letteraria nel sec. XVI ', diede in Ricerche letterarie, Livorno, 1897,
pp. 2S8-312, F. Foffano, che, col Vivaldi, fu dei pochissimi a rivolgere
l'attenzione su questi prodotti letterari. 1 Su questa e le altre, U. Cosmo, Le
polemiche tassesche, la Crusca e Dante sullo scorcio del cinque e il principio
del seicento, in Giorn. st. d. leti, il. (:,j Croce, // monoteismo dantesco, in
La Critica. nifestazioni esteriori sembrino molto attivi, che ha bisogno di
gettarsi sopra l'argomento di moda e sfogare in esso un' inutile avidità di
sapere: dantisti oggi, manzoniani ieri, puristi ier l'altro, arcadi in tempi
meno recenti, lettori accademici, legislatori del bello, grammatici in più
lontane età. Tra il cader del Cinquecento e gli albori del Seicento, oltre la
tassesca e quella non mai interrotta della lingua, più altre questioni tenevano
agitata la repubblica letteraria, che ben rispondevano allo spirito che si
rinnovava, a quel bollor di vita, che potè sembrare e fu in gran parte
bizzarra, stranamente gonfia ed enfatica, ma che pur era vita: questioni che,
come le altre due specificatamente accennate, si riducevano e rientravano in
fondo tutte in quella generalissima della poetica, ormai cresciuta ed
organizzata in corpo sistematicamente completo e sviluppatissimo di dottrina,
che dall'Italia trasmigrava per tutta 1' Europa colta. Eravamo allora in quel
più acuto studio della poetica in cui la teoria, uscita ben determinata dall'
imitazione, nel diventar legge, cioè nel giungere alla sua codificazione
completa per esser subito poi, con lo scoppiar del razionalismo e le formule
dell' ingegno e del gusto, completamente disfatta, doveva essere applicata alle
opere d' immaginazione o già passate o che ora venivano spuntando: l' Orlando
Furioso, la Gerusalemme Liberata, Y Orbecche, il Pastor fido, oltre che la
Divina Commedia sempre immanente nell'ammirazione e nel cuore degl'Italiani,
benché cedesse ora il campo al Tasso; e ben si comprende come i dibattiti
teorici, intrecciandosi naturalmente alle polemiche personali la serie dalla
caro-castelvetrina già da noi discussa alle più recenti sarebbe lunghissima e
attirando su di sé gli spiriti accaldati, quasi non altro da fare lasciassero
ai letterati in questo campo di critica, cioè nell'unico campo della critica
allora aperto, che la parte d'attori o di spettatori appassionati nel gran
torneo schermistico. La grammatica, che dalla poetica era ritenuta quasi vile
strumento meccanico, cioè dunque facoltà considerata assai inferiore, perdeva
necessariamente ogni attrattiva. Senza dire che un altro sfogatoio erane le
lezioni onde risuonarono tutte le Accademie d'Italia, e specialmente ora quelle
di Firenze e di Padova; e che uno sfogatoio anche maggiore sarebbe stato tra
poco la prima edizione del vocabolario dell'Accademia della CRUSCA, su cui si
dovevano versare in tutti i secoli posteriori tanti fiumi d' inchiostro.
Capitolo nono 269 Ma all' infuori di queste circostanze clica taluno potrebbero
sembrar troppo esteriori ed estranee al movimento grammaticale, due altre
intimamente con esso connesse lo attenuarono in questo periodo: 1"
l'ordinamento scolastico; l'essersi detto quanto s'era potuto dire in fatto di
grammatica; cioè da una parte l' essersi con le ricerche e sistemazioni del
Salviati conchiuso il vero periodo produttivo delle osservazioni delle redole,
dall'altro il non schiudersi ancora le scuole all'accoglimento, non già del
volgare, ma del suo codice grammaticale. In sostanza quella che fu detta, ma,
come altrove accennammo, in fondo non fu, la reazione del volgare contro il
predominio tirannico del latino, si era affermata inalberando con la ferma mano
del Bembo il vessillo dell'uso trecentesco specialmente petrarchesco per la
poesia, decameronico per la prosa, e sotto quel vessillo e con quel duce aveva
lottato ostinatamente e finendo col trionfare, per tutto il Cinquecento:
antibembeschi più o meno valorosi, più o meno coerenti, non eran mancati; ma,
di contro ai comuni avversari, cioè i pedanti del latinismo, gli umanisti
bastardi e in ritardo, la lotta era stata più o meno concorde, e l'aveva
animata un medesimo spirito di modernità e d' italianità, e, felice espediente
o necessità storica che fosse, il segreto della vittoria era stato appunto
quell'essersi eletto a rocca di difesa un sicuro punto strategico, il Trecento,
donde si poteva fronteggiare l'esercito del classicismo antico senza perder
dietro sé le schiere dei novissimi soldati dell'arte moderna. In altre parole,
la causa del volgare si sarebbe vinta con una concessione, cioè non legiferando
solo sull'uso vivo, ma ponendo a base della nuova grammatica quanto della
lingua ormai vincente poteva parere ed era già consacrato da un periodo non
breve di due secoli. Comunque, con quell'orientamento o in quell'atteggiamento
s'era combattuto e vinto: di maniera che, da quella bibbia, in cui era stata la
fede, del Decameron e con quei fondamentali principi ond' era stata
interpretata, del Bembo, s' era finito di cavare, con gli Avvertimenti del
Salviati, tutto il nuovo credo grammaticale, con cui si doveva e parlare e
scrivere raodtrnamente e italianamente, e, quali e quanti si fossero i seguaci
di codesta dottrina, quali e quante fossero state le opposizioni, le
restrizioni e le riserve, il certo si è che ormai tutto si poteva • msiderar
come già detto, dimostrato, codificato, e nulla rimaner di nuovo da poter dire
e fare in quel campo: come succede quando una legge è sanzionata, ormai si
trattava di solo applicarla: in questo si poteva desiderare come un
regolamento, cioè uno strumento facile, che servisse di guida e di lume
nell'applicazione; e vedremo infatti tra poco il Lombardelli, il quasi
credutosi incaricato di compilar codesto regolamento, desiderare una grammatica
intera, piena, risoluta e facile, la quale appena si potrebbe cavare da tutt'i
detti Autori ; ma di una nuova produzione o investigazione grammaticale non si
sentì, e non si poteva nel fatto sentire, il bisogno, tanto più che, come ora
diremo, nei quadri dell' insegnamento scolastico la grammatica del volgare non
era ancora stata ricevuta come disciplina autonoma e necessaria. Anche qui, per
riflesso della più vasta guerra combattuta nel campo della cultura in difesa
del volgare, anzi per un conseguente movimento strategico (si pensi che nella
scuola, di natura sua conservatrice, le novità si fanno strada quando non sono
più tali), s'era lottato e, se non vinto, non anco per certo perduto, non dico
imponendo, ma accettando un patto conciliativo : l' insegnamento grammaticale
doveva esser impartito ancora con e per la grammatica latina e per l'uso del
latino, ma per mezzo, e non sicuramente in opposizione violenta del volgare:
così si sarebbe poi finito col conciliare in un medesimo insegnamento l'una e
l'altra lingua, pur sempre tuttavia, s'intende, con lo schematismo grammaticale
latino, sino a tanto che anche l' italiano non avesse avuto con la sua
grammatica il suo insegnamento ufficiale autonomo, che invero per la generalità
accadde assai tardi. Del resto, senza richiamarci alla più antica tradizione
dell' insegnamento rettorico de' dettatori bolognesi e di Dante stesso, che
potè esser maestro, se non di grammatica, di rettorica volgare ne' suoi cadenti
anni ravennati, né alla meno antica de' lettori quattrocentisti dello Studio
fiorentino disputanti anche di grammatica volgare intorno all'arte delle tre
Corone, basti il ricordare qui un fatto già accennato da noi come prova
d'un'altra dimostrazione, che cioè, vale a dire nel primo vero affermarsi della
grammatica del volgare, e un anno o due prima di quell' imbelle e non estremo
attacco del convegno bolognese in contradittorio preparato e fallito anche
perchè non preso sul serio a' danni dell'italiano, un anonimo grammatico
latinista, che, se è vera la congettura dello Zeno, del vetusto Donato
portavaanche il nome, dato che fosse quel Donato, veronese, che s'era distinto
nella pubblicazione di altrettanti lavori latini e greci col medesimo
tipografo, non s'era peritato di stampare una Gramatica latina in volgare ,
invocando, si badi bene a questa assai eloquente circostanza, invocando, dico,
perdono, se non ivi gli era riuscito di servare tutte le regole e osservazioni
della lingua volgare: Avete già veduta rettorica in volgare, aritmetica,
geometria, astrologia, medicina, filosofia, teologia, ed altre innumerabili
scienze: avete veduta eziandio gramatica della lingua volgare: non vi rincresca
vedere ancora questa della Ungila latina, non forse men necessaria di
quell'altra. E se per avventura, troverete non aver lui [l'Autore] servate
tutte le regole ed osservazioni della lingua volgare; perdonategli, perciocché
non la volgare gramatica, ma la latina vuol insegnarvi hi parlar volgare C).
Opera nuova questa non era, come l'anonimo autore non senza pur legittima
compiacenza, asseverava: poiché di grammatiche latine-volgari in volgare, come
anche latine-francesi in francese, argomentammo essersene divulgate
necessariamente, sebben poche, nientedimeno fin dal sec. XIII: nel sec. XV, nel
pieno rigoglio dell'umanesimo, codeste grammatiche latino-volgari, salvo
rarissime eccezioni, s'era tornati a dettare naturalmente in latino: il che
spiega il vanto dell'anonimo cinquecentista: ma sì era nuovo lo spirito e
l'atteggiamento con cui la pubblicava, e che era quello di chi pur aveva e non
poco da concedere così presto al volgare che veniva imponendosi perfino nei
penetrali più intimi del latino, cioè nella sua grammatica, come più volte
vedemmo. Per entro il più maturo Cinquecento numerose prove si potrebbero
raccogliere di altrettali, ora più ora meno ampie, concessioni e nei dibattiti
e nei trattati e nelle scuole, che per amore di brevità e perchè le istituzioni
scolastiche non sono per l'appunto l'oggetto diretto della nostra ricerca, noi
tralasceremo: ma non senza averne addotte alcune poche di età diverse quasi a
stabilire le pietre miliari d'una lunga via che doveva condurre alla logica
risoluzione d'un così complesso problema. Ne ho data una di poco posteriore al
primo quarto del secolo. Verso la VI qui. La grammatica della lingua romana in
volgare, assai più nota e divulgata, di Priscianese.] metà e poco prima d'essa,
Fabrini da Fighine così annotava un luogo del Sacro regno, da lui di latino
tradotto in volgare, del Patrizio: Discostandomi un poco dall'opinione del mio
Patritio, dico che non manco ne la volgare si debbe affaticare , perchè tutti
che s' hanno a dare a le scienze, debbono imparare prima bene la grammatica
volgare, cioè della lingua loro (:), osservazione parsa fortissima al Gerini,
memore del luogo del Varchi, in cui è affermato l'assoluto divieto, a cui non
si mancava senza esser puniti, di servirsi del volgare nelle scuole, e del De
liberis recte instituendis del Sadoleto, dove non si fa alcun cenno della
lingua italiana (s). Se non che questo silenzio e quello stesso divieto che
cos'altro dimostrano se non la forza irresistibile del volgare? Nel terzo
quarto di secolo, e precisamente, una prova più forte ce la fornisce
quell'arguto libretto, degno d'esser raccomandato ancor oggi a maestri di
latino e di italiano, che va sotto il nome di Aonio Paleario, uno degl'
interlocutori del Dialogo, anzi l'interlocutore, che, biasimando le false
esercitazioni de' grammatici, addita sull'autorità di CICERONE (si veda), i
sani precetti, dal titolo // graviatico ovvero delle false esercitazioni nelle
scuole. L'operetta è diretta agi' insegnanti di latino e a condannare il metodo
di chiosare il latino col latino già lamentato da Cicerone, e col quale in
luogo delle buone, e proprie parole, che aveva usate il buon Poeta, dichiarando
così, [il grammatico] poneva le non proprie, e non idonee (p. 37); così, cioè
sosti I ' De la Teorica della lingua dove s'insegna con regole generali et
infallibili a tramutar tutte le lingue ne la lingua latina . In Venetia,
appresso G. B. Marchio Sessa et fratelli, Appresso Nicolini). Nella deci, a
Cosimo de' Medici accenna a una. pratica della lingua da lui fatta, che è un
volume grandissimo. Il canone del Fabrini si riassume in queste sue parole
della medesima dedica: Non trovo né trovai mai, né il più fedele, né il più
dotto, né il più pratico consigliere che la sperienza . La Teorica è una bella
sintassi de' casi con altre regole concernenti i gerundi, (piai è stata poi
esposta recentemente ne' volumetti tipo Gandino. In Venezia, appresso Domenico
e Giov. Battista Guerra, fratelli; ma la prima edizione è del 47. (J) Gerini,
Codesto libro fu (rad. da 1. Montanari con annotaz., Ili ed., Parma,
Fiaccadori, 1S47. (4) Venezia: ma io ho l'edizione perugina del Costantini,
MDCCXVII. Capitolo nono 273 tuendo ad Arma virumqiu amo ' Ego Virgilius canto
bella et Aeneam illuni hominem fortissimum ', come farebbe chi, volendo chiosar
la sentenza onde s'apre il Decameron, ' Umana cosa è aver compassione agli
afflitti ', dicesse 'è, existe, appare: cosa, una faccenda, una impresa, una
bisogna, umana di uomo, o mortale, o di mortale, aver compassione, aver
misericordia '. E qual metodo suggerisce il Paleario? La parafrasi in volgare,
la versione e la retroversione, cioè il metodo comparativo che importa lo
strumento e l'uso della grammatica e della lingua volgare. Né, si badi,
perdendo di vista gl'interessi del volgare, anzi intimamente collegandoli con
quelli del latino, in modo che gli uni non si favoriscano senza insieme favorir
gli altri. Voi dite , si fa dire Aonio dal suo interlocutore, che il modo che
tegniamo, nel leggere e nel dichiarare le lezioni latine, farà, che non mai i
fanciulli impareranno la lingua latina: e l'epistole, che noi diamo volgari,
acciocché le facciano latine, faranno, che non mai sapranno scrivere non
solamente un'Epistola latina, ma non pure una leggiadra lettera volgare (p.
16), per poi così ammaestrarlo: dichiarate le lezioni latine con la lingua
volgare, e così esercitate i fanciulli che repetano volgarmente, e non
corromperete la lingua latina, ma in un medesimo tempo insegnerete loro la
copia, e la proprietà di due lingue, di maniera, che in breve potranno
verissimamente scrivere coll'una, e coll'altra, ed avendo imparato da voi,
potrannoi giovanetti esercitarsi in tradurre l'epistole di Marco Tullio, ed
essendo loro mostro dal Maestro le maniere, ed i modi di dire diversi,
scriveranno da loro stessi lettere, ed orazioni latine, e toscane
leggiadrissimamente (p. 52). E contro l'uso, prevalente anc'oggi nelle nostre
scuole, delle traduzioni dal volgare in latino, così esplicitamente ammonisce,
dandone lumi anche per l'arte dello scrivere in italiano: l'idioma della lingua
latina è molto diverso dal nostro volgare, ne è maggior sciocchezza al mondo, che
voler esser volgar latino, o latino volgare. Da questi errori sono nati gli
stili falsi Toscani del Polifilo, e gli stili falsi latini, o moderni, di che è
impestato il mondo: a volere scrivere dunque leggiadramente nell'una, e
nell'altra lingua, bisogna avere tuttavia l'occhio, e la mente a questa
diversità, ed oltre alle parole di tali lingue, i modi, le maniere, i tratti,
le grazie, gli ornamenti, li quali si mostrano sparsi negli scritti degli buoni
Autori, non altrimenti, che nelle più serene notti le stelle, nel Cielo. E,
additati i cattivi effetti che nascono e permangono per tutta la vita da
codeste false esercitazioni, acutamente osserva: e quello, che è cosa
maravigliosa, se alcuni si voltano, e si danno alla miglior letteratura,
avviene, perchè sono di eccellentissimo ingegno, il quale essendo avvezzo in
tutte le azioni sue a seguire la ragione, come verissima guida, veduto, e
conosciuto il vero, si, muove con grande impeto, e spezza, rompe e fracassa
ogni velo, ogni falsa opinione, che teneva occupato e prigione l'animo. Laonde
camminando col lume della ragione per nuova via, fanno cose miracolose. E senza
tuttavia abolire addirittura l' insegnamento della grammatica che riduce a'
suoi veri termini e contro cui arriva a formulare questo rivoluzionario
principio, " non fidarsi mai di regole di grammatico alcuno,
manifestamente dimostra che, se un esercizio giova, questo è di leggere gli
scrittori e in essi studiare le regole. Osservato che giovinetti riescono a
scrivere boccaccescamente e alcuna donna a scrivere petrarchescamente, domanda:
Chi insegnò a quella Donna? alcun maestro di grammatica le dette il Tema?...
Chi adunque le insegnò, altro che la diligenza nel leggere, ed osservare le
parole, conoscere i concetti, dilettarsi dell'armonia, de' numeri, ch'empiono
le orecchie, accendono l'animo all' imitare?. Non è peraltro per illustrare il
buon metodo consigliato da lui che noi ci siamo qm indugiati intorno alle
vedute del Paleario, ma specialmente per dimostrare coni' egli, discorrendo di
precettistica grammaticale latina, ha continuamente il pensiero al volgare,
senza il (piale, non era ormai più possibile 1' insegnamento classico e al
quale, ben s'argomenta, miravano le scuole stesse come a disciplina in cui non
era più lecito ormai non erudire i fanciulli. Un altro pedagogista tutt'altro
che moderno, Meduna di Motta [L'ufizio del gramatico, come poco dianzi
elicevamo, è insegnare con la lingua che ha propria, e che è comune a lui, ed
agli scolari; conoscere le parti dell’orazione, e variare, o declinare, come
voi dite, le parti declinabili, e congiungere attamente le parole insieme
sempre avendo l'esempio avanti cieli ì buoni autori, etc. Abbiam visto il
Lapini scriver in latino la grammatica del fiorentino. Ricordisi anche la
Contesa di cui si fece cenno. di Livenza nel Friuli, in una sua opera in tre
libri intitolata Lo scolare nel quale si forma a pieno un perfetto scolare,
discorrendo della Grammatica, che chiama, secondo l'antichissimo canone, madre
di tutte le altre discipline, e che, secondo lui, impone leggi all' ortografìa,
alla prosodia, all' etimo logia, alla sintassi, alle figure, ai tropi, alle
sentenze, all' 'analogia, raccomanda egualmente lo studio teorico e l'esercizio
pratico, il primo sui testi antichi e moderni quali il Valla e il Perotto, ma
aggiungendo che non si sarà grammatico senza aver imparato a memoria tutto
Donato con le regole di Guerino, per lasciar da un lato i Cantatici e i
Mancinelli • una vera indigestione, insomma, di grammatica latina d'ogni età e
d'ogni fatta. Eppure non dimentica la lingua volgare né di raccomandar in
proposito le Prose del Bembo, le Osservanze del Dolce, le Annotazioni del
Ruscelli, sparse, e la Grammatica del Castelvetro C), cioè tutti i veri
grammatici stati in voga nel Cinquecento fino all'anno in cui egli scriveva e
venivano in luce gli Avvertimenti del Salviati, che evidentemente ancora egli
non conosceva. Anche l'Antoniano, che il Castelvetro chiamò miracoloso mostro
di natura , ne' tre libri dell' Educazione cristiana de* figli ', dove consiglia
di liberar i fanciulli dalle molestie della grammatica, di cui non intendono i
termini, facendogliela apprendere indirettamente sugli autori, non riprende
qualche studio della lingua volgare e a tal uopo consiglia le versioni.
Finalmente, per arrivare al tempo in cui ci troviamo con la nostra narrazione,
due altri notevoli esempi dovrei addurre, quello del Possevino, autore di un De
cultura inge?iiorum e l'altro del perugino Crispolti, autore di un Idea dello
scolaro che versa negli studi (fi), entrambi scriventi nel 1604, per confermare
come la tradizione che Venetia, Fachinetti, -S ',yr. Cfr. Gekinm. op. cit., II,
405. Correzione all' Er colano cit., p. 54. In Verona, per Bustina delle Donne,
15S4. Il Castelvetro lo dice scolaro di L. G. Giraldi; il Varchi, nell'Ere ola
no (ed. cit., p. 423 e l'annotatore delle Opere di Sp. Spero?ii (tomo II, p.
2ir) lo dicono scolaro del Caro, ma il Castelvetro ( Correa., in Ercol. cit.,
p. 32 lo nega. Cfr. Gkrini. Venetia, Ciotti. Cfr. Gerini, Ant. Possevino scrittore
educativo, in L'oss. scolastico, Perugia.] si ricollega a quell'anonimo del
1529, fosse andata ormai mettendo sempre più salde radici. Tuttavia e
concluderò così questa lunga parentesi l' insegnamento della grammatica volgare
non era peranco ufficialmente riconosciuto , né aveva perciò programmi e testi
suoi, se anche indirettamente venissero ad essere svolti gli uni e consigliati
gli altri: e al consiglio bastavano i grammatici cinquecentisti or or nominati,
aggiuntovi naturalmente il Salviati. Queste le varie cause onde secondo noi in
questo periodo, che dal Salviati va al Buommattei e al Cinonio editi che il
primo di questi due cominciò ad attendere all'opera sua non leggera né facile
fin dal 1612, la rigogliosa fioritura grammaticale cinquecentesca s'arrestò; ma
senza, naturalmente, avvizzire ne intristire del tutto. Non foss' altro, se
anche non furono propriamente grammatici nel senso ristrettissimo e compiuto
della parola, avemmo due diversamente benemeriti e orientati cultori delle
discipline grammaticali, entrambi senesi, come senesi furono in questo momento
ben altri partecipi del movimento linguistico, quasi l'accampamento di Firenze
si fosse attendato a Siena, che di valore per tutto il Cinquecento aveva
mostrato notevoli esempi, basti ricordare il massimo del Tolomei: Orazio
Lombardelli, cioè, e Celso Cittadini: l'uno, precettista pur esso d'una parte
della grammatica, 1' ortografia, la pronunzia e la punteggiatura, che,
riassumendo e vagliando i meriti di precedenti grammatici e vagheggiando un
nuovo tipo di grammatica più nei rispetti dell'assetto esteriore che del
contenuto legislativo, additò, come conscio de' bisogni d' un' educazione
intellettuale più vasta e moderna per gli effetti della produzione letteraria,
se non un piano di riforma degli studi, certo un sistema più organico e
complesso dove fossero mostrati nella loro rispettiva funzione i fonti
dell'arte, gli strumenti, i metodi, i fini; l'altro, filologo per proprio o per
altrui merito, che, plagiario o no, dimostrò d'intendere il valore delle
indagini dei Tolomei, dei Castelvetri, dei Bartoli, divulgando i principi e gli
elementi di quella gramma (,'j Una Cattedra di lingua toscana tu istituita,
come s'è visto, dal Granduca: a Siena ne fu primo lettore il Borghesi nel 1589.
Col decreto del 1571 ricordato dal Borghini il Granduca ordinò che fossero
compilate regole della lingua fiorentina da leggersi in tutte le scuole.] tìca
storica, che, già rosi ben promettente nel suo giovanil rigoglio e assurta già
.1 fastigi veramente impensati, senza per altro che quei cultori si
stringessero scientemente come pochi ma saldi anelli di una catena in una
comune tradizione, doveva poi, a maggiore danno, almeno per tutto il Seicento,
quasi miseramente perire o giacere dispetta e scura, di contro alle in gran
parte inutili, infeconde e noiose logomachie intorno al vocabolario della
Crusca. Il Lombardelli, anch'esso già da altri lodato di non aver mai disgiunto
nella sua precettistica e nel suo insegnamento gli studi del volgare da quelli
del latino, non fu davvero poco ferace nella sua vita che non dovette esser
lunga: poiché delle sue opere, elencate tutte da lui stesso ne' suoi Aforismi
scolastici^, le grammaticali o che con la grammatica hanno una certa relazione
se non altro per il metodo, a prescindere dalla parte anche da lui presa alla
polemica tassesca, sono nientemeno che dodici. le più d' indole strettamente
ortografica o ortoepiche, altre quasi lessicali, e quasi tre pedagogiche o
didattiche: di tutte la più notevole è naturalmente quella dei Fonti Toscani.
Della principale di quelle ortografiche, V Arte del puntargli scritti edita nel
15S5, ma di cui aveva già dato un saggio molto bene accolto fin dal 66, sarebbe
detto tutto quando, ri Gerini. In Siena presso Salvatore Marchetti, 1603 (sono
887, distribuiti in 68 distinzioni). \z L'elenco è ripetuto in Gerini. Quelle
che più direttamente c'interessano sono: I. Dei punti e degli accenti, clic ai
nostri tempi sono in uso tanto appresso i Latini quanto appresso i Volgari. In
Firenze, per li Giunti, 1566. II. L'arte del puntar gli scritti, formata ed
illustrata, Siena, presso Bonetti. Memoriale dell'arte del puntar gli scritti.
In Siena, Bonetti, 158S (Verona, 1596). IV. La difesa del zeta (già cit.). V. /
riscontri grammaticali. In Firenze, due volte e in Siena. VI. La pronuncia
toscana. In Fiorenza, presso il Marescotti. VII. L fonti toscani. In Firenze,
appresso Marescotti (cfr. Conte Silvio Feronio, // Chiariti, Dialogo, ove
trattandosi de' fonti toscani d'Orazio Lombardelli, si va ragionando d'altre
cose. In Lucca, presso il Busdrago. Le eleganze toscane e latine. In Siena,
1568, e in Firenze, Marescotti, 1587. IX. LI giovane studente. \\\ Venetia. Gli
aforismi, S conosciutane l'abbondanza e la metodica trattazione della materia,
si fosse ripetuto l'aforisma a cui egli s' ispirò nel forviarla ed illustrarla:
lingua fiorentina in bocca senese, principio contradittorio, col quale egli
cercò di trovare una via conciliativa tra il primato fiorentino e il diritto
che Siena s'arrogò e le fu riconosciuto d'emular Firenze e che esprime, come
vedremo, .issai bene uno de' nuovi aspetti della rinnovantesi critica
letteraria; ma, a lode del libro, occorre aggiungere che ha il merito d'aver
registrato, al cap. 4 della parte prima, per ordine alfabetico, tutti i precedenti
trattatisti italiani e latini della materia con l'indicazione delle opere o de'
punti particolari ih cui ne trattarono: tra i latini, Aldo Pio Manuzio in calce
libri quarti grammaticarìim institutionum, il Valla al cap. 41 lib. YI
Elega?iliarum, lo Scoppa, il Vives nel suo De ratione studii; tra gl'italiani,
il Franci, il Firenzuola, Cavalcanti (5'1 della Rettorica), il Lenzoni (3a
giorn. della Difesa della lingua fior, e di Dante), il Tolomei (in una lettera
a m. F. Benvoglienti), V Alunno, il Trissino, il Ruscelli (in Del modo di
comporre in versi e sopra il Furioso), il Salviati, il Castelvetro {Sposiz.
della i& particella della V parte della Poetica di Aristotele), il Dolce,
il Toscanclla, il Giambullari, il Bembo, il Neri Dortelata {Osservai, per la
pr. por.). Quanto al contenuto, basterà osservare che, premesse alcune
avvertenze per intender più agevolmente l'opera e servirsene con frutto, circa
le persone a cui si aspetti la cognizione e il buon uso de' punti (maestri,
stampatori, scrittori, pubblici ufficiali), sulle cagioni de' grandi abusi, che
nell'arte del puntar si passano (3), sugli autori che hanno scritto de' punti
(4), sulle stampe che sono più corrette nel buon uso de' punti, passa alla
descrizione del punto trattando del trovamento, della necessità, e dell'ordine
naturale de' punti, degli Autori che rendon testimonianza dell'autorità de'
punti (3), della convenenza, e disconvenenza, o vero della comunità, e
differenza, che si ritruova tra' Punti '4); indi a discorrere del sospensivo
(la nostra virgola), trattando del nome, figura, ordine, necessità,
descrizione, regole con appendici e eccettuazioni: poi del mezopunto, ;, del
coma, :, (VI) mobile (.), interrogativo, affettuosa (la nostra esclamazione),
Parentesi, Apostrofe, Periodo. Onesti trattati di punteggiatura, più o unno
completi, ]>iù ci meno polemici, accompagnarono sempre in connessione 0 no
con i vari sistemi ortografici in tutto il suo secolare svolgimento la
vessatissima questione della lingua, non pure a partir dai precursori senesi e
fiorentini del Trissino nella riforma delle nuove lettere fino agli ultimi
manzoniani, senza che ancor Oggi, .1 proposito di vecchi e di nuovi sistemi di
punteggiatura (si ricordino gli esempi del Leopardi seguiti da Carducci e ancor
più dal D'Annunzio parchissimo eli punti e del Manzoni che n'è invece
larghissimo), non si tenti con inutilità manifesta rinnovar le vecchie
diatribe, ma anche nel precedente periodo che corre dal De vulgari eloquentia
alle contese quattrocentesche prò e contra le tre Corone. Vedemmo già, a non
ricordar altri, il Petrarca risponder con un trattatello dell'arte di puntar
gli scritti al Salutati che gliene aveva mosso questione. Ho parlato
d'inutilità manifesta: poiché, risoluto ormai, come dobbiamo ritener che s'è
fatto, il problema filosofico sul linguaggio con identificare l'estetica con la
linguistica generale, non s'intende proprio come si chieda, per es., al
D'Annunzio perchè non si degni conformarsi all'uso ormai comune e intorno al
quale l'accordo s'è ottenuto così nella grafia come, s' intende, essendo l'i -
.1 questione, nella punteggiatura, quasi volendolo rimproverar come
d'un'inutile bizzarria o d'una posa e chiamandolo responsabile de' cattivi
effetti che il suo capriccio tirannico può produrre sull'arte e sulla scuola. O
non sono anch'esse e le forme speciali ortografiche e le specialissime
interpunzioni d'un poeta le sue parole interiori? Egli parla con sé a quel
modo, ed è illogica e tirannica quanto vana la pretesa di voler che e' parli
secondo un uso astratto, cioè dica delle parole mute. Anche ne' punti è egli
sempre il Poeta quale si dimostra in tutta l'originalità delle sue visioni.
Mentre invece il problema non era vanamente trattato e discusso con più o meno
vivo calore, quando, nel! 'affermarsi e nello svolgersi della nuova letteratura
e, concedo ancora, nel romantico rinnovarsi di essa, allor che ancora la vera
formula estetico-filosofica non era stata [Riguardavano, s'intende,
specialmente il latino; ma, a tacer d'altro, il Borghini, come abbiani visto,
ricordava d'aver visto un libro tra quelli del periodo intorno all'ortografia,
della quale i nostri antichi -non curarono affatto , loc. cit. 280 Storia della
Grammatica trovata, la coscienza artistica non si poteva appagare degli scarsi
segni eravamo ridotti quasi al solo punto ereditati dal primo Trecento, né de'
nuovi che venivano o rintracciati nell'antichissimo uso o novellamente
foggiati. Nessuno di que' nostri trattati fu inutile o arbitrario prodotto da
trascurarsi a chi fa la storia e delle istituzioni didattiche e dello spirito
filosofico, poiché ciascun d'essi era l'effetto d'uno sforzo, d'un bisogno a
cui ben si sentiva non era facile sottrarsi, quando si fosse voluto esprimere
con pienezza il proprio pensiero; o meglio quando si fosse voluta schiarire e
possedere l' immagine interiore del proprio pensiero. Potevano credere quei
trattatisti di dirigersi al comodo pratico non pur degli apprendenti sì anche
de' tipografi e scrivani pubblici; in latto essi rispondevano ai quesiti
infiniti che sorgevano nella coscienza artistica de' nuovi produttori della
letteratura: e il moltiplicarsi di codesti trattati, e l' ingrandirsi del loro
corpo fino alla mostruosità dell'ampio volume veniva a segnar via via il loro
fallimento completo di fronte alla scienza, che non conosce leggi fonetiche, né
grammaticali, né, particolarmente, ortografiche o di accentuazione e
interpunzione. Si noti, infine, a conferma di tutto questo, che ciascun d'essi
s'eleggeva il principio che meglio e più rispondeva alla sua coscienza
artistica, appunto perchè il loro senso estetico, ossia il loro particolar modo
di sentire, si ribellava a ogni altra legge che in qualche modo lo violentasse
nella sua libera e piena manifestazione: e il Lombardelli non cavò di sua testa
il principio che è fondamento della sua dottrina ortografica, lingua fiorentina
in bocca se?iese, né nel formularlo s' ispirò) come dice il D' Ovidio , al
lodevole esempio di moderazione che gli era stato porto dal suo più illustre
concittadino Tolomei; ma lo dedusse dal suo particolar gusto di senese, anzi di
artista, quale si fosse, del suo volere e dover esser lui e non altri. Il
Petrarca s'è già visto era arrivato perfino a crearsi de' segni particolari,
più che d'interpunzione, di rilievo, direi quasi, e di colorimento per certi
speciali atteggiamenti del suo pensiero artistico. Sui fonti Toscani, la più
nota e diffusa opera del Lombardelli, ebbe già a portare la propria attenzione
il D'Ovidio, che ne ] biasimò il titolo per esservi stati sotto compresi concetti
disparatissimi con criterio goffamente didattico, e non ne risparmiò
naturalmente il contenuto. Riconosce peraltro che il libercolo non iindegno di
studio; giacchèj quantunque farraginoso e sconnesso, ha qualche importanza per
la questione della lingua e per quella dell'origine, contiene qualche buon
ragguaglio, e propugna con urbanità opinioni temperate e conciliative. Retto e
mite per natura, quale si dimostra anche nell'atteggiamento benigno verso il
povero Tasso, il Lombardelli non cadde in eccessi (l), come il Bargagli, vero
separatista tra il fiorentino e il senese, né in quella violenza in cui
trascese, più tardi, per esserne il capro espiatorio, il Gigli ("). Per
fonti il Lombardelli intende tutte le sorgenti onde possiamo derivare rivoli e fiumi
d'eloquenza toscana. Ne fa dodici categorie: la lingua latina; la voce viva dei
popoli di Toscana ; le scritture del buon secolo; i linguaggi italiani; la
lingua greca; i linguaggi stranieri; gli autori della teorica di nostra lingua;
le traduzioni; gli scrittori di prosa moderna; io. i poeti; i prosatori scelti;
e i tre sommi del Trecento. Quanto alla settima, osservisi che gli autori della
teorica di nostra lingua per il Lombardelli non sono solamente i grammatici, ma
tutti coloro i quali ci insegnano, come si debbia parlare, e scriver
lodevolmente, con regole, avvertimenti, e precetti di Grammatica, di Rettorica,
e di Dialettica, guidati anco talora, e praticati per via di Istorie e con
ragioni, prese dalla Filosofia, e d'altronde (pp. 46-7). De' grammatici
propriamente detti raccomanda i più recenti, designandone il grado
d'attendibilità: se pur nel Dolce ha difetti, si trovan notati dal Ruscelli, se
nel Bulgarino, si trovan ripresi dal Zoppio, e difesi da lui proprio e dal
Borghesi. Se finalmente dal Borghesi e dal Salviati, né ho da parlar io nelle
riprese dodicesima e tredicesima del penultimo fonte. Ma torno a dire intanto
che per quanto appartiene a questa parte della Teorica di nostra lingua, gli ho
per guide sicuris Pe' plagiari del Tolomei, in Pass, bibliogr., I, 467. Ma di
plagio non si può parlare riconosce il D'Ovidio tranne che pel titolo e qualche
idea e osservazione particolare. Il Lombardelli non ricorda del Tolomei solo le
opere a stampa. (:) Le corr. cit. 2S2 Storia della Grammatica sime (p. 58). Ma
ciò non toglie che egli non si taccia a esporre un lungo catalogo di desiderata
con la più grande disinvoltura: si desidera una Gramatica intera, piena,
risoluta, e facile: la quale appena si potrebbe cavar da tutt'i detti Autori.
Poi un ampio Tesoro, dove sien raccolte tutte le voci attenenti al puro
toscanesimo, scelte con buon giudizio tra le antiche, e le moderne, sposte con
la copia, esaminate nella origine, nella proprietà, nella proporzione, o
corrispondenza, nelle differenze, nelle costruzioni semplici, e nelle figure,
avvivate con gli opposti, ornate degli epiteti e degli aggiunti, assicurate
finalmente, ed approvate con diverse parti degli scrittori del buon secolo e
de' più regolari del nostro, specialmente di quei dello ultimo fonte... Mancane
un Vocabolario, non indirizzato a quei che aspirano all'eloquenza, ma alla
turba, per intendere tutt'i vocaboli del Volgo e degli Antichi: e potrebbe
farsi a imitazione o di quel Polluce greco, o di quel d'Anton Nebrisense,
spaglinolo, e latino: poiché non ci può sodisfar la Tipocosmia d'Alessandro
Citolini da Serravalle. Mancavi un Dizzionario poetico; e forse alcun altro
d'altra sorte rispetto alle diverse arti e professioni.). Ci manca un
Proverbiarlo cominciato già dal nostro sodo Intronato. Una sindacatila [manca]
sopra a tutti i pregiati scrittori toscani antichi e moderni, come fu fatto per
gli antichi da Quintiliano e Tacito in Cicerone, da Polemone in Sallustio, da
altri in ( hnero e Virgilio, dal Valla in diversi (ib.). Ricordate le promesse
di Vocabolari di G. C. Dal Minio, del Ruscelli, del Salviati, annunzia quelli
del Persio e della Crusca: ragguaglia che Ottaviani Ottaviano suo allevato,
scolaro di medicina, stava componendo la correzione degli abusi introdotti
nella lingua (forestierumi, dialettalismi e idiotismi vernacoli); annunziala
[Il Lombardelli era, sembra, scontento della non scarsa letteratura
proverbiariesca a lui anteriore: per lo meno ignote non gli dovevano essere le
varie edizioni della Civil conversazionidi Stefano Guazzo. Cfr. per questo
argomento, Xovati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti
nella letteratura italiana dei primi tre secoli, in Giorn. si. d. leti, il.,
voi. XY e XVIII; e L. Boni-ioi.i, Stefano Guazzo e la sua raccolta di proverbi
in Niccolò Tommaseo. In ogni modo il desiderio espresso dal Lombardelli vien ad
essere una diretta conferma del tatto, dal Bonfigli affermato, che la mania per
i proverbi era nell'aria. In gran parte l'avrebbe invece, soddisfatto, tra poco
il Monosini, di cui s'è già discorso.] Semenza delle burle d'un suo amico,
contenente centinaia di voci non mai uscite in istampa, proverbi, sbeffamenti,
sentenze popolaresche. e per comodo de' forestieri, con le corrispondenze
nobili, sì che un detto burlesco venga dichiarato, ad es., in dieci 0 venti
modi nobili. Porge infine degli avvertimenti speciali ai forestieri"
{soggiorno in Toscana; lettura delle opere grammaticali del Dolce, del
Ruscelli, del Salviati, del Bembo, del Borghesi: la lettura degli scrittori
antichi; la Fabbrica dell'Alunno; composizioni; traduzioni; corrispondenza con
toscani), ai fanciulli toscani, alle donne, agli studenti, dottori e nobili
artefic i (deplorando la scarsa cultura degli artisti!), ai notai e
cancellieri, ai segretari, agli accademici, ai predicatori ('•ammaestrati prima
ne' fonti della Gramatica, Greca, Latina, e Toscana, come Appollonio
Alessandrino, Urbano, Demetrio, Prisciano, Emanuele Alvaro, Mario Corrado,
Tommè Linacro, Agostin Lazaronio, Giovanni Scopa, il Manuzio, Anton da Nebrisa,
il Ruscelli, il Bembo, il Castelvetro, il Salviati e altri), agli Umanisti,
Traduttori, Poeti, Istorici e altri. Il carattere zibaldonesco del libro e
quello un po' cervellotico de' principi secondo cui è stato imbastito, saltano
subito all'occhio; pure di tra la farragine e delle cose e de' principi un
fatto balza anche fuori che torna a tutta lode del Lombardelli ; questo, che
egli, additando sì disparati modi e strumenti onde dovesse e potesse
acquistarsi dalle varie classi sociali la cultura e l'arte letteraria, mostrava
d'intendere che non c'è una sol via per imparare a scrivere e a parlare, e che
l'intelletto va -'i-citato e nutrito non con le sole regole ma con più sorta di
cibi o di ricambi. La grammatica, anzi, nel piano educativo da lui disegnato, occupa
una parte molto secondaria, è una parte d'uno de' dodici fonti: ed essa stessa
non è pedantesca, ma è concepita e desiderata liberale e facile. Egli non la
corrode filosoficamente, ma ne attenua, nel fatto, la portata. Ed anche questo
per la storia è notevole. La scarsa fede, in sostanza, in un prodotto
antiscientifico, se non è indizio di senso scientifico, è certo segno di buon
senso, che è base di quello. Il Cittadini, dai sommi altari della filologia a
cui era stato elevato tra i profumi dell'incenso e il coro delle lodi, è caduto
ìgnominiosamente a terra: e oggi non se ne pronunzia il nome, senza chiamarlo
grande depredatore del Tolomei, malo affastellatore di scritti non suoi, e con
epiteti consimili; ma cancellarlo dalla storia non si può. Parliamone dunque
anche noi, senza più oltre incrudelire: cosa facile grazie alle diligenti
fatiche d'un altro nostro valoroso corregionario, Filippo Sensi, che, per
ripetere una frase del Rajna, ha i due Senesi sulla punta delle dita.
Cominceremo dal riassumere del Sensi lo scritto principale. L'egregio studioso,
a metter bene in chiaro i gravissimi debiti del Cittadini verso il Tolomei,
rivolge primieramente uno sguardo generale alle Origini del Cittadini. Le
Origini della Volgar Toscana favella si rannodano con un precedente trattato
del Cittadini stesso, che reca un titolo consimile: Della vera origine, e del
processo, e nome della nostra Lingua. Il Sensi stesso riconosce che qui, oltre
il concetto della derivazione dell'italiano dal latino popolare, si ha un
abbozzo veramente pregevole di storia di questo latino; ma quando si viene a
chiarire il modo di quella derivazione, la ricerca è abbandonata sul più bello.
Esaminata in confuso e come per esempio del restante l'origine de' pronomi, si
rimanda al Bembo, al Castelvetro, al Salviati, ne' quali invano si cerca
qualcosa di simile pel concetto e pel metodo. Nelle Origini la ricerca [Per la
storia della filologia neolatina in Italia. Appunti di F. Sensi: I. Claudio
Tolomei e Celso Cittadini, in Arch. gioii. Hai. (cfr. D'Ovidio, in Pass,
bibliogr. d. lei/. Hai., I, 46-9; e Sensi). Le ... ecc., per Cittadini lettor
publico di essa nello Studio di Siena e Censor perpetuo della medesima
nell'Accademia de Filomati. App.: Salvestro Marchetti, in Siena. L'ed. di E. Gori,
Siena, è detta dallo Zeno migliore della prima. (Il Vivaldi, op. cit., I, 166,
attribuisce a Ercole Gori un trattato grammaticale, che io non ho potuto
rintracciare. E una svista?). Le Opere di Celso Cittadini gentiluomo sanese con
varie altre del medesimo non stampate furono raccolte da Girolamo Gigli. In
Roma, per Rossi. Oltre i due trattati dell'origine questa raccolta contiene il
Trattato degl'idiomi toscani, le Note marginali alla Giunta del Castelvetro, e
le Note sopra le Prose del Bembo. Trattato della ecc. scritto in volgar Sanese
da Celso Cittadini. In Venetia, per Giambattista Ciotti. Io credo che per
Castelvetro debba farsi qualche riserva: la posizione del Castelvetro verso la
grammatica storica non storia della lingua, si badi sia molto diversa da quella
del Bembo e del Salviati, perchè, se il Castelvetro nella trattazione delle
forme non adoperò il concetto tolomeiano-cittadinesco del latino popolare, dal
latino in ogni modo mosse e con criteri non certo retorici. Capitolo nono 285
vi assume un aspetto, dice il Sensi, semifilo so fi co, pretendendosi spiegare
la derivazione dell'italiano per via di dieci origini, senz'esser una
continuazione del Trattato, rimasta cosa monca, anzi ne sono un regresso in
confronto del metodo tutto analitico e storico, di cui l'autore aveva dato quel
saggio. Vi si unta poi, oltre la poca corrispondenza al fine proposto, una
grave sproporzione tra la parte fatta alla trattazione dell'i? e dell'0, che
ricorre attraverso tutte le singole origini, e il disegno vasto che abbracciava
non l'origine solo, ma questioni intorno alla pronunzia e alla scrittura del
Toscano, in ogni varietà, specie nella fiorentina e nella senese,
intrecciandosi o era criterio allo studio principale la fondamentale
distinzione di tutto il linguaggio toscano in quattro suddivisioni, alle prime
due delle quali sarebbero appartenuti i vocaboli nati dalle prime nove origini,
alle altre quelli della decima: distinzione importante, perchè verte
sull'origine letteraria e popolare de' vocaboli, e che sarebbe un bel vanto del
libro. Sicché, senza tener conto di inconseguenze, contraddizioni e
trascurarle, è da concludere che esso è un insieme inorganico di elementi
greggi, un mal riuscito affastellamento delle operette inedite del Tolomei. Qui
il Sensi, metodicamente si fa a considerare ($ II) codeste operette raccolte
nella nota copia della Coni, di Siena, ricordando che al Tolomei, autore degli
scritti da noi altrove esaminati, poco si badò, e che a nulla valse che il
Benvoglienti s'accorgesse del plagio, perchè tale scoperta rimase inedita. Da
quella considerazione la figura del Tolomei ne vien fuori pari, se non
superiore, a ogni altra nella storia della grammatica neolatina a lui
anteriore, benché da' vari materiali non si possa ricostruire quella Grammatica
toscana che il Tolomei diceva di voler comporre, prima che il Giambullari
ponesse mano alla sua. Forse il Tolomei avrebbe trattato in un primo libro di
questioni generali, in un secondo di propria grammatica, e nel terzo, come
appendice, dissertato di vari argomenti. Il Cittadini di questi materiali non
si servì per ricostruire; ma volle [Poleni (cit. dal Sensii nelle
Exercitationes Vitruvianae, Patavii, dice che Uberto Benvoglienti,
eruditissimo, era d'opinione che l'autore del Polito fosse non il Franci, ma il
Tolomei e deduceva dalla lettura delle opere inedite del Tolomei il plagio del
Cittadini a danno del Tolomei, nell'opera Delle Origini.] solo plagiare: e base
della sua compilazione fu il trattatello delTolomei : De"1 fonti de la
Lingua Toscana. Codesti fonti (e siamo così al § III) sarebbero nove: de
l'origine, de la forma, de la derivanza, de la figura, de la differenza, de la
frequenza, de l'affetto, del rappresentamento, de la disuguaglianza. Il
disegno, giudica Sensi, n'è ampio, ma la trattazione meschina, quasi un
sommario. A ben intenderli poi occorre la conoscenza delle scritture del
Tolomei parallele a' ' Tonti ', cioè il Proemio de le 4 lingue, il Ritratto de
le q lingue toscane, e del relativo criterio, che serve loro di base, di due
strati idiomatici, ' il bandolo ' della sua ricerca, la prima lingua essendo
costituita di un fondo schiettamente popolare identico al toscano, le altre tre
de' vocaboli introdotti dagli scrittori; ma le caratteristiche ne sono ben poco
chiare. I confini dell'opera forse non oltrepassavano quelli della fonetica, e
probabilmente era destinata a costituire la sezione preliminare della
Grammatica, insieme con trattati maggiori che ne svolgevano i capitoli più
importanti. ' La dimostrazione del plagio del Cittadini ', ristabilite cosi le
cose, divien ora (§ V) pel Sensi assai facile. Ne sono spia, oltre la
simiglianza del titolo, le aggiunte. Colpito dal ricorrere degli e e degli 0
nell'esemplificazione de' Fonti, e trattone a esagerare l'importanza, gli parve
fortuna ritrovare le due dissertazioni De lo e chiaro e fosco e De /'o chiaro e
fosco, e gli aggiunse nel cap. Della Differenza, nel mezzo dell'opera. Gli
altri, quasi tutti, rimasero inalterati. Al I cap.. Natura, furono aggiunte le
dissertazioncelle del Tolomei conservate nel ms. senese; 'qualsia miglior
parlar: fosse vero o fisse vero '; ' stetti non è per forma ripigliata da '
steli latino, ma è preterito disteso ': ' Propio esser il vero J 'ocabolo
toscano e non proprio '; ' De la figura agg ionia ' . Una breve giunta ebbe il
cap. Figura; quello della Frequenza le maggiori a spese del trattato delle
figure grammaticali, costituito di tre scritti (' Da Virtude, Virtù e da Salute
non Salù ': ' Che e se ricevono il primo corrodimene) '; 'Dopo se e che con il
e in si fa il corrodimento secondo '). Nella Conclusione mise il Proemio del
Tolomei, e, infine, la nota dichiarazione di riconoscenza! Lo scritto del Sensi
è di quelli che non lasciano adito a obiezioni e riserve: né è il caso, e tanto
meno qui, di valutare la confessione fatta dal Cittadini de' suoi debiti verso
il Tolomei Capilo/o nono 287 e richiamare alla mente le abitudini letterarie
del tempo (che permettevano, p. es., al Giolito di prendere il Cesano e
stamparlo senza chieder alcun permesso all'autore' per giudicare giuridicamente
e moralmente del plagio del Cittadini, il quale lece quel che fece. Si tratta
invece di vedere, .secondo noi, quel che mise di suo che qualcosa avrà pur
dovuto metterci nella manipolazione o nell'uso che fece negli scritti del
Tolomei, e di determinare il punto di vista donde elabori la manipolazione cioè
interpretarla nel suo valore nel rispetto del progresso dello spirito critico
che importa qui seguire; oltre, s'intende, alla considerazione di quanto potè
il Cittadini intellettualmente operare indipendentemente dall'opera del
Tolomei: si tratta, insomma, tenuto conto del plagio e del resto, di assegnare
al Cittadini il posto che gli compete in una storia come la nostra. Nessuno
intanto potrà contestare al Cittadini il merito, dirò con un apparente
paradosso, del suo stesso plagiare, che importa un apprezzamento della materia
plagiata: il conto fatto dal Cittadini delle idee e delle ricerche del Tolomei
è già un valore criticamente: non è solo l'aver rimesso in circolazione delle
conclusioni positive dimenticate e perciò nulle che costituisce il merito qui
abbiamo ancora il plagiario, ma aver dato loro un valore, aver cioè aggiunto ad
esse qualcosa di proprio. Ora questo merito non è venuto al Cittadini dal di
dentro delle verità stesse che gli si fecero innanzi: occorreva che egli avesse
in sé svolto una disposizione a comprenderle. Non bisogna qui dimenticare che
il Cittadini tutta codesta materia delle Origini aveva esposta per sei anni,
com'egli afferma nella dedica a Fabio Sergardi, nello Studio senese dalla
cattedra, sia pure, com'è facile supporre, desumendola fin d'allora e per
quell'uso dalle operette del Tolomei: vi era stato poi intorno nel tentare di
sistemarla sia pure meccanicamente, in un libi' n'avrà discusso, e se ne sarà
giovato nelle polemiche a cui prese parte: altro disse per conto proprio nel
dare, attenendosi anche qui al Tolomei, brevi caratteristiche di ciascuno degl'
idiomi toscani, nelle note alle Prose del Bembo, e alla Guaita del Castelvetro,
oltre che nell'altro breve Trattato degli articoli e di alcime altre particelle
della volgar lingua, che congiunse al maggior Trattato della zera origine. Non
solo, ma lesse e tradusse il De l'ulgari Eloquentia di Dante, che non è libro
certo 2ifo/o nono 2S9 portante non solo ne' riguardi dell'opera individuale del
Cittadini, sì anellidi tutta la stòria della filologia romanza anteriori', il
famoso plagiario era pervenuto quasi di primo acchito in quel primo de' suoi
trattati, quello Della vera origine, che nessuno finora ha dimostrato essere un
plagio. E se è vero che l'atteggiamento assunto dal Tolomei di fronte a codesto
problema, quale ci venne fatto di caratterizzare secondo gl'indizi 1 'flirtici
dal Tolomei stesso nei suoi scritti editi {Polito, in quel che contiene di suo,
Regole, Cesano, Lettere) dev'esser ora corretto secondo quanto risulta
dall'esame dell'operette inedite, nel senso che non permanga quello di chi non
abbia avuto vera coscienza dell'oggetto e della portata delle sue ricerche, è
anche vero che il Cittadini ci si mostra collocato dinanzi ad esso da un punto
di vista che direi più obiettivo, cioè a dire con più piena coscienza di quel
che sia il divenire linguistico nel suo ritmo e nelle sue leggi. E anche sotto
questo rispetto a noi pare che Cittadini rappresenti un reale progresso. Ma un
altro reale e maggiore progresso è, per noi, l'aver agitato il problema storico
della lingua in un momento in cui avveniva la finale codificazione
dell'osservazione grammaticale e la lingua era per cristallizzarsi nel
vocabolario: nel momento in cui l'uso degli scrittori fiorentini del Trecento
voleva essere imposto a tutta Italia. Egli, a differenza di quasi tutti i
senesi che propugnarono il senese col medesimo calore con cui i fiorentini
avevano propugnato il fiorentino, in piena concordia con sé stessi, non ebbe
prepotenti predilezioni municipali, ma come, quegli che aveva visto più
addentro nella formazione e nello sviluppo del linguaggio sotto il rispetto
esteriore, storico, mostrò d'intendere che allo scrittore dovesse esser
lasciata una maggiore libertà e non prescritto uno stampo determinato, e tanto
meno quello d'un particolar dialetto, persuaso che, come intitolava il § 3 del
lib. I della sua versione del trattato dantesco, il Parlar regolato vuol lungo
studio . Era un credo grammaticale questo, ma chi lo metta in relazione e con
lo spirito e lo sforzo della dottrina dantesca é coi convincimenti che si può
formare chi studia storicamente e non grammaticalmente la lingua, un credo
assai meno irragionale di quello che la comune grammatica normativa aveva
formulato, e veniva così a risolversi in un'opposizione a questa. Onde possiamo
concludere che, se nella pura storia della filologia neolatina in Italia, per
quanto si riferisce alla materia plagiata, al Cittadini non compete altro posto
che quello che l'esame indistruttibile del Sensi gli ha assegnato, mentre un
posto assai distinto gli va assegnato per la soluzione e per il più esatto
orientamento dato non solamente in termini generali al problema della
derivazione dell'italiano dal latino popolare, in una storia come la nostra ne
spetta al Cittadini uno ben altrimenti onorevole, quello di chi introduce nella
grammatica empirica un elemento conoscitivo e un criterio meglio che puramente
grammaticale. E certo è a lamentare che le condizioni critiche e letterarie
dell'età impedissero che il Cittadini avesse de' continuatori in questo
indirizzo non certo filosofico, ma storico e metodico da lui impresso alla
grammatica, riallacciando la bella tradizione iniziata dal Bruni e dal Biondo,
affermata con ricerche analitiche positive dal Tolomei, proseguita con molto
acume intuitivo dal Castelvetro. Invece, se uno studio in tutto il Seicento e
non in questo secolo soltanto fu trascurato, si fu appunto questo della grammatica
storica. E per converso quanto scarsi guadagni non solo dalle contese prese nel
loro insieme ("), che i senesi sostennero contro i maggiori avversari, i
fiorentini, ma da quelle intorno al vocabolario, benché non trascurabili come
segno d'una salutare ribellione al pedantismo e purismo grammaticale, e dalle
opere stesse de' grammatici, benché tra esse avremo da annoverarne di
abbastanza originali nel loro principio ispiratore, come quelle del Baratoli,
se il razionalismo non fosse venuto col veicolo della gramma- [Qualche
continuatore che facesse servire le idee del Cittadini a combatter la Crusca,
come vedremo, non mancò; ma fu azione di scarso valore. Un avversario della
Crusca, appunto, ne cantò l'elogio funebre: Orazione per l'esequie del dottor
Celso Cittadini recitata nelVAcc. de' Fi toma ti da Giulio Piccolomini, lettor
pubblico della toscana favella. In Siena, presso il Bonetti, 1628. (•) Tutta la
loro importanza è in questo, che, facendo esse sorgere a fianco del principio
fiorentinesco quale si fosse il suo valore storicamente parlando un altro
principio, quello del sanesismo, non meno arbitrario del primo rispetto alla
realtà del linguaggio, venivano implicitamente a corrodere l'uno e l'altro, o
almeno a sottoporli a una discussione, che è il virus della corruzione e quindi
del risanamento. Capitolo nono 291 tica di Poftoreale a scuotere il giogo
grammaticale che sarebbe sceso sul collo della nazione e se, per quanto
inascoltata e incompresa, la voce del Vico non si fosse levata contro l'empirismo
grammaticale, essa sola bastevole alla gloria d'un secolo e d'una nazione.
Poiché questo è da avvertire qui, che, mentre la produzione grammaticale
cinquecentesca, anche a non voler considerare i meriti suoi verso la scienza,
fu almeno spontanea e nacque dalla diffusa coscienza della importanza della
nuova letteratura e reca perciò in sé l'impressione spesso calda d'un fatto
nuovo che interessava grandemente l'anima italiana e d'un bisogno a cui
occorreva dare una qualsiasi soddisfazione, quella del Seicento fu in generale,
per quanto concerne specialmente le vere e proprie grammatiche, piuttosto
fredda, quasi direi di testa, di riflessione. Il prototipo ne fu per la parte
pratica il Buonmattei, che perciò ebbe più seguito di tutti i predecessori e
contemporanei, e distolse altri dal tentar cosa nuova o diversa. Il Buonmattei
pubblicò integralmente la sua grammatica nel 1643, ma l'aveva già tutta distesa
circa un ventennio avanti, quando n'ebbe pubblicato il primo libro, e
cominciata un trentennio prima, cioè quando usciva il Trattato del Pergamini.
Prima di questo anno, oltre il Turavano del Bargagli, le Considerazioni
tassoniane, un discorso del Politi, avemmo un'Arte di puntare di Iacopo Vit //
Turammo, ovvero del parlare e dello scrivere sauese, del cavaliere Scipione
Bargagli. In Siena, per Matteo Fiorini in Bianchi. Il Cittadini, come c'informa
anche il Lombardelli, vi è citato con molta lode si per la formatione, ò
piegatura de' verbi, sì per la maniera del proferire, e sì per la diversità non
piccola de' vocaboli, e delle forme del nostro parlare proprie, chiare, che si
rendono da quelle de' vicini, e degli strani belle, e distinte, sì anco per la
giocondità, ed utilità che di esse s'è udita seguitare . I fonti, p. 116. ')
Considerazioni sopra le Rime del Petrarca. Cfr. O. Baco, Le, ecc. Firenze.
Discorso di Lorenzo Salvi della vera denominazione della lingua volgare usata
da' buoni scrittori, in Le Lettere di Adriano Politi. In Roma, per Iacopo
Mascardi. Dimostra che si deve chiamar volgare, come fu chiamata dagli aurei
scrittori. Politi diede anche avvertimenti grammaticali nella [torio da
Spello), un Compendio grammaticale in forma eli lessico del Salici e una vera e
propria grammatichetta assai poco nota, Le regole per parlar bene nella lingua
toscana di Girolamo Buoninsegni. Del primo qui accade di dover dir poco, ma, in
compenso, quasi e in certo senso tutto in sua lode. E stato già osservato dal
D'Ovidio che egli superò tutti i compagni d'arme senesi (Bulgarini ,
Lombardelli, Benvoglienti , Cittadini) nell'audacia di un radicale concetto
d'autonomia, e, che in suon diverso dice lo stesso, [rispetto al primato
fiorentino, almeno nel fatto più o meno riconosciuto perfin dal Gigli, tra i
senesi così ribelle], solo Ini, il Bargagli, col pesante dialogo del Turammo,
sostenne, con tranquilla cortezza e con pieno accordo della teoria con la
pratica, che come in Grecia così in Toscana ciascuno scrivesse nella loquela
propria, senza impacciarsi nell' affettazione d'imitare l'altrui (p. 204): il
che giunta al suo Dizionario Toscano, scritto in opposizione alla Crusca,
stampato la prima volta nel 1614 e poi in Venezia per Andrea Babà, 1629: v.
Diz. Tose, di A. P. con la giunta di assaissime voci e avvertimenti necessari
per iscrivere perfettamente Toscano. In Venezia, appresso Giovanni Guerigli e
Francesco Bolzetta, 1615, II ed. Jì/odo di puntare le scritture volgari e
latine. In Perugia, per Vittorio Colombara, 1608. (-) Compendio d'utilissime
osserva/ioni nella lingua volgare di D. Gio. Andrea Salici di Como, di nuovo
ristampalo, ricorretto, et accresciuto dall' Autore. In Venezia, MDCVII, presso
Altobello Sali cato. In Siena. Gerini si maraviglia che ne tacciano il
Tiraboschi, lo Zeno, il Cinelli (Bibl. volante), il Morelli (Bibl. stor.-rag.
della Tose.), l'Inghirami (SI. d. Tose.). Domandò di supplire il Cittadini
nella cattedra senese (cfr. Archivio Mediceo, Gov. di Siena, filza, 1942, cit.
dal Gerini). Il Casotti nella Vita del Buonmattei accenna a un Tommaso
Buoninsegni. B., per occasione di considerare V Inf., il Purg. e il Par. di D.
e di difender sé stesso, o di censurar certi, che l'oppugnavano, esamina varie
cose, attenenti a questa lingua, con ben intesi discorsi . Lombardelli, /
fonti, p. 51. Criticato dallo Zoppio si difese da sé e fu difeso dal Borghesi.
Considerazioni, Repliche alle risposte del sig. Orazio Capponi, Risposta ai
ragionamenti del sig. Peroni n/o Zoppio. Opuscoli diversi sopra la lingua
italiana, raccolti da F. Idelfonso di S. Luigi, Firenze, 1771. Capitolo nono
293 nel sentimento comune è manifesto e grossolano errore. Noi siamo
naturalmente di diversissimo, se non opposto, avviso, né il sorriso che vediamo
spuntar sul labbro de' più, ci trattiene dall' apertamente affermare che nel
pensiero del Bargagli questo vidi errato, che si dia forma di precetto a ciò
che è invece un fatto. Tutti scriviamo nella loquela che ci è propria, cioè in
quella che la nostra educazione e la nostra cultura ci hanno formato, o meglio
quella che con esse s'è formata in noi: chi fa altrimenti, fa male e cade
appunto nell'affettazione: il danno sorge quando dell'osservazione d'un fatto
se ne fa una norma più o meno arbitraria. Il Bargagli, lungi dall'essere il più
paradossale, fu il più logico di tutti, in quanto sostenne quel che sostenne:
solo non doveva appunto cavar da un'osservazione di fatto una legge, intendendo
per loquela propria il nostro particolar dialetto nel senso stretto e angusto
della parola. Pel resto, il suo principio affermato appunto in tutta la sua
crudezza e assolutezza era, nel fondo, il risultato della profonda ribellione
che egli sentiva per la grammatica, ma che non si rendeva ben chiara a sé
stesso e ragionava e propugnava da un punto di vista empirico e però di scarsa
portata filosofica. Ai medesimi principi del Bargagli giungeva un anno dopo per
diversa via e senza intenzione certo di copiarlo, un altro suo concittadino, il
Politi, in quello de' due suoi discorsi sulla lingua che serve d'introduzione
al suo TACITO (si veda) tradotto e nel suo Dizionario Toscano. Infatti egli, come
anche si rileva da una lettera del Pergamini che lo Zeno, correggendo il
Fontanini, dice riferirsi a questo non già all'altro suo Discorso, dove solo
parla, sotto lo pseudonimo di Lorenzo Salvi, della vera denominazione della
lingua volgare usata da' óuoni scrittori, vi sostiene doversi: 1" scrivere
alla Sanese senza obbligarsi ai fiorentini; 2" accomodarsi all' idioma
della sua patria e all'uso comune regolato però dal giudizio. E poiché non
approvava il gergo della traduzione del Davanzati, in fine alla propria mise la
dichiarazione delle voci meno intese e vi sostituì le comuni: un dizionarietto,
dunque, sanese-italiano. Un altro letterato di certo libere vedute, il Tassoni,
che incontriamo spesso in tutta la prima metà del sec. XVII e che qui si presenta
per le Considerazioni sulle Rime del Petrarca, interessa più la storia della
poetica che non quella della grammatica. Lo ritroveremo oppugnatore
dell'Accademia nell'opera 294 Storia della Grammatica concreta del Vocabolario
, come in esse Considerazioni lo vediamo schernire la Fabbrica dell'Alunno, che
dice costruita di mattoni malcotti. In complesso, per le sue spicciolate
osservazioni grammaticali disseminate qua e là un po' da per tutto, egli ci si
manifesta non troppo tenero amico della grammatica. Di che dobbiamo
contentarci. Di Iacopo Vittorio di Spello e Girolamo Buoninsegni che diedero
opera alla grammatica propriamente precettiva e didattica, basti aver ricordato
il nome, e così del Salici, il quale di sé stesso dice che con quella chiarezza,
e brevità e' ha potuto maggiore è andato discrivendo l'alterationi, i vari
sensi, le radduplicationi, che patiscono le lettere dell'Alfabeto, così l'uso
de' pronomi, delle prepositioni, e de gli avverbi, il tutto comprobando con
autorità de' più classici scrittori, che scritto habbiano in lingua Italiana, o
Toscana, che diciamo ('"). Meglio che con questi trattatelli, ritorniamo
nel dominio della vera grammatica precettiva con Jacopo Pergamini di
Fossombrone. La grammatica (s) del Perganini, il noto compilatore del [Le
Atinotazioni sopra il vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, 169S,
ormai è noto che .non sono del Tassoni, ma dell'OTTONELLi, che fu grammatico
celebrato a' suoi tempi da quanto il Bembo. Perduti sono i suoi quattro libri
di ragionamenti in difesa del Tasso; degli Arringhi abbreviati per lo
vocabolario della Crusca resta qualche frammento; e restano anche alcune
postille al Pergamini nell'Estense. Un esemplare del Voc. della Crusca si trova
all'Est. postillato di mano del Tassoni, che scrisse di lingua anche ne
Pensieri diversi. E un misto di grammatica, di ortografia, di sinonimia e
doppioni, d'etimologia, disposto in ordine alfabetico. Sulle due facce nel
margine superiore del libretto è perpetuamente ripetuto Ortografia volgare. Ma
l'ordine alfabetico non vi è per nulla rispettato, e il criterio etimologico
de' vari raggruppamenti è troppo balordo per prenderlo sul serio. Sotto
Posporre, p. es., troviamo, ma non questo soltanto. Possa, Possessione,
Pozzuoli, Prestezza, Prezzemolo, Procaccio, Processione, Prossimo, Pulcella,
Pupillo, Puzza. (3) Trattato della lingua del signor Pergamini di Fossombrone,
nel quale con una piena, e distinta Instruttione si dichiarano tutte le Regole,
i Fondamenti della Favella Italiana. In Venetia, presso Ciotti; e in Venezia,
per Niccolò Pezzana, 1664. Tra questi limiti estremi, si ebbero altre edizioni:
quella del 17 qui appresso accennata con un Supplimento di voci d'autori
moderni, fatta per consiglio del Politi, la terza del 1657 con un'altra Aggiunta
di mille e più voci tratta da celebri autori contemporanei, opera di Paolo
Abriani. ( 'aditolo nono 295 Memoriale della lingua (' ), è un primo tentativo
di ridurre a metodo per uso scolastieo ilei principianti le più ampie e e
spesso farraginose trattazioni precedenti. Si divide in tre parti, suoni, parti
del discorso, accenti e punti, e conserva su per giù le medesime categorie,
tranne che tra le parti ' invariabili ' dell'Oratione include una classe di
'Particelle' che si usano solo per vaghezza, et ornamento senz'altro
significato: delle quali alcune servono per principio di ragionare: altre si
pongono per entro il ragionamento come Egli, E', Bene, Hor, Ne, Ci, Si . Del
nessun interesse per la funzione logica delle categorie può esser prova anche
quel che dice del gerundio: E lasciando da parte il motivo, che fanno alcuni,
se gerondio sia parte formale dell'oratione, o più tosto membro del Partecipio:
il che per mio credere, monta poco, o niente. Dico prima, ch'ogni Verbo ha
ordinariame?ite il suo Gerundio; e di rado, o non mai n'è senza . Meglio ancora
appare dalle definizioni: La quarta Parte principale dell'oratione è il Verbo,
il quale congiunto co'l Nome fa il parlare intero, gli Accidenti del Quale sono
Genere: Tempo: Modo: Numero: Persona: e Maniera . Insomma è conservato tutto lo
schematismo, ma ridotto a semplici e nudi cartellini per raggrupparvi le forme,
delle quali peraltro non si da più che l'esempio. Il metodo, infine, è inteso
proprio alla rovescia: il proposito di semplificare la trattazione, rendere il
libro facile e di pronto uso conduce l'autore non già a cercare una razionale
disposizione della materia, ma ad ammucchiare i fatti con procedimento del
tutto meccanico, a portare il vocabolario nella grammatica. Parlando, p. es.,
della Vocale A, osserva che è ' fine ordinario delle voci femminili nel numero
del meno ', segno del caso Terzo, e Quarto del Nome, e del Numero del meno:
segnato hor coli' Accento Grave; hora [Venezia, Ciotti, 1601. Questo Memoriale
ebbe una certa fortuna. E consigliato da G. V. Gravina in Regolamento degli
studi di nob. e vai. donna nella Nuova race, Napoli; TIRABOSCHI (si veda) lo
dice il migliore di quanti ne furon pubblicati nel sec. XVI, benché uscito in
luce nel 1601. Sul Pergamini, Ferruccio Benini, La vita e le opere di Giacomo
Pergamini con scritti inediti [postille al yJ/razio?ii e il discorso. Par qui
giustificare la Declinai, de' Verbi del Buonmattei che il Dati accolse nella
prima ediz. e a cui, nella seconda, fece seguire la declinazione de' Verl>i
anomali.] tedre di lingua toscana, destinandovi Professori di vaglia, e di
abilità conosciuta. I buoni scrittori toscani di questi ultimi tempi, come
oltre allo stesso Dati, il Redi, il Segneri, il Buonaroti, i due Salvini, e
parecchi altri, han conosciuta questa verità, e se ne sono approfittati
confessando che non basta il nascimento a voler scrivere purgatamente, ma che
bisogna aggiungervi studio e fatica . E per la preminenza del volgare sul
latino asserita dal Dati secondo il Fontanini, lo Zeno aggiungeva: Il Dati non
mette ne troppo né molto la lingua volgare sopra la latina per via di sofismi;
ma solamente dice che in questa scriveremo sempre imperfettamente con tutto che
ci durassimo grandissima fatica, e che in quella, cioè nella volgare, si
arriverà facilmente alla perfezione (pp. 130-1). Anche qui, oltre quella
coscienza della letteratura nazionale cui più volte alludemmo, si sente appunto
l'eco delle Battaglie del Muzio in difesa della italiana lingua contro i
caldeggiatori del latino, che pare non si sentissero del tutto debellati, se
osavano ancora, come indirettamente il Fontanini, rialzare il capo. Ma nella
necessità dello studio e delle regole il Fontanini e lo Zeno concordavano, e
con essi tutti i vincolati in un modo o in un altro all'Accademia, la quale
appunto, non solamente con l'opera concreta del Vocabolario reggeva o credeva
di, reggere i freni degli scrittori, ma con l'autorità morale che le veniva
dalla sua stessa compagine, dalla funzione che in tempi accademici si svolgeva
con il rispetto è l'ammirazione de' più, e ancora dall'appoggio del governo
granducale. Il ristamparsi de' discorsi in cui si sosteneva la necessità delle
regole è altro indizio della fede che esse riscotevano. Le Osservazioni dello
Strozzi, incorporate nella raccolta del Dati e ricomparse nella seconda
edizione d' esse, vedevano la luce anche separatamente, come s'è visto: l'
istesso discorso del Dati fu stampat o almeno tre volte. E l'aver accolto nella
seconda edizione la Declinazione de' verbi anomali del Buonmattei e la
Costruzione irregolare del Menzini e un discorso del medesimo sopra le figure
grammaticali (pleonasmo, ellissi, zeumma, iperbato, ecc.); insomma quanto
sapeva d'irregolare, che veniva poi giustificato con criteri rettoria e
l'autorità degli scrittori, conferma gli scopi di questa nuova campagna che il
Dati, nell'ambito dell'azione della Crusca, tenacemente batteva. Ma con eguale
e forse con maggiore baldanza combattevano gli avversari, e segnatamente il
Bartoli, proclamando il Capitolo undicesimo 339 principio dell' indipendenza
individuale in relazione al buon gusto, la nuova parola che s'era fatta strada,
segnacolo d'una tendenza molto significativa. L'editore del 1709 delle
Osservazioni del Cinonio giustifica il poco spaccio della prima edizione d'
esse COIl la decadenza del buon gusto, e la ricerea che poi se ne lece verso il
1659, quando le iurono nuovamente ristampate, col risveglio di esso buon gusto.
Destandosi però di quando in quando l'intorpidito Buon gusto, andavasi cercando
quest'opera e se ne vide nel 1659 la più attesa divulgazione. Nel 1655, come
avvertimmo, uscivano CL Osse?-vazioni del p. Daniello Bartoli, cresciute nel 57
a CLXXV, nel 68 (*) a CCLXX, e, dopo altre ristampe, ripubblicate (:) con
copiose osservazioni di Niccolò Amenta, che muove al Bartoli molte eccezioni, e
poi del Cito, nipote dell' Amenta, che ne rincara la dse (;!). Il libro, dice
D'Ovidio, non è che un'argutissima e dotta polemica grammaticale e lessicale
contro i divieti capricciosi de' linguai, né tocca la questione generale [della
lingua] se non in quanto, sottintendendo il primato toscano ma badando
piuttosto alla tradizione letteraria, loda e compie la Crusca . Ma pare per lo
meno che quello del Bartoli fosse un ben curioso modo di lodare e di compire la
Crusca. Già, chi erano ormai que' linguai contro i cui capricciosi divieti
argutamente e dottamente polemizzava il Bartoli, se non accademici della Crusca
o cruscanti? Poi, che rimanevan più il primato toscano e la tradizione
letteraria, ammessi pure e rispettati dal Bartoli, d'accordo in questo, ma in
questo solo con la Crusca, cioè in un riconoscimento a parole, quando, non solo
si sarebbe dovuto ammettere con lui che // Torto, e '/ Diritto del ?ion si può,
dato in giudizio sopra molte regole della lingua italiana, esaminato da
Ferrante Longobardi. In Roma, per lo Varese, 1668, 8". Il Bartoli si
difese con Y Apologia. In Napoli, per Antonio Abri, 171 7. (3) // torto e '/
diritto del non si può, dato in giudizio sopra moltiregole della lingua
italiana esaminato da Ferrante Longobardi cioè da P. I). B. Colle osservazioni
del sig. Niccolò Amenta, e con altre annotazioni dell'ab. sig. \). Gius. Cito.
Aw. Napoletano. In Napoli, 1728, a spese di Niccolò Rispoli, e di Felice Mosca.
Voli. 3. 34° Storia della Grammatica anche i migliori trecentisti scrissero non
di rado fuori di regola , e che era dunque stolta baldanza il censurar vocaboli
e locuzioni sol perchè non approvati dall' autorità degli scrittori del buon
secolo, cioè a dire della Crusca; che i non Toscani avrebbero meglio provveduto
a sé stessi col latineggiare un po' di più, anziché ostentare idiotismi
d'accatto, che era un allontanarsi dal codice dell'Accademia; ma si fosse anche
dovuto riconoscere con lui che un principio onde regolare bene il parlare non
esisteva: non le decisioni de' grammatici, non l'uso del popolo o de' più
eletti, non l'autorità degli scrittori, non la prerogativa del tempo, non
l'etimologia, non l'analogia... esser veri principii, ma or l'uno or l'altro di
questi principi aver forza, ma più di tutti l'arbitrio dello scrittore?! Meno
inesattamente lo Zambaldi così ebbe a parlare de' due libri del Bartoli, che,
per il loro contenuto più ristretto all'ortografia, non perdono valore di
fronte ai principi generali linguistici e grammaticali: Press'a poco le stesse
idee [degli oppositori Toscani] furono sostenute nel sec. seguente da Daniello
Bartoli in quel libro singolare che s' intitola il Torto e il Diritto del non
si può, dove in mezzo a molti paradossi trovi gran libertà di giudizio e mirabile
erudizione. Egli ordinò poi la sua dottrina nel Trattato dell' Ortografia (1),
dove dice che questa deve seguire tre principi: V autorità, la ragione, Yuso.
Ma essendo spesse volte questi principi in contradizione l' uno con l'altro, lo
scrittore dovrà usare il suo giudizio, e talvolta anche l'arbitrio.... Il
Bartoli, nel combattere il dominio assoluto della pronunzia toscana e certe
regole troppo esclusive della Crusca, ebbe forse l'intuizione vaga e confusa
d'un principio vero; ma non seppe trovare i giusti limiti fra il regno dell'uso
e quello dell'etimologia, né dare stabile fondamento all'uno e all'altro. DclP
ortografia italiana trattato del P. D. B. In Roma, per Ignazio de' Lazzeri,
1670. Questo trattato fu ristampato più volte anche in tempi vicini a noi: p.
es., a Milano, per Giovanni Silvestri, e Reggio, Torreggiani. Il Foffano, op.
cit., p. 303, ricorda che non si ha più notizia dell'operetta disegnata dal
Bartoli, delle proprietà o per così dire passioni di ' z, ibi, cit. nell'
Apologia, p. 18. Capi/o/o undicesimi) 341 A noi quest' insufficienza riesce
meno condannevole di quanto sia sembrato e possa ad altri sembrare. Il Bartori
era quello che oggi si chiamerebbe uno stilista, un affine a Annunzio
descrittore: uno scrittore insomma di quelli che esauriscono tutta la vitalità
del loro pensiero nella tranquilla, olimpica contemplazione degli oggetti
esteriori, moltiplicandosi il godimento e il diletto con l'accarezzare
minutamente le proprie immagini, le risonanze varie che essi stessi si sono destati
nell'anima. Per siffatti scrittori la forma è più che mai tutto ciò che
l'interi è essa per se la sostanza dell'arte loro. E naturale che siffatti
scrittori sdegnino più d'ogni altro il treno delle regole e proclamino la
indipendenza assoluta del loro giudizio, o, meglio, la necessità dell'arbitrio.
L'arbitrio per essi è la libertà. Nel fatto tutti i veramente scrittori hanno
sentito e praticato un tale principio, perchè questa è la natura dell'arte,
checche dicano le poetiche. Ma dai temperamenti artistici, a cui alludevamo, è
maggiormente sentito il bisogno di regolarsi nell'espressione esteriore secondo
il tumultuare e il fluttuare interno delle immagini, delle armonie, dei colori.
E arbitrario e tirannico oltre che inutile è il chiedere ad essi, come per
un'altra simile questione ho osservato, che si tengano alle norme in cui i
grammatici e l'uso moderno ormai convengono: essi andranno sempre per la loro
strada, indulgendo al loro genio: anche quella che in loro è evidentemente
ricerca dell'effetto stilistico formale, è in fondo un'attività che ha radice
nel loro particolare atteggiamento artistico. La loro grammatica è la loro
natura artistica : regolarsi secondo detta dentro, caso per caso: c'è chi si
forma un suo sistema particolare al quale strettamente s'attiene, perchè non
solo non gl'impedisee la libera estrinsecazione delle sue forme interiori, ma
corrisponde sì pienamente ad esse che il non seguirlo sarebbe farsi violenza:
Annunzio è di questi. C'è chi si fa un sistema del non seguirne alcuno per
lasciarsi trasportare in ogni singolo problema formale dalle esigenze del
momento, sicché l'attenersi a una regola per quanto liberamente impostasi
sarebbe un violentarsi, e di questi è il Bartoli. Il quale mi par che abbia
formulato l'unico principio didattico che possa conciliarsi con la libertà e
l'indipendenza dell'arte, che non ne tollera alcuno: principio che viene a
concordanza piena con quanto scaturisce d' insegnamento per la pratica e
l'esercizio dello scrivere da una recente polemica sull'Idioma gentile del De
Amicis. A chi obiettava recentemente al Croce che la sua tesi circa i precetti,
illustrati dal De Amicis nel suo libro, per l'apprendimento delle lingue e
l'arte dello scrivere, sarebbe stata la più gradita ai discepoli, perchè li dispensava
da qualsiasi studio, il Croce, tra le maraviglie di chi non riusciva a vedere
come si potesse accordare con la teoria l'utilità di una pratica che in teoria
non è giustificata, rispondeva affermando l'utilità dell'esercizio pratico e
pienamente giustificando la comodità dell'empirismo . Ora il Bartoli nella
prefa,2Ìone al suo Trattato del? ortografia, con acutezza e precisione
veramente sorprendenti e in tutto degne d'una veduta estetica superiore,
scriveva: Né niun v'è, il quale, per quantunque professi e vanti di tenersi
strettissimo alle osservanze dello scrivere regolato, di parecchie maniere che
userà, possa allegare altra più vera cagione che il così parergli, e così
aggradirgli; e chi più studierà in questa professione, ogni dì meglio intenderà
non potersene altrimenti. Dal che due cose a me par che ne sieguano: l'ima, che
mal si farebbe, riprovando in altrui quel che si vuol lecito a sé stesso:
l'altra, che v' ha due strade possibili a tenersi, da chi ama, non solamente di
scrivere regolato, ma sufficientemente difeso; cioè: Dare una volta quanto è
bisogno di studio a comprendere interamente la materia, e tutte averne davanti
le necessità e gli arbitri, le diversità e le somiglianze, le strettezze e le
larghezze, i perchè a gli usi, così moderni, come antichi: in somma quanto
(fino a una conveniente misura) può dirsene e sapersi: e così INFORMATO SENZA
PIÙ CHE SÉ STESSO, E IL SUO BUON GIUDICIO seco, farsi da sé medesimo un dettato
d'ortografia, secondo il saviamente partitogli più convenevole ad usarsi, e più
sicuro a darne, bisognando, ragione a chi ne l'addimandasse. E a questo intendo
io che abbia a servire {se può bastare a tanto) il presente Trattato. L'altra
via è [ma questa non è da lui evidentemente preferita, anzi il modo stesso con
cui l'enuncia par tirare a metterla (piasi in ridicolo], del non prendersi
maggior noia e fatica che di leggere, e far sue le regole che questo o
quell'altro buon maestro in professione di lingua avrà dettate; e fon esse in
mano, seguitarlo a chiusi occhi. E se altri l'addimandasse del Croce in La
Critica, IV, S9 sgg., e Y, 71 sgg. I V. anche del Crock, // padrone g giumento
della Scenica, in La Critica. perchè) ili qual che sia particolarità del suo
scrivere, soddisfare a tutto con quella sola e universale risposta che è
l'antichissimo Ipse dixit. Ma questo non dovrà mica voler più avanti che uso
proprio: non per ardirsi a far dell'arbitro, e diffinitore del Così va riè si
de' altrimenti; non sapendo non che le cagioni dellWtrimentì che può, e per
avventura dee farsi, ma né pure il perchè dee così far egli, se non il così far
ch'egli siegue; come appresso Dante le pecorelle, (piando escon del chiuso, E
ciò che fa la prima, e l'altre tanno, Addossandosi a lei s'ella s'arresta
Semplici e chete, E lo perchì-: non sanno . In tutto questo discorso mi par che
questo pensiero si rilevi chiaramente: si studi la grammatica e si facciano
esercizi grammaticali, ma, poi, nell'espressione non se tenga alcun conto,
lasciando piena libertà al proprio buon genio. Il che ha una portata maggiore,
filosoficamente parlando, di quel che gli sia stata fin epti riconosciuta,
benché il Bartoli non muova da un determinato sistema: era il buon senso dello
scrittore che lo rendeva ribelle alle regole, e il suo gusto particolare:
sicché egli, e per questa ribellione e per la motivazione, rappresenta un
progresso perfino sulla dottrina che seguirono il Buonmattei e il Cinonio.
Questi parlavano di ragione: egli affermava l'esigenza del gusto, accordandosi
così ai tempi, ne' quali appunto si veniva scoprendo un'altra facoltà diversa
dalla ragione, che presiedeva alla produzione dell'arte: la fantasia: non era
certamente ancora la scienza: era il lievito che la veniva fermentando. La
dottrina del Bartoli aveva in sé un po' di questo lievito: e questo è il suo
merito principale (?). E lievito è anche quel curioso libro del Vincenti che s'
intitola 7/ ' ne quid nimis' della lingua volgare nelle Regole più praticabili
e principali: ( !) dove, tra tante bizzarrie e anche balordaggini specie nella
motivazione della sua indifferenza per l'uso di questa o quella parola
sostanzialmente identica, si pro Milano, per Giovanni Silvestri. Croce, Est.
Storia;, III, p. 209. opera non volgare, Roma, per [gnatio de Laz, nel 1665.
Cfr. C. Trabalza, Un curioso criterio stilistico d'un grammatico secentista, in
Sludi e Profili, Torino, 1903, p. Sr sgg. 344 Storia del/a Grammatica pugna un
concetto di indipendenza dalle strettezze della grammatica pedantesca. Una ben
curiosa apparizione moveva ancora contro la lingua fiorentina come già nel
Cinquecento con Mario d'Aretio dalla Sicilia, dove la tradizione del primato
poetico dugentesco è durata si può dir sino a ieri nella coscienza di
grammatici e critici: vedremo, del 1836, una Glottopedia italo-sicida o
grammatica italiana dialettica: ora, dunque, cioè nel 1660, Antonino Merello e
Pio Mora in un Discorso che fa la lingua Vulgate dove si vede il suo nascimento
essere siciliano facevano che la lingua siciliana, vedendo svaleggiata la sua
cittadinanza da' fiorentini, che Toscana, s'appellano (p. 5), insorgesse contro
la vana petolanza della Toscaneria, eccitando i siciliani a non starsene
neghittosi. E due anni dopo in un nuovo Discorso dove si mostra che la Sicilia
sia stata Madre non solo dello scrivere, e poetare, ma anco della lingua
volgare^, dicevano : Eche habbia la lingua volgare gran parte della lingua
greca, leggete il Discorso di Ascanio Persio, e negavano all'Allacci che la
Sicilia sia stata solamente genetrice del rimare e poetare. Più rispettoso
verso la Crusca par mostrarsi lo Sforza Pallavicino, a cui dobbiamo alcuni
Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua italiana, dati in luce dal
p. Francesco Rainaldi della Compagnia di Gesù (!) nel 1661 e più volte ristam i
Messina, 1660, per Paolo Bonacata. ! In Cosenza, per Gio: Battista Mojo e Gio:
Battista Rossi, M DC LXII. In questo oltre li Osservanti dell'Aretio, si cita
un D iscorso che la Ungila italiana hebbe nella Sicilia il suo nascimento di
Francesco Pio. Il FOFFANO, attingendo al Mongitore, ricorda un 7)iseorso di
Luigi La Farina, in cui si prova la lingua siciliana esser madre dell'italiana,
dove anche è citato un BRUMALDI (Montalbani), che ne iscorso che la Ungila
italiana hebbe nella Sicilia il suo nascimento di Francesco Pio. Il FOFFANO,
attingendo al Mongitore, ricorda un 7)iseorso di Luigi La Farina, in cui si
prova la lingua siciliana esser madre dell'italiana , op. cit., p. 299, dove
anche è citato un BRUMALDI (Ovidio Montalbani), che ne l suo Vocabolista
bolognese (Bologna, 1660) pretese dimostrare che il dialetto di Bologna è da
considerarsi come la madre lingua d'Italia . Nel 500 aveva inneggiato
l'Achillini a codesto dialetto. Che ogni scrittore illustrar dee l'idioma
nativo et anche arricchirlo con alcune forme giudiziosamente portate dal latino,
volle provare G. F. BoNOMl, Bologna, i6Sr. 1 i In Roma, per lo Varese, 1661;
per Ignazio de' Lazzeri, 1675; in Roma et in Perugia, per gli Eredi di
Sebastiano Zentrini, 1674 (ediz. che ho sott'occhioj. L'originale del
Pallavicini è nel Cod. marciano, CLXXVI (Catal.] pati, pochi (sono in tutti
121), invero, ma non senza traccia di quel saporifilosofico che fa del noto
cardinale un partecipe di quel presentimento critico del sec. XVII a cui, anche
poco sopra, abbiamo accennato. Più rispettoso, abbiam detto; ma anch'egli, come
il Bartoli e il Vincenti, non conosce leggi grammaticali assolute. Le sue
osserva/ioni empiriche non sono mai infondate: egli sa osservare che in alcune
voci la pronunzia fiorentina è diversa da quella del rimanente della Toscana e
dell'Italia; come in dire Abate, Ujìzio, Roba, con le consonanti semplici:
Immagine, Innalzare, Ovvidio, con le raddoppiate. In questi e simili casi non
sarà degno di riprensione chi seguirà o l'una 0 l'altra maniera (p. 46).
Didatticamente, segue un principio molto ragionevole e discreto. Col nome
d'errori dunque intendo quelli, che si scostano dall'uso ordinario degli
scrittori buoni, e pregiati per politezza di lingua. Tacerò le ragioni, 0 solo
talvolta ne darò un cenno: però eh' elle sono difficili ad apprendersi, e
vagliono solo al sapere: là dove i nudi insegnamenti s' imparano con agevolezza
e bastano per operare (pp.3-4). Ma gli avvertimenti caratteristici son quelli
onde si chiude il volumetto. Conchiuderò con due brevi avvertimenti. L'uno è,
che questi contenuti nel presente Capitolo sono più tosto consigli che
precetti: Onde meriterà lode chi gli osserva; ma non biasimo chiunque in
picciola parte se ne allontana. L'altro è, che in questa, come in tutte le
arti, ninna regola è sufficiente se non maneggiata e posta in uso a guisa di
mero istrumento dal giudicio, il quale solo è /'Architetto di tutte le opere.
Ognun vede coma il fondamento di questa conclusiva sentenza è nel sistema
filosofico che mette il Pallavicino in un posto non disonorevole nella storia
dell'estetica, come quello che affrancava la fantasia dall' intellettualismo,
benché la identificasse poi col sensualismo marinesco , e, in ogni modo, l'arte
dalle regole. Croce, Estetica. Accanto agli Avvertimenti dello Sforza
Pallavicino registriamo alcune altre simili operette. Le prime lince o Lezioni
della lingua italiana per regolarne il disegno ai suoi signori scolari
concentrate dal maestro di lingua Gio: Pietro Erico rivelano se non una certa
ingegnosità, una certa smania di voler far entrar in modo facile la grammatica
nella testa degli scolari. Vi si fa largo uso dei paradigmi; gli elementi
(vocali e consonanti sono raggruppate in più modi per 346 Storia della
Grammatica Dietro l'esempio del Bartoli per oltre un cinquantennio, più spesso contro
la Crusca che in favore, e sempre in consonanza col movimento linguistico a cui
aveva dato impulso il Vocabolario, si misero a compilare grossi e piccoli
zibaldoni specialmente d'indole ortografica, a stendere dissertazioni, lezioni
e dialoghi, a postillare raccolte maggiori, e in connessione con l'ortografia a
trattar di pronunzia e di prosodia , specie della agevolar la pronunzia);
avverbi, modi avverbiali, congiunzióni, intergettioni, preposizioni sono
ammariniti per elenchi; il nome vi è trattato ancora secondo la qualità, il
numero, il caso, la figura, la motione; i verbi son dati in tavole; vi si
additano esercizi per la concordanza. (Si debbono all'Erico anche: Generis
humanae linguae, Venetiis, 1697 e Renatum e 'Mysterio principiiun phiiologicum,
Patavii. Sono state ricordate qualche volta le Osservazioni della lingua
volgare di Pio Rossi, Piacenza, e la Pratlica, e compendiosa istruzzione a'
principianti circa l'uso emendato, et elegante della lingua italiana del
RoGACCl. In appendice agli Avvisi di Parnaso ai poeti toschi, Venezia, s. a.,
Marcantonio Nali, dette un trattato sulla dieresi, sulla sineresi, sui
dittonghi, e sull'accento; Loreto Mattei (il noto poeta vernacolo reatino), una
Teorica del Verso volgare, e Prattica di retta pronunzia, in Venezia, per
Girolamo Albrizzi.(Neil' Apologia della z cita una Neogrammalogia di un
Anonimo, dove si proponeva il segno dell'.? per lo z aspro (fortezza, bellezza)
per distinguerlo dal suono di: in donzella, grazia, amazzone. Nella lezione La
lingua toscana in bilancia con la latina il Mattei pone la prima superiore alla
seconda). In questo campo il libro classico è la Prosodia italiana ovvero
l'arte con l' uso degli accenti nella volgar favella d'Italia, accordati dal
padre Placido Spadafora, palerm. della Comp. d. G., colla Giunta di tre brevi
trattati: l'uno della Zeta, e sue varietà: l'altro dell', verbo sost.,
apposizione = ellissi del verbo sost., preposiz., avverbi, congiunz., pronome,
intercezione, intere sentenze, che se il loia, dello zeuma, falsa zeuma,
.sillessi, trasposizione, iperbato, anastrofe, tniesi, parentesi, e
sinchisi.]anzi ultrapurista, per dirla col suo recente biografo , ma, mutati
gli abiti mentali e slargato il suo orizzonte anelie per effetto delle lingue
apprese ne' suoi viaggi all'estero, fini quasi ribelle. Scienziato, filosofo e
teologo, erudito, novellatore e poeta, epistolografo, quale accademico della
Crusca attese a studi linguistici diversi, di spoglio, d'etimologia,
d'ortografia, di cui introdusse qualche novità anche ne' suoi scritti (ò, ài, à
per ho, hai. ha, secondo l'antica proposta del Tolomei); ma precettista di
grammatica non fu. A noi basterà caratterizzar tutta la sua operosità
grammaticale, osservando che egli non si peritò d'accogliere voci straniere,
che fu anzi uno de' primi neologisti, e riferendo quel che nel 1677 scriveva al
Bassetti circa la compilazione del Vocabolario: tutto l'arricchimento maggiore,
che si pensa dare a quest'opera è il rifrustar manoscritti antichi, e aggiunger
voci Ora io non vorrei che ci trafilassimo a cavar fuori e a spiegar voci, che
in questo secolo non accaderà che un uomo l'oda nominare una sola volta in vita
sua, e trascurassimo quelle, che occorrono in ogni discorso e che mal usurpate
rendono chi le dice ridicolo ('"). Voi mettete , tornava a ripetergli, in
questo vocabolario voci antiche, voci rancide. voci disusate, voci, che son
ridicole a voi medesimi, e poi, non distinguendole dalle buone, ci date
mescolate la crusca, o piuttosto le reste e la paglia istessa, con la farina .
A base di quest'osservazione è sempre la vieta concezione del linguaggio; ma
questo bollar di ridicolo le voci rancide e chi le adopera, indica per lo meno
la coscienza della contradizione tra parola vecchia e idea nuova, un sentimento
insoddisfatto dell'unità dell'espressione, un segno, in ogni modo, di salutare
reazione. Nel raccomandare alla risorta Accademia di aprir le porte al Tasso;
di mettere de' contrassegni alle voci arcaiche, alle non comuni, alle plebee: e
di esser meno difettosa nell'accogliere le buone voci forestiere (:i),
invidiando alle altre nazioni l'uso vivo della lingua, precorreva il Manzoni.
Fu pertanto considerato, come egli stesso confessava, per corruttore della
severa onestà de' Stefano Fermi, Lorenzo Dlagatotti scienziato e letterato (
Studio biografico bibliografico critico con ritratto, Firenze, 1903, p. 171.
Leti, fam.., t. II, p. 68, in Fermi. Ovidio] nostri antichi : ma non così
largamente che dal Panciatichi, residente nel 1671 a Parigi, non fosse invitato
sebbene inutilmente a prender le difese di nostra lingua contro gli attacchi
famosi del Bouhours, che trovò in Italia il suo avversario nel Conti. Più
importante di quella del Magalotti e de' comuni consoci è forse l'opera d'uno
de' due Salvini, Anton Maria: a Savino, dobbiamo, tra l'altro, la prima storia
dell'Accademia ('"): storia, si dica subito, che dimostra l'importanza che
l'Istituto famoso aveva ormai acquistato, ma, anche, la chiusura d'un periodo
d'attività che aveva fatto il suo tempo e non rispondeva più ai nuovi tempi.
Salvini è purista dello stampo del Dati, suo antecessore, di cui cita con lode
il ricordato discorso siili' Obbligo di ben parlare la propria lingua; fu,
direi, l'incarnazione de' principi che prevalsero in questo tempo nelV
Accademia; fu il perfetto accademico; anche i modi della sua attività
letteraria contraddistinguono il carattere della sua mente: fu oratore
accademico e postillatore: le Prose toscane e i Discorsi accademici offrono una
buona parte di quell'attività; ma è altrettanto considerevole la materia
trattata da lui nelle annotazioni a opere e libri famosi : il Malmantile del
Lippi, la Piera e la Tancia del Buonarroti, la Perfetta poesia del Muratori, le
Origini del Menagio, il Vocabolario, la Grammatica del Buonmattei, V Anticrusca
del Beni. Le più importanti al fatto nostro sono le postille all'opera
muratoriana, specie per ciò che concerne l'efficacia delle regole grammaticali.
Lett. in Belloni, // seicento, p. 452. ('-') Ragionamento sopra V origine
dell'Accademia della Crusca, Firenze. Su esso, dott. Carmelo Cordaro, Anton
Maria Salvini, saggio critico-biografico, Parma, 1906, e la notizia che di
questo libro dà R. Fornaci ari. Un filologo fiorentino del sec. XVIII, in Nuova
Antologia. [] Vivaldi esclude, con l'inoppugnabile argomento del tempo, che sia
del Salvini, n. il quel progetto di risposta da farsi all' Anticrusca per opera
del Fioretti che la fece infatti nel 1614, che il Moreni pubblicò nel 1S26
traendolo dalla iMagliabechiana. (6) Nei Discorsi Accada n. xxi, p. 3 l'A. esordisce
col sostenere che l'obbligo di ben parlare la propria lingua fu dimostrata con
Capitolo undicesimo 353 K noto che uno de' punti cui s'agitò la controversia,
che è stata chiamata della lingua, fu l'eccellenza del Trecento sul Cinquecento
e i secoli posteriori. Il Muratori fu perii Cinquecento : e il Salvini,
naturalmente, pel Trecento. Tra gli argomenti che il Muratori adduceva, era
questo, che nel Trecento la lingua non poteva essere arrivata alla sua
perfezione, perchè, tra l'altro, non se n'erano peranco stabilite le regole e
ognuno scriveva a suo talento, usando parole e locuzioni straniere, rozze,
plebee, cadendo per ciò senz'accorgersene in barbarismi e solecismi,
trascurando anche la retta ortografia. Il Salvini gli ritorce codesto argomento
così: il non essersi stabilite le regole, né poste in iscritto, e scrivendosi
tuttavia da molti e parlandosi in quel tempo regolarmente, è segno che in quel
tempo era giunta al non più oltre l'italiana favella; e non fa che le regole
naturalmente non ci fossero . In altre parole il Muratori sostiene la
inferiorità del Trecento con la mancanza della grammatica; il Salvini
l'eccellenza di esso con l'esistenza virtuale della grammatica : questione e
ragioni egualmente cervellotiche e che movono l'ima e le altre dal concepire,
al solito, il linguaggio come un congegno meccanico che funziona più o meno
bene secondo l'esattezza sua e di chi lo adopera: il confronto è impossibile ei
termini sono astrazioni. Che cos'è il Trecento? che cos'è il Cinquecento? sono
le opere concrete che si scrissero, sono le parole {parole nel senso estetico)
che si pronunziarono: ora confrontar l'un secolo con l'altro, è confrontar la
Divina Commedia con 1' Orlando Furioso, ossia fare una cosa inutile e
arbitraria. Spiegar poi l'eccellenza dell'una o dell'altra opera con le re
ottime riflessioni dal suo antecessore, il nobile e dotto Carlo Dati....
Vorrebbe che si coltivassero i due idiomi e si scrivesse nell'uno e nell'altro,
come fecero i maestri di nostra lingua, il Bembo, il Casa, ed altri. Ma poiché
la nostra favella non ha quel corso e quella voga d'esser parlata e scritta
comunemente, come, non so per qual destino, ha avuto ed ha l'idioma francese
... perciò chi di cose scientifiche vuole trattare, scriva in latino non perchè
a ciò sia inetta la nostra lingua, ma per aver più gran teatro, che ascolti,
perchè la lingua latina è lingua dell'universale e propria di tutti i letterati
non obbliando la nostra che ha i suoi vezzi e incanti singolarissimi . In
Gerini. Ricordiamo De i pregi dell' eloquenza popolare esposta da L. A.
Muratori, Venezia, M DCC L, presso G. B. Pasquali, fondati sulla dottrina
dell'imitazione.] gole, è pretendere che le regole producano l'arte. Siamo
ancora con la vecchia poetica. Il Muratori dedicò parecchie pagine della sua
perfetta poesia al buon gusto, e sebbene non accettasse le vedute dello Sforza
Pallavicino che davano briglia sciolta alla fantasia, le fece larghissima parte
, ebbe insomma più larghe vedute del Salvini: ma il linguaggio non fu neppur
sospettato né dall'uno né dall'altro che potesse esser tutt'uno con la
fantasia. La poetica del rinascimento si dissolvette, senza che la grammatica,
naturalmente, avesse avuto l'onore in essa d'una interpretazione degna d'esser
chiamata filosofica: fu sempre considerata come strumento: infatti nella
classificazione delle arti, rimase sempre all'ingresso. Da quell'argomento
delle regole il Salvini ne trasse un altro, meno disutile anche perchè contiene
un elemento che si può chiarire con la storia, ma egualmente infondato nella
sua concatenazione. Prima una lingua fiorisce, e la fan fiorire gli autori che
la mostrano e scuopronla; e poi se ne formano le regole. Anzi quando si fanno
le regole, cattivo segno: è segno che la lingua non è più nella sua naturai
perfezione: è scaduta dal suo primo fiore e lustro; ha bisogno di essere
puntellata, perchè non finisca di rovinare ("). E si sforza di dimostrarlo
col fatto dell 'imbarbarimento del 400 da cui ci liberò il Bembo con gli altri
grammatici, ma non in modo che scorcordanze e solecismi non durassero ancora,
consigliando il ritorno all'imitazione dell'aureo secolo, quando autori e volgo
parlavano puro e corretto e tutti scrivevano come i testi a penna dimostrano
senza sconcordanze, e si avevano le coniugazioni senza che vi fossero
grammatiche, dell'aureo secolo, che ebbe, oltre questi, il merito di fornire ai
grammatici cinquecentisti la materia delle regole loro. Il Vivaldi, che
riferisce queste idee e argomentazioni delSalvini, seguendolo passo passo con
la sua critica, osserva che quando nascono le regole in una lingua, questa non
è più nel suo stato di spontaneità, è entrata in un periodo riflesso; ma dire
che sia in un periodo di corruzione e di rovina mi pare troppo. Or che vuol
dire che una Croce, Estetica.) Quest'idea, annota il Vivaldi, p. 321, che la
grammatica sorga quando la lingua si comincia a corrompere, è ripetuta in molti
punti dal Salvini. Leg.ui le note] lingua e entrata in un periodo riflesso? La
lingua è sempre lingua, cioè creazione spirituale in ogni momento del suo
prodursi : slato riflesso sarà quello della coscienza di chi la parla. E
certamente da questi stati riflessi della coscienza nascono tutti gli sforzi
che mirano a spiegare il passato: le regole, teoricamente, sono il primo
tentativo della scienza: praticamente, servono al bisogno dell'apprendimento
della lingua: Aristotele, Quintiliano, il Bembo interessano egualmente ma
diversamente tanto chi fa la storia delle dottrine poetiche e grammaticali,
quanto chi si prefìgge lo scopo pratico di apprendere o di insegnare l'arte e
la lingua. Si può dire, quindi, aggiunge il Vivaldi, che, nate le regole, una
lingua sia meno vivace di prima; ma dire che s'incammini alla corruzione, donde
il bisogno di essere puntellata, non mi pare. Come se, quando spuntavano le
regole del Fortunio e le Prose del Bembo, fosse stato mai impedito all'Ariosto
di condurre a quello stato di perfezione o di vivacità, ond'è mirabile, il suo
Orlando Fttrioso, o per effetto di quei pretesi mali contro cui insorse la
grammatica del purismo avesse mai potuto raffreddarsi il calore ond'espresse e
corresse i suoi Promessi Sposi Alessandro Manzoni ! La corruzione della lingua
è una delle tante illusioni che il vecchio concetto del linguaggio suscita e
alimenta: e la grammatica non sorge in aiuto d'un guasto che è solo nella
fantasia degli empirici. Ma, intanto, quanto inchiostro non s'è versato in
queste discussioni che ogni tanto, anche dopo che la scienza le ha superate,
risorgono anche tra persone colte, dividendone gli animi ! Meglio che in
polemiche e in particolari trattazioni, un letterato pugliese, l'ab. Severino
Boccia, autore del Tasso piangente , concretò la sua opposizione contro la
Crusca in una vera e ampissima Grammatica e in un grande Vocabolario, che però
non videro mai la luce . Uno dei padri della grani Napoli, Mich. Monaco, 16S2,
sotto lo pseud. di Sincero Va/desio. Cfr. Guerrieri, L'abbate Severino Boccia
grammatico e lessicografo pugliese del sec. XVII, Cerignola (estr.). La
Grammatica italiana di Sincero Valdesio è contenuta in un ms. cart. legato in
pelle bianca di oltre 500 pagine, parte numerate parte no. Una postilla in cui
quest'opera viene attribuita al Boccia, reca la data iógo. Di essa fece un
riassunto D. Felice, Roma, nel 1703, che poi passò all'Armellini. Il Voc. è
parimenti ms. in cinque grossi volumi avrebbe chiamato il Boccia quel gran
padre che ne fu Basilio Puoti, che potè vedere la voluminosa opera dell'abate
pugliese . La Grammatica si apre con un discorso sulla lingua, il suo
svolgimento, e il modo di studiarla: la grammatica vi è definita l'arte di
parlare e scriver bene in tale idioma, senza vizio di barbarismo o solecismo ,
e se ne deduce che il favellare è proprio connaturale all'uomo e che nessuno
può pretendere di parlare e scrivere bene, senza l'arte e lo studio: la
macchina dell'opera sua poggia sopratre colonne di bronzo massiccio, la
ragione, Y autorità, V usanza; ma l'A. non ha voluto giurare sul frullone delia
Crusca, non sulla zucca degli Intronati, non sulla gru degli Oziosi, non sulla
luna degli Erranti, né in altra celebre impresa di questa o di quella
Accademia^). Da quanto ce ne dice il Guerrieri la trattazione è completa, dalle
lettere, vocali e consonanti, sillabe alle parti del discorso, al pleonasmo,
all'ortografia e punteggiatura; il notevole è che gli esempi sono tolti tutti
quanti dal Tasso, sia per le regole che per le eccezioni: e le autorità del
Vocabolario, dove spesso i modi di dire hanno il corrispondente latino, sono di
frequente cavate dal Tasso. Così la Crusca veniva contraddetta in due modi,
abbastanza pratici, nelle regole e negli esempi, e l'infelice poeta aveva in
questo grammatico e lessicografo il più caldo e fedel difensore. Pro e contro
la Crusca stette infine quel GIGLI (si veda) che, come dice il D'Ovidio, rinnovò
lo scandalo col Vocabolario Cateriniano, libro riboccante d'arguzie e
d'umorismo, ma spesso scurrile, pettegolo e maligno, non di rado anche insipido
o adulatore , (p. 153) e del quale scontò l'audacia con umilissime
ritrattazioni e il bando da Siena sua città natale e da Roma, dove fu
precettore di D. Alessandro Ruspoli de' Principi di Cerveteri, per l'istruzione
del quale ordinò l'operetta è dicitura che tolgo dal titolo che va sotto il
nome di Regole per la toscana favella dichiarate per la più stretta e più larga
osservanza in dialogo tra (*) Guerrieri, op. cit., p. 33. {-) Guerrieri. Su
esso, T. Favilli, G. Gigli senese, nella vita e nelle opere, Rocca S. Casciano,
1907 (ma cfr. I. Senesi, recens. in Rass, bibl. d. leti. It. Maestro e scolare
, una delle ultime e vere grammatiche di questo lungo periodo di cui siam
venuti notando le manifestazioni più caratteristiche, cosa diversa dalle
Lezioni di li?igua tosca?ia ("), che furono nuovamente raccolte dall'ab.
G. Catena Senese. Al Gigli dobbiamo anche, tra l'altro, un'Orazione in lode
della toscana favella, e la raccolta romana delle Opere di Celso Cittadini:
egli poi accenna a tavole sinottiche de" Verbi ausiliari e regolari da lui
compilate per distinguerne in quattro colonnette l'uso corretto antico, poetico
e corrotto, distinzione non fatta dal Pergamini, e a una sua grammatica
anteriormente stampata, che è tutt'uno con le Lezioni, dove infatti questa
partizione è adottata. Avverte nella prefazione che ha più Grammatiche ornai la
nostra Volgar Favella, che non ha genti (stetti per dire) che la parli ...; la
chiama bastone ... istoriato dal Cittadini, fornito della punta di ferro dal
Castelvetro, contro il Bembo, o fatto a nodi contro il Bartoli, il Beni, il
Muzio; fornito di manico d'argento dal Castiglione ...; constata che l'Indie
grammaticali non mandano altri Ucelli, che qualche voce spelacchiata dell'H;
qualche verbo anomalo, che ha i piedi dove altri hanno il capo; qualche nome
eteroclito di due sessi . E questo supergiù, come abbiam visto, era vero per la
vecchia grammatica dell'italiano: poiché proprio ora, e precisamente usciva in
Napoli per il latino il Nuovo metodo di Portoreale, che doveva naturalmente
produrre la sua efficacia anche sull'italiano. Accenna, infine, a una nuova
edizione del Donato con Avvertimenli grammaticali per la nostra volgar lingua,
curata dal suo assistente alla cattedra d'eloquenza, Francesco Tondelli, che è
un nuovo esempio di quella fusio ne che ormai si ve In Roma. Nella stamperia di
Antonio de' Rossi, nella strada del Santuario Romano, vicino alla Rotonda,
Venezia, Giavasina, e 29. Coi tipi del Pasquali in Venezia. In Lezioni,
Venezia, 1736. (5) In Roma, per Antonio De' Rossi. In Roma, Chracas, 1710. Ma
la prima ediz. era stata fatta in Siena. Un Donato al Senno ... con le. loro
costruttioni et toscane dìchiarationi vide la luce in Treviso, per Gasparo
Pianto. 35^ Storia della Grammatica niva facendo sempre più completa delle due
grammatiche, l'italiana e latina, e sulla quale aveva insistito ne' suoi
Discorsi accademici (cfr. specialmente il LXII, t. I, sopra la lingua latina) e
nelle Prose toscane (le lezioni 22, 33, 44 sopra la lingua toscana, e la 47%
Esortazione a comporne in toscano) anche Anton Maria Salvini. Le Regole come le
Lezioni del Gigli non hanno maggior portata filosofica di quella che vien loro
dall'essere informate a un certo spirito liberale di modernità e d'opposizione
alla grammatica pedantesca e troppo ristretta, della quale abbandona il
complesso schematismo, contentandosi di dar poche regole tra molti e vari
esercizi (2); il che le rende naturalmente lodevoli sotto l'aspetto didattico.
L'uso che il Gigli segue è quello degli scrittori del Trecento più comunemente
accettati, che era un utile criterio per lui per propugnare quello della Santa
concittadina, in servizio del quale prese a compilare il l'ocabolario
Cateriniano, vessillo intorno a cui aveva tentato raggruppare un forte manipolo
di ribelli, dove s'oppone a riconoscere in Firenze e nell'Accademia il diritto
esclusivo di regolar la favella d'Italia. Per quanto editore delle opere del
Cittadini, pure non sembra ne faccia la debita stima almeno per l'utile che ne
possa venire ai discenti italiani: afferma, invece, che le ricerche
dell'illustre concittadino sono assai più giovevoli agli Oltremontani, Vi si
dice che lo studio del latino è necessarissimo per iscrivere perfettamente nel
toscano. Questi luoghi segnalò già il Gerixi, op. cit., p. 8, n. Regole della
poesia sì Latina che Italiana per uso delle scuole erano state edite per la 3a
volta, in Venezia, presso Giuseppe Rota niella prefaz. è detto che questa è la
prima poetica per le scuole). (2) P. es., è molto pratico quello indicato in
fin del libro per conservare a memoria le Regole addietro scritte, per via di
qualche racconto mescolato a studio degli usuali errori, che si commettono fra
i Toscani medesimi; i quali errori qui si correggono dagli scolari fra di loro,
con quest' ordine stesso, che dagli scolari della Grammatica Latina si pratica,
ascoltando un avversario il recitamento a memoria dell'altro . Gigli mostrò di
sapersi valere del dialetto per l'apprendimento della lingua. E forse a questo
scopo avrà disegnato una Grammatica senese di cui parla in una sua lettera del
28 ott. 1715 (in Favilli, G. Gigli, se questa non è tutt'uno con le Lezioni o
le Regole, o non è un termine vago per indicare i suoi studi grammaticali e
linguistici. Capitolo undicesimo 359 ai quali tiene costantemente l'occhio
specie per quel clie concerne la grafia. Né può esser lodato per ciò che
concerne la critica de' testi e l'etimologia. Batte molto su i criteri
stilistici, distinguendo come gli abbiam visto far per i verbi, un uso retto,
antico, poetico, corrotto, che corrisponderebbe su per giù alle distinzioni
fatte poi dal Manzoni. Ma è sempre sarebbe inutile osservarlo da quanto sin qui
s'è detto sotto la vecchia concezione del linguaggio, per cui s'aggira
costantemente nell'equivoco: Non troverete sollecismo , dice, che non possa con
qualche esempio salvarsi, o del Dante, o de' suoi Coetanei, o di S. Caterina da
Siena, e simili autorevoli Prosatori Poeti. Il pensiero com'è formulato
determina il carattere del vecchio dogmatismo grammaticale. Il Gigli ci
richiama al pensiero un sostenitore della Crusca, Niccolò Amenta (' ), già
ricordato come Annotatore del Torto del Bartoli, e del quale anche, per ragion
di tempo, ci dobbiamo ora occupare. L' Amenta già nelle Annotazioni al Torto
aveva preso posizione netta contro il Bartoli e in favor della Crusca,
giudicando che il Bartoli, menando beffe e strazio de' grammatici, non aveva
seguito né le loro decisioni, né l'uso, o sia del popolo o de' più eletti, né
l'autorità degli scrittori, né la prerogativa del tempo, né l'uso latino o il
suo contrario, né la convenenza de' simili; ma or l'uno or l'altro, or due o
tre insieme e più di tutto Y arbitrio, a cui una gran parte rimane in libertà,
ed è per avventura la più diffìcile a ben usare, richiedendovisi un buon gusto
proveniente da buon giudicio (p. 15). L'accusava d'aver plagiato il Cinonio, di
cui non par facesse molta stima: e concludeva: se adunque vorrà tutto ciò
considerare qualunque affezionato al P. B., ho per fermo, che compatirammi,
s'io in queste osservazioni tra la forza che m'ha tatto principalmente la
ragione, e per la riverenza che ho avuto a' Testi, a' buoni Grammatici, ed a'
signori Accademici fiorentini, spessissime volte gli ho contraddetto.
Protestando ad ognuno che se '1 B. scrisse questo libro (come già pare ch'egli
stesso volesse) per far conoscere, che nella Toscana favella prevaglia ('
spesso così accoppiati discussi dal Vico) poterono sodisfargli l'intendimento
circa la guisa del nascime?ito, ossia la natura delle lingue, che troppo ci ha
costo di aspra meditazione i1), e la cui Discoverta, ch'è la chiave maestra di
questa Scienza, ci ha costo la Ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita
letteraria. Medesimamente lo lasciarono insodisfatto i grammatici del
rinascimento, da lui criticati e nella massima opera enel breve Giudizio
intorno alla Grammatica d'Aronne. La metafisica è una scienza, comincia VICO
(si veda), la quale ha per oggetto la mente umana. Ond'ella si stende a tutto
ciò che può giammai pensar l'uomo. Quindi ella scende ad illuminare tutte le
Arti, e le Scienze, che compiono il subietto dell'umana Sapienza. Le prime tra
queste sono la Grammatica, e la Logica; l'ima, che dà le regole del parlar
dritto, l'altra del parlar vero. E perchè per ordine di Natura dee precedere il
parlar vero al parlar dritto; perciò con generoso sforzo Giulio Cesare della
Scala, seguitato poi da tutti i migliori Grammatici che gli vennero dietro, si
diede a ragionare delle cagioni della Lingua Latina co' principj di LOGICA. Ma
in ciò venne fallito il gran disegno con attaccarsi ai principj di Logica, che
ne pensò un particolare uomo filosofo, cioè colla Logica di Aristotile, i cui
principj essendo troppo universali, non riescono a spiegare i quasi infiniti
particolari, che per natura vengono innanzi a chiunque vuol ragionare d'una
lingua. Onde Francesco Sanzio, che con magnanimo ordine gli tenne dietro nella
sua Minerva, si sforza colla sua famosa Ellissi di spiegare gl'innumerabili
particolari, che osserva nella Lingua Latina; e con infelice successo, per
salvare gli universali principj della Logica di Aristotile, riesce sforzato e
importuno in una quasi innumerabile copia di parlari Latini, dei quali crede
supplire i leggiadri ed eleganti difetti, che la Lingua Latina usa nello spie-
[In Croce. Scienza Nuova, Milano, Truffi. Non è questa la migliore edizione del
gran libro; ma, avendo condotto su essa il mio studio, mi è difficile ora
concordare le citazioni con la seconda edizione Ferrari. Cfr. Croce, Bibliogr.
vichiana, Napoli, e Suppli'Diento.] garsi. Ma il quanto acuto, tanto avveduto
Autore di questa novella Grammatica ha ridotto tutte le maniere di pensare, che
nascer mai possono in mente umana intorno la sostanza, e le innumerabili varie
diverse modificazioni di essa, a certi principi metafisici cosi utili e comodi,
che si ritrovano avverati in tutto ciò che la Grammatica Latina propone nelle
sue regole, e nelle sue eccezioni. Il frutto di una sì fatta grammatica è
grandissimo, perchè il fanciullo, senz'avvedersene, viene informato di una
metafisica, per dir così, pratica, con cui rende ragione di tutte le maniere
del suo pensare; appunto come colla Geometria i giovani, pur senz'avvedersene,
apprendono un abito di pensar ordinatamente. Per tutto ciò, secondo il mio
debole e corto giudizio, stimo questa Grammatica degna della pubblica luce,
siccome quella che porta seco una discoverta di grandissimi lumi alla Repubblica
delle Lettere. Lasciando per ora da parte il rispetto del Vico verso la
grammatica ancor classificata secondo il vecchio canone, è agevole vedere come
la posizione presa da lui contro lo Scaligero e il Sanzio, acutamente distinti
tra tutti i grammatici dell'antichità e del rinascimento, sia determinata
appunto dal suo concetto fondamentale di fantasia e d'intelletto. Il Sanzio,
moviamo da questo perchè supera lo Scaligero, pur avanzando di tanto i
precedenti grammatici nell'interpretazione delle forme e de' costrutti latini,
come quegli che ne cercava le radici nello spirito e non in un convenzionale ed
esterior meccanismo ("), nel fatto linguistico e grammaticale non vedeva
che un fatto logico, e, con quest'unico criterio, spiegava non solamente i casi
('j Opuscoli di Giovanni Battista Vico raccolti e pubblicati da Carlantonio de
Rosa marchese di Villarosa. Napoli. Presso Piorelli. È notevole il tono, più
che polemico, sarcastico e sprezzante con cui combatte le dottrine de'
precedenti grammatici tutt' altro che indegni di alta stima come il Valla. Le
espressioni che adopera contro di loro sono di questo tenore: Ridicala vero
sunt quae inculcat Valla de Unus et Solus.... An non risu res digna est, quum
Valla et Grammatici docent in his orationibus: Fortiores Troianorum superavit,
et fortissimos Troianorum superavit: in priore esse genitivum partitionis, in
posteriore minime? Sed horum insaniam Minerva exagitat. Quella Minerva nel nome
della quale intitolò l'opera sua maggiore De caitsis linguae latinae di cui le
Verae brevesque Grammaticae latinae institutiones sono un anticipato compendio.
Capitolo dodicesimo 371 regolari della sintassi latina, ma tutte le apparenti
irregolarità, mirando unicamente a questo, cioè a ridurre l'irregolare al
regolare con quella che egli stesso chiamò la doctrina s?tpp tendi (l). ossia
la dottrina dell'ellissi. Naturalmente non con la sola ellissi spiegava tutte
le anomalie: poiché egli ammetteva cinque figure: il pleonasmo, l'ellissi, lo
zeugma, la sillessi e l'iperbato, chiamando nionstrosi partus Grammaticarum
(") l'antiptosi, la prolessi, la sintesi, V apposizione, V evocazione, la
sinecdoche; ma latissime patet Ellipsis (;i), e perciò sull'ellissi
particolarmente si diffonde , praeclarum munus . Dovunque l'espressione non è
assolutamente geometrica, il Sanzio trova un' ellissi, e spiega il modo onde si
supplisce, non accorgendosi della solenne smentita che dà alla propria
dottrina, quando, come fa nell'introduzione alle Regulae generales (''),
afferma che però sarebbe barbaro, neologistico, insomma inelegante, il modo
regolare supplito, sciogliendo l'ellissi, all'irregolare. ...quid leporis
habebunt tot proverbia, si integra referantur ?... Multa edam Grammaticae ratio
nos cogit intelligere, quae si apponerentur latinitatis elegantiam
disturbarent, aut sensum dubium facerent... Alia rursus videmus desiderari,
quae sine barbarismo suppleri nequeunt et tamen Grammatica necessitas
supplebit. In questo il Sanzio seguiva un'antica e sanissima veduta
rappresentata principalmente da Quintiliano, il quale diceva: Aliud est Latine
loqui, aliud Grammatice loqui, e seguita anche da Orazio, che il Sanzio cita
con tanto maggior entusiasmo quanto più acremente rifiuta la tesi degli
avversari, che pare non fossero né pochi ne in vero ignoranti. Supplementum ,
dicevan co- [Nell'opera qui appresso cit.: Doctrinam supplendi esse valde
necessariam. SANCTIS (si veda) Brocensts in inclyta Salmanticensi Academia
primarij Rhetorices, Graecaeque linguae doctoris, verae, brevesque Gramatices
latinae institutiones, Salmanticae, excudebat Ma- thias Gastius. La
introduzione si chiude con quest'enfa- tiche parole: Liceat iam nobis per
Grammaticos thesauros Ellipseos aperire, sine quibus iniuriam facit Latino
Sermoni, qui se Latinum audet nominare.] storo, reffugium est miserorum: si
nobis liceat supplere quod volumus, omnes erunt valde bonae orationes . E non
avevano torto, intuendo, senz'accorgersene, una profonda verità, quella cioè
dell'impossibilità estetica della sostituzione della frase co- siddetta propria
all'impropria, propria essendo solamente, cioè artistica, vera, espressiva,
quella che s'è usata con tutti i suoi apparenti difetti. Horatius , dunque,
diceva il Sanzio, quasi nostras partes agens, et Ellipsin amplectens, dixit li.
I. Saty. io. Est brevitate opus, ut currat sententia, non se impediat verbis
lassas onerantibus aures . Dove, come pure nella sentenza quintilianea, la
Grammatica è solennemente liquidata e inverasi a maraviglia all'inverso il
motto degli avversari del Sanzio: supplementum reffugium est miserorum !
Addurre esempi de' supplementi sanziani è superfluo e inutile, perchè
occorrerebbe addurne tutto l'infinito numero, per vedere a che punto spinge il
Sanzio l'applicazione della sua dottrina. Ora chi conosce una lingua, sa che il
più è l'irregolare; onde converrebbe chiamar una lingua tutta una figura
continuata. Il Vico, che aveva del linguaggio e della poesia una ben diversa
concezione, derivandoli non dall'intelletto, ma dalla fantasia, in questo
sforzo del Sanzio non poteva che vedere un'illusione, e, con disinvolta
profondità, lo confuta e lo supera con quella semplice osservazione, che egli
riesce sforzato e importuno in una quasi innumerabile copia di parlari latini,
dei quali crede supplire i leggiadri ed eleganti difetti che la lingua latina
usa nello spiegarsi ; dove la natura della lingua, i diritti della fantasia e i
principi critici si affermano in una mirabile concordia veramente degna di
quell'altissima mente. Così, egli, more solito, cioè con la massima semplicità,
superava tutti i migliori grammatici, ripigliando con coscienza di causa
l'antica tesi degli avversari del .Sanzio. Tuttavia non in questo Giudizio,
dove pur non si vorrebbe conservata alla grammatica l'antica posizione che
aveva nel canone tradizionale né fatta quella sottil distinzione tra parlar
vero e parlar diritto, residui di vecchie vedute, non in questo Giudizio si
esaurisce la sua critica della grammatica. Questa anzi è principalmente
costituita dalla spiegazione della genesi delle parti dell'orazione e della
sintassi che il Vico porge nei terzi Corollarj al cap. Della Logica poetica del
libro secondo della Scienza nuova. Capitolo ti od ice si mo Lo Scaligero e il
Sanzio avevano accettata tal quale la dottrina aristotelica delle categorie
grammaticali: Aristotile aveva, in sostanza, dato al nome la funzione di
esprimere la materia o Volte, al verbo quella di esprimere il moto o V azione,
aveva cioè attribuito a astrazioni della nostra niente un valore effettivo e
reale, aveva scam biato un concetto con un fatto. Accettar questa dottrina era,
come benissimo osserva il Vico, conchiudendo que' corollari, un ammettere che i
popoli, che si ritrovaron le lingue, avessero prima dovuto andare a scuola d'
Aristotile (l); era un ammettere la preesistenza di categorie alla produzione
del pensiero, un asserire che i parlanti si servirono di schemi astratti, per
esprimere determinate parole, che fecero cioè l'impossibile. Il Vico diede
invece una genesi naturale alle parti dell'orazione e alla sintassi, e insieme indicò
V ordine con cui esse nacquero e la sintassi si formò. La lingua articolata mi
rifò da questo punto per tenermi strettamente al mio argomento quella cioè
delle tre che cominciarono nello stesso tempo ( intendendo sempre andar loro
del pari le lettere (") ), degli Dei, degli Eroi e degli Uomini, cominciò
con l'onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi i fanciulli
(ricordisi che nella sua storia ideale umana il Vico paragona sempre i momenti
di sviluppo dell'umanità con quelli dell'uomo); seguitò a formarsi con l'
Interiezione; che sono voci articolate all'empito di passioni violente, che in
tutte le lingue son monosillabe ; poi coi pronomi; imperocché le interiezioni
sfogano le passioni proprie, lo che si fa anco da' soli; ma i -bronomi servono
per comunicare le nostre idee con altrui d'intorno a quelle cose, che co' nomi
propj o noi non sappiamo appellare, o altri non sappia intendere: e i pronomi
pur quasi tutti in tutte le Lingue la maggior parte son monosillabi, il primo
de' quali, o almeno tra primi dovett'esser quello, di che n' è rimasto quel
luogo d'oro d'Ennio, Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Jovem, ov'è
detto hoc invece di Coelum, e ne restò in volgar Latino, Luciscit hoc jam; Qui
il Vico ricorda il Trissino. 374 Storia della Grammatica in vece di albescit
Coelum: e gli articoli dalla lor nascita [avvertasi il trapasso dalla
spiegazione dell'origine de' pronomi a quella degli articoli, che, se non
prendiamo abbaglio, nella mente del Vico rappresenterebbero una cotal funzione
di determinare il nome generata dal pronome, quando non scompagnandosi dal
nome, perdette la sua vera funzione] hanno questa eterna proprietà d'andare
innanzi a' nomi, a' quali son attaccati. Dopo si formarono le particelle, delle
quali son gran parte le preposizioni, che pur quasi in tutte le lingue son
monosillabe; che conservano col nome questa eterna proprietà di andar innanzi
a' nomi, che le domandano, ed a' verbi, co' quali vanno a comporsi. Tratto
tratto s'andarono formando i nomi: de' quali nell' Origini della lingua Latiiia
ritrovate in quest' Opera la prima volta stampata, si novera una gran quantità
nati dentro nel Lazio dalla vita d'essi Latini selvaggia per la contadinesca
infin alla prima civile, formati tutti monosillabi, che non hanno nulla
d'origini forestiere nemmeno greche, a riserba di quattro voci fiovg. ovg,
jav$, o>jij>, eh' a Latini significa siepe, e a' Greci serpe... ed esser
nati i nomi prima de' verbi, ci è approvato da questa eterna proprietà; che non
regge Orazione se non comincia da nome, ch'espresso, o taciuto la regga.
Finalmente gli Autori delle lingue si formarono i verbi come osserviamo i
fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi, perchè i nomi destano
idee, che lasciano fermi vestigi; le particelle, che significano esse
modificazioni, fanno il medesimo: ma i verbi significano moti, i quali portano
l'innanzi, e '1 dopo, che sono misurati dall'indivisibile del presente
difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un 'osservazione
fisica, che di molto approva ciò, che diciamo; che tra noi vive un uomo onesto
tocco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto
dimenticato de' verbi. E pur i verbi, che sono generi di tutti gli altri, quali
sono sum dell 'essere, al quale si riducono tutte V essenze, ch'è tanto dire
tutte le cose metafisiche: sto della quiete, co del moto, a' quali si riducono
tutte le cose fisiche, do, dico e facio, a' (piali si riducono tutte le cose
agìbili, sien o morali o famigliari, o finalmente civili: dovetter incominciar
dagli imperativi ; perchè nello Stato delle famiglie, povero in sommo grado di
lingua, i Padri soli dovettero favellare e dar gli ordini a' figliuòli, ed a'
famoli; e questi sotto i terribili imperj famigliari, quali poco appresso
vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendo eseguirne i romandi; i quali
imperativi sono tutti monosillabi, quali ci son rimasti es, sta, i, da,
dic,fac. Analogamente si ritroverebbe, par che voglia dire il Vico, • Y ordine,
con cui nacquero le parti dell'orazione, e 'n conseguenza le //aturali cagioni
della SINTASSI (COM-POSITIO). Ora, date per provate tutte queste asserzioni di
fatto del Vico riguardanti l'origine e la formazione nelle sue successive tasi
delle lingue, qual è la differenza che passa tra la dottrina aristotelica delle
categorie grammaticali e quella di VICO (si veda)? A me sembra profondissima.
Di Aristotile abbiamo visto. Il Vico par ammettere l'esistenza di queste
categorie; ma è solo question di parole; perchè, nella sua dimostrazione
storico-genetica viene in sostanza ad annullarle. Le parti del discorso pel
Vico corrisponderebbero ad altrettanti momenti della formazione del linguaggio
o, eh' è lo stesso, della storia ideale dell'umanità: ogni parte è una fase
della coscienza umana allargantesi alla concezione e all'espressione di nuove
idee: perciò queste parti del discorso non sono categorie ricavate
astrattamente dalla distruzione dell'espressione, come fa chi sottopone il
fatto estetico unico, indivisibile a un'elaborazione logica; ma son vere e proprie
parole, che il Vico appella coi nomi tradizionali della grammatica, tanto per
farsi intendere, ma che non sarebbe affatto necessario chiamar in tal modo:
ognuna di codeste parole è un fatto reale espressivo naturale per sé stante che
si produce spontaneamente da una causa interiore. Se veramente codeste parole
si sian formate nel modo accennato anzi affermato dal Vico e in quell'ordine,
non possiamo storicamente provare, né il Vico può provarlo (gli esempi de'
fancndli e de' paralitici valgon ben poco, secondo noi); ma, comunque siano
andate le cose, questo é con piena evidenza chiarito che le lingue crebbero per
fatto naturale, e che il discorso si andò sempre meglio organizzando a mano a
mano che la coscienza dell'umanità si sviluppava, e che le parti di codesto
discorso ne segnano le tappe successive: anzi, parti non potrebbero chiamarsi,
poiché ognuna d'esse essendo una parola, ogni volta che questa veniva
pronunziata, era un' espressioìie intera, cioè diceva tutto quello che il
parlante voleva dire. Quel motto onomatopeico, quelì'ùiteriezione, quel
pronome, quell' articolo, quel nome, quel verbo, anzi quell' imperativo,
pronunziati dall'uomo primitivo, non sono categorie grammaticali, schemi
preesistenti alla concezione stessa dell'idea in essi rappresentata e necessari
assolutamente alla estrinsecazione di essa di cui sarebbero la formula
d'espressione, ma veri vocaboli, vere parole, veri fatti espressivi,
individuali e interi, che possono esser chiamati con quei nomi, ma per mera
convenzione e senza alcuna necessità. Il Vico chiama il fatto estetico
naturalmente prodotto coi nomi convenzionali astrattamente ricavati con un
procedimento logico; Aristotile pretende che astrazioni logiche si esprimano
con determinate parole. Come si vede, siamo agli antipodi; cioè z\V origine e
quasi alla fine della grammatica. Dico qtiasi alla fine, perchè l' intuizione
di VICO (si veda) non è rigorosamente e metodicamente dimostrata: e in ogni
modo quello stesso parlar ancora di parti del discorso, non solo, ma il ripeter
la definizione tradizionale del verbo, che significa il moto, ingenera per lo
meno confusioni e dubbiezze; ma, presa nel suo insieme e nel suo spirito, la
critica di VICO (si veda) si può ben dire che supera le precedenti vedute, e
scioglie il problema. Ma, com'è noto, il Vico ebbe, almeno per allora, poca
fortuna, e anche in questo terreno grammaticale i semi da lui sparsi non
diedero alcun frutto, mentre sarebbe stato facile il fecondarli per opera di
degni interpreti e continuatori. D'altra parte, neppur l'indirizzo
logico-grammaticale di Porto-Reale fu, in questo periodo, seguitato in Italia
con molto calore nei rispetti della lingua italiana, il Barba è una magnifica
eccezione mentre invece specialmente in Francia alimentava una viva ed elevata letteratura
grammaticale. Non che l'Italia fosse intellettualmente prostata o esaurita:
decadimento ci fu, ma era solamente letterario e nessuno oggi oserebbe più
estendere a tutto il pensiero e alla vita italiana del primo Settecento
quant'era proprio solo dell'Arcadia. L'Italia si volgeva ad altri studi,
specialmente a quelli d'erudizione e di critica storica, ne' quali si doveva
rifar la coscienza, ripigliando le tradizioni cinquecentesche iniziate da
Sigonio e da Borghini e trasmigrate nel Seicento in Germania e in Olanda.
Oggetto di questi fervidi studi furono le costituzioni e le vicende politiche,
il diritto, le costumanze, le origini e anche la lingua dell'Italia nuova, e,
col Vico stesso, era alla testa del movimento Muratori, il rappresentante più
caratteristico dell'attività intellettuale di quest'epoca italiana . Cardicci,
Prefaz. alle Letture del Risorgimento ita/., Bologna, 1896, e ora in Opere,
XVI, Poesia e Storia. Ma quello per la lingua fu un interesse non più solamente
glottologico: allo studio della lingua antica d'Italia i nostri eruditi si
volsero anche per la luce che ne potevano trarre sulla vita italiana e sulla
condizione degli Italiani nel Medio-evo. Si rinnoveranno le controversie
particolari sull'origine degli idiomi italiani, sul De Vulgari Eloqìientia,
sull'eccellenza del Trecento e altrettali che costituiscono la cosidetta
questione della lingua, ma il problema non è più solamente linguistico, è anche
storico : non si tratta più di sole parole, ma di cose. La nuova coscienza italiana
colorisce della sua luce le discussioni, rendendole meglio vitali e
interessanti: nel Cinque e Seicento era la coscienza letteraria, ora è anche la
coscienza civile che si propone il problema della lingua, della poesia e della
letteratura quale testimonianza de' tempi. Siamo ai prodromi di quel
rinnovamento scientifico che nella seconda metà del secolo determinerà il
radicale rivolgimento degli stati europei. Non occorre che io ricordi qui più
che i nomi del Crescimbeni, del Gravina, del Fontanini, del Gimma, del Maffei,
del Giannone, dello Zeno, del Quadrio, ciascuno de' quali in opere d'indole e
di soggetto varii discusse dell'origine o dello svolgimento della lingua, ma
tutti, chi più chi meno, dominati dal concetto della reciproca influenza che popoli
di civiltà diversa possono esercitarsi, e delle intime relazioni tra civiltà e
letteratura, tra civiltà e lingua. In tali condizioni diminuirono le attrattive
de' letterati verso la pura e arida grammatica, anche, non tenendo conto delle
ampie, se non in tutto esaurienti, compilazioni grammaticali, come quelle del
Buonmattei e del Cinonio, con la lunga tratta de' loro seguaci, sempre ancor
circondate delle più vive simpatie, che non potevano non sviare dal proposito
di nuove consimili fatiche. Cosicché chi si volse alla grammatica, se volle far
cosa nuova, dovette tentar le uniche vie che almeno per ora rimanevano aperte:
rinfrescar lo studio grammaticale che veniva rendendosi obbligatorio, con
eleganti esposizioni, correggendo, vagliando; oppure, ch'era ormai vera
necessità didattica, ridurre a metodo il sovrabbondante e spesso farraginoso
materiale. L'una via e l'altra furono battute ugualmente: quella da Domenico
Maria Manni, questa da Salvadore Corticelli: due letterati che si somigliano in
più cose. Anzitutto nel sincero e fervente desiderio di tener desto e vivo il
culto della prosa e della lingua toscana: poi nell'uso de' mezzi che scelsero a
Capitolo tredicesimo 379 tal uopo, mezzi dirò così teorici e pratici: l'uno e
l'altro intatti dettarono, pur tacendo cosa diversissima, regole e osservazioni
di lingua, e racconti piacevoli che dilettando istruissero e incitassero allo
studio di essa. Entrambi furono Accademici della Crusca. Le Lezioni di lingua
toscana, di cui una terza edizione fu fatta nel 1773 (l), furon tenute dal
Manni nel Seminario Arcivescovile di Firenze il 1736, per elezione
dell'arcivescovo Giuseppe Maria Martelli, dove nulla sembrava mancare, fuorché
lo studio, e la lettura della patria lingua. In Firenze pubbliche cattedre di
lingua toscana, come vedemmo, e in Siena e altrove in Toscana, furono istituite
dai Granduchi fin dal Cinquecento, e già prima nello Studio a principiar dal
Boccaccio v'erano stati espositori di Dante e poi, nel Quattrocento, anche del
Petrarca. Ma queste non furono mai vere e proprie istituzioni scolastiche in
servizio esclusivo de' giovani e di contenuto puramente grammaticale: si
rivolgevano al comodo del largo pubblico d'ogni ceto ed età. Se il Dati e altri
letterati del tardo Seicento tornavano a lamentare che non si studiassero le
regole e a predicare che non basta il nascimento per iscriver bene, ma
occorrono studio e fatica, ciò vuol dire che un insegnamento metodico della
grammatica non si era peranco istituito neppur in Toscana, e la testimonianza
del Manni, per quanto riguardi un solo istituto, dimostra che quello del
Martelli fu un primo tentativo d'introdurre ufficialmente nelle scuole
l'insegnamento della grammatica: altrove, come a Napoli, un insegnamento
siffatto mancò, anche dopo che lo sdoppiamento della cattedra di retorica del
Vico inaugurò nell'Università quello d'eloquenza italiana ("). Il latino
continuò per un pezzo a tener il campo della grammatica (3): e anche in queste
Lezioni del Manni ne vedremo altre prove, dichiarandovisi spesso che a certe
trattazioni sarebbe superfluo attendere, da poi che si compiono nella
grammatica latina e sono sufficienti anche per chi studia quella del volgare.
In ogni modo, almeno a Firenze, [Ho questa sott'occhio: fu fatta in Lucca,
appresso Giuseppe Rocchi. GENTILE (si veda), Il figlio di Vico, cit. più
innanzi. Perfino la grammatica generale s'innestò al' latina prima che alle
lingue vive. 380 Storia della Grammatica non pare che ci fosse un insegnante
speciale di lingua italiana, poiché nelle scuole laiche la materia delle lingue
sarà stata disciplinata non diversamente dalle ecclesiastiche. Il Manni fu un
grand'erudito, oltre che un grammatico: la sua Istoria del Decamerone è suo
nobile titolo d'onore: queste Lezioni risentono in ogni pagina di questo
spirito d'erudizione, e sono ricche di utili notizie anche per la storia della
grammatica. Egli stesso anzi dichiarava che l'incarico commessogli
dall'arcivescovo gli sarebbe servito di ben acuto sprone a compilare, in quel
modo che avrebbe potuto, una breve Gramatica della Lingua Toscana, quantunque
sentisse esser ella da altri omeri soma, che da' suoi. Son lezioni così
distribuite: della necessità e facilità della Lingua Toscana, Delle lettere,
Del nome, Parimenti del nome, Del pronome, Altresì del pronome, Del verbo,
Dell'avverbio, Del periodo toscano, Dell'ortografìa. Come si vede, è
un'esposizione saltuaria di talune parti dell'orazione e della grammatica,
credendo l'autore non esser necessario fermarsi su tutto, conforme gl’esempi
fornitigli da Strozzi e Sansovino, come fa, p. es., rispetto alle sillabe,
tanto più che di esse cosa non ci ha quasi di dire che ai Latini insieme non
appartenga (p. 46); né diffondersi con soverchia minuzia sui singoli argomenti,
come usò, p. es., il Buonmattei a proposito de' verbi, de' quali discorse con
rincrescevole lunghezza: eguale indifferenza dimostra il nostro Autore per i
problemi della grammatica storica, che non servono ad altro che a far gittar
via il tempo (p. 146). Tutto l'interesse del Manni è per la sovrabbondante bellezza
della nostra lingua il che ci dice subito qua! sia la concezion che ne ha e per
le questioni ermeneutiche, nella risoluzion delle quali egli poteva mettere a
profitto la sua conoscenza degli antichi manoscritti, e il rigore assoluto che
professava in fatto di regole. Quindi, mentre da un lato egli, sodisfatte U'
principali esigenze a cui non si può sottrarre chiunque debba pur dar ilei
paradigmi e delle norme generali intorno alle parti dell'orazione, si tien
lontano dalla minuziosa trattazione metodica della sua materia, dall'altro e'
si profonde in Capitolo tredicesimo 381 elucubrazioni elogiative della
ricchezza e varietà ili nostra lingua, e s'ingolfa in particolarissime
questioncelle veramente di scarsa importanza, come quelle del mai se significhi
negazione senza il non, del lui e del lei se possano essere adoperati per egli
ed ella, del cui se stia per chi soggetto. Sulla prima delle quali questioni,
riferisce una curiosissima Sentenzia, data per le stampe in un foglio a sé,
dell' Illustrissima et Eccellentissima Signora la Signora Donna Isabella Medici
Orsina Duchessa di Bracciano, sopra la differenza fra Don Pietro della Rocca
Messinese Cavaliere di Malta, et Cosimo Gacci da Castiglione, sopra la voce
mai, se è negativa, o affermativa, secondo la quale si giudicava : esso
cavaliere Don Pietro della Rocca, che teneva, che mai negasse senza la
negativa, ha bene sentito, e tenuto secondo il commune, et buon uso del parlare
Toscano , e che si chiudeva con queste sacramentali e solenni parole: In fede di
che habbiamo fatto scrivere questo nostro lodo, dichiarazione, et sentenzia, la
quale sarà affermata di nostra propria mano, et segnata col nostro solito
sigillo. Data, nel nostro Palazzo a Baroncelli a dì XX, presenti M. Roberto de'
Ricci, et M. Giovanni Antinori, gentil' huomini fiorentini. Noi Donna Isabella
Medici Orsina, Duchessa di Bracciano affermiamo quanto di sopra . Era l'anno
della celebre rassettatura del Decameron, e il rumore di quel gran lavorìo
aveva, si vede, degli echi anche nelle corti, dividendo gli animi come se si
trattasse della salute dell'Italia. A tanta sentenza non s'inchina il Mannij
che ricorda le parole dello Strozzi affermanti che il mai Dante, il Petrarcha
il Bembo e il Casa non l'hanno mai fatto negare senza il non ! (pp. 182-4).
Medesimamente non accetta il lui e il lei per casi retti, e vi spende intorno
ben ventidue pagine, raccontando la storia della questione e impugnando, come
già aveva fatto il Fortunio, che però non cita, la lezione di quell'emistichio
petrarchesco, E ciò, che non è lei del son. Pien di qicell' ineffabile
dolcezza, che si dovrebbe leggere E ciò che non è in lei, secondo anche un ms.
o di quel torno della libreria Riccardi, segnato 0,19 ! È noto che dal Filelfo
al Monti è stato discusso su questo passo, e anche dopo, finché quelle che il
Mestica ha chiamato invincibili ragioni estetiche e grammaticali Q} del Monti
non ebbero la conferma dell' auto Ed. critica, Firenze] grafo vaticano 3195,
che infatti legge E ciò che none lei, come ora ognun può vedere nella
riproduzione letterale data dalla Filologica romana . Secolare questione,
tenuta sempre viva dal pedantismo grammaticale tenacemente ribelle a
riconoscere funzione soggettiva a lui e lei ! Simili investigazioni e
discussioni ci porgono la misura del valore di queste Lezioni, e di quel che
sarebbe stata la Grammatica che era nell'intendimento del Manni: tranne per
qualche correzione ermeneutica da accettare perchè fondata su dati di fatto
documentati da manoscritti autentici, la dottrina grammaticale del Manni
rappresenta un regresso per l'età sua, un puro ritorno alle vedute
cinquecentesche dei più puristi senza il pregio della spontaneità
dell'osservazione, che allora corrispondeva a un bisogno pur mo nato di
comprendere le forme esteriori d'una letteratura che andava sempre più
acquistando importanza e grandezza. Le IX lezioni Del periodo toscano hanno un
particolare interesse per le considerazioni alle quali possono offrire
occasione. Abbiamo visto come alla sintassi sia stata fatta sempre poca o nessuna
parte nelle grammatiche italiane: nel Cinquecento l'esempio del Giambullari,
che fu il primo, sotto il consiglio del Gelli, a trattar largamente della
costruzione intera e figurata secondo l'uso de' retori latini e greci, non fu
molto seguito, e restò quasi isolato; tanto che il riassuntore di tutte le più
che secolari osservazioni grammaticali, il Buonmattei, nella sua voluminosa
grammatica, non dà luogo affatto alla sintassi e se parla del ripieno
(pleonasmo), lo fa perchè lo considera come parte dell'orazione, non necessaria
per altro alla tela grammaticale, e non come figura sintattica. Della
costruzione tornò a trattare, come vedemmo, il Menzini, ma solo in quanto gli
dava materia di discorrere appunto delle figure grammaticali, non del vero e proprio
reggimento, e per influenza della grammatica sanziana e particolarmente della
teoria dell'ellissi; supplì, come pure vedemmo, il Cinonio all'assenza della
trattazione sintattica, con quel suo speciale sistema di passare in rassegna
l'uso delle cosidette particelle: ma neppure il Cinonio trattò A cura di E.
Modigliani] quella che propriamente si chiama la sintassi. Di questa, vedremo
tra poco, e perchè, s'occupò direttamente e di proposito il Corticelli,
trasportando di peso il metodo della grammatica latina nell'italiana e
rimanendo così a mezza strada. Ma al periodo pochissimi grammatici , come s'è
visto, rivolsero la loro attenzione, come ad oggetto diretto d'osservazione
grammaticale. Né poteva esser diversamente. Avremo anche più volte ripetuto che
nella sua esterna compagine la nostra grammatica si venne modellando sulla
latina, svolgendo negli schemi da questa offerti il nuovo suo contenuto. Ora la
trattazione del periodo per i latini non fu mai materia di grammatica, ma, come
organismo d'arte e di pensiero, apparteneva alla rettorica. Così esso entrava
nelle Artes dictandi de' nostri antichi dittatori, che erano, anche se si
chiamano grammatici e maestri di grammatica, essenzialmente retori e maestri di
rettorica. Il periodo insomma riguardava quella sezione della rettorica antica
che è l'elocuzione. Il nostro Manni, infatti, accingendosi nella detta lezione,
a discorrere del periodo, cita il retore Demetrio Falereo, il quale nel suo
celebre Trattato dell'Elocuzione accintosi a parlar del periodo, tratta prima
de i Membri, e degl'Incisi, come parti sostanziali, da cui riceve esso
materialmente il suo essere; poiché dalla chiara cognizione di questi, la
perfetta intelligenza di quello si facilita, se non in tutto, in gran parte.
Quindi per ispiegare in un tempo stesso e del Periodo e de i Membri, e
degl'Incisi l'essenza, con un esemplo, a mio giudicio, esprimente, rassembra il
Periodo a una mano, della quale ogni dito che si consideri separatamente da
quella, si trova essere un tutto in sé stesso perfetto; laddove poi se col
risguardo all'intera mano si osservi, altro non è, che un membro, ed una
picciola parte fra l'altre tutte, che vengono a comporlo. E poi cita subito il
Panigarola nel Commento alla Particella terza della prima parte del suo Demetrio,
e poi il cap. 9 del 30 della Rettorica d'Aristotile, doveil periodo vien poi
diviso in Semplice, e in Composto, non altro essendo il Periodo semplice, che
quello, che fatto è d'un Membro solo; il composto quel di più Membri. Ricordo,
tra gli altri, il Gagliaro . Y. qui il cap. Vili e particolarmente la p. 25;
Sulla scorta dei trattatisti antichi e moderni , che hanno fatto sopra di ciò
trattati pienissimi , dichiara il Manni che potrebbe molte cose portare ai suoi
discepoli; ma le tralascia, per non ripeter ciò che è stato detto dagli altri e
che ognuno può veder da sé, e perchè le cose che dir potrebbonsi, non meno
appartengono al Greco, ed al Latino periodo, di quel che al nostro Toscano
abbiano attinenza (p. 200). Suo intendimento è ragionare soltanto del Periodo
Toscano dal Boccaccio con sottile accorgimento nella Lingua nostra introdotto ,
mirando a eliminare un inconveniente comune negli scrittori e oratori. E appena
necessario avvertire che il Manni concepisce il periodo come un esteriore
meccanismo o strumento per l'espressione del pensiero, che si può togliere in
prestito, insegnare o trasmettere da scrittore a scrittore. Le particolari
osservazioni movono tutte da questa concezione, che è poi quasi interamente
rettorica e punto grammaticale. Il forte, e l'essenziale del discorso ed il
fondamento della buona eloquenza si è in primo luogo l'abbondevolezza delle
cose, e la robustezza de' concetti, e de i sentimenti sul capitale di un gran
sapere accumulata (p. 201). Poi la giudiziosa scelta del genere di parlare (lo
stile), se alto, mediocre, o umile ('"), che però appartiene all'arte di
dire. Da questi principi, derivano l'uso de' termini, degli epiteti, e degli
avverbi ottima, ed abbondevole guernigione di nostra lingua. Ma la prima
caratteristica del periodo toscano è V ordine del tutto e delle parti. L'ordine
dev'esser naturale: da esso non si disgiunge la naturalezza e la chiarezza, cui
è compagna la sonorità. Questa bisogna conseguire specialmente al principio r
al fine del periodo, e particolarmente al fine. I Greci per conseguirla erano
esercitati dal I^onasco, esercitatore della pronunzia . Essa in gran parte
dipende dalla misura delle sillabe, negata da Bartolomeo Cavalcanti
all'italiano, benché prima della [Tra questicita Giovita Rapicio, autore d'un
Trattato del numero oratorio [De numero oratorio'], e lodatissimo maestro e
scrittori.li ose grammaticali e pedagogiche. Cfr. Gekini, op. cit., p. 124 sgg.
Recentemente gli è stata dedicata una monografia. Reca l'esempio di sinonimi
del verbo morire: Trar l'aiuolo, Tirar le cuoia. Render l'anima al Creatore
suo, Pagare alla natura il suo diritto.] sua morte la fosse stata asserita nel
1556 dal Ragionamento del Lenzoni, edito dal Giambullari, sulla quantità delle
nostre sillabe, de' nostri piedi, de' nostri periodi, e prima ancora dagli
Accademici della Virtù che ne diedero per le stampe i precetti. essendone stato
primo autore Alberti. I Latini avevano le lunghe e le brevi, e noi abbiamo gli
accenti. Il periodo non vuol esser terminato né da voci monosillabiche né assai
lunghe. Il Boccaccio comincia e finisce il suo primo periodo del Decamerone con
due trisillabe piane. Modello di numero oratorio è l'orazione del Casa per la
restituzion di Piacenza. Utile a conseguir la sonorità è esercitarsi a dir improvviso
versi di cinque, di sette, e d'otto piedi, alla mescolata, ma senza incorrer
nel biasimo quintilianeo dell'uso de' versi interi nella prosa. Vizio
rimproverato già al Boccaccio, ma dall'annotatore de\V Ercolano del Varchi non
ritenuto tanto riprovevole, essendo impossibile non adoperar versi ne' periodi.
Vizio è quando il verso si raffigura, o sia si fa sentire troppo spiccatamente,
e l'editore delle Novelle che ne trasse fuori i versi adoperatevi, è lui
biasimevole che la sua brevissima dedicatoria cominciò con una filza di versi.
Il Panigarola si restringe a disapprovar nella prosa solo la rima. E un fatto
che la bellezza del periodo dipende dalle parole bellamente acconce: volendo,
ad es., conseguir la grandezza e la magni fi ee7iza, si deve far uso in
principio de' casi obliqui, di repliche giudiziose, e anche di parlare alquanto
oscuro, e tardo ! . Analogamente si conseguono l'evidenza, la vaghezza e la
leggiadria, con simili espedienti: così la dolcezza è prodotta da parole dolci
(Luce, Desio, Gioia), la languidezza e bassezza da parole lunghe, e sdrucciole;
l' asprezza, la durezza, la severità da parole simili a queste: Stordimento,
Discoraggiare, Stranezza, Frastuono . Insomma con la scelta delle parole, che
meglio paroleggiamento appellar si potrebbe , si conseguono effetti
sorprendenti. Son questi: Il sommo pregio dell'uom meritevole Non resta mai
all'augusto confine Di sua dimora; ma perennemente Ovunque è cognizione di
virtù Vera si spande; quindi l'Eccellenza Vostra sdegnar non deve ch'io da
lunge ecc. C. Trabalza. 386 Storia della Grammatica Finalmente tre cose bisogna
evitar nel periodo: Lunghezza eccedente, Trasposizioni non naturali, il Verbo
al fin trascinato. Ho voluto esporre questa dottrina del periodo che il Manni
formulava nel 1736 per far notare, come, mentre le dottrine grammaticali del
Vico superavano il logicismo scaligero-sanziano, e questo, in ogni modo,
fecondato dai solitari di Portoreale, produceva quella sì ricca letteratura di
grammatiche ragionate o filosofiche, in Italia, ne' nostri istituti, si era
ancora con l'antichissima rettorica, cioè proprio agli antipodi delle più nuove
dottrine. Come s'è visto, nell'organismo periodico il Manni non ha intravvisto
nessun legame tra le parole, l'ordine di esse e il pensiero, che non fosse
rettorico; tutta la concordanza è tra la figura dirò così geometrica e musicale
del periodo e una cotal forma di pensiero in essa rispecchiata. Tra la nona e
l'ultima lezione il Manni espone il Galateo, e con la decima sull'ortografia,
un gruppetto di osservazioni spicciolate di poco valore, chiude il corso. Né
meno lontano del Manni dalle alture grammaticali dell'indirizzo filosofico
contemporaneo troviamo il Corticelli, benché le sue Regole ed Osservazioni
portino scritto in fronte la parola ?netodo(~). Alla tradizione seguita dal
Manni appartengono quel p. Onofrio Branda, che nel suo Dialogo della lingua
toscana tenne fermo con tirannide pedantesca e inurbana il culto del toscanismo
(Concari, // Settecento, p. 242) e Girolamo Rosasco, de' cui sette dialoghi
sulla lingua toscana avremo occasione di riparlare altrove. C') La parola
metodo ha storicamente, per questo periodo, due significati, secondo che era
adoperata dai seguaci di Portoreale, o dai grammatici puristi che intendevano
sistemare didatticamente la materia grammaticale: per quelli il metodo riguarda
V interno della grammatica, per questi Veslerno. 11 Nuovo Metodo di Portoreale,
dopo la prima ediz. ital. cui già s'è accennato, cominciava a esser ora più
largamente diffuso e ristampato in Italia con più frequenza. Dal latino, pel
quale primamente fu escogitato, passò di leggieri al greco, e quindi al
francese e all'italiano. I Portorealisti stessi avevano eseguiti i vari metodi.
Un Nuovo metodo per la lingua italiana la più scelta estensivo a tutte le
lingue pubblicò G. A. Martignoni a Milano. Ma anche in quello escogitato per
apprendere la lingua latina era fatta una gran parte anche all'italiana, tanto
che verso l'ultimo trentennio del secolo usciva anche, in compendio, come in
Venezia, col titolo di Nuovo metodo d'insegnai e le lingue italiana e latina. E
anche tipograficamente si volle distinta la parte Capitolo tredicesimo 387 Dai
diciannove trattati del Buonmattei e dalle Particelle del Cinonio, alle Regole
del Corticelli corre un secolo preciso, poiché questa Grammatica vide la luce
la prima volta, fruttando all'autore con gli utili appunti degli Accademici la
nomina a membro del massimo Istituto linguistico. Con tutte le sue novità,
questa Grammatica, che ha il suo principal fondamento in quella del Buonmattei
e che si ristampava nel 1854, a due secoli di distanza dunque dalla comparsa
della sua fonte, è nuova testimonianza del fatto da me notato, che la storia
della nostra grammatica precettiva in quanto contiene una tendenza filosofica
finisce col Buonmattei: dopo il Buonmattei, se si vuol seguire il progresso
scientifico, bisogna percorrere l'altra via che si stacca appunto dal
Buommattei medesimo per quel che concerne il fondamento teorico delle
grammatiche ragionate che vi ha di proposito la lingua italiana , coni' è detto
nella prefazione all'ed. seguente, uscita in luce negli anni in cui ci troviamo
col nostro discorso: Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua Ialina
traila dal francese nell'italico idioma, e, per utilità di novelli scolari,
aggiuntovi nel principio gli Elementi tolti dal Compendio della medesima opera,
per intelligenza di tutte le parti dell'Orazione e nel fine un tratta te Ilo
della Volgar Poesia coir Indice dell' Opera sinora desiderato all'uso del Seminario
Napoletano, in Napoli, Per Pietro Palumbo, a spese di Raffaello Gessari, voli.
2. Nel proemio è detto che le regole vi sono dettate in versi seguendo le
pedate dell'A. . Vi si richiamano lo Scaligero, il Sanzio e il Vossio. Si
deplora che nella letteratura si segua uno stil figurato [fantasia], mentre
basterebbe il grammaticale [ragione']: invece di amare vanno in pesca di amore
prosegui, benevolentia complecti! Nella trattazione, sotto le varie sezioni e
categorie grammaticali, dopo date le definizioni e le regole per il latino,
viene, in carattere più piccolo, la parte per l'italiano. Così a p. 3
incomincia l'uso dell'articolo. Ma non è una trattazione sistematica per
l'italiano per quanto riguarda la prima parte, cioè la morfologia; e anche
nella seconda, Osservazioni particolari sopra tutte le parti dell'Orazione , al
trattato delle figure di costruzione , delle lettere , benché sia detto che è
trattato '1 tutto in rapporto alla lingua italiana (p. 648 sgg.),
nell'esecuzione la promessa è spesso dimenticata. E questa l'edizione che
seguo: Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo ed in tre
libri distribuite da Corticelli bolognese colle correzioni e giunte di Pietro
dal Rio ed altri. Un volume in due fascicoli. Venezia, Stabilimento enciclop.
di G. Tasso edit., M . DCCC . LIV. Il Corticelli era di Piacenza.] e
filosofiche, che in Italia fanno una non breve apparizione e, inaugurate come
vedremo con quella di Soave, caddero sotto la scomunica del risorto purismo
incarnato in Puoti, proprio nel tempo stesso in cui il più illustre scolaro del
Puoti, quasi di soppiatto del maestro, concepiva il disegno d'una nuova
grammatica filosofica che contenesse anche ed insieme la grammatica storica e
la grammatica metodica, facendo una liquidazione generale di quante grammatiche
italiane da quella del Fortunio a quella del Corticelli avevano codificato il
purismo bembesco-cesariano. Le novità con cui si presenta Corticelli, erano
queste tre: il metodo; la costruzione (sintassi); un florilegio di frasi
idiomatiche degli Autori del buon Secolo. L'ordine della trattazione è
rispettato: MORFOLOGIA, SINTASSI, pronunzia, ed ortografia. Gl'insegnamenti
erano fondati su gli esempi di buoni, ed approvati toscani scrittori , antichi
fino al 400, moderni dal 500 in poi; gli esempi tolti in maggior copia dai
trecentisti, e più specialmente dal Boccaccio, la prosa migliore, che vantar
possa la nostra lingua, secondo il testo Mannelli. Questo il carattere e il
pregio delle regole grammaticali: sono minuzie, che non si apprendono senza
molestia: ma il ben saperle, e l'averle all'occasione in contanti è cosa di
molto vantaggio. Qui troviamo condensati tutti i criteri che più tenacemente
prevalgono con la forza stessa della loro pedanteria, in parte, in parte per quell'
esigenza cui sembra che ineluttabilmente debba sodisfare chi voglia apprendere
una lingua. La terza di quelle tre novità, era una conseguenza del criterio
principale onde fu mosso il Corticelli nella compilazione della sua fortunata
operetta, la riduzione del vario e vasto materiale a metodo: il bisogno di
ridurre a metodo i precetti non poteva non ispirar l'altro di ridurre a metodo
e come alla portata di mano il vocabolario delle veneri, de1 modi vaghi e belli
onde riboccali gli aurei scrittori. Riconosciuta la sconfinata importanza, la
fatidica necessità, l'assolutezza della grammatica, unico segreto per riuscire
elegante e corretto artefice di prosa, lo studio degli scrittori doveva
anch'esso ristringersi sotto il vasto imperio della grammatica, riducendo quasi
in pillole e condensando in confettini il loro succo migliore: la conquista
dell'arte non era, non diciamo effetto di vita e di elaborazione Capitolo
tredicesimo 389 intcriore, ma neppur risultato della lettura degli artisti di
prosa e di poesia, ossia dello studio concreto della letteratura; essa era
infallibile conseguenza di chi si fosse bene impresse le regole della
grammatica e le belle frasi di aver pronte al bisogno, come quelle che son
molte e fuggono facilmente dalla menu >ria (ib.). Era, come ognun vede,
l'allontanamento completo dalle vive, fresche e perenni sorgenti del pensiero e
dell'arte: era il portare al suo ultimo grado di sviluppo degenerativo quella
che, in sostanza, nel Cinquecento era stata, più o men bene condotta osservazione
degli scrittori e non legge già imperiosamente dedotta: era insomma l'avvento
tinaie e completo della grammatica nel peggior senso della parola, che è poi,
non dimentichiamolo, il vero senso di essa. Quella del metodo era una novità,
ma fino a un certo senso: già nel Cinquecento le osservazioni grammaticali
contenute nel terzo libro delle famose Prose del Bembo erano state ridotte a
metodo dal Flaminio e da altri variamente rassettate e accomodate all'utilità
pratica degli studiosi della nostra volgar lingua, né erano mancate
compilazioni grammaticali che quella materia stessa avevano disciplinato: il
bisogno d'aver un corpo ordinato di quelle osservazioni che via via sotto lo
studio diretto degli scrittori si eran venute facendo, da poter esser consultato
volta per volta oltre che tenuto come testo per uno studio sistematico della
grammatica sia pur fuori dell'ambito strettamente scolastico, era stato più o
meno vivamente sentito e s'era cercato di sodisfarlo con qualche successo: e
anche a non citar i cosiddetti mestieranti che non il Bembo soltanto, ma i
principali grammatici cinquecenteschi avevan raccolto e ordinato a uso degli
studiosi, lo stesso Salviati in quei suoi Avvertimenti sul Decameron aveva dato
un lodevole esempio del come le forme e i costrutti d' un cosi ins igne
capolavoro e d'altre opere dell'aureo secolo potessero esser studiate
metodicamente nelle tradizionali categorie: e il Castelvetro, sopra tutti, pur
in quelle apparentemente farraginose e selvose e irte sue Giunte alle Prose del
Bembo che ebbero a stancar la pazienza di lettori non pochi, non esclusi i
benevoli e amorevoli critici del più sottile di tutti i filologi nostri
antichi, non aveva forse applicato un principio eminentemente metodico di
esposizione? Metodico, nel senso più elevato della parola questo soprattutto
interessa qui metter bene in rilievo più e meglio che nell'esposizione 390
Storia della Grammatica dirò esterna della materia contenuta nelle due
principali categorie grammaticali, V articolo e il verbo, su cui aveva
esercitato il suo spirito critico, era stato nella trattazione interna di essa,
ossia nello svolgerla nella sua formazione storica, come quegli che,
precorrendo assai meglio d'altri precettisti, come vedemmo, il sistema
d'investigazione linguistica proprio della moderna filologia, aveva mosso dalla
parola latina per ispiegare coi criteri della fonetica evoluzionistica e in
ispecie con la legge dell'analogia, la morfologia dell'articolo e del verbo
volgari. Infine con metodo aveva cercato di stendere, nella prima metà del
Seicento, i suoi trattati il Buonmattei, elaborati sul materiale vario e
diverso che i grammatici del Cinquecento gli avevano trasmesso. Anzi,
nell'ordine che chiamerò ideologico, il Buonmattei è metodico quant'era stato
nell'ordine storico o filologico il Castelvetro. Non solo. Il Buonmattei
avrebbe proprio inaugurato il vero metodo dell'esposizione grammaticale
astrazion fatta dal regresso che rappresenta rispetto al Castelvetro per quanto
concerne la grammatica storica nel senso di un principio filosofico secondo il
quale sorgono e si dispongono nella tela grammaticale le parti dell'orazione,
se tra la sezione teorica e quella pratica, onde consta la sua grammatica,
fosse un ben più intimo legame di quel che, come già notammo, in realtà non
sia, poiché questa seconda sezione resta in sostanza quasi unicamente
descrittiva. Ciò che non avvenne nelle posteriori grammatiche generali specie
della Francia, dove appunto la grammatica generale s'incorpora nelle
particolari del latino e delle lingue moderne con intimo legame. Non si può
negare che in codesta descrizione non sia cercato il metodo con piena
convinzione e coscienza; ma Buonmattei era ancora troppo vicino alle varie
tendenze, alle polemiche che si svolsero nel campo della grammatica cinquecentesca,
perchè non dovesse risentirne 1' influenza né lasciarne le tracce nella sua
trattazione. Inoltre il troppo definire le specie e le sottospecie delle
categorie, la confutazione d'errori e di teorie credute sbagliate, una
soverchia abbondanza di svolgimento e di particolari, la moltiplicazione delle
categorie stesse portate a dodici, e altri che sono e non sono difetti, non
sono certamente le caratteristiche meglio notevoli d'una trattazione metodica.
Egli stesso trovava il suo libro di non facile uso né di facile intelligenza e
raccomandava che si studiasse prima della prima la seconda parte per ben
comprender l'una e l'altra e specialmente la prima. Insomma, neppure quello del
Buonmattei sembra che rispondesse al bisogno d' un libro di grammatica
metodico, chiaro insieme e, come dicevano, manesco. Le aggiunte e correzioni,
inoltre, che il Cinonio, il Bartoli e gli altri, che s'occuparono per tutto il
resto del secolo e il principio del successivo di cose grammaticali,
apportarono al corpo di quelle del Buonmattei, e i mutati ordinamenti
scolastici, ne' cui piani cominciava ormai a entrare ufficialmente e
separatamente, come vedemmo essersi fatto nell'Arcivescovile seminario di
Firenze, rendevano ancor più vivo quel bisogno, anzi tanto vivo, che potè
sembrare un bisogno recente, proprio del momento, e novità quella di chi
introducesse il metodo nella trattazione grammaticale. Parrebbe inoltre che
quel movimento intellettuale che s'era determinato nel campo della grammatica
latina con la discussione e l'applicazione dei principi aristotelici ripresi
dallo Scaligero e dal Sanzio e poi nuovamente fecondati dai Portorealisti, e
che, richiamando gli studiosi della lingua a una considerazione più elevata che
non fosse quella puramente descrittiva della grammatica, necessariamente li
costringeva alla ricerca delle relazioni logiche de' fatti linguistici e perciò
a una trattazione disciplinata, sistematica di esse, parrebbe, dico, che
codesto movimento logico-grammaticale del Seicento cadente e dell' ineunte
Settecento dovesse far sentire ancor meglio la necessità del metodo, né fosse
estraneo appunto all'affermazione corticelliana dell'urgenza di sopperirvi; se
non che, non solo questo non avvenne, ma a codesto movimento, non che estraneo,
fu affatto in opposizione il modo onde il Corticelli esplicò il suo disegno di
grammatica metodica. Precorre in questo senso il Corticelli di pochi anni nelle
novità richieste dai tempi non si è mai soli Gaffuri barnabita, autore di
Osservazioni grammatica/i ridotte a metodo breve e facile per chi desidera
correttamente scrivere nella Italiana favella; dedicato alla ingenua e studiosa
gioventù Friulana, Udine. Il Gaffuri dice appunto che i fanciulli si spaventano
dinanzi ai volumi del Buonmattei, del Castelvetro, del Salviati, del Cinonio, e
non possono profittarne: ed egli intende con questo suo libriccino aver
supplito alla debolezza degl'uni, ed all'impotenza degl'altri. Ma, all'atto
pratico, si vede che il metodo è concepito come abbandono di tutta la ricchezza
delle osservazioni, e conservazione di alcuni pochi schemi. Prima ancora di
Gafi'uri, Bosolini aveva pub- [Il suo metodo, in sostanza, si ridusse a
scarnire fino quasi allo scheletro il corpo della grammatica, e, fattene tre
sezioni, descriverlo pezzo per pezzo per regole, osservazioni, eccezioni e
appendici con semplice meccanismo, senza mai cercare una ragione di intima
dipendenza tra una parte e l'altra o altra distinzione che quella del numero
progressivo, badando solo a render la materia facilmente imparabile a memoria,
e de' precedenti grammatici limitandosi a citar qualche nome, più spesso quello
del Buonmattei, e cancellando quasi ogni traccia delle vecchie discussioni
anche con rimandi ad esse, ligio soprattutto specie per gli esempi all'autorità
della Crusca, che, anche per confessione de" suoi annotatori, Corticelli
continuamente saccheggia a maggior conferma della rigidità e assolutezza de'
principi a' quali s' informa. Metodo vuol dir guida razionale, blicato la
Midolla letteraria della lingua italiana purgata, e eoi' ietta con un
competente Saggio de' suoi quattro principali dialetti cui s'aggiunge una
Midolla di Le t ter familiari, per il principiante: il lutto ordinato con nuovo
metodo a prò di un Amico, Venezia; ma se non vogliamo credere alle parole del
titolo, questa grammatica, che potè esser stata ispirata dalla pubblicazione
che appunto circa questo tempo) il Gigli fece delle Opere del Cittadini, più
che al periodo diremo precorticelliano, sarebbe da riferire a quello
postcittadinesco, per la parte ivi data alla fonetica e ai quattro idiomi
toscani e al criterio non. esclusivamente municipalistico. Ognuno deve cercare,
dice l'A., di star nel proprio terreno, evitando i due scogli o di dover
praticar la pronunzia fiorentina, e quindi apparire in casa loro affettati e
ridicoli, o di scrivere molto diversamente dal loro pronunciare, ch'è
manifestamente contro i dettami di tutti gl'Italiani più saggi. La grammatica è
contenuta nella I parte I. Ortografia: lettere, cons., voc, ditt., apostr.,
radd. o scem., maiusc. e staccamento; II. Etimologia: art., nome, pron., ver.,
pers., anomali, part., accorc, tronc, ristring., voci; III. Sintassi', div.
della materia, dialetti (fior., sen., cur.-rom., comune, corrisp. ai greci
attico, gionico, eoi., dor.), forma della sint.; Prosodia: accenti, interp.).
Da pp. 16-22 riassume i trattati cittadineschi sull'i e Yo aperti e chiusi. E
chiuso, p. es., è di 4 cause: 1. per accento grave: dove, pensoso (ma penso);
per origine latina: lèttera; per ragioni della lettera: seguito da;/ o u: meno;
4. per definimento: -ménte (altamente ecc.). Di questa guisa d'errori [valore
de' modi toscani] abbonda il Corticelli in queste sue Appendici ecc., i quali
attinge si può dir tutti dal Voc. della Crusca. Però fin da ora ne sveglio il
lettore, a cui non istarò a torre il capo con noterelle di questa specie. Uomo
avvisato è mezzo salvo!] ordine interno di trattazione, svolgimento sistematico
di relazioni o intellettuali o storiche: qui, invece, è scolasticismo,
simplitìcazione didattica ottenuta con criteri meccanici, mnemonici, aiutata da
partizioni e suddistinzioni, indici analitici: che, peraltro, possono rendere
il libro di facile consultazione a chi voglia cercarvi una regola, ma non sono
certi gli espedienti migliori a mettere lo studioso in possesso dell'argomento.
Ma conviene del pari riconoscere che tal sorta di metodo è l' unica degna d' un
tal prodotto qual è la grammatica: codesto metodo è l'unica logica di essa, che
non ne ha appunto nessuna. E questa è la ragione per cui ha finito col
trionfare non nella sola grammatica italiana, s' intende, e prevarrà
indubbiamente fino a che si studieranno grammatiche. Quello della grammatica è
studio meccanico: quindi spogliarla d'ogni intrusione razionalistica è, nel
campo della didattica, perfettamente metodico, e renderla veramente servibile
(che servizio sia, è inutile dirlo) a chi voglia o debba studiarla; non solo,
ma l'innovarla troppo profondamente in quel suo tradizionale, stereotipato
schematismo, la conturba, la trasfigura, disorientando i lettori: tanto è ciò
vero che, attraverso il turbinìo continuo di nuovi metodi, l'antico, il comune,
il tradizionale riman sempre in onore, e ritorna sempre, difeso e riverito, a
ogni fallire di quelli. Anco per questa ragione, dovendo il Corticelli eseguire
quasi per la prima volta nella grammatica italiana un'esposizione metodica
della costruzione o sintassi toscana, ne tolse di peso dalla latina
dell'Alvaro, come il Puoti avverte, criticandolo, nella prefazione alla seconda
parte delle sue Regole (nella gr. latina elementare s'era cominciata prima la
scarnificazione appunto perchè eravamo già lontani dal Rinascimento, periodo di
vitalità), lo stampo e ve lo trasportò integralmente, anche dove e quando non
solo non era richiesto, ma cozzava evidentemente con le nuove forme a cui più
non s'attagliava: difetto egualmente avvertito dagli annotatori suoi, che
sentenziavano quelle regole r, nelle cui note è cit. la copiosa bibliografia
che del Soave diede il sig. Motta nel Boll. si. della Svizz. ìt. Ne ho l'ediz.
di Venezia del MDCCXCV, nella stamperia di Giacomo Storti, dove vanno uniti col
voi. I delle Istituzioni di logica, metafisica ed etica. f:t) Prefaz., dove è
detto che a Berlino furono spedite in una Dissertazione latina colla divisa
Utilitas expressit nomina rerum, Lucret. traduzione italiana. Croce, Est. senza
di cui certamente la prima non può formarsi . Né una società può formarsi senza
il motivo di bisogni scambievoli e senza che gli aiuti reciproci siano con
qualche segno manifestati. La natura ne somministra alcuni spontaneamente:
altri artificiali scaturiscono poi dagli originari meccanici. I primi e i
secondi non essendo per altro bastevoli, la natura stessa stimolata da nuovi
bisogni conduce all'istituzione d'altri segni, e, per gradi, prepara alla
formazione d'un vero linguaggio. Oltre la tesi, è chiaramente indicato, nella
prefazione citata, anche il metodo dell'analisi. L'istituzione primieramente
del linguaggio de' gesti, appresso delle voci articolate in generale, e in
seguito di ciascuna parte del discorso distintamente io mi ho veduto nascere
dalla natura medesima con maggiore facilità e semplicità che forse dapprima non
m'attendea . Ma a ben seguire lo sviluppo del linguaggio bisogna rifarsi dal
principio della storia dell'umanità, e vedere come si può formar la famiglia, e
poi per quali mezzi dalle famiglie moltiplicate sorse una compiuta società che
dallo stato selvaggio gradatamente passasse a quello d'una perfetta coltura .
Il linguaggio progredisce col progredire della società. Ma restava a cercare
per quali vie più naturali e più semplici, e il numero de' suoi vocaboli,
successivamente, potesse moltiplicarsi, e potessero stabilirsi di mano in mano
le regole, che l'essenza costituiscono di una lingua . Dal poco che fin qui s'è
riferito, facilmente s'argomenta che il Soave è sotto 1' influenza del pensiero
vichiano, e ora dimostreremo come il punto di partenza e il sistema della
dimostrazione del sorgere delle categorie grammaticali sieno presi dalla
Scienza nuova. Ma qui mi giova metter subito in evidenza come il Soave abbia
assunto del Vico perfino l'atteggiamento, sebbene con un gran pericolo di
diventarne ridicolo. Chi sa i tormenti fierissimi in cui si travagliò 1'
intelletto del sommo filosofo napoletano per conquistare la verità, non può
leggere senza sentirsi preso da profonda riverenza e commozione dichiarazioni
di questo genere: La guisa del loro nascimento, ossia la natura delle lingue,
troppo ci ha costo di aspra meditazione. Ma che dire del padre Soave che,
copiando il Vico, al punto in cui ne abbiam lasciato il pensiero, esce in
questa che è una parafrasi della dichiarazione vichiana? questa parte a prima
vista sembrava la più difficile; ma con un attento esame delle lingue già note,
e con una seria meditazione su la natura intima delle lingtie, ella 4 io Storia
della Grammatica pure si è ridotta ad una eguale semplicità, se non forse
maggiore della prima . Avrebbe potuto ritenersi pago seguo ancora le preziose
confessioni della scoperta; ma non volle perder l'occasione di mostrare
l'influenza che la società e le lingue hanno sulla umana cognizione. Visto
dunque lo stato mentale d'un uomo abbandonato a sé solo dal nascere, vale a.
dire d'un uomo senza società, e conseguentemente senza linguaggio, si fa a
considerarlo in società, e parlante: e giunto anche soltanto all'istituzione
de' nomi e de' verbi , trova in lui perfettamente sviluppate tutte le facoltà
come in noi e capaci di cognizioni di altissimo grado. E si lusinga che il
vedere in tal guisa da due fanciulli abbandonati in un'Isola deserta nascere a
poco a poco una società, nascere una lingua, e col progresso dell'una e
dell'altra svilupparsi di mano in mano, e perfezionarsi le facoltà,
moltiplicarsi le cognizioni, formerà... un colpo d'occhio non disgradevole nel
tempo stesso che varie riflessioni, molte delle quali pur crede nuove; e
intorno alla natura e allo sviluppamento delle umane facoltà e cognizioni, e
intorno alla natura intima delle lingue non lascieranno di essere vantaggiose .
Chiude dichiarando che, malgrado questi motivi... affine di non moltiplicare
inutilmente le opere su d'uno stesso soggetto , si sarebbe tenuto dal pubblicar
le sue ricerche, se la dissertazione del sig. Herder, che meritamente fu
coronata, e eh 'è già uscita alla luce, fosse stata da esse meno dissimile . E
seguendo l'estratto córsone sui giornali, istituisce questo raffronto tra la
propria e la dissertazione dell'Herder: Sulla prima parte del quesito ci sembra
essersi trattenuto principalmente : laddove io per la ragione sovraccennata
alla seconda principalmente ho creduto dovermi appigliare. Ei non discende a
ninna ipotesi; io fissata fin dal principio l'ipotesi di due fanciulli in un'
isola deserta abbandonati, a questa continuamente m'attengo. Egli colla vastità
del suo ingegno abbraccia il proposto argomento più in universale, e più in
astratto, io l'esamino più in particolare, e, se m'è lecito di così dire, più
in concreto. Insomma le due memorie, benché s'aggirino sovra la stessa materia,
possono tuttavia riguardarsi come due cose pressoché affatto diverse; e dove le
mie ricerche non abbiano altra utilità, avran quella forse di supplire a ciò
ch'egli ha tralasciato. Accennando ai debiti del Soave verso il Vico non
abbiamo certamente inteso d'affermare che la memoria sia tutt'un plagio: oltre
che non avrebbe potuto esser tale per ragione di estensione, constando essa di
ben diciannove capitoli, mentre il Vico ha tutta condensata in poche pagine la
materia elaborata dal Soave, attinge largamente da scrittori contemporanei di
filosofia del linguaggio, quali il De Brosse, autore del noto libro De
laformation mécanique des Langues, il Lery, il Sulzer e altri. Particolari
affermazioni di VICO (si veda), Soave ha fatto proprie: che le prime a essere
istituite dovettero esser le interjezioni -- cf. Grice, “Ouch” – Meaning
Revisited; che i vocaboli da principio furono mono-sillabi (ouch), o bi-sillabi
(ouch ouch) al più. Perciocché innanzi di aver esercitato gl’organi della voce
non potran essi proferire ad un tratto, che UNA, o due sillabe solamente. LO
STESSO NOI VEGGIAMO NE’FANCIULLI, che le parole cominciarono da l'imitazioni
delle voci, e de' suoni NATURALI (ouch), secondo la cosidetta dottrina dell'
o?iomatopea; che i verbi cominciarono dall'imperativo ( non tutti, però,
aggiunge, quasi voglia correggere il non citato maestro), e che anche i verbi
furon tratti dall'onomatopea ecc. Il debito principale, tuttavia, è, come s'è
già detto, in quel prender le mosse dallo stato primitivo della umanità, dal
considerar le manifestazioni del linguaggio nel fanciullo, in quel riferire
queste manifestazioni alle cause naturali agenti sull'uomo, i loro progressi ai
progressi della società, nel distinguerle in mute e in articolate secondo che
l'uomo fu abbandonato a sé stesso o costituito in società, in quel seguire il
sorgere progressivo delle categorie grammaticali e sintattiche secondo i
procedimenti rappresentativi e logici delle menti umane più o meno sviluppate
secondo il progresso sociale, insomma nell'aver battuta la medesima via per
giungere alla risoluzione del problema dell'origine del linguaggio. Ma, sarebbe
quasi superfluo il dirlo, le differenze sono profonde. VICO (si veda),
anzitutto, ha, come ormai si sa per la dimostrazione del Croce, definita la
natura estetica del linguaggio; secondo, nello spiegarne l'origine e lo
sviluppo, ha accennato solo principi generali di natura molto diversa da Su
questo proposito dell'imperativo cita invece senza accettarla un'opinione del
Berger, Les èléments priniit. des Lang., che ri-, cordava a sua volta quella
del sapientissimo Leibnitz: nell'imperativo doversi cercare la radice de' verbi
della lingua tedesca] quelli del Soave, senza scendere a particolari
circostanze, tenendosi sempre all'altezza dell'aquila. Per esempio, il Vico,
dopo aver esaurita la sua dimostrazione circa il sorgere delle prime classi
grammaticali tutte monosillabiche, osserva: Questa Generazione delle Lingue è
conforme ai Principi così dell'Universale Natura, per li quali gli elementi
delle cose si compongono, e ne' quali vanno a risolversi; come a quelli della
natura particolare umana per quella Degnila, eh' i fanciulli nati in questa
copia di lingue, e eh' hanno mollissime le fibre dell' istromento da articolare
le voci, le incominciano monosillabe; che molto più si dee stimare de' primi
uomini delle genti, i quali l'avevano durissime, né avevano udito ancor voce
umana. Soave nota che i fanciulli non potranno proferire che una o due sillabe
solamente e che non arrivano se non dopo un certo tempo a poterne proferir di
più lunghe. Il monosillabismo pel Vico è un principio universale e particolare
insieme e con esso egli spiega tutta la primitiva grammatica, ossia tutto il
linguaggio; pel Soave non è più nulla, non solo perchè è monosillabismo e
bisillabismo, indifferentemente, ma perchè non è più un principio, ma una
semplice questione di maggiore o minore bravura meccanica. Terzo, finalmente,
Vico, come più addietro vedemmo, nel confronto della sua con la dottrina
aristotelica delle categorie grammaticali, fa di queste degl' indici delle fasi
ideali dell'umanità, ne fa dei segni in cui si siano concretati e espressi
particolari progressivi atteggiamenti dello spirito umano: il Soave con la
logica alla mano e con una storia di sua invenzione, precisa non solo nei
particolari delle circostanze ma degli specifici procedimenti della mente
umana, fa fare all'umanità un cammino inverso, appunto, per dirla con la
maniera stessa di Vico, come se i popoli, che si ritrovaron le lingue, avessero
prima dovuto andare a scuola ò? Aristotile . Ma non propriamente d'Aristotile,
si bene dei sensisti del secolo decimottavo. Perchè, appunto, questo è da
concludere, che il Soave ha elaborata la materia vichiana col sensismo
filosofico del suo tempo. Insomma, sulla guida di un'intera e compiuta
grammatica logica, fondata sulle distinzioni di materia e forma, di pensiero e
segni, di idee sensibili e astratte, Soave ha costruito una storia universale
umana, facendo corrispondere ad ogni classe grammaticale, a ogni forma
inflessiva di nomi e di verbi, una particolare causa sociale e naturale che
Capitolo quattordicesimo 413 l'abbia prodotta. Tanto valeva il prescindere
dalla sua fantastica narrazione de' due piccoli selvaggi, e darci addirittura
una grammatica logica. Quella che ci diede, fu dunque una copia, un duplicato ;
ma prima che ne diciamo qualcosa, ci corre l'obbligo di accennare per lo meno
alla grande portata filosofica che ha invece la dissertazione dell'Herder. Lo
faremo con le succose parole, documentate da opportune citazioni, del Croce,
che ne porgono una chiara idea e un giusto giudizio. La lingua egli dice in
quello scritto è la riflessione o coscienza (Besonnenheit) dell'uomo. L'uomo
mostra riflessione quando spiega con tale libertà la forza della sua anima che
in tutto l'oceano di sensazioni penetranti pe' suoi sensi, può, per così dire,
separare un'onda, ritenerla, dirigere su di essa l'attenzione, ed esser conscio
che l'osserva. Egli mostra riflessione quando può, nell'ondeggiante sogno delle
immagini che passano innanzi ai suoi sensi, raccogliersi in un momento di
veglia, liberamente soffermarsi su di una immagine, prenderla in chiara e calma
considerazione, separarne de' connotati. Egli mostra, infine, riflessione
quando non solo può conoscere vivamente e chiaramente tutte le proprietà, ma
può riconoscere una o più proprietà distintive. Il linguaggio umano non è
l'effetto di n\\ organizzazione della bocca, giacché anche colui ch'è muto per
tutta la vita, se riflette, ha in sé linguaggio. NON È UN GRIDO DELLA
SENSAZIONE, giacché esso non fu trovato da una macchina respirante, ma da una
CREATURA RIFLETTENTE. Non è un fatto d'IMITAZIONE, giacché l' imitazione della
natura è un mezzo, e qui si tratta di spiegare lo scopo; MOLTO MENO È
CONVENZIONE ARBITRARIA [Grice: “Meaning has nothing to do with convention”]. Il
selvaggio nella solitudine del bosco avrebbe dovuto CREAR il linguaggio per sé
medesimo, quand'anche non l'avesse parlato. Il linguaggio è l'ifitesa della sua
ANIMA con sé stessa, intesa tanto necessaria, quanto che l'uomo è uomo.
Comincia così la funzione linguistica ad apparire non più fatto meccanico od
arbitrio ed invenzione, ma creazione ed affermazione prima dell'attività umana.
Benché lo scritto dell'Herder, come il Croce stesso nota, non dia un risultato
netto, e sia solo un sintomo e un presen- [Abhandlung i'cber den Ursprung der
Sprache, nel libretto: Zwei Preisschriften etc. (2a ediz. di Berlino. Estetica]
timento della soluzione da dare al problema del linguaggio, pure ognun vede
quanto e come esso superi le vedute filosofiche dell'enciclopedismo francese
seguite dal Soave e, in qualche parte e precisamente per le speciali teorie
dell' interiezione e delV imitazione, quella dello stesso Vico, che l'Herder
pur conobbe ed elogiò. Né il Vico né l'Herder, al quale come anche all'amico suo
Hamann spetta il merito di aver fatto sentire come un soffio d'aria fresca
anche negli studii di filosofia linguistica, ebbero tra noi non dico la
preminenza sulle dottrine logiche dei francesi, ma un equivalente grado di
efficacia, nonostante che un seguace e del Vico e dell'Herder, CESAROTTI (si
veda), raccogliesse, più ancora del Soave, intorno al suo Saggio, che in parte
deriva dagli scritti loro, non tenui simpatie basti citare il nome di Torti la
tradizione logico-grammaticale, che ha il suo miglior rappresentante nel Du
Marsais, tenne vittoriosa il campo, contrastata solo, come vedremo, dal risorto
purismo cesariano puotiano, fino oltre la prima metà del secolo passato la
Grammatica generale del Corradini in tutto dumarsaiana è del 1856! cioè anche dopo
Humboldt, ma spolpata, dissanguata, scheletrita, ridotta ai puri schemi, il che
vuol dire alla sua forma meno feconda e più noiosa, e pur propinata a a volte
in libercoli di poche pagine perfino agli alunni della prima e seconda classe
elementare ! La grammatica stèssa del Soave n'ègià una chiarissima prova. E
divisa in due libri, uno dell' Etimologia, l'altro della Sintassi un
trattatello della ortoepia e dell'ortografia fu scritto a parte, ciascuno de'
quali suddiviso in 4 sezioni: la prima del I svolge la parte generale delle
parti del discorso, la II il nome (coi suoi affini, aggettivo e pronome, e i
suoi servitori, segnacasi e articoli), la prima delle parti logicamente più
importanti : la III il verbo, l'altra parte più importante del discorso (coi suoi
partecipi, gerundi e aggettivi verbali); la IV il miscuglio degli accessori
logici (preposizioni, avverbi, congiun- [Croce, Est., p. 265. T., Della vita e
delle opere di F. T., Bevagna, e Studi sul Boccaccio, Città di Castello, e
Croce, Per la storia della critica e storiografia letteraria, Napoli. '
Syncathegoremeta ', ' consignificantia '. zioni, interposti); mentre la I
sezione del II libro svolge la prima branca della sintassi, la concordanza, la
II la seconda, il reggimento, la III la terza, la costruzione (la triple
synlaxe, diceva l'Enciclopedia, de co?icordance, de regime, de constructiorì),
la IV il miscuglio delle figure grammaticali (ellissi, pleonasmo, sillessi,
enallage, iperbato le cinque figure del Sanzio). Lo schema, come qui si vede, è
tracciato sul tipo divenuto ormai tradizionale nella grammatica francese e
fondato sulla dottrina della grammatica generale: non solo del Vico, ma neppur
del Soave autore delle discusse Ricerche, si ha più alcun sentore. Questo
tuttavia non è l'unico danno: il maggiore è che lo schema sia rimasto schema,
mancando quasi affatto quell'elaborazione logico-critica della materia
grammaticale che ammirammo già nel Du Marsais e nell'Enciclopedia. Tutta la
filosofia si riduce a definir gli schemi molto elementarmente e a versarvi
dentro cataloghi di forme e di costrutti con scarsissime citazioni d'autori,
senz'ombra di spiegazioni genetiche delle voci, viceversa conservando qua e là,
come p. es. nel trattato della costruzione, le antichissime rettoricherie sulle
fonti dell'armonia nel discorso. E quel po' di ragionamento che tenta
illuminare la parte generale, e la definizione del nome e del verbo, esula
affatto in tutto il resto delle classi e specie e sottospecie grammaticali, che
è dato così nudo e crudo, spoglio persino di quel fare discorsivo e a volte
vivacemente polemico e di quell'esemplificazione onde almeno si ravvivava l'
interesse del lettore nella vecchia grammatica. La geniale veduta del Du
Marsais, che le forme grammaticali, tranne quelle significatrici di cose,
articoli, casi, ecc. rappresentino altrettanti punti di vista e atteggiamenti
dello spirito, che egli applicava con altrettanta genialità ai singoli pezzi
d'espressione, spargendovi sempre un po' di luce critica, è affatto ignorata da
questa grammatica del Soave. Tanto che i compilatori dell'edizione bresciana
del 1830, tenuta sulla milanese assistita da Soave stesso, sentirono il bisogno
d' intercalare delle Appendici (autore l'ab. Bianchi) e dei paragrafi per
versarvi con mano discreta un po' di metafisicherie, facendo cosi una cosa
ancor più astrusa, arida e ibrida. P. es., nell'app. al cap. I, i nomi si
dividono in fisici e metafisici, questi in metafisici reali o sostayitivi, e in
metafisici astratti o ideali: delle significazioni delle desinenze di questi
poi. e degli aggettivi derivati nell'app. I al cap. VI son date numerose
categorie {-ione, -ento, -lira, -abile, -evole, -are, -ivo, -orlo, -ido, -usto,
-ace, -ile, -ale, -estre, -ino, -ore, -ibile, ecc.) con un imperio
d'infallibilità assoluto. E tutto anzi è logicamente schematizzato, a tutto è
data una funzione logica, in modo che sembrerebbe impossibile come un uomo
osasse aprir la bocca senza aver mandato a memoria tutta questa grammatica. Lo
scopo dell'apprendimento delle lingue fallisce così in modo assoluto, e anche
didatticamente vengono queste grammatiche ad avere un valore negativo. Invece
la grammatica filosofica anche ridotta a tale schema si diffuse e divenne di
moda nelle scuole, come di moda divennero questa specie di ricerche filosofiche
sul linguaggio. De' precedenti italiani, nella prima metà del secolo, della
grammatica ragionata s'è avuta occasione di accennare altrove, segnalando
alcune manifestazioni veramente notevoli; ma quei metodi e nuovi metodi erano
ricalchi di Portoreale e compendi elementari, che, in ogni modo, eran diretti
specialmente allo studio del latino, per quanta parte facessero all'italiano;
tant'è vero che non riuscirono a diminuire l'interesse per la grammatica
empirica che, invece, col Buonmattei e col Corticelli seguitò a imperare. Solo
nell'ultimo quarto del secolo cominciò a divampare il fervore per la grammatica
generale. Un Piano ovvero ricerche filosofiche sulle lingue diede nel 1774 D.
Colao Agata; Riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi e sulle
cognizioni umane per rapporto alle lingue ORTES (si veda), libri che già dal
titolo dichiarano il loro contenuto; nel 1783 Frane. Ant. Astore pubblicò a
Napoli in due grossi volumi La filosofia dell 'eloquenza o sia l eloquenza
della ragione (il titolo non potrebbe esser più chiaro), strano miscuglio, dice
il Gentile, delle idee del Vico con quelle dei sensisti. Usce il famoso Saggio
sopra la lingua italiana di CESAROTTI (si veda), sul quale ci dobbiamo fermare
un poco per la sua diretta connessione con la critica delle categorie
grammaticali: anzi, se Il figlio di G. B. Vico, nota. In Padova, nella
stamperia Penada (ristampato col titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue
nell'ed. pisana delle Opere, e altre volte). Su esso e sulla questione della
lingua in generale nel sec. XVIII, G. Mazzoni, La questione della lingua
italiana nel secolo XVIII in Tra libri e carte, Roma, Su Cesarotti, V.
Alemanni, Un filosofo delle lettere^ Torino] diverso è lo scopo finale, nella
sua sostanza il libro è una nuova grammatica filosofica. Ma si deve dir subito
ad onore del Cesarotti, tanto più che trattasi di cosa poco nota, che egli fin
dal 1769, cioè un anno prima del quesito dell'Accademia berlinese e perciò
delle dissertazioni dell'Herder e del Soave, aveva pubblicato a Padova un'
Oratio de lingiiarum origine, progressi*, vicibus et pretio, dove è già
manifesta l'influenza del Vico e, se non il germe, certo la tendenza della
dottrina che poi doveva sviluppare nel Saggio . Questo, dunque, aveva lo scopo
di criticare cortesemente la Crusca e di riformarla e ristorare così la lingua
col far trionfare le proposte di Crusche regionali e d'un Consiglio italico per
la compilazione di due diversi vocabolari, l'uno pe' dotti, l'altro pel popolo.
Ma più che in questo e in altre vedute particolari, come una maggior
considerazione in che ebbe i dialetti, la difesa discreta de' francesismi, la
sconfessione data a presunte voci eleganti che non erano se non antichi
gallicismi, segni tutti della posizione diritta e composta presa dal Cesarotti
nella questione della lingua verso e in favore d'un'italianità viva e comune,
il valore del Saggio è nella vera parte filosofica, nella quale certo s'ispirò
ai pensatori francesi, ma trasfuse un poco di (manto potè far proprio del pensiero
vichiano. Un limpido e vivace riassunto del Saggio diede il Cesarotti stesso
nella lettera, bella per arguzia e sincerità, al suo contraddittore, il conte
Napione, che fu in concordia con Cesarotti più di quanto non credesse egli
stesso . Io m'era prefisso , diceva dunque, di toglier la lingua al despotismo
dell'autorità, e ai capricci della moda e dell'uso, per metterla sotto il
governo legittimo della ragione e del gusto; di fissare i principi filosofici
per giudicar con fondamento della bellezza non arbitraria dei termini, e per
diriger il maneggio della lingua in ogni sua parte, cosa non so se eseguita
pienamente da altri, e certo non più tentata fra noi; di far ugualmente la
guerra alla superstizione e alla licenza, per sostituirci una temperata e giu-
[Croce, Per la storia della critica e della storiografia. Cfr. D'Ovidio, Le
correz. Ediz. di Napoli (Biblioteca portatile ed istruttiva), G. Pedone
Lauriel. V. in proposito, il D'Ovidio] diziosa libertà: di combattere gli
eccessi, gli abusi, le prevenzioni d'ogni specie; di temperare le vane gare, le
ricche parzialità; di applicare alfine le teorie della filosofia alla nostra
lingua, d'indicar i mezzi di renderla più ricca, più disinvolta, più atta a
reggere in ogni maniera di soggetto e di stile al paragone delle più celebri,
come lo può senza dubbio quando saggiamente libera sappia prevalersi della sua
naturale pieghevolezza e fecondità. Per eseguir questo piano presi dapprima a
combattere alcune opinioni dominanti.... Negai la nobiltà in cuna di alcune lingue
privilegiate, la superiorità senza limiti, la perfezione assoluta, la fissità
inalterabile, la ricchezza non bisognosa d'aumento, il pregio inarrivabile
dell'eterna vestali tà delle lingue... Mi opposi alla tirannide dell'uso,
all'idolatria dell'esempio, accordando all'uno e all'altro quell'autorità che
potea conciliarsi colla ragione, giudice legittimo e dell'esempio e dell'uso;
provocai alfine a nome degli scrittori non volgari, dal tribunale dei
grammatici pedanteschi a quello dei grammatici filosofi, i quali sanno che la
lingua è 1' interprete del pensamento, e la ministra del gusto. Fatta così
strada al mio assunto, passai a determinare colie teorie filosofiche la
bellezza intrinseca ed essenzial delle lingue, fissandone i canoni, e
applicandoli a ciascuna delle loro parti così logiche che rettoriche; nella
qual trattazione mi lusingo (come il Soave!) d'aver in poco ristretto molto,
detto più cose non comuni né inutili, e gittato sul mio soggetto qualche nuovo
colpo di lume atto a rischiararlo con precisione, e a prevenir molti abbagli .
E dopo aver accennato al confronto tra l'italiano e il francese, all'abuso del
francesismo, alla indistruttibile libertà di crear nuovi vocaboli, alla storia
della nostra lingua e allo stato attuale e allo spirito dominante del secolo
per escogitar i mezzi dell'uso e del giudizio, ecc., manifesta che lo spirito
dell'opera sua era di dire agi' italiani: .... sappiate pensare e sentire, e la
figura del concetto verrà a stamparsi nell'espressione, che sarà conveniente, vivace,
italiana e nostra: voi non sarete più schiavi né dei dizionari uè dei
grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né francesisti né
cruscanti, né imitatori servili né allettatori di stravaganze: sarete voi,
voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua
libera e viva, e la improntasentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi
nell'espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e nostra: voi non
sarete più schiavi né dei dizionari uè dei grammatici, non sarete né antichisti
né neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né allettatori
di stravaganze: sarete voi, voglio dire italiani moderni che fanno uso con
sicurezza naturale d'una lingua libera e viva, e la improntano delle marche
caratteristiche del proprio individuai sentimento. Sarebbe superfluo notare che
le vedute filosofiche domi Capitolo quattordicesimo 419 nauti circa la lingua é
la grammatica qui non solo non sono superate, ma, sotto la spigliatezza e la
vivacità dell'esposizione, permangono immutate. Noi, riferendo quel riassunto,
abbiamo inteso soprattutto mostrare che la parte veramente ninna del suo Saggio
anche pel Cesarotti era l'applicazione dei canoni filosofici alla spiegazione
delle categorie rettorico-grammaticali. Diamole uno sguardo. Fissato che la
lingua scritta dee aver per base l'uso, per consigliere l'esempio, e per
direttrice la ragione lingua pura è sinonima di barbara, ogni lingua essendosi
formata dall' accozzamento di varj idiomi come è dimostrato dai sinonimi delle
sostanze, dalla diversità delle declinazioni, • e coniugazioni,
dall'irregolarità dei verbi, dei nomi, della sintassi, di cui abbondano le
lingue più colte e stabilito che la giurisdizione sopra la lingua scritta
appartiene indivisa a tre facoltà riunite, la FILOSOFIA (= RAGIONE),
l'erudizione (= uso), ed il gusto (= esempio) (p. 24), con la scorta della
prima di queste facoltà, osserva che la lingua come materia del discorso consta
di due parti, l'ima delle quali chiameremo logica, l'altra rettorica. Logica
sarà quella che serve unicamente all'uso dell' intelligenza, somministra i
segni delle idee, del vincolo che li lega tra loro, e di tutti quei rapporti di
dipendenza che ne formano un tutto subordinato e connesso. Rettorica è quella
parte che, oltre all' istruir l'intelletto, colpisce l'immaginazione; né
contenta di ricordar l' idea principale, la dipinge, o la veste, o l'atteggia
in un modo più particolare e più vivo, o ne suscita contemporaneamente altre
d'accessorio, le quali oltre all'oggetto indicato dinotano anche un qualche
modo interessante di percepirlo, o un grado di sensazione (p. 24). I diritti
della fantasia affermati così recisamente di contro a quelli dell' intelletto
sono certo una novità rispetto alla grammatica ragionata dell'Enciclopedia che
non conosce alcuna altra funzione nel discorso diversa dalla logica; ma è una
veduta non nuova nelle opere del Cesarotti, per le quali era stato, come dice
il Croce, celebrato ai suoi tempi in Italia come colui che "colla più pura
face della filosofia aveva rischiarati gl'intimi penetrati della Poesia e
dell'Eloquenza, benché certo non sembri j>j, nella quale cerca di combattere
il filosofismo intemperante anche in materia di gusto. Riconosce che la
filosofìa ha distrutto viete idee anche in materia di lingua, ma osserva che
non tutto può distruggere in modo che tra lingua e lingua non ci sia più
distinzione. Dall'esame dell'origine risica delle lingue apparisce in primo
luogo che altre sono eleganti, altre barbare, e che alcuna è pienamente ed
assolutamente superiore ad un'altra; apparisce inoltre che una anche cieca
aderenza all'uso, ed agli scrittori approvati nella scelta delle parole
discende dalla natura e dall'indole medesima del linguaggio. Nel >j 21 1
Idea della grammatica e dei grammatici '), alla tesi che i grammatici non hanno
alcuna autorità legislativa contrappone la seguente definizione della
grammatica, dove par di sentir un'eco come del noto brano del De vulgari
eloquentia in cui della grammatica (la lingua immutabile) si porge l'idea. Non
per nulla il Velo era concittadino del primo editore del libretto dantesco. La
grammatica è una importantissima; e principalissima parte della logica; una
cospirazione, un consenso de' primi scrittori in alcuni precetti, ed alcune
regole di favella a preferenza, ed esclusione di alcuni altri; cospirazione e
consenso, che preser consistenza col tempo e forza di consuetudine, e che
formano il carattere proprio e l' indole d'una lingua scritta qualunque ; una
legislazione finalmente, ed un codice convenzionale, ove ferma ed invariabile
parla l'intenzione d'un popolo per fissare i modi vocali di comunicarsi le
proprie idee, e di perpetuarle alla posterità cogli scritti (pp. 48-9). La
protesta del Velo è un prodromo della prossima reazione puristica. Nel 1791
uscì l'opera del Galeani Napione, Dell'uso e dei pregi della Ungila italiana,
le cui principali accuse, d'indole rettorica e non grammaticale, al Saggio del
Cesarotti, sono di favorire il libertinaggio della lingua e di difendere troppo
appassionatamente il francesismo. La nota polemica, ormai, per quanto concerne
la cosiddetta questione della lingua, convenientemente Vicenza, Giusto. Libri
tre, con giunta degli opuscoli, in due voli. Seguo la bella edizione dello
Stabilimento tipografico Fontana, Torino] illustrata, non ci riguarda in modo
diretto. Pure, non vogliamo lasciarci sfuggir l'occasione di dire che a questo
eccellente libro del Napione non è stata data, o meglio riconosciuta tutta l'
importanza che meritava: la sua vera portata non è tanto nella tesi sostenuta,
nel campo strettamente linguistico, d'un' italianità larga, nobilmente intesa
ed egualmente schiva del francesismo e dell' idiotismo fiorentinesco (per
questo riguardo il libro lascia la secolare controversia come la trova), quanto
nella descrizione che vi si fa delle vicende della nostra lingua sotto il
rispetto della civiltà e dell'anima italiana: esso è, insomma, un documento
importantissimo per la storia della nostra cultura fornito dalla considerazione
rettorica o stilistica o estetica come si voglia chiamare della lingua italiana
specie in confronto con la francese e dall'evocazione delle circostanze della
sua fortuna. Il fine del Napione è pedagogico: favorire per mezzo della
diffusione e del culto della nobile lingua d' Italia il primato civile degl'
Italiani: " satis mirari non queo ", è il motto ciceroniano (De fin.)
che il libro porta in fronte, " unde hoc sit tam insolens domesticarum
rerum fastidium;" in questo secolo, è detto subito in principio, dietro la
scorta dei Le-Clerc, dei Locke, dei Leibnitz, nomi grandissimi, i Genovesi, i
Du-Marsais, i Condillac, i Michaelis, i Cesarotti ed altri sottili ingegni
hanno creduto di dover esaminare filosoficamente la natura delle lingue; mentre
altri si sono applicati più particolarmente ad osservare e descrivere il genio,
l' indole, la storia di un determinato idioma. Laonde questa materia di
grammaticale e letteraria, che al più era, è diventata filosofica, e diventar
dovrebbe eziandio politica, mercè il giovamento che può arrecare alla civile
società; ma, appunto per questo, gli argomenti il Napione è portato a trarli
dalla storia, osservando nello specchio della lingua i riflessi dello spirito
italiano e nella fortuna e nella stima che essa godette nei secoli passati
specie presso gli stranieri e in ogni genere di letteratura, la sua feconda ed
elastica virtù. Non possiamo pretendere dal nostro autore una considerazione
storica (di storia della coltura, s'intende, e non artistica) della lingua
italiana quale può darci la critica moderna cosi scaltrita ne' principi e così
ricca di mezzi, ma ben possiamo appagarci dello sforzo che egli compie per
iscoprire di sotto alle qualità rettoriche tradizionalmente affermate nella
nostra lingua atteggiamenti e vitalità di spiriti quali egli per lo meno sente
nell'anima italiana. Addurrò, per conchiudere, non potendo far qui lungo
discorso, qualche esempio. Per confutare il Condillac, il quale sosteneva
doversi ascrivere a difetto e ad imitazione servile del genio latino la
tendenza italiana a riunire e connettere in un sol periodo maggior numero di
idee , il Napione osserva: Ognun sa che il vedere e discernere diversi oggetti
in un sol punto, il conoscerne le relazioni tra loro, il comporre di molte idee
particolari una generale, il veder le idee secondarie che rischiarano,
confermano o corteggiano la principale, si è uno de' pregi maggiori delle menti
più vaste e più sublimi. V'ha pertanto ragion di credere che questa pratica
degl' Italiani, di radunare comunemente in un periodo più cose che i galli non
fanno, provenga da una facilità maggiore di rapidamente trascorrere, e vedere e
combinare cose diverse insieme. Chi è caldo e passionato odia l'uniformità:
coll'alterare, col sospendere l'ordinata costruzione, attizza la curiosità, e
tien fissa l'attenzione. Sino il volgo, se è commosso, parla in figure,
trasposizioni, trasporti di frasi, e più in quelle contrade dove ha maggior
fuoco, ha maggior anima; il che dimostra, se dobbiamo dar retta a certuni, che
un popolo, qual si è il francese, che si è fatta una lingua serva e pedestre, è
più freddo in sostanza di quel che sembri in apparenza vivace; brio, che vien
però detto da molti fuoco fatuo, e caldo superficiale. Lo sguardo di NAPIONE
(si veda) non arriva all'intimo accento di particolari espressioni e di
particolari periodi storici della lingua e di particolari affinità spirituali;
pure nell' indagare i motivi della fortuna della lingua italiana, anche se
rimane alla superficie, tenta di comprendere i caratteri generali di
determinati periodi meglio fortunati e generi linguistici, da poterne cavare
qualche raggio di luce spirituale. In og ni modo egli raccoglie tante
testimonianze e richiama tanti libri, che, anche per questo riguardo, è uno
degli autori più ricchi che ci possa offrire la nostra storia. Tornando al
Cesarotti, aggiungeremo che a taluno è parso che anche il Pignotti, nella sua
Storia della Tosca?ia confutasse forse con più fortuna ed efficacia del Napione
il padovano illustre specialmente per quanto concerne la toscanità della lingua
italiana Ci. Ci Bettinelli, Lett. cit.. (I Mazzoni, L'Ott. II. La grammatica
ragionata si propagò ben presto nelle scuole, non escluse le prime classi delle
elementari, ma anche in uno stato di pronta, quasi immediata degenerazione. Ciò
che per altro non maraviglia. Un Corso teorico di Logica e Lingua Italiana e un
discorso filosofico sulla metafisica delle lingue aveva pubblicato già fin dal
1783 Valdastri, citato poi spesso con lode, come dal Romani e dal Caleffi, un
sensista che diede più tardi Lezioni di analisi delle idee, dove non fa che
seguire i dettami dell'intimo senso, che è il criterio universale del genere
umano, da cui solo si possono, e si devono ragionevolmente dedurre (I, xvn),
nemi co acerrimo di Aristotile che dominava da tiranno le scuole. In un
Indirizzo pel ragionato uso della lingua italiana, edito a Venezia, s'insiste
sulla necessità di non far de' giovinetti de' pappagalli, ma d' illuminarli con
la ragione, e si spiega il concetto di sostanza (da subtus stans) e di qualità
con un curioso esercizio di far osservare un dato frutto, appressar le narici e
toccarlo col dito! Un P. Simionato in un Nuovo metodo facile e ragionato di
apprendere la lingua italiana, che egli stesso dichiara unico, comincia la sua
esposizione con le solenni domande, che diverranno presto di moda: Perchè
parlate voi ? Come vi fate intendere? E tutto il ragionio finisce lì. Il
napoletano Giovanni Vincenzo Meola col suo Compendio del nuovo metodo per
apprendere facilmente la lingua italiana, ritrovato da' migliori grammatici
aduso de propri figliuoli^ '), compilato specialmente allo scopo di condurre
alla cognizione dell' italiano senza supporre quella di alcun altro linguaggio
(p. IX), ritorna invece al metodo di Portoreale, come aveva fatto l'Ajello per
il latino e il Martorelli per il greco, prendendo a fondamento il Corticelli
(ma intorno al ripieno par che saccheggi piuttosto il Buonmattei); redige le
sue regole in versi, e annunzia un Nuovo me Guastalla, Costa. In Milano
Galeazzi. V. era segretario scientifico dell'Accademia di Scienze, Belle
Lettere, ed Arti di Mantova. Venezia, 1799. Napoli. V. Orsino.] todo completo
in due volumi, in cui metterà a profitto tanti altri trattati speciali. A
Napoli, per altro, dove qualche raggio di luce vichiana non mancò mai di
spandersi sulle menti, è lecito credere che in armonia coli' insegnamento
letterario del Marinelli e con i principi propugnati dall'autore del noto
Progetto di legge del 1809 per la riforma della P. I. nel Reame, la grammatica
non fosse almeno in quel breve periodo di tempo egualmente bistrattata. Il Vico
stesso e dalla cattedra di eloquenza latina che tenne nell'Università di Napoli
e nella sua scuola privata di eloquenza e lettere latine e in quei documenti
pedagogici che sono il De nostri temporis studiorum ratione, le Insiitutiones
oratoriae e la stessa Vita, tenne sempre Y eloqjientia sinonimo di sapie?itia,
diede cioè sempre un insegnamento più di cose che di parole, non indugiandosi
mai in pedanterie grammaticali, sebbene fossero da lui come di passaggio
avvertiti i vezzi della lingua, le origini e proprietà delle voci, la bellezza
e signoria delle espressioni , e giudicando che né la filosofia cartesiana né
l'aristotelica fé' gran prò alle cose oratorie, ma la platonica, e di questa la
dialettica (")• Anche per il figlio Gennaro, che, traendone ispirazione e
conservandone i sani criteri, degnamente gli successe nel medesimo insegnamento
che tenne fino al 1777 per unirvi quello della poesia fino al 1786, quando vi
fu sostituito da Ignazio Falconieri, la vera eloquenza fu sempre quella che
scaturisce dal pieno possesso dell'argomento; insistè sempre sull'importanza
del contenuto, combattendo il puro studio della forma vuota, le virtuosità
stilistiche, le minuzie grammaticali, ed incitando i giovani agli studi seri e
profondi . Anzi, in sua lode speciale dobbiamo aggiungere che i suoi
Avvertimenti per V insegnamento del latino (editi dal Gentile sull'autogr.
esistente tra le carte Villarosa) nella parte che riguarda i rudimenti di
grammatica sono anche nei particolari conformi al 11) Vita di G. B. Vico
scritta dal Solla, cit. in Gentile, Il figlio di Vico e gl'inizi dell' inseg.
di leti, il. /iella/?. Univ. di Napoli con docc. inedd. (Estr. dall' Arck. si.
p. le Prov. Nap., Napoli, importantissimo volume che ci serve di fonte e di
guida a proposito de' due Vico e de' loro successori. C) Inst. Orai, in Opere,
cit. dal Gentile. Gentile primo Metodo del Du Marsais, che certo non avrà
conosciuto, non solo perchè non lo nomina in nessuna maniera, ma perchè, come i
suoi Avvertimenti, quel Metodo fu steso per un privato discepolo. Era
insegnamento di grammatica latina, naturalmente, perchè di quello della
grammatica volgare anche in Napoli si sentì molto tardi il bisogno: quando fu
sdoppiata la cattedra di Gennaro Vico in quella che il Gentile chiama la
riforma universitaria dell' illuminismo, e fu istituita la cattedra di
Eloquenza italiana (per merito, pare al Napoli-Signorelli, di Ferdinando IY, e
per un'ispirazione che risale, nota il Gentile, al Genovesi, che fu il primo a
insegnar in italiano e già dal 1767 aveva proposto ' una scuola di lingua, di
eloquenza e di poesia toscana '), allora, dico, a certi vecchioni la novità
fece un'impressione di maraviglia: Quali cattedre (van dicendo) ! lingua
italiana, agricoltura, chimica, commercio, diplomatica, storia naturale,
geografia fisica. Fa mestieri di un pubblico professore per istudiar la lingua
volgare che parliamo dalle fasce..?. Ma lo spirito della tradizione restava.
Restò infatti, anche se il Vico è probabile sia stato tra quei vecchioni, non
tanto forse perchè quel nuovo insegnamento non fu che una duplicazione della
vecchia Rettorica, che s'insegnava nell'Università di Napoli dalla metà del
cinquecento , quanto perchè della sorte toccatagli di raggiungere dopo 40 anni
d'insegnamento quello stipendio di 300 ducati, che altri aveva ottenuto tanto
più presto, p. e. Serio, ebbe, nel 1797, a muovere non lievi lagnanze. Quel
Serio stesso, infatti, che fu assunto alla nuova cattedra, in un manifesto con
cui dopo 14 d' insegnamento, annunziò la pubblicazione delle sue Istituzioni,
che non sembra poi vedessero la luce (3), diceva che il primo tomo conterrebbe
le più importanti questioni intorno all'origine, all'indole ed al carattere
della lingua; e... tutto ciò, che principalmente alla grammatica appartiene, ma
con animo di veder come esser possa una delle fonti dell'eloquenza . Dove non
par solo di sentire Gennaro Vico, ma anche il Cesarotti e compagni. Tuttavia l'
insegnamento del Serio non è neppur paragonabile con quello Gentile. (?)
Gentile. Gentile. Agli amatori della bella letteratura in Gentile, op. e loc.
cit. Capito/o quattordicesimo 433 che dovette impartire il Marinelli, assunto
nel 1808 alla medesima cattedra abolita nel 99 e ristabilita sotto Giuseppe Napoleone
e autore d'una molto lodata Filosofia dell'eloquenza^. Il fondo, dice il
Gentile, che ne ha esaminate la Prolusione e dopo questa l'opera ora accennata,
è ancorala rettorica: ma che rivoluzione ! Tale insegnamento, concludeva il
Marinelli in quella Prolusione, avrebbe istruita la gioventù senza obbligarla
al meccanismo de' precetti, e senz'ingolfarla nelle minuzie grammaticali, che
sono per lo più disgradevoli alle persone di già avanzate negli studj . Alla
Filosofia dell'eloquenza, dove si grida contro le regole colle quali si
vorrebbe supplire al talento di un'anima che signoreggia sulle anime mercè
l'ascendente della parola (p. io)(3), e dove qua e là lampeggia un ingegno
critico non comune, corrisponde per importanza di vedute il già cit. Rapporto o
progetto di legge presentato a G. Murat dalla Commissione straordinaria pel
riordinamento della P. I. nel Regno di Napoli, di cui fece parte quello spirito
illuminato di Melchiorre Delfico, ma fu relatore e vero autore Vincenzo Cuoco
(4). In questo che il Gentile chiama il documento pedagogico e scientifico più
notevole in cui si sia imbattuto nella sua ricerca, il Cuoco grandeggia come un
alto spirito solitario, giacché egli si rannoda direttamente al pensiero d' un
grande morto, rimasto nome sacro ma incompreso per tutto il periodo che abbiamo
qui addietro percorso e per cui si distese la vita vuota di Gennaro Vico. Il
nome del padre di costui ricorre in questo scritto più d'una volta. Sono
esplicitamente richiamate alcune delle idee più geniali dell'orazione Denostri
teinporìs studiorum ratione (5). A proposito della Scienza nuova, dice tra
l'altro: Quello però che possiam dire con sicurezza si è, che la dottrina del
Vico è nota e adottata quasi tutta intera nelle sue applicazioni; ma n'è
rimasta oscura la teoria generale, da cui tali applicazioni dipendono, e da cui
si possono rendere più ampie e più certe. Per la scuola media, Napoli, presso
Angelo Trani, Gentile. In Gentile, op. cit., p. 126. Gentile. Gentile, op.
cit., pp. 135-6. Gentile. CUOCO (si veda) inizia una riforma capitale, mettendo
a capo di tutte le materie da insegnarvi la lingua italiana, della quale nelle
scuole mezzane non s'era pensato ancora a far oggetto di studio speciale . Il
linguaggio , dice il Rapporto, non è solamente la veste delle nostre idee,
siccome i grammatici dicono, ma n'è anche l' istrumento. La prima lingua, che
noi dobbiamo sapere, è la propria. L'educazione de' nostri collegj dava troppo,
ed inutilmente, allo studio grammaticale delle lingue morte. Le lingue non si possono
apprendere bene per via di grammatiche e di vocabolari: lo avverte benissimo il
proverbio: aliud est grammatico, aliud est latine loqui ; e l'esperienza
giornaliera lo conferma. I precetti della grammatica in ogni lingua sono pochi
e semplici, e tra le grammatiche la più breve è sempre la migliore. Lo studio
della lingua, e non già della grammatica, deve esser lungo: ma ogni studio
soverchio, che si dà alla grammatica, è tolto al vero studio della lingua, la
quale non si apprende se non colla lettura e retta imitazione de' classici. Noi
diremo anche di più: rende più facile lo studio delle lingue morte il saper
bene la propria e vivente. Tutte le lingue hanno un meccanismo comune, il quale
dipende dalla natura comune delle menti umane . Da questo principio vichiano il
Cuoco desume che quella che occorre studiare è, a proposito della lingua
nostra, una grammatica generale, una grammatica con metodo filosofico, che
faciliti l'apprendimento delle altre lingue. E doveva avere in mente la
Grammatica generale del Du Marsais, che cita infatti poco dopo a proposito dei
tropi!1), ma di un Du Marsais, osserva poi il Gentile acutamente, cuochiano, o
vichiano che si voglia dire. Ma la riforma non fu fatta, e dopo il Marinelli,
col Ricci(J) Gentile. Gentile. Scrisse Della vulgati eloquenza libri due, 1813.
Vi si paragona al Bembo di cui vuol ricalcare le orme. Sa ricordare che le
regoledelia Grammatica furono fissate dal Fortunio e poi dal Bembo, p. io
dell'ed. di Napoli, Giorn. delle Due Sicilie. Tra tanto vecchiume mi è sembrata
notevole la definizione della storia letteraria, e benché qui proprio non ci
riguardi, ci permettiamo riferirla anche perchè non è stata avvertita da altri.
La storia letteraria ha per oggetto di designar gradatamente e per ordine di
tempi i progressi, le vicende, e il decadimento delle lettere e delle arti,
riducendo di tratto in tratto si riebbe l' insegnamento della vecchia
rettorica, e la letteratura italiana a Napoli non si rialzò più fino al i.s6o.
Alle altezze del Marinelli e del Cuoco nessuno in altre parti d' Italia seppe
sollevarsi. Pullularono invece le grammatiche ragionate, tra le quali
pochissime meritano qualche considerazione. La prima di queste è quella scritta
in francese pei francesi dal Biagioli, e di cui non sarebbe qui il luogo di dir
due parole, se, anche a non tener conto della persona dell'autore, non fosse
stata più volte ristampata in Italia e se non fosse stata citata con lode anche
dai nostri grammatici. È intitolata Grammaire italienne clémentaire et
raisonnéQ). L'Autore dichiara che ristudierà la lingua materna coi principi del
Du Marsais, del Condillac e del Destutt-Tracy, richiamandosi al pensiero di
Dante rielaborato dal Sanzio: La pensée du Dante, que Sanctius semole avoìr
envisagée et développée ainsi: Grammaticorum sine ratione testimoniisque
auctoritas nulla est (in Minerva, lib. I, e. 2), noits montre che non si deve
fare un'esposizione dogmatica, ma ragionata. Bandisce Yusage, il caprice,
Yabus. Nella parte generale spiega les principes les plus simples et les plus
généraux , nella particolare, ritorna sui suoi passi esplicando avec plus
d'étendue ce qui exige de la part des étudians plus d'at i diversi quadri del
loro stato generale sotto un determinato punto di vista nelle diverse epoche, e
fissando proporzionalmente i caratteri del gusto in ciascuna epoca; il che
equivale per lei al pregio della unità indispensabile alla perfezione della
storia politica. Molti sono i vantaggi della storia letteraria: cioè; 1. ella
ci pone sottocchio i progressi dello spirito umano, e ce ne distingue le vie;
2. ci rende ragione delle rivoluzioni del gusto; 3. ci avvezza alla pratica
d'una soda critica: ed infatti una giusta critica non disgiunta dalla storica
imparzialità fedeltà ed accuratezza, ne costituisce il pregio principale . Pp.
95-6. Suivie d'un traité de la poesie. La quinta edizione di Milano, 1824,
aggiunge ouvrage approuvè par l'institut de France: la 2a ediz. è del 1809: e
la prima dovette esser di poco anteriore. Vi si cita la precedente del Vinéroni
(Vigueron). Una grammatica italiana in francese dell'ANTONiNi è citata da
Antonio Scoppa nella prefazione al suo Nuovo metodo stilla grammatica francese,
Roma. Pel Fulgoni. Le nouveau maitre italien pubblicò D. A. Filippi, Vienne,
1812, con una lettera del Metastasio al conte Bathyny sul miglior modo
d'insegnar l'italiano all'Imperador Giuseppe JI, in tempo ch'egli era principe
ereditario , molto sensata e pratica. Robello G., Grammaire italienne
élém. analysè et r aisonne', III ed., Paris. tention et de travail . Nell'introduzione tratta de
l'origine des signes de nos idées per venire alle parti del discorso. Per
trattare di queste, parte sempre da una frase {oh, ah Io sono attonito Io sono
amante Ride piangendo Ho l'anima avvezza alle pene Questa donna è mia Pietro è
morto, voi lo conoscevate Sto con mio padre Parla eloquentemente Ama la figlia
e la madre). Sulle preposizioni crede d'aver trovato delle novità. Si occupa
molto, da buono studioso del Sanzio, dell'ellissi, dando di duecento frasi
ellittiche la costruzione piena, di molti esercizi, com'è necessità delle
grammatiche per gli stranieri. Ma il Biagioli in sostanza è un retore, e non un
filosofo, e finisce anche lui col ripetere la solita roba nei soliti schemi.
Più cheper una strana se non cervellotica idea che gli serve di fondamento,
c'interessa per alcune notiziette riferentisi alla storia della grammatica il
Saggio sulle permutazioni della italiana orazione di Muzzi, che a Foscolo parve
più un curioso gingillo di aritmetica applicata al periodo, che una serie di
osservazioni giovevoli a chi cerchi nel periodare l'armonia, scopo, per altro,
al quale non* era stato destinato. Il noto epigrafista comincia dall' affermare
che per la varietà del nostro idioma e per l'infinito rimescolarsi delle parti
dell'orazione, sono in lingua italiana infiniti i costrutti. Sotto questo punto
di vista, nel campo della nostra grammatica c'è da riempire un gran vuoto, che
non è stato colmato neppure dal (Torricelli, né dal Fernow, né dal Biagioli. Il
suo è solo un saggio e breve delle permutazioni di semplici vocaboli presi uno
per uno, e rappresentativi di parti differenti del parlare (p. XVII). Della
miglior grammatica di nostra lingua dobbiamo saper grado a un tedesco: cario
luigi fernovio, che la stampò in tubinga. Eccone una, che indica il suo metodo:
accanto = à còte; prìs : 1 (In luogo posto) accanto ia canto 1 rispetto 1 al
mare, Bemb., =à coté de la mer\ 2. (In luogo posto) accanto (rispetto a) le
verdi ripe, Bemb. = près des vcrtes rivcs. (-) P. es.: Bastami (la disgrazia)
d'essere stato schernito una volta, B.; Viene in concio (riguardo) ai fatti
nostri. Ginguené gli lodò molto nel Mercure questa grammatica, facendogli un
merito d'aver seguito Du Marsais e Condillac. (*) Milano, De Stefanis, 181 r.
Mazzoni, L'Ott., p. 310. Ne ebbe notizia dal Biamonti. Muzzi scrive tutti i
nomi propri con le minuscole. Ma, quanto a sintassi, molti passi del Boccaccio
vi sono interpretati a rovescio. Essa pargli la più doviziosa per regole, la
più sobria di metafisica e insieme la più elegante per metodo. Ma da un
articolista del Giornale italiano le è stata attribuita una regola che è invece
del Soave (cfr. l'ediz. milanese): quella che l'imperativo negativo ha la forma
infinitiva: non amare ! La regola principale che forma il fondamento di tutto
il Saggio è che la trasposizione delle parti del discorso della lingua italiana
segue le leggi delle permutazioni aritmetiche . Esempi: veggio pietro \ In
questa serie abbiamo una sola pietro veggio \ permutazione. egli amava
guglielmo egli guglielmo amava amava egli guglielmo l ~ . et,., .. Qui sono
sei. amava guglielmo egli guglielmo egli amava guglielmo amava egli Con la
serie 1. 2. 3. 4. (coloro disprezzano grandemente arrigo) le permutazioni
aumentano ancora. E così di seguito. Qui entra in confronto col francese dove è
gran penuria di permutazioni. Viene poi a osservazioni particolari circa la
maggiore o minore permutabilità delle parti del discorso. La preposizione, p.
e., è indivisibile dal nome, ma non così dalla radice di un verbo: onde per
meglio fare ciò invece di 24 permutazioni ne avrà solo dodici, dovendo escluder
quelle dove il 2 è collocato prima di 1. Qui ricorda che il dépéret (recherches
philosophiques sur le langage de sons articulés, in mém. d. l' ac. des sciences
de tur in, années X-XI, 1803) tratta un soggetto affine al suo, e il Dubos,
seguito dal Rollili, che propose un sistema musicale per rappresentare
cambiamenti di voce diagnostici degli affetti. Fatte alcune osservazioni sulle
pause, conclude col notare che nel campo della sintassi del periodo lo studio
delle permutazioni diventa immenso (sfido io!), e, ricordati i Principj di
grammatica generale del De Sacy, col far voti che si compili una grammatica
italiana migliore nella parte sintattica. L'osservazione del Muzzi che la
lingua italiana ha il privilegio di permutare straordinariamente le parti del
discorso, è giustissima: ma che I 2 2 I I 2 3 I 3 2 2 1 3 2 1 ò 1 3 1 2 3 2 1il
fatto possa dar luogo a un sistema di sintassi, a una nuova sezione
grammaticale, è una sua inappagabile pretesa. La sintassi ha già formato i suoi
schemi per comprendervi tutte le possibili permutazioni, ciascuna delle quali,
caso per caso, vi ha la spiegazione. Che cosa si pretenderebbe col sistema
delle permutazioni ? stabilire forse delle altre categorie sintattiche secondo
le quali gli elementi del pensiero si potrebbero disporre in un modo piuttosto
che in un altro? che ci fossero in altre parole nuovi ordini di mezzi
espressivi ? Per altro nel sistema perni utativo del Muzzi, come in quello musicale
da lui citato del Dubos e del Rollili, abbiamo una nuova prova, se ne avessimo
bisogno, dell'arbitrarietà delle categorie grammaticali e sintattiche, che
possono esser diminuite e accresciute e ex novo costruite secondo il mag giore
e minore genio grammaticale inventivo dei grammàtici ! Parve, alfine, che la
grammatica auspicata dal Muzzi spuntasse negli Elementi filosofici per lo
studio ragionato dì lingua proposti e dedicati alla studiosa gioventù delle
Università d' Italia da Mariano Gigli, professore di scienze, (/) che furono
infatti molto lodati allora e dopo. Anche il Gigli comincia dal lamentare che
non vi fosse ancora un libro... come il suo: un libro scritto dietro la sola
guida del Buon-senso... è una scienza affatto nuova nella Repubblica Letteraria
. Veramente un tal libro poteva anche esserci: la sua Lingua
filosofico-universale (pubbl. a Milano l'anno avanti), di cui questi Elementi
sono chiarimenti, aggiunte e correzioni. Uno de' miei primari difetti ,
confessa con ironico candore il Gigli, è quello di consultar la Ragione, e non
l'Uso. Ecco che cosa gli dice la Ragione. L'uomo è un essere sensibile
giudicante: in quanto vive in società, e ha bisogno della parola, in quanto,
cioè, è un uomo sociale, è uomo naturale parlante (p. 8): u?iico dunque deve
essere il linguaggio per ciò che riguarda l'uomo naturale; molteplice per
l'uomo sociale. Avremo dunque una filosofia di lingua, e una grammatica di
lingua. Conoscendo la propria lingua filosoficamente, conosceremo tutte le
lingue, e non ci rimane che Milano. Non so se sia tutt'uno con essa l'altra
opera di Gigli, La metafisica del linguaggio. Scienza nuova anche ' dotti e pe'
soli di buon senso, Milano.] applicarci allo studio della grammatica di
ciascuna, per apprendere i suoni e i segni attaccati dalla convenzione alle
idee, e poi V ordine con cui si succedono. Onesta conoscenza si forma con
l'abitudine, e non ci sarebbe bisogno di grammatica. Ma poiché ogni lingua ha
le sue particolarità, il raccoglier sotto regole generali è far cosa utile. Far
dunque la grammatica di una lingua, è formular quelle regole generali. E facile
vedere che questa nuova scienza di Gigli è la vecchia grammatica generale
caratterizzata con molte inutili e imprecise parole. Il suo buon senso non gì'
ispira che complicazioni. De' giudizi, p. es. (p. 27), distingue quelli dazione
e quelli di qualità; ma ogni giudizio esige tre cose: r. L’oggetto, cardine del
giudizio'; la parola, (verbo) voce di giudizio '; la voce, che esprime ciò che
si attribuisce, ' attributo di giudizio ! Non miglior pregio ha la Grammatica
della lingua italiana di Bellisomi, autore anche di una Grammatica delle due
lingtie italiana e latina per uso dei Ginnasi della Lombardia^) e di una
Introduz. alla medesima. Sì l'ima che l'altra furono molto diffuse, ma di
notevole la prima ha l'aver abolito lo schematismo della consueta grammatica:
poiché il contenuto esposto in modo discorsivo per via d'analisi è su per giù
il medesimo. Un'osservazione è degna d'esser ricordata a onore del Bellisomi:
che i bamboli riescono a parlare secondo grammatica pur non avendone coscienza,
e quando poi si danno ad apprender la grammatica, ricominciano a sbagliare !
(prefaz.) Un trattato... sul valore, sulle proprietà e sull'uso di alcune voci
e di alcune frasi, un trattato compiuto, quale sin qui desideravasi, di
sintassi e di costruzione, un trattato sul discorso e sullo stile... non pochi
cenni storici sull'origine e sui progressi ('i Ad uso delle se. el. della
Lombardia, Milano. Milano. Milano. Bellisomi ebbe una lunga polemica
grammaticale col Fantoni. Cfr. Postille alle osservazioni critiche di I.
Fantoni sopra la prima parte della gr. it. e latina, Milano. Del Fantoni, si
può vedere Risposta al libro: Postille, ecc., Brescia. Il F. critica il B. coi
principi del Soave, del Destutt de Tracy ecc. La polemica getta non poca luce
sull'accaloramento onde la grammatica generale era trattata nelle scuole.]
della lingua italiana ... non per gli uomini scienziati e d'alte lettere, ma
per i giovanetti con istile semplice e familiare vuole dare Ziniglio Vianotti
(cioè Giovanni Ziliotti) con le sue Lezioni di lingua italiana in seguito allo
studio della grammatica, ma non riuscì che a comporre un zibaldone di
rettoricherie, di osservazioncelle di grammatica (p. es. questa, che il che è
la congiunzione più importante), di frasi (è un italianismo presero a fuggire).
Il fervore per la grammatica come scienza era venuto sempre crescendo: forse
non ci fu mai per questa disciplina un' ammirazione, anzi un'esaltazione come
in Italia in questo periodo, che era in ragion inversa della penetrazione
filosofica degli stessi che la coltivavano. Basta vedere la Dissertazione
storico -critico filosofica di Antonio Adorni intorno alle Grammatiche, un
ellogio, così l'autore stesso la chiama, della grammatica e insieme un infelice
tentativo di spiegarne l'origine, per rivelarne l'antichità, in modo da farla
coincidere con la stessa sapienza dei libri sacri, e esaltarne la venerabilità
indicando non alla rinfusa, ma promiscuamente dentro le grandi epoche
(grecoromana, medievale, rinascimento, tempi -moderni) senz' alcun criterio, i
nomi degli insigni scienziati e filosofi che la tratSecondo le vedute di
Cesarotti e Tiraboschi che infatti non fa che copiare. Dobbiamo (ma non è un
gran debito) allo Ziliotti, oltre diversi compendi e metodi grammaticali anche
per il latino, La ortografìa italiana citata al tribunale della sana critica,
Padova, dove arrossisce di vergogna per avere tredici anni addietro
(coll'operetta portante il titolo Ortografia italiana, ovvero regole per
rettamente scrivere in lingua italiana) mostrato al publico come ei pure la
pensava alla maniera degli altri in fatto di ortografia. Come la pensasse,
s'argomenta ora dal vederlo scrivere publico, legere, add ungue, bacciarseli !
Padova. Pubblicò anche: " Il fanciullo istruito fin dalla sua infanzia in
tutto ciò che il può risguardare'', Padova, 1817;" Libretto di devozione
pe' fanciulli ", Vicenza, 1819; " Ortografia italiana ovvero regole
per rettamente scrivere in lingua italiana ", Padova (2a ediz.) 1S24; '•
Introduzione alla grammatica della lingua latina", Padova. Guastalla,
nella tipografia di Gaetano Ferrari e figlio, s. a. (La ded. è datata da
Sabbioneta. Una nota nell'ultima pag., la 54, dice: Dall'epoca in cui fu
scritta la presente dissertazione, a quella, in cui si pubblica, la morte,
sempre ingorda delle migliori cose, ci rapì il sempre memorabile Bodoni.
tarono: sicché neppur giova come schizzo d'una storia della grammatica, quale
un diligente avrebbe potuto disegnare, raccogliendo dai vari libri de'
grammatici dove si ricordano i nomi de' predecessori . Tra le lodi della
grammatica e lo sfogarsi contro le autorità che non elevano alle cattedre gli
uomini veramente grandi (come lui, certo, che una n'aveva perduta e per un' altra
si vide posposto a un ignorante di prete che poi fu la pietra dello scandalo
degli scolari), egli, che pur gli aveva prima citati in onore per averla
coltivata, trova modo, forse per mostrarsi uno di quei grandi, di biasimare,
perchè non usavano del metodo analitico, e l'Alvarez, e il Despauterio, e
Salvator Corticelli che modellò , e questo era vero, il suo corso Grammaticale
sul gusto di quel de' latini , e Francesco Soave ne' suoi elementi di lingua
italiana, quando volle ridurre a sette le parti dell'orazione, facendone una
sola delle sue specifiche in natura addiettìvo, e participio, e in blocco
tant'altri, senza che appaia se accetti il sensismo benché citi il Condillac o
il puro logicismo. Non parliamo della sua filosofia del linguaggio: la dissertazione
s' apre così. La lingua non è, come alcun tra filosofi opinar volle, figlia
dell' uomo, ma figlia dell'autore della natura; il che prova in nota con
argomenti infallibili. Un considerevole tentativo eli costituire un corpo
organico di scienza grammaticale è il termine caro all' autore L'Adorni stesso,
a dimostrare che neppure dal nono e ottavo secolo infìn ai tempi dell'Alighieri
non fu come sembra offuscata di tenebre densissime la nostra regione
scientifica rimanda ai documenti addottine in prova dal celebre Cerretti nella
sua inaugurale recitata nell'Aula Regia dell'Università di Pavia per
l'aprimento de' studi nell'anno millesimo ottocentesimo quinto, p. 25. Nella
quale, peraltro, a me non è riuscito trovar nulla di strettamente connesso col
nostro tema, come avevo potuto supporre. Notevole, invece, m'è parsa una pagina
d'una lezione del Cerretti sullo Stile, dove illustra il fondamento logico
della dottrina stilistica del Beccaria. La considerazione delle parole de'
suoni diversi e diversamente ricevuti non è riguardata del celebre Autore, che
come dipendenza della Grammatica: e però prescinde dalla stessa, o poco almeno,
e in un solo paragrafo ne parla ov'egli ragiona dell'Armonia; e tutti colloca i
suoi principj nell'Analisi delle idee. Seguendo il D'Alembert, il Cerretti fa
altre osservazioni sulla chiarezza e precisione grammaticale dello stile.
Instituzioni di eloquenza del cavaliere Luigi Cerretti modonese, Milano, presso
Giuseppe Maspero] compì Romani di Casalmaggiore, un matematico che insegnò e fu
preposto a pubbliche scuole e istituti educativi, e tutto infervorato nel
proposito di rinnovare ' il linguaggio grammaticale ' con la grammatica
filosofica. Tranne alcuni opuscoli, i suoi lavori furono pubblicati postumi tra
il 25 e il 27 nella bella edizione delle Opere complete fatta dal benemerito
Giovanni Silvestri di Milano. Ma all'ampiezza del suo 'piano' e all'entusiasmo
onde attese a eseguirlo e anche alla larga informazione della letteratura
grammaticale non corrispondeva certo la profondità del pensiero filosofico.
Basterebbe dire che il Romani ammette tre sorte di linguaggi, uno grammaticale,
per ' la manifestazione de' pensieri', uno oratorio per ' la comunicazione
degli alletti ', e un altro poetico per ' la dilettazione dell'udito; che
ritiene conservato in buono stato quest'ultimo, un po' meno il secondo,
assolutamente in cattive condizioni il primo, perchè mentre per gli ultimi due
non occorse una grammatica, essendo bastata Son volumi cosi ripartiti. Teorica
de' sinonimi italiani. Dizionario generale de" sinonimi italiani.
Osservazioni sopra varie voci del Vocabolario della Crusca. Teorica della
lingua italiana; Vili. Opuscoli: Sulla scienza grammaticale applicata alla
lingua Italiana (ed. Milano): Mezzi di preservare la lingua Italiana dallasua
Decadenza (ed. Casalmaggiore, 1808); 3. Sulla libertà della lingua Italiana
(ed. Pesaro; Sull'insufficienza del Vocabolario della Crusca al servizio del
linguaggio filosofico Italiano per uso delle Scienze e delle Arti; Sopra
l'origine, Formazione e Perftttibilità della lingua Italiana; Sulla bellezza
della lingua Italiana. Il secondo di questi opuscoli era stato disteso per la
gara di cui fu vincitore il Cesari, ma non fu presentato al Concorso. Quanto
fosse profonda, non saprei dire, perchè gli autori li nomina quasi sempre per
indicare se conobbero e applicarono 'la scienza grammaticale ', ma di nome e
genericamente conosce quasi tutti i principali greci e latini, lo Scaligero e
il Sanzio, i nostri, e più particolarmente i logici francesi. (:i) Che nel
linguaggio degl’affetti, di cui si valsero soltanto i più rinomati Classici di
quel secolo, si possa parlare e scrivere senza un piano meditato di scienza
grammaticale, convengono tutti que' filologi che riconoscono tanto più
naturali, più energiche, più vive e più commoventi le produzioni delle fantasie
e delle passioni, quanto meno sono frenate da leggi, e da grammaticali
regolamenti. Fra i molti moderni che sostennero questa ragionevole opinione si
può particolarmente annoverare il celebre Cesarotti. l'imitazione degli
scrittori e poeti migliori, per il primo mancò quel mezzo: la grammatica de'
nostri grammatici fu compilata eoi lodevole scopo di perfezionare il linguaggio
intellettuale e filosofico, ma... sventuratamente si sbagliò nel mezzo acconcio
per riuscirvi: perchè, invece di dedurre le regole dai legittimi loro fonti,
cioè dai principi dell'Ontologia e della Logica, ossia della vera scienza
grammaticale, [i grammatici del Cinquecento] le tirarono materialmente dagli
esempj del linguaggio affettivo degli scrittori trecentisti, linguaggio che,
prodotto senza regole, non poteva somministrar regole certe ed opportune al
linguaggio istruttivo e filosofico , e, di contro al vantaggio di procurar alla
lingua una t'orma costante e generale che pria non avea , le recarono però due
funestissimi danni: il primo di aggravare senza necessità il linguaggio
affettivo di regole e l'altro di privare il linguaggio intellettuale di tutti
quei canoni, e ragionato metodo, di cui abbisognava per giungere alla sua
perfezione. Onde la necessità della scienza grammaticale, che, se ha nella
parte teorica la dottrina ontologica a comune con la Logica, nella parte
pratica non è però la Logica. L 'arte della Logica ha per fine la rettezza e la
verità dei pensieri, senza punto curarsi del modo o dei mezzi di esprimerli; la
Grammatica ha per iscopo la rettezza e la verità dell' espressione,
senz'incaricarsi dell'esame, se i pensieri che debb'esprimere siano consentanei
alle regole logiche; secondo la logica i pensieri sono retti e veri, quando
sono conformi all'ordine naturale delle cose; secondo la Grammatica le
espressioni sono rette e vere, quando con precisione riportano i pensieri nello
stesso modo, estensione, limiti e stato, con cui sono concepiti d e filosofico
, e, di contro al vantaggio di procurar alla lingua una t'orma costante e
generale che pria non avea , le recarono però due funestissimi danni: il primo
di aggravare senza necessità il linguaggio affettivo di regole e l'altro di
privare il linguaggio intellettuale di tutti quei canoni, e ragionato metodo,
di cui abbisognava per giungere alla sua perfezione. Onde la necessità della
scienza grammaticale, che, se ha nella parte teorica la dottrina ontologica a
comune con la Logica, nella parte pratica non è però la Logica. L 'arte della
Logica ha per fine la rettezza e la verità dei pensieri, senza punto curarsi
del modo o dei mezzi di esprimerli; la Grammatica ha per iscopo la rettezza e
la verità dell' espressione, senz'incaricarsi dell'esame, se i pensieri che debb'esprimere
siano consentanei alle regole logiche; secondo la logica i pensieri sono retti
e veri, quando sono conformi all'ordine naturale delle cose; secondo la
Grammatica le espressioni sono rette e vere, quando con precisione riportano i
pensieri nello stesso modo, estensione, limiti e stato, con cui sono concepiti
dalla mente, senza incaricarsi della logica verità o falsità di essi; mentre la
parola debbe essere fedele e precisa nel riferire i pensieri della mente tanto
retti che obliqui, tanto veri che falsi. Ma siccome il principio della
differenziazione dei linguaggi è il fine per cui si parla, si ammettono i così
detti linguaggi degli amanti, dei furbi, dei legisti, dei romanzisti ecc. .
Introduz. alla Teorica. Invece di fermarmi e criticare queste vedute, rimando
alla discussione fatta dal Croce sui rapporti tra Logica e Grammatica quali li
aveva stabiliti lo Steinthal col famoso esempio della tavola 444 Storia della
Grammatica His fretus, ovvero su questi bei fondamenti, per dirla col Manzoni,
il Romani si fece a compilare un Dizionario di sinonimi, a correggere la Crusca
e a fabbricare una nuova Grammatica generale italiana, che diceva anzi mancare
all' Italia, anche dopo i tentativi del Venini, del Yaldastri e del Soave, in
due sezioni, Teorica e Pratica, eseguendo però solo la prima; non solo, ma
perchè, insomma, la scienza grammaticale penetrasse tutti i meandri della vita
scientifica della nazione, propose che una sezione dell'Istituto Nazionale,
composta di profondi Grammatici filosofi e di Ontologisti, si occupasse della
redazione delle teorie e regole di Grammatica generale dedotte dai principi di
naturale Ontologia, un' altra, alla dipendenza della prima, stabilisse le
regole certe e immutabili di pratica attuazione, entrambe compilassero un
completo Dizionario italiano al sol servizio del linguaggio filosofico; fosse
poi esteso a tutte le Scuole elementari e Licei dello Stato lo studio della
Grammatica ragionata di nostra lingua; i testi di lettura fossero scelti tra
quegli autori didascalici che scrupolosamente si attennero ai termini adottati
nel nuovo Dizionario, ed alle Regole stabilite nella Grammatica ragionata; che
si accettassero per maestri solo quelli che per esame avessero dimostrato di
conoscere appieno rotonda: La Critica, ‘QUESTA TAVOLA ROTONDA È QUADRATA
[tautology – contradiction]. A Romani s'attaglia assai bene tutto quanto
osserva qui Croce, perchè egli è veramente uno di quei grammatici che, se par
limitarsi a scrivere sulle pagine elaborate secondo le sue regole: Videat logicus,
videat aestheticus, poi passa dal campo empirico al filosofico, da costruttore
di tipi astratti a giudice di realtà concreta e viva. Anzi va tanto in là da
esclamare seriamente: che di grammatica e di regole possa esentuarsi il
linguaggio dell'intelletto, del raziocinio, della ragione, è il punto che io
non posso accordare, uè accorderò giammai al prefato oppositore, giacché io
sono pienamente convinto che, per esprimere con precisione, e con chiarezza i
nostri concetti, per manifestare con rettitudine i nostri giudizi, per
coordinare, e regolarmente legare i nostri raziocini, per esporre metodicamente
e sinteticamente i nostri ragionamenti, siano indispensabili tutti que' canoni,
e tutte quelle cautele che ci somministra la Scienza grammaticale. E finisce
col far tutt'uno della Logica e della Grammatica, come anche si vede dal fatto
che nella sua Teorica della lingua italiana, elabora di proposito la dottrina
delle Argomentazioni, dichiarando questo, dominio della grammatica. V. qui
tutto il brano che abbiam riportato sulla degradazione della grammatica.] le
scienze grammaticali; che a tali prove fossero sottoposti anche gli ufficiali
dello stato incaricati di redigere atti pubblici. Con tali mezzi io sono
pienamente persuaso che la Lingua italiana non solo potrà esser sollevata dall'
attuale sua decadenza, ma potrà esser inoltre preservata per molti secoli da
qualunque degradamene o degenerazione. Un vero infatuamene grammaticale.
Senz'indugiarci a considerar da vicino come abbia eseguito i suoi ' piani ' il
nostro ardente grammatico, dirò soltanto che se egli non sostiene che ci sia
una visione grammaticale delle cose, concepisce però la grammatica come una
rettorica (scienza [Il principio fondamentale onde si fa a svolgere la sua
Teorica è il seguente: Secondo le parole unicamente destinate alla
manifestazione de' nostri pensieri e delle affezioni nostre, debbono
necessariamente le lingue essere fornite di tante sorte di parole, quante sono
le diverse operazioni della mente nostra, perchè ciascuna di esse sia
adeguatamente e distintamente rappresentata da appositi segni. Così vediamo
sorgere le categorie grammaticali, non solo, ma tutte le varietà formali di
esse, tutti i valori vozionali (p. es. -orio acquista nozione d'istrumento o di
località quando s'accoppia a una radice: aspersorio, dormitorio). Cosi, poiché
le nostre nozioni sono riducibili a dodici classi capitali, cioè: Sostanze;
Proprietà; Qualità; Affezioni; Potenze; Forme; Relazioni; Quantità; Tempo; io.
Luogo; Stato; Moto, la genealogia de’nomi viene a esser la seguente. Nomi
Attributivi Propri Qualitativi Affettivi Formali Potenziali Sostanziali
Relativi Comparativi Qualitativi Quantitativi Occasionali Temporali Locali
Statari Motivi CON QUESTO PROCEDIMENTO SI CREA TUTTO IL LINGUAGGIO intellettuale.
Schematizzandolo in un vasto quadro, dove l'occhio potesse tutto comprenderlo,
ognuno dispererebbe di mai parlare. E dire che tutta questa brava gente di
grammatici logici universali, dello stampo del Romani, credevano ciecamente nel
loro sistema, senz'accorgersi che essi parlano egualmente benissimo e scriveno
con altrettanta facilità, nonostante che ritenessero non ancora venuto il regno
della grammatica RAZIONALE FILOSOFICA universale.] d'un'arte chiama la scienza
grammaticale, e arte la logica), come una rettorica della logica, ossia, per
l'appunto la scienza della tavola rotonda che è quadrata, e questo solo, non
anche l'estetica di una poesia, che avrebbe per tipo i versi celebri,
grammaticalmente e metricalmente impeccabili – Colourless green ideas sleep
furiously. Pirots karulise elatically. C'era una volta un ricco poveruomo, Che
cavalcava un nero cavai bianco; Salì scendendo il campami del Duomo,
Poggiandosi sul destro lato manco.] perchè affetti e suoni, per designar col
termine di Romani il mondo dell'arte, le creazioni della fantasia, son fuori,
non avendone bisogno, della sfera dell'arte. Quella che era stata in CESAROTTI
(si veda) una confusa intuizione del carattere fantastico del nostro pensiero,
diventa nel suo scolaro un insanabile dualismo, per cui da una parte si ha un
linguaggio grammaticale – Colourless green ideas sleep furiously – Pirots
karulise elatically --, dall' altra un linguaggio agrammaticale (oratoria e
poesia). Un vero regresso, dunque, rappresenta questo punto di vista del
Romani, non pur verso i grammatici logici dell'Enciclopedia, ma verso lo stesso
Cesarotti; e il suo apostolato ebbe infatti scarso successo. Giandomenico Nardo
("), che fu chiamato ' l'ultimo de' cesarottiani ', lamentava molti anni
più tardi che gli scritti di Romani non fossero studiati abbastanza; ma, per
ripetere un arguto giudizio del Mazzoni, quella era troppa filosofia, troppa
fidanza, cioè, nel raziocinio, e troppa noncuranza invece dell'osservazione
diretta sull'uso corrente. Fantastica anche ROMANI una sua lingua universale; e
così crede, senza accorgersene, che pur la lingua nostra si potesse dipanare
via via a fil di logica dalla matassa d'una teoria. Quanto aveva di ragione, e
non è da negare che ne avesse, contro la Croce, in La Critica. Pubblica
Osservazioni sopra alanti recenti vocabolari metodici della lingua nostra
(Rambelli, Carena, Barbaglia, ecc.), e, come appendice a una raccolta di suoi
studi, uno scritto Sui mezzi indicati da M. Cesarotti per avviare l'italiana
favella alla desiderata perfezione. Prese dal maestro, osserva il Mazzoni
(L'Olt.), l'idea buona e in qualche parte la praticò, dei vocabolari
dialettali. Si ricordi l'espediente praticato e suggerito dal Cesari circa
l'uso del dialetto (Disser/az., verso la fine) per l'apprendimento della
lingua, e la proposta del Manzoni. Crusca d'allora, non bastava a dargli
vittoria siffatta da costituire lui quasi supremo legislatore, in nome della
Ragione, sulle grammatiche e sui vocabolari presenti e futuri. Era troppa
filosofia per gli stessi continuatori di quell'indirizzo. Vanzon nella sua
Grammatica ragionata della lingua italiana • C ), dove pur dichiara di aver
seguito un punto di vista ornai comune appo le nazioni più colte d'Europa, vuol
prender una via di mezzo distruggendo parte delle preoccupazioni degli
scolastici e parte accettando delle filosofiche dottrine . Infatti, tranne che
per le definizioni, dove versa discretamente lo spirito ideologico, vi segue i
principali grammatici empirici dal Salviati al Buonmattei al Corticelli,
attenendosi per le autorità ai padri della lingua, con molte liste alfabetiche
di esempi e molti esercizi. Il Calchi nella prefazione alla terza edizione
della sua Grammatica ragionata della lingua italiana, dichiarava d'aver
compilata otto anni avanti una Grammatica elementare maggiore per un Corso di
studj, coli' intento di applicare bensì la teorica generale del linguaggio alle
regole proprie e particolari della nostra favella, ma non d' inoltrarsi
soverchiamente nelX ideologiche astrattezze per non correr pericolo, invece di
aiutare, di confondere la mente. Codesta Grammatica infatti, che tien conto dei
grammatici francesi allora in voga, il Tracy e il Condillac, e i nostri sia
logici (Vanzon, Valdastri, ecc.) che pratici (Buonmattei, Ambrosoli, ecc.),
riesce a un lodevole contemperamento di filosofia e di empirismo, quale era
consentito dai tempi. Anche vi è ristabilita quell'antica armonia delle varie
parti della grammatica {ortologia, etimologia, costruzione, ortografia,
prosodia e versificazione) che è stata poi ripresa modernamente: e alla
grammatica moderna, p. es. a quella del Morandi e Cappuccini, rassomiglia per
aver trattato dell'uso delle varie parti del discorso nella sezione
dell'etimologia, di volta in volta, piuttosto che nella sintassi. Il ragionato
in questa Grammatica si riduce alle dichiarazioni logiche delle singole
categorie e degli accidenti grammaticali e alle dilucidaMazzoni. Livorno. La
prima edizione, esaurita, dice l'a., in breve tempo, voleva essere un'
'Esposizione grammaticale al suo Dizionario universale.] zioni delle regole
dell'uso delle varie parti del discorso. C'ingegneremo di determinare... le
ragioni di esse regole: né solo in questa, ma anche in ogni altro che verrà
dietro a ciascuno de' Capitoli successivi, giacché se una lingua deve avere
Yuso per base, come dice il Cesarotti, V esempio per consigliere, deve
parimenti avere, sempre che può, la ragione per guida. Abbonda invece di
esempi, che sono tolti da approvati scrittori d'ogni secolo, e di paradigmi.
Anzi in un punto egli si scusa di far di questi un uso troppo abbondante, più
conveniente ad un Manuale della lingua che ad una Grammatica. Non si creda
peraltro che il fervore per la grammatica generale accennasse a intiepidirsi,
anzi si seguitavano a tradursi anche gli autori francesi, perchè fossero ancor
più popolari, come il Girard (2). Anzi, ideologia logica e grammatica
seguitavano a viver congiunte, come già ai tempi del Venini, del Valdastri e
del Soave, non pur ne' libri, sì bene anche nell'insegnamento universitario. A
Torino, Bona inaugurava appunto il corso di Grammatica generale con una lezione
proemiale, in cui, delineando i concetti fondamentali ed il metodo di questa
disciplina, diceva: " Poniamo innanzi tutto che la cognizione della Grammatica
generale, o vogliamo dire la cognizione scientifica dei principi generali ed
immutabili delle lingue, bene si può altrimenti ottenere che dalla cognizione
dei materiali elementi dei singoli idiomi e dal paragone dei medesimi tra di
loro per discernere in essi lo assoluto dal contingente, lo universale dal
particolare, l'uso dal diritto... Le leggi fondamentali del discorso può l'uomo
conoscerle parimenti per mezzo della riflessione, rivolgendo la sua attività
intellettiva all'analisi dell'elemento spirituale del linguaggio, astrattamente
dallo elemento formale del medesimo. L'analisi filosofica del pensiero può
guidare eziandio allo scopo; questa anzi deve precedere ogni Grammatica
ragionata della lingua italiana proposta da Caleffi già pubblico professore di
FILOSOFIA. Terza edizione fiorentina. Firenze, a spese dell'Editore.
Dell’insegnamento ragionato della lingua materna nelle scuole e nelle famiglie.
Trad. di A. Pace, Torino. La Grammatica generale del conte Destutt de Tracy era
stata tradotta dal Compagnoni, Milano.] cosa, olii vuole scientificamente
risolvere i diversi problemi della teoria dell'umano linguaggio e conoscere le
leggi fondamentali. Che più ? Non soltanto fu l' ideologia applicata alle
grammatiche delle varie lingue, non escluse quelle comparative (una Grammatica
ragionata italiana ed ebraica (2) aveva pubblicato fin dal 1799 Samuel
Romanelli), ma perfino anche ai trattati d'altre arti diverse dalla parola, e
avemmo così anche una vera e propria Grammatica ragionata della musica
considerata sotto l'aspetto di lingua (3), fondata, come l'autore stesso,
Balbi, dichiara sui principi e le grammatiche del Tracy, del Soave e d'altri
(p. 33). Vero è che spesse fiate, nell'impresa di stabilire le rispondenze
logico-grammaticali tra la lingua musicale e quell'articolata, è forza
confessare al nostro autore, mi si paravano dinanzi delle difficoltà ed
imbarazzi non piccoli, allorché mi mancava per esempio qualche parte da poter
confrontare, ove qualche altra invece mi sopravanzava; ma, convinto dell'identità
del principio logico generatore de' due modi d'espressione, egli comincia
impavido a trattar delle parti costituenti il discorso musicale e via via, per
tutte le categorie, considerate in tutti i loro accidenti del genere, del
numero, del caso, ecc., del soggetto, dell' attributo, della copula, dell'
avverbio, dell' interposto, della congiunzione, della preposizione, arriva fino
alla sintassi, riguardata ne' suoi mezzi di costruzione, declinazioìie e
creazione di legami e riposi (punteggiatura) destinati a marcare le relazioni
delle altre parti . E ben facile rappresentarsi il contenuto d' un tal libro;
pure gioverà aggiungere qualche esempio. Il soggetto è, così, il tono o modo,
vera sostanza di qualunque pensiero musicale; V attributo è la qualità del
tono, scelta del tempo, indicazione del movimento, posi- [ZOPPI (citato da
VAILATI), LA FILOSOFIA DELLA GRAMMATICA: studi e memorie di un maestro di
scuola, La Sapienza, Unione tipografica-editrice, dove Bona è citato così:
Boxa, Lez. proem., Torino, 1847, P9"IO> cit. dal Pezzi nella Introd.
allo, studio della scienza del linguaggio, Torino. Con trattato, ed esempi di
poesia, Trieste, Dalla Ces. Reg. Privil. Stamperia, Milano, Ricordi. I capitoli
sono stati pubblicati già dall'a. stesso per Nozze Treves-Todros e
Todros-Treves, a Rovigo, A. Minelli] zione, intensità, carattere dei suoni; il
verbo è la disposizione, X ordine, delle espresse o sottintese basi
fondamentali formanti la cadenza, il di cui officio è appunto quello (al dir
del Tracy) di svolgere le due idee presentate dal tono, e carattere o qualità
paragonabili al soggetto ed ali 'attributo. Siccome poi, in fatto di lingua,
altro verbo non esiste, che l'Essere, derivante dal suo participio étant
(rozzamente essente) così nella sola cadenza semplice tonale, consiste la vera
essenza copulativa o copula; e giacche qualunque altro verbo non può essere che
un composto del sottinteso essere aggiunto ad un attributo, così anche
qualunque altra cadenza non potrà essere che composta della tonale aggiunta a
qualche altro attributivo accordo, o cadenza in qualsivoglia maniera, od
espressa, o sottintesa. Ecco quindi ciò che forma la proposizione musicale, che
noi chiameremo pure col solito titolo di periodo, canto, pensiero, motivo,
frase, ecc., a secondo di quello che si tratterà, quando daremo gli elementi
della composizione. Medesimamente il Balbi vi parlerà di costruzione diretta e
inversa, della necessità che Y aggiuntivo si concordi col sostantivo, sì nel
numero, come nel genere e nel caso, e perfino del punto ammirativo e
interrogativo! Ma la cosa è perfettamente naturale: ammesso che si possa, per
ragioni pratiche d'apprendimento e d'altro, sottoporre l'espressione artistica
a un processo di elaborazione logica, le categorie grammaticali anche della
musica sorgono immediatamente d'incanto, e non c'è nulla da ridire: anzi si può
osservare con qualche compiacenza il loro meccanico sorgere anche fuori del
campo strettamente linguistico. V'ha di più. Quel solo porre il problema di una
grammatica ragionata della musica considerata come lingua in tempi di logicismo
e purismo linguistico, anche se il criterio assunto per risolverlo era quel
medesimo di cui si serviva la grammatica filosofica, poteva valere come un
suggestivo richiamo a una considerazione meglio che intellettualistica
dell'espressione in genere, potendosi avvertire in quell'equazione di un
prodotto creduto facilmente logico e di un altro di evidentissima natura
artistica una comunanza più intimamente spirituale di competenza dell'estetica
meglio che della logica. Pochi anni avanti aveva vista la luce un' ' Opera
postuma di POGGI (si veda) su La scienza dell'umano intelletto, ovvero Lezioni
a" ideologia di grammatica di logica. L'opera, come s'argomenta dal
titolo, è divisa, dopo l’Introduzione, in tre parti: Della ideologia; Della
Grammatica, e Della logica. POGGI (si veda) è un condillachiano, e quello di
Condillac è, se non isbaglio, l'unico nome che citi nel suo grosso volume. Ma,
qua e là, come a proposito di metafore e termini-cifre e di lingue emblematiche
e dipinte e alfabetiche ecc., indica anche un' influenza, non direi vichiana,
ma cesarottiana. Parte, appunto, anche lui dalla istituzione delle lingue
artificiali, e con la percezione, i bisogni, l'utilità, la brevità, svolge
tutta la dottrina delle categorie grammaticali e de' loro accidenti e poi della
sintassi di costruzione, di reggimento, di concordanza. Le prime articolazioni
furon pronunziate per significare sensazioni riportate ad oggetti esteriori:
un' interiezione, dunque, e un nome bastarono a esprimere qualunque sensazione.
In ogni interiezione, in ogni nome è contenuta un'intera proposizione. Poiché
un' idea qualunque non è propriamente che il risultato di una sensazione, ne
segue che tutti gli altri elementi del discorso non servono ad esprimere veruna
idea intera e completa, ma bensì soltanto delle modificazioni, e dei rapporti
fra le nostre idee. Tutto il macchinismo d'ogni lingua parlata è spiegato con
questo principio: i verbi, gli aggettivi, le proposizioni, le congiunzioni, e
tutte le variazioni de' nomi e de' [Firenze. A spese degli editori [i figliuoli
Poggi], . Precedono Cenni biografici. (*) In XXI lezioni, con un' Appendice sul
l' Idea della metafisica scolastica. In due sezioni (lezioni) Della grammatica:
Del PRIMITIVO LINGUAGGIO umano; Degli elementi del discorso in qualsivoglia
lingua artificiale; Seguita l'analisi del discorso; Osservazioni sull'analisi
precedente, massime intorno al Verbo; Delle variazioni a cui soggiaciono gli
elementi del discorso; Dei verbi ausiliari, irregolari, e composti; Degli
aggettivi di quantità e di numero. (lezioni): Della sintassi; Del reggimento, e
delle altre condizioni della sintassi; Di una lingua dipinta, delineata, o
scritta; Di una lingua scritta per caratteri, ossia della scrittura volgare;
Dell'ortografia; Delle parole aventi più di un significato, dei sinonimi, dei
tempi e delle figure grammaticali. (lezioni): Del Raziocinio; Delle
proposizioni, e delle varie forme d'argomentazione.] verbi, si sviluppano da
esso. V? avverbio e il participio non sono vere categorie, perchè l'avverbio si
compone di una preposizione, di un sostantivo e di un adiettivo, e il
participio è una specie di nome verbale aggettivo. La cosa è molto facile: e
perciò, invece di seguir il nostro intrepido dipanatore del linguaggio nella
sua dimostrazione, la lasceremo immaginare a chi vuole. Mi piace invece
richiamar l'attenzione sull'espediente adoperato dal Poggi per dar l'idea della
sintassi. Si ricorderà che il Croce per mostrare come i logici hanno cavato dall'espressione
i generi grammaticali, ha portato l'esempio d'una pittura che rappresenti un
individuo che cammina per una certa via campestre, e alla quale corrisponde la
frase: Pietro cammina per una via campestre. Come elaborando logicamente quella
pittura si ottengono i concetti di moto, azione, ente, del generale, dell'
individuale, ecc., così elaborando col medesimo procedimento quella frase, si
ottengono i concetti di verbo (moto o azione), di nome (materia o agente), di
nome proprio, di nome connine ecc., che pei grammatici sarebbero le parole, le
espressioni di quei concetti, ripassando illecitamente dal logico all'estetico
. Orbene, il nostro si serve del medesimo esempio della pittura per elaborare,
con poca esattezza, però, non solo le categorie grammaticali, ma l'ordinamento,
la sintassi onde vengono a intrecciarsi armonicamente per la perfetta
espressione del pensiero. Val la spesa di riportar questo brano, senz'altro
dire. Se vi fate a osservare un dipinto in cui siansi per esempio ritratte
varie figure umane, voi tosto vedete nel tutto insieme di ciascuna figura il
primo elemento di ogni discorso, cioè il nome: se paragonate una figura
coll'altra, vi scorgete delle differenze caratteristiche, onde una si discerne
dall'altra; analizzando queste differenze vi risultano delle proprietà ovvero
degli attributi che voi distinguete egualmente; ed ecco il secondo elemento del
discorso che diciamo aggettivo, mentre aggiunge alcun che all'idea
rappresentata dal nome: se vi fate a riguardare accuratamente le fisonomie, gli
atteggiamenti, e gli atti delle figure medesime, scorgete eziandio le passioni
e gli affetti, onde sono animate, dal che scaturisce il terzo elemento d'ogni
lingua che appellasi verbo; imperocché quelle attitudini non esprimono che i
bisogni, le tendenze, le avversioni o i desiderj dei perso- [Est.] naggi
ritratti: infine non esprimono che le attuali modificazioni del loro essere:
procedete all'analisi: osservate come una figura stia nel quadro rispetto
all'altra, come gli atti o i gesti di questa si rapportino agli atti o ai gesti
di quella; poiché siasi voluto rappresentare un fatto od un' azione principale
con altre secondarie ed accessorie; finalmente in qual modo tutte quelle
figure, e tutte quelle attitudini si leghino insieme, onde esprimere in
complesso il concetto del pittore, e voi scorgete che questi rapporti e queste
circostanze tengon luogo delle preposizioni e delle congiunzioni: mentre esse
isolatamente prese nulla significano, anzi non sono nulla, ma guardate in
complesso nel tutto insieme del quadro, servono a determinare, dichiarare e
completare l'idea principale o il soggetto della dipintura. Ora, fermandoci
all'addotto esempio, è altresì facile il comprendere che intanto il concetto
del pittore si manifesta, e passa nella mente dell'osservatore, in quanto che
le parti elementari del dipinto sono collocate e disposte in una certa guisa e
con determinato ordine fra loro: dal che dipende la pronta e chiara
intelligenza del soggetto, ossia dell'azione principale non meno che delle accessorie;
di tal maniera che, se quelle figure, quegli atti, quegli emblemi o segni
caratteristici e quelle mosse si travolgessero, o confondessero, non avremmo
più espressa intelligibilmente l'idea del pittore. Questa collocazione e
disposizione di parti, è appunto quella che nelle lingue chiamasi sintassi, la
quale voce significa ordinamento. Ma non è prezzo dell'opera il fermarsi sulle
colluvie di grammatiche ragionate grosse e piccole che innondò le scuole
italiane nella prima metà del secolo decimonono: sarà già molto che ne diamo
qui un elenco, s'intende, imperfetto.Neppur Dove ho messo questi puntini, è il
seguente periodo: E qui cade in acconcio una bella e giusta osservazione, ed è
questa, che l'arte della pittura fin che non seppe ritrarre le affezioni e i
movimenti dell'animo, non fu che un linguaggio assai imperfetto, come quello
che mancava di segni atti a significare le modificazioni dell'essere, e quindi
pur anche le vere relazioni e i legami di un affetto o di un'azione coll'altra
e quindi il dipintore non potea esprimere che in parte soltanto i proprj
concetti: né tampoco imprimere alcun carattere marcato e distinto alle sue
figure. (?ì Martinelli Gius., Modo per agevolare la cognizione e l'uso della
lingua toscana, Venezia, 1800 (Divide la lingua in parecchi gèneri di materie,
ciascuno comprendente parecchie spezie, ai quali corrispondono vocaboli proprii
e figurati e maniere di favellare: è una fraseologia metodica). Placci M. F.
Gius, (professore di fisica nel r. Liceo di Fermo), Sul meccanismo della
pronuncia ?iella lingua italiana Osservazioni Vicenza (L'a. dichiara di essersi
giovato dell'opera del sig. di Kempelen e di alcune altre. Il nostro pensiero
va naturalmente al De Brossei. Zanotti Fr., Elementi di grammatica volgare,
Milano (È un opuscolo in cui s'insegna tutta la grammatica compresa la
sintassi, compresovi un discorso sulla lingua). Brambilla Carminati Dom.,
Introduzione alla grammatica di Soave ossia Elementi delle due lingue italiana
e latina, Venezia (ma riguarda più particolarmente il latino). Libro di lettura
e Introduzione alla grammatica italiana per la classe II delle scuole
Elementari, Venezia. Franscini Stef., Grammatica inferiore della lingua
italiana, Milano, per la III classe elem. (compilazione elementare, ma intonata
al la filosofico). Omezzati Andr., Grammatica elementare della lingua italiana,
Mantova. (Nella prefaz. cita la dotta grammatica del Soave, e le due del
dottissimo Bellisomi, dove colla più profonda sottil metafisica ecc. è porto il
più grande aiuto, anzi è arato tutto il campo. Incomincia al solito col
domandare: Che cosa è la grammatica? Che cosa intenderò per sillaba?). Alcuni
cenni di grammatica comparata delle lingue italiana e latina ad uso della
gioventù con Corollari della grammatica di Tracy, di G. B. D., Padova (Con
l'esempio di alcuni casi l'it. essere si costruisce come il lat. esse, e i casi
vi sono tanto in it. che in lat. dimostra che si deve insegnare la grammatica
delle due lingue e d'altre lingue parallelamente per eliminare, anzi per non
creare difficoltà. Vi si cita il Tracy, che insegna che una lingua è migliore
quanto essa più segue l'ordine naturale nella costruzione . Ma il Tracy ci sta
proprio a pigione. È notevole, peraltro, per l'indirizzo che parrebbe un
trovato moderno. E già questo ha la barba lunga !). Elementi della lingua
italiana ad uso delle scuole, Milano. Fontana Ant., Grammatica pedagogica
elementare italiana, Brescia. Il fanciullo parli pure la sua lingua; e tu gli
mostra quindi come il detto traducasi facilmente in Italiano; scrivi la
traduzione sulla tabella; ed il fanciullo lo legga e lo rilegga, e lo venga poi
ripetendo dopo che dalla tabella è cancellato. Anche l'esercizio delle
traduzioni dialettali si vorrebbe far passare oggi per una novità; mentre il
Fontana ha predecessori perfino nel Cinquecento!). Iaklitsch Gius., prof, a
Trieste, Principi elementari della lingua italiana, Milano (Distingue la lingua
in generale e verbale. Le vocali sono propriamente l'armonia della voce
verbale, che al suono della lingua dà l'amenità e la soavità del canto; le
consonanti all'incontro sono più il carattere distintivo delle idee per mezzo
delle quali le parole acquistano e significato e intelligibilità, come: colto,
conto, corto, costo, ove si può dire che le consonanti /, //, r, s della prima
sillaba sono propriamente i segni caratteristici del significato delle parole,
e la sillaba è soltanto una sillaba derivativa, la quale modifica il
significato se Capitolo quattordicesimo 455 rondo che cambia la sua vocale come
pasta, pasto p. 9. Qui la filosofia e l'etimologia a cavallo del De Brosse
galoppano mirabilmente all'indietro). Visconti Kr.. Riflessioni ideologiche
intorno al linguaggio grammaticale dei popoli colti, Milano, Non sono
propriamenUuna grammatica, ma contengono dilucidazioni su ogni categoria
grammaticale, secondo le vedute delle grammatiche filosofiche, delle quali l'a.
dichiara d'essersi giovato. Se non che la grammatica filosofica mi par che vi
sia trattata a rovescio, di mostrandovi si non come sorgono le categorie
grammaticali, ma come si sciolgono nelle loro varie accidentalità. Degli
aggettivi fa sei categorie, l'ultima delle quali è come la pentola in cui la
locandiera getta il residuo di vari cibi, per farne una qualche vivanda
destinata alle mense dell'indomani. Le precedenti sono in quella vece come il
pollo fresco, l'arrosto ecc.). Scienza della parola toscana, p. I., Le diritte
parole della lingua, Torino. Malvezzi Grammatica nuova italiana, Milano. Cogo
Pietro, Grammatica italiana popolare, Padova. Cora Gius., Nozioni fondamentali
su tutte le parti del discorso ordinate ad agevolare la intelligenza delle
prime scuole della sintassi italiana e latina, Venezia (Sono 373 nozioni. Lo
studio logico deve incominciare quel giorno stesso in cui il maestro comincia
le sue lezioni, e terminare l'ultimo di dell'insegnamento. Sappiamo dai
filosofi e sopra tutti dal celeberrimo ab. di Condillac che il perfezionamento
del linguaggio e del pensiero devono proceder di egual passo. Fezzi Gius.,
Tentativo teorico-pratico per f insegnamento delle due lingue italiana e
latina. Guida all'analisi ed alla pratica composizione del discorso applicato
alla lingua italiana e proposta come primo fondamento dell'arte del tradurre e
del comporre nelle classi di grammatica, Cremona Dichiara che quest' operetta è
un sunto de' sommi predecessori Soave, Romani. Biagioli, Ambrosoli ma.
specialmente, Bellisomi e Fontana, de' quali si dice discepolo, mutati
solamente l'ordinamento e l'esposizione della materia e unita la teoria alla
pratica. Usa ancora la distinzione cesarottiana delle parole-segni, e delle
parole-figure. Ha un'appendice Degli elementi spirituali del linguaggio).
Mattiello A., Regole pratiche per {sviluppare ai giovani i primi rudimenti
dell' italiana favella in conformità alla metodica, Venezia. (Cogli alunni
della I e II ci. eleni, applica la IV massima della metodica generale, come se
si trattasse d'insegnar loro a far delle aste. Sai tu a che servono le regole?
Non signore). Ànti Giorg., Trattato dialogico sopra la sintassi italiana, le
proposizioni grammaticali e la ortografia con alcune tavole sinottiche e in
fine un picco/o ' dizionario veronese-italiano ', per comodità e utilità della
studiosa gioventù, Verona. Cestari Tom. Em., Grammatica italiana
teorico-pratica divisa in ? classi ad uso specialmente delle scuole elementari.
Venezia, Dello stesso: Primi eleni, digr. ital.-lat., Venezia; Genesi
dell'accordo fra il pensiero logico ed il linguistico proposto a chiave dello
studio filologico comparato, Venezia). Brugxoli Ag., Nuovissimo repertorio
grammaticale, Verona. Missio Bern., Metodo d'iniziare i fanciulli nel comporre
e nella quella del Cerutti si solleva molto dalle altre. Elaborata invece con
acume filosofico è una GRAMMATICA IDEOLOGICA (cf. GRICE – ‘way of things, way
of ideas, way of words -- Grammatica ideologica uscita senza nome d'autore: e,
per chiarezza d'esposizione e grammatica italiana, Treviso. C. V.,
Grammatichetta italiana ad uso delle scuole elementari intermedie, Lecco,
Lipella Car., Grammatica italiana per la j classe eleni., Verona (Postuma. Vi
si cita ancora il Soave, ma non sempre per difenderlo). Gusberti D., Grammatica
ragionala della lingua italiana, Torino. Naturalmente, in correlazione a questa
diffusa produzione grammaticale, non si cessò di speculare sul linguaggio
secondo il comune indirizzo filosofico-storico. Si ebbero: Rosa Gabriele,
Vicende delle lingue in relaziofie alla storia dei popoli, Padova, s. a. Volpe
Gir., Saggio sulle cause delle vicende delle lingue, Belluno. [Bidone Em.],
Saggio sull'analisi ed unità delle lingue, Voghera, ed altri siffatti libri che
qui non importa elencare. Né mancarono, com'è del pari naturale, discussioni
circa il metodo dell'insegnamento grammaticale in riviste, opuscoli (ho
ricordato la polemica Bellisomi-Fantoni), e conferenze (p. es. Della istruzione
elementare di grammatica italiana, Lettura ne IP Ateneo di Treviso, Treviso):
tutta una letteratura scolastica, che, se può interessare lo storico delle
istituzioni e dei metodi didattici, non aggiunge nulla alle conoscenze che si
posson trarre direttamente dalle grammatiche per l'argomento nostro.
Medesimamente si vennero escogitando parecchi sistemi di lingua universale (i
nostri volapuk e esperanto), nella illusione di poter ridurre a un unico schema
valevole per tutti i popoli le singole grammatiche particolari. Poiché tutti i
popoli si ritrovano nella grammatica generale uniformi nel concepimento
dell'idee e nel loro collegamento logico, doveva pure potersi formulare un
unico sistema grammaticale e ortografico insieme che servisse a rappresentare e
a render comune e praticamente comunicabile la lingua universale. Ricorderò:
Matraja Gio. Gius., Gcnigrafia italiana, nuovo metodo di scrivere questo
idioma, Lucca. (Da genicografia, 'scrittura generale , Modo di scrivere
generalmente senza relazione agl'idiomi '. Molti, ricorda il Matraja, si
affaticarono per sciogliere il problema di tale scrittura, Cartesio, Leibnitz,
Wolfio, Willio, Kircker, Delagarne, Beclero, Sobbrig, Lambert, Demaimieux e
Richeri; ma solo a lui, povero frate, la Divina Provvidenza permise di farlo.
Tratta la grammatica genigrafica in generale, e poi le parti dell'orazione
ecc.). Proposta per la rettificazione dell 'alfabeto ad uso della lingua
italiana di N. N., Milano (È fondata su quella del Court de Gibelin e del
Klaproth, che prende a base l'alfabeto romano portato a 42 lettere). Già prima
di Matraja, altri italiani avevano tentato questo sistema. Grammatica
filosofica della lingua italiana, Napoli. Più interessante è forse la Vita di
Cerutti con ragionamenti e digressioni morali e filosofiche da lui scritta e
pubblicata lui vivente, anche per segnare il termine estremo, dirò così, più
importante dello svolgimento della grammatica filosofica, notevole ci sembra il
compendio di Corradini. Fondamento della grammatica ideologica, in cui non c'è
riuscito riconoscere l'autore, che vi si designa nel proemio un addetto alla teoria
e alla pratica della giurisprudenza, è il più schietto sensismo condillachiano
che prevalse in Italia, specialmente nell'ambiente scolastico, dove quella corrente puo circolare con molta
facilità. L'autore si mostra assai accalorato pel suo prediletto sistema
filosofico, e recisamente avversario alla crtiica. La dipendenza dalla
grammatica dall'ideologia e seguendo nell'insegnamento il metodo analitico. Se
le cognizioni vengonci tutte da'sensi adoperati nel passato ed attualmente. Se
le regole o teorie non sono che brevi sunti delle osservazioni nate dalla pratica dei fatti e
degl’oggetti sensibili, ne consegue chiaro che lo esemplificare, o il far
nascere l’osservazioni e le regole da'casi concreti, e dalle circostanze
palpabili deve costituire la parte più momentosa dell'insegnamento, la sola e
vera salda base del medesimo. Se la sperienza de'fatti fa toccar con mano a chi
non ismarrì il tatto, che l’astrazioni e generalità d'ogni maniera, classi d'individue cose,
classi d'ognuna delle loro qualità trovata consimile in parecchi individui, e
classi infine di giudizi singolari riuniti a farne un generale, non esistono
che negl’oggetti od individui fatti, non sono fuorché estratti d’essi e delle
loro relazioni di somiglianze, o differenze, o di causa ad effetto; è dunque
pessimo ogni metodo d' insegnare, ch’aggirandosi perpetuamente nelle copie, trascuri gl’originali
siffatti, e'1 cominciar insegnando dall'astrazioni, quali solo tutte le regole
e i precetti, con volar sempre sulle loro ali senza mai calare a terra, al
sensibile. Il saggio consta di due parti, la prima, che contiene Prelezioni
ideologiche indispensabili alla
grammatica, delle facoltà
intellettuali e de'bisogni dell'uomo;
Rapporti, giudizi e teoria dell’astrazioni; le generalità divise in tre
sorta di classi, soggettiva o sostantiva, qualitativa, proposizionale, ossia
l'esposizione dei principi generali su cui è fondata la grammatica; la seconda,
che contiene la grammatica generale, sull’origine della lingua; lingua
naturale, d'azione od affettivo; della grande utilità de'segni o vocaboli anche
solo pel pensare e ragionare; e delle varie specie di proposizioni, ossiano giudizj parlati; del nome, pro-nome, adiettivo
(shaggy), articolo e del verbo in genere; delle pre-posizioni e degl’avverbj; delle
congiunzioni; del verbo, divisione de'verbi tempi; SINTASSI. La dottrina di
questo saggio, sia generale che particolare, sviluppata in un'analisi
certamente eccessiva, sovrabbondante pagine sono indubbiamente troppe per
spiegare la genesi delle categorie
grammaticali, posa su un sistema assai meno complicato di quel che a bella
prima puo sembrare. Senza la pretesa di riassumerla tutta neppur nelle sue
linee generali in poche righe, che per tali opere non è possibile né gioverebbe
molto, tante sono l’analisi particolari di categorie secondarie, e tanto lunga
e spesso noiosa è la via della conclusione, eccola nel suo principale aspetto. Noi siamo intelligenze
servite d’organi, o sieno membri operativi. Colle nostre facoltà o potenze
corporee non possiamo distinguere negl’oggetti che qualità, modi o maniere
d'essere: ogni sensazione corrisponde a una qualità: gli’oggetti non sono che
gruppi o mucchi delle qualità che noi possiamo percepire: sostanza è un
nonnulla che sta sotto alla qualità cui serve
di sostegno, fulcro ed appoggio: grammaticalmente sostanza è anche il
restante mucchio delle qualità d'un oggetto in opposizione a una o due qualità
estratte mentalmente dal mucchio stesso,
cioè per via ed astrazione. Qualità e loro forme mutevoli e astrazioni e
i loro rapporti ecco tutta la nostra conoscenza, ossia tutto il nostro modo di
sentire, intelletto, e di volere, volontà, mediante l'attenzione, la riflessione, i giudizi. Ora
ogni nostra sensazione ha bisogno per esser circoscritta d’un termine proprio;
ma non ci sarebbero vocabolari bastevoli a contener tutti questi termini:
quindi la necessità delle classi, i generi, le specie: è tutto un lavoro di
generalizzazione e d’individuazione per nominare gl’oggetti delle nostre
sensazioni sempre per via d’astrazione: questa è la naturale figliazione delle nostre idee: anche
le pro-posizioni non sono che principj o formole compendiose dell’idee già
acquistate dalla esperienza. La grammatica, non che la logica, trova piane le
sue leggi nell'ordine stesso con cui si
figliano le idee. Siffatta dipendenza volle Dio ordinare tra l'anima umana
nobilissima parte, e la terrena mole, sintantoché vivessimo quaggiù. Il
sensismo che limita le nostre conoscenze
alle sole qualità degl’oggetti di cui abbiamo le sensazioni, giunge all'idea di
Dio senza alcuna difficoltà!] nostre dal sensibile all'astratto per
classificarsi e generalizzarsi. Donde deriva la sua importanza: imperciocché la
natura deve necessariamente esordire, e poi l'arte d’essa aiutata proseguire,
dirozzare; sicché se l'eloquenza è il cuore che naturalmente parla, l'arte è la
ragione che lo rischiara e conduce. La lingua, prodotto naturale della
sensività passa naturalmente per tre gradi: gridi o suoni involontarj; gli stessi usati ad arte o per
volontà; lingua composta di suoni distinti ed articolati ne'suoi successivi
perfezionamenti. Si passa dall'uno all'altro per Ya?ialogia, magistero della
lingua, coi soccorsi dell'onomatopeia. Nella prima naturai lingua ogni intero pensiero s’espresse con un
segno solo, a proposizione intera. È già arte spaccarla in due pezzi, soggetto
(Fido) e predicato (shaggy), ed analisi più raffinata ancora il dividere
sovente il soggetto in parecchi brani e'1 far lo stesso dell'attributo (shagy).
È naturale che la prima pro-posizione intera sia stata un sol cenno di testa, o
un 'interiezione. Poi avvenne un continuo
spaccamento di pro-posizioni. Il naturale è il più composto, ed
inviluppato. L’artificiale è il più decomposto, analizzato e spezzato. La
scienza delle parti del discorso é tutta nell'analisi dello sviluppo del primo
grido. In ou/c'è io soffoco, o io soffro calore: quando avrò
saputo nominar in disparte il soggetto io, il grido 07i f è
ridotto a significar il solo attributo soffoco: così il grido diventa verbo, sicché il verbo, non escluso
il verb' essere, non è che l'attributo della proposizione, cioè una qualità
involgente il verb'essere, segno della concrezione della qualità col soggetto.
Se ci fossero tante parole proprie quanti sono i soggetti e gl’attributi, non
abbisogneremmo che di due specie di parole,
soggetto (Fido) e attributo (is shaggy). Colla parola Paolizzo Paulise puo
significar “amo Paolo (Grice)”. “Amo Fido” (Fidoiso). Dalla necessità di
determinare il pensiero, o meglio d’individuare l'oggetto che non ha nome
proprio (Fido), nacquero tutte l’altre parti del discorso: l'articolo, la pre-posi- [Tutto in noi riducendosi al
ricevere sensazioni, che sono qualità nostre e degl’oggetti, a combinarle, e
così al considerar le cose individue come gruppi di qualità, tra le quali n’estraggiamo
mentalmente una per contemplarla in disparte, e quindi ri-congiugnerla, attribuirla,
al restante mucchio, lo ch'è pensare o giudicare; è chiaro che ogni nostra
manifestazione non contiene mai ch’un giudizio od una serie di pensieri o
giudizi.] -zione ecc. Nel dire il frutto del ciliegio posto iti tal luogo piace
molto al figlio di Cajo, s'io avessi due parole o segni proprii ed esclusivi, p. es., A pel
soggetto tutto, e B, per l'attributo intero, poiché non s’hanno da comparare
che due sole idee, come diverrebbe comodo il dire soltanto A-B. Ma che
spaventoso numero di segni ci abbisognerebbe! Qui sorge la teoria dei rapporti
grammaticali, il rapporto vero è uno solo, il logico, quello con cui si
comparano le due sole idee ch’entrano nella
pro-posizione, colla quale si spiegano, olte le categorie, tutte l’innumerevoli
accidentalità grammaticali, ossia le modificazioni delle parole utili a sempre
più circoscrivere e individuare i nostri giudizi, pe'quali, al solito, mancano
gl’unici termini propri che li significherebbero alla spiccia con somma nostra
gioia e comodità. La pre-posizione e
l'avverbio sono riduzioni di qualità accessorie: le congiunzioni sono le pre-posizioni delle
congiunzioni, anch'esse dunque riduzioni d’attributi. Quanto abbiamo fin qui
esposto, ci sembra sufficiente a caratterizzare la dottrina di questa grammatica
ideologica senz’entrare nelle particolari trattazioni delle singole categorie
grammaticali e sintattiche. Quanto sia povera e insufficiente a spiegare il
superbo miracolo della lingua, ognun
vede facilmente senza che noi commentiamo di più. Non è nostro scopo far
la critica dei sistemi filosofici su cui si costruirono le varie grammatiche:
ci basta solo mostrare la relazione di questi con quelli. Ma non possiamo non
meravigliarci della simpatia che il sensismo condillachiano ha goduto tra noi
per tanto tempo specie come fondamento alle teorie sulla lingua e all’arti
del pensare, del dire, alle grammatiche,
che l'ha goduta ancora dopo che Humboldt specula sulla lingua con tanto acume e
genialità, n'ha finalmente fissata, pur tra incertezze e confusioni che ne
dovevano mantener insoluto il problema, la natura tutta e solamente spirituale
nella sua infinita ricchezza. Col sensismo della nostra grammatica ideologica
quest'alta funzione del nostro spirito,
anzi la vita stessa del nostro spirito si riduce a un semplice
meccanismo, straordinariamente ricco di nomi ma poverissimo di movimenti, che
la natura esteriore manda, a suo bene placito, fornito solo di piacere e di
dolore, i due grandi custodi del nostro essere. E dire che l'autore, fra i nomi
di Condillac, Tracy, Court de Gebelin, Cousin e simili, cita parecchie volte
quello di VICO! Il che conferma quello
che osserva l'autore del rapporto del da noi citato, che cioè la dottrina di VICO
compresa e accettata in alcune particolari applicazioni rimane oscura nella sua
essenza, e conferma ancora una olta lo
strano miscuglio che ne fanno col sensismo i nostri enciclopedisti. Quali
utilità all'apprendimento della lingua puo venire da siffatte grammatiche,
dove, pure in tanto analizzare,
l'osservazione del lettore non è mai richiamata neppure sulle particolari
funzioni logiche dei fatti grammaticali, come invece vedemmo fare egregiamente
a Marsais? Col quale si rannoda pella parte teorica, e non per queste felici
applicazioni, Corradini, che volle darci, quasi a chiuder la serie non
ingloriosamente, un compendio della grammatica generale filosofica. Questo compendio ha il pregio della chiarezza
assoluta, accoppiata colla più scrupolosa coerenza nella più rapida e concisa
brevità. Gli autori di cui CORRADINI dichiara
d'essersi giovato sono: Sanctio, Minerva, Burnouf, Methode pour étudier la langue
latine, Prompsault, Gramni, rais. d. la langne latine, Régnier, Le jardin de
racines latines, Selvaggi, Grammatica generale filosofica, la grammatica di Porto Reale, Beauzée, Gramm.
gén., gl’articoli relativi dell'enciclopedia galla, cioè Marsais, e i suoi
successori. Definisce la teoria della grammatica generale la scienza delle
forme integrali d'ogni lingua. Ne definisce il carattere, la possibilità,
l'oggetto, il fine, l'utilità. Una delle prove della possibilità la deduce
dalle traduzioni, che dimostrano un comune procedimento del pensiero umano, l'uniformità de'nostri
pensieri. Gl’elementi son due: il materiale e il rappresentativo: in mater,
m r l, ma, ter, l'accento sull'a, sono il
materiale, la Gentile Padova, coi tipi del Seminario. Non dico che questa è
assolutamente l'ultima, né che gl’effetti delle grammatiche generali si
spegnessero nell'insegnamento. Grammatiche filosofiche si scrivono anche oggi,
e noi nelle scuole facemmo tutti, chi
più chi meno, parecchie indigestioni d’analisi logica e grammaticale! [nozione
di madre è il rappresentativo. La grammatica generale filosofica s’appoggia
bensì alla logica pura, ma è propriamente una parte della logica applicata. La
logica applicata considera il pensiero nelle sue condizioni empiriche: la
condizione empirica universale del pensiero è la cognizione; s’ha cognizione d'un oggetto quando è determinato. La
determinazione si compie nelle quattro supreme classi o categorie: quantità,
qualità, relazione, e modalità. Il discorso deve dunque soddisfare anche a
queste esigenze del pensiero. Esse costituiscono le varie modificazioni dei
termini e delle parti del discorso. Esse pure devon esser oggetto d'una
grammatica generale filosofica. Tien
conto anche delle condizioni empiriche dell'uomo parlante: lo stato della
società, l'affetto e la passione che lo domina, l'impeto istintivo d’uguagliar
col discorso la celerità del pensiero, le credenze religiose ecc. In
conclusione, nella parola sono da considerare due elementi: il materiale e il
rappresentativo. Il primo elemento s’appoggia alla natura dell'organo vocale,
il secondo alla natura del pensiero.
L'elemento materiale comprende i suoni vocali e consonanti, l'aggruppamento
de'suoni cioè le sillabe e le parole, e le modificazioni derivate da quest’aggruppamento
cioè l'accento e la quantità. L'elemento rappresentativo appoggiato alla natura
del pensiero deve somministrare i mezzi tanto per esprimere le tre funzioni
concetti, giudizio, raziocinio, quanto
per determinare ciascheduna di queste tre nelle quattro categorie di qualità,
quantità, relazione, e modalità. I nomi sostantivi ed aggettivi esprimono i
concetti, i verbi, i giudizi, la sintassi, le congiunzioni e la costruzione
esprimono il raziocinio in quanto consta di più giudizi legati fra loro. I
numeri ne'sostantivi e gl’aggettivi d’estensione determinano la quantità, i
generi ne'sostantivi, gl’aggettivi di comprensione e gl’avverbi determinano la
qualità, le preposizioni o i casi ed i verbi le relazioni, i modi, le modalità.
È insomma la logica distillata pel filtro grammaticale: di lingua effettiva qui
non si ha più traccia. S'è sistemato tutto lo schemario delle categorie logico-grammaticali,
ma il contenuto è caduto pella strada. Da Marsais a CORRADINI, a traverso interpretazioni varie più o meno
elevate, a rimaneggiamenti e riduzioni elementari, la grammatica generale,
oltre a perdere, in Italia, tono e carattere filosofico in una elaborazione
quasi sempre meschina e grossolana, viene sempre più separando la lingua
effettiva dagli schemi grammaticali che s’erano ottenuti studiandolo sia
direttamente, sia dal punto di vista esclusivamente intellettuale, e a questi assegnando valore
di formula e di legge, ma privandola d'un oggetto concreto a cui applicarsi. Un
processo di degenerazione. La scienza della lingua progrede, ma seguendo altre
correnti e battendo altre vie. La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN ITALIA non
puo mancare: ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si finisce,
dopo una colluvie d’aride o elementari
produzioni d’epigoni ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano
tracce che nell’esercitazioni scolastiche d’analisi logiche e grammaticali
ancora in uso nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo
qualche compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi
è determinata d’un duplice ordine di fatti, tra i quali T. non sa se veramente corre un'intima
relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, T. dice così, della GRAMMATICA
RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso un vuoto
sostanziale e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto, scientifico
e didattico. L’altro che si riferisce allo stato in che venne a trovarsi la
lingua d’ITALIA sotto la bufera
dell'enciclopedismo, ed è la naturale quanto però anti-filosofica reazione al gallicismo, che dove richia[Borsa,
nella dissertazione del decadimento della lingua in Italia, Mantova, l'anno in
cui è pubblato il saggio di Cesarotti,
già incolpa appunto di quel decadimento il neo-logismo gallico e il FILOSOFISMO
enciclopedico.] mare, come facile conseguenza d’una premessa sbagliata, alla religiosa osservanza, alla maniaca
adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio d'Italia. Le
vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, d’una parte, in
quel ch’accadde a SANCTIS (si veda) scolaro
e co-operatore di Puoti, e ch’egli narra non senza il lume d'una critica sempre
nuova ed originale ed acuta, anche se, come in questo caso, non definitivamente superatrice. Dall'altra,
nella critica e nella pratica di Manzoni, che con stringenti argomenti colpi a
morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove d’un punto di vista estetico. SANCTIS
(si veda), quando accorse alla scuola di Puoti, ha già compiuto gli studi di
grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi corrispondono al ginnasio e al
liceo, i primi, il ginnasio, sotto suo zio Carlo SANCTIS (vedasi), i secondi,
il liceo, sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i gesuiti pella sua
impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria è in quella scuola dello zio,
dovendo ficcarci in mente i versetti del Porto Reale che s'impara in certi suoi
manoscritti, come l’antichità e la cronologia, la grammatica del svizzero Soave,
la rettorica di FALCONIERI (vedasi), le
storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, l’ariette di Metastasio. Alla
fine del corso scrive la lingua d’ITALIA con uno stile pomposo e rettorico, un
italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e di Cesarotti, che sono i suoi favoriti. La scuola di Fazzini
è quello che oggi si dice un liceo. Vi
s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso si puo fare in due anni. Quell'è l'età
dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina comincia la sua
carriera aprendo una scuola. La scuola di
Puoti, su cui è stata scritta una degna monografia d’un discepolo di Salvadori,
Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti, si svolge in tre periodi, l’ultimo dopo
due anni d'interruzione causata dalla pestilenza scoppiata a Napoli. SANCTIS
(si veda) Frammento autobiografico pubblicato fo Villari; Napoli. I seminari sono scuole di LINGUA del
LAZIO e di FILOSOFIA, le scuole del governo sono affidate a frati, la forma
dell'insegnamento è ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in
quella LINGUA DEL LAZIO convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze
vi sono trascurate, e anche LA LINGUA
NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur penetrato fra quelle
tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il
sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è maggior progresso
negli studi. LA LINGUA DEL LAZIO PASSA DI MODA. Si scrive di cose scolastiche
in una lingua italiana scorretta, ma
chiara e facile. Gl’autori sono quasi
tutti abati, come GENOVESI (si veda), il
svizzero SOAVE (si veda), e TROISE (si
veda). Allora è in molta voga FAZZINI
(si veda). Questo prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in
abito e cravatta nera, è un sensista; ma
pretende conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Accanto alla
scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente la biblioteca. Corsi
alla biblioteca e mi ci seppellii.
Passano dinanzi a SANCTIS come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy,
Elvezio, Bonnet, Mettrie. SANCTIS si
ricorda ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei sensi
acquista tutte le conoscenze. Il professore dice ch’il sensismo è una cosa
buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a Mettrie ed Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS
(si veda) coll'amara voluttà della cosa proibita. Compiuti così gli studi
filosofici, avvezzo a una vita interiore, ha pochissimo gusto per i fatti materiali, e bada più alle relazioni tra le
cose che alla conoscenza delle cose. La scuola c’ha non piccola parte, perchè è
scuola di forme e non di cose, e s’attende più ad imparare le parole e l’argomentazioni che le cose a cui si riferisceno. Ma s’avvicina
il [Conosce altri filosofi, naturalmente. Il professore fa una brillante
lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo Leibnizio divenne il filosofo
di SANCTIS. E come l'una cosa tira
l'altra, Leibnizio l’è occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal,
libri divorati tutti e poco digeriti. Questo è il corredo d’erudizione
filosofica di SANCITS verso la fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora
bisogna cercarvi un maestro di legge. Si batte già alle porte dell'università.]
tempo in cui il sensismo, male accordato col movimento religioso, dove cedere
il passo ad altra filosofia. S’annunzia al spirito di SANCTIS un altr’orizzonte
filosofico; li bolleo in capo altri libri
e altri studi. S’apparecchiavano
i tempi di Galluppi e Colecchi, de'quali
l'uno volgarizza Hume e Smith, e l'altro, ch'è per giunta un matematico,
volgarizza Kant. Fazzini è caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste
condizioni intellettuali Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passa
alla scuola del marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del
sensismo di Condillac, che vedemmo
trionfare concentrata in estratti pegli stomachi degl’italiani, si vienne a
trovare a fronte di due ben forti e agguerriti avversari, la critica e il
purismo. Questo, dalla restaurazione linguistica di CESARI, iniziata colla dissertazione
coronata dall'Accademia di Livorno, è venuto sempre più guadagnando terreno nelle
forme in cui l'ha circoscritto Cesari, nonostante gl’attacchi della proposta monti-perticariana e dell’anti-purismo
tortiano, e nonostante l'esempio pratico del romanzo di MANZONI in cui fin
dalla prima sua edizione s' è voluta
incarnare tutt'un'altra dottrina sulla lingua. La reazione al gallicismo è
tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del
modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembra la gloria d'Italia nella dilagante corruzione
dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne furono rocche meno facilmente
espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran voce alcuni giornali, come la
Biblioteca di Milano, il Giornale arcadico di Roma e la Rivista enciclopedica
di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù di dottrina, sì bene anche pelle
qualità della persona e i modi
dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercita una
più vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui T.,
Della vita e delle opere di Torti. L'ha dimostrato Morandi ne'suoi noti saggi
sull'unità della lingua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di
grammatiche e d’arti del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla
scuola di Puoti, dice SANCTIS (si veda), lascia studi di legge, e letture di commedie,
di tragedie e di romanzi e di poesie, e si gitta perdutamente tra gli scrittori
del resorgimento. L’è venuta la frenesia degli studi grammaticali quando la
lingua d’Italia non ha pure una grammatica. Sanctis ha spesso tra mano
Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati, Bartoli, Salvini, Sanzio, e non sa
quanti altri dei più ignorati. S’è
gittato anche sul tardo risorgimento, sempre avendo l'occhio alla lingua
d’Italia e il suo studio. Si trova in quel tempo a dover sostener sulle proprie
spalle il peso della scuola dello zio. La sera anda sempre alla scuola di Puoti.
Ma tutta la giornata è spesa a spiegar grammatiche e rettoriche e autori della
LINGUA DEL LAZIO, a dettar temi, a correggere errori. Ma quei cari studi mi riusceno acerbi, non solo pella
fatica, ma perche non è più d'accordo colla sua coscienza. Quel svizzero Soave,
quel Falconieri li fanno pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po'più.
Comincia a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico dell’idee,
sull’espressione del sentimento, sull’INTENZIONI alla Grice e sulle malizie
dello scrittore. Momenti più deliziosi
passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si distinge specie nelle
cose della grammatica, tanto da meritarsi
l'appellativo di grammatico, ed è sollevato all'onore di co-adiuvare il
maestro nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera,
Puoti, cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS
(si veda). Il marchese che lavora a una
grammatica, attende pure alla pubblicazione d’alcuni testi di lingua più a lui
cari, come i Fatti d'Enea, i Fioretti di S. Francesco, le Vite dei Santi Padri.
Questi studi [Sulla scuola di Sanctis, v. le belle pagine del cenno biografico
di Tamburini in Sanctis, Scritti vari,
ed. Croce. Di quella che è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si
veda) si sono occupati degnamente Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già
divulgati nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di
lettura. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo fa
intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una visita
onde Leopardi onora la scuola di Puoti, che cita spesso con lodi Greco, autore d’una
grammatica, il marchese di Montrone,
Gargallo, Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sente dire dal poeta che ha molta disposizione alla critica. In
quell'occasione Leopardi, cui non puo sfuggire la rigidezza di Puoti, dice che
nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento, e cita in prova Torto
e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che l'onde coli' infinito non gli
pare un peccato mortale, a gran maraviglia
o scandalo di tutti. Il marchese è affermativo, imperatorio, non patisce
contraddizioni. S’alcuno s’è arrischiato a dir cosa simile, anda in tempesta;
ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gl’è anche che
ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o almeno ad
ammollirsi. Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se n'è
venuto d’Arienzo, con certi grossi
quaderni scritti di suo pugno. È una specie di rettorica immaginata da lui, e
che egli battezza arte del dire. C'è una divisione dei generi del dire,
accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda), Quintiliano, Seneca sono la decorazione. O mi
metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro, così dice,
narrando per quali vie è giunto alla
grande scoperta. A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese,
seguendo la moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto
e un rigore di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la
berlina. Ma lo salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi
fondi [deep berths – Grice] della
grammatica prende il volo filosofico, è SANCTIS
(si veda), specie quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella
scuola preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di
ribellione, che fa naufragare il senno del maestro. Ed è nella scuola
preparatoria, che nelle lezioni private o nell'insegnamento del ollegio
militare, al quale è assunto pella stima che gode presso Puoti, che n'è
ispettore, il maestro intende soprattutto a rinnovare l'insegnamento
grammaticale. N’uscirono, colla liquidazione della GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA
FILOSOFICA e storica e un saggio d’una storia dei grammatici. Quelle maledette
regole grammaticali SANCTIS le riduce in
poche, moltiplicando l’applicazioni e gl’esempi, e sempre lì sulla lavagna. Si persuade
che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e
schemi, logicamente. Così nasceno i suoi quadri grammaticali. Si sbriga
della grammatica, e capii che lo studio
della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi
singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda l’analisi
grammaticali e l'analisi logica,
noiosissime, e fa l'analisi delle cose,
a loro gustosissime. Questo al collegio. Nella scuola al vico Bisi, il lunedì e
il venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale s’eleva ancora di più.
Parecchi anni è a leggicchiar
grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti. Così si mette in corpo i dialoghi
della volgar lingua di BEMPO (si veda). S’inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO
(si veda) e i sottili avvertimenti di
SALVIATI (si veda) e la prosa dottorale
di CASTELVETRO (si veda) e BARTOLI (si
veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non sa
quanti altri, con approvazione di Puoti, il quale li vanta sopra tutti gl’altri
Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte riguardante l’origini della lingua e delle forme grammaticali, perchè non ha, fondamento sodo, infastidito
di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni, stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE
SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna
ai suoi studi di FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno
addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, la sua delizia un giorno e il suo
amore. Perciò si getta con avidità sopra
i retori e i grammatici con un segreto che li cresce l'appetito, vedendosi
sempre addosso gl’occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac
compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia molto Tracy e Marsais.
Il marchese, sapido dei suoi studi li perdona, a patto che non valica i confini
della grammatica, e l'indica un tale, che SANCTIS (si veda) non ricorda, come
un buon scrittore di grammatica generale. Il buon marchese fa anche di più.
Ri-vide le prolusioni del professore mettendoci quello stampo tutto suo di
classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della letteratura in
Italia, o grammatica. In quei discorsi prende 1’aria d’un novatore, e trova che
tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come li venne in quei giorni sotto la penna. Niuna
pratica dell'arte del dire; niuna cognizione de'nobili scrittori; malvagio
gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli
contrari di barbarismi ed errori. Così la grammatica ricca di stranieri trovati
splendidi in astratto, ma nella pratica o falsi o di poco profitto, per difetto
della parte storica molto è discapitata di
quella perfezione in che è. In malvagio stato trovasi LA SINTASSI: squallida
e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal ferme. Niente di certo. Niente di determinato
intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii
opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme
grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero
gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali. Perciò
quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a VICO
(si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti confini d’una storia dei grammatici
da se letti. Parla dei grammatici che TUTTO DERIVANO DALLA LINGUA DEL LAZIO. Poi
venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni brani d’essi sono pubblicati ne’saggi
critici, col titolo Frammenti discuoia,
dell'edizione di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è sostituito
dai puntini, l'ho tratto d’un brano
integro de'saggi critici.] lingua,
copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito. Molto s’intrattenni
su Corticelli, Buonmattei, Salviati e Bartoli. Censura quel moltiplicare
infinito di casi -- cf. Grice, the
search for principle of generality -- e di regole che si riduceno in pochi
principii. Quella tanta varietà di forme e di significati, massime in Cinonio,
ch’è facile ri-condurre ad unità. Fa ridere, pigliando ad esempio Va, il
per-, il da, irti di sensi e che pur non hanno che UN SENSO SOLO. La sua
attenzione anda dalle forme al contenuto, dalle parole all’idee;
sicché, sotto a quell’apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, vede una logica animata, e tutto mette a
posto, in tutto discerne il regolare e IL RAGIONEVOLE – Grice, principle of
rational discourse --, non ammettendo
eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, razionalistica,
corroborata da studi, concipisce pel di
delle feste il risorgimento, e fa lucere innanzi uno schema di grammatica
filosofica e metodica, quale appare ne’galli. Dice che costoro sono eccellenti
nell'analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e
primitive. Così amo vuol dire io sono
amante. L’ellissi è posta da loro come
base di tutte le forme d’una grammatica generale. Questo non li contenta che a mezzo. Sostene che quella
de-composizione di amo in sono amante l'incadavere la parola, le sottrae tutto
quel moto che viene dalla volontà in atto. Si sente quei giudizi acuti con
raccoglimento, e si credeva in tutta buona fede quell'uno che dove oscurare i galli
e IRRADIARE L’ITALIA di un’altra scienza. E in verità sostene che la grammatica
non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove essere. Questa scienza della grammatica,
malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per SANCTIS ancora un
di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche è una protesta
contro la pedanteria, e vuole dire che non basta dare le regole ma che di
ciascuna regola bisogna dare i motivi e
le ragioni. Paragona i grammatici o accozzatori di regole agl’articolisti che
credeno di sapere il codice perchè si ficcano in capo gl’articoli, parola per
parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non è ancora la
scienza. Così Sanctis, erudito primamente su
Soave in un'atmosfera filosofica, passato poi pel purismo di Puoti,
ritornato alla scienza, viene a una generale liquidazione di tutti i grammatici, cioè della grammatica ragionata in ispecie, e
della grammatica precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza.
Che nella sua critica negativa supera la grammatica ragionata e crea veramente
la scienza non si può dire: interamente non s’appaga dei migliori grammatici
filosofici, come Marsais; ma egli, almeno nel periodo del suo insegnamento,
secondo quanto narra lui stesso, rimane
sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli
arieggia molto davvicino Marsais, superandolo nell’abilità di trasformar la
grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della
grammatica, o meglio della lingua d’ITALIA, pur avendo egli concepito una
grammatica scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a lode di Sanctis che egli stesso ha coscienza della manchevolezza del sistema. Racconta infatti:
così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica; e finché si
tiene nei termini generalissimi d’una grammatica unica, come la concipe
Leibnitz, il suo favorito, la sua corsa anda bene. Ma li casca l'asino, quando
viene alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto colla logica, e originate d’una storia naturale o
sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in
quella storia la scienza, si richiede altra cultura e altra preparazione. Nella
sua ricerca dell'assoluto, vuole ridurre tutto a fil di logica, e concordare
insieme derivazioni, scrittori e il popolo d’ITALIA; ma, non potendo sopprimere le differenze e
guastare la storia, pone 1'ingegno a dimostrare la conformità del fatto
grammaticale colla logica, della storia colla scienza. Quell'avvertita
irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e principi fissi
dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuisce dov'è la soluzione del
problema: e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso titolo d'onore;
il dissidio egli lo compone, e in grado eccellente, insuperato, nella critica, nella quale la
parola viva, la grammatica parlata dall'arte, è da lui illustrata in tutta la
sua forza espressiva: scientificamente tocca il risolverlo a Humboldt, col
quale e col suo seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che
la grammatica è esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvene ancora
l' identificazione della teoria della lingua
generale coll'estetica, che è stata fatta solo recentemente. Nelle
difficoltà in cui si dibate Sanctis di conciliare la grammatica generale colle
grammatiche particolari della lingua d’ITALIA, si trovarono impigliati quanti,
anche per impulso della Critica della ragione pura di Kant, intendeno alla
ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra l’unicità logica e la molteplicità delle lingue
(l)j ricerca che, per altro, non è
nuova, ma che già da origine nella Gallia alla grammatica generale. Il primo tentativo d’applicare le
categorie kantiane, dell'intuizione, spazio e tempo, e dell'intelletto alla
lingua, riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo della
parte storica dell’estetica di Croce, è
compiuto da Roth, mentre sullo stesso argomento speculano Vater,
Bernhardi, Reinbeck, e Koch: pensiero dominante de'quali è la
differenza tra lingua e lingue, tra la
lingua universale, corrispondente alla logica, e le lingue storiche ed
effettive, che son turbate dal sentimento, dalla fantasia, o come altro si
chiami l'elemento psicologico della differenziazione. Si distingue una teoria generale
della lingua d’una teoria comparata, Vater. La lingua, allegoria
dell'intelletto, si considera organo della poesia o organo della scienza, Bernhardi;
s’ammette una grammatica estetica e una grammatica logica, Reinbeck; si proclama
persino che l' indole della lingua si deve desumere dalla PSICOLOGIA RAZIONALE,
non dalla logica, Koch. Residui intellettualistici s'avvertono ancora in Humboldt
pel quale logica e lingua sembrano identificarsi sostanzialmente e diversificare
solo STORICAMENTE – l’arguzie della ragione conversazionale -- , e la
lingua stesso Croce, Estetica. Piazza
tenta dimostrare che la teoria di Kant del giudizio è stata già intuita e
fissata nella sintassi de’romani; ma è stato confutato da Croce, in La Critica.
pare un qualcosa fuori dell'uomo che l'uomo fa rivivere coll'uso. Ma il grande
filosofo trova il vero concetto della
lingua. La lingua, egli pensa, nella sua realtà è un prodursi e un
divenire, non un prodotto; è un'attività, èvegyeia, non un'opera, ègyov. La
lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato. Questo
soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono
penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e regole è il morto artificio dell'analisi
scientifica. La lingua nasce spontaneo d’un bisogno interno. Esiste perciò ed
ecco la vera scoperta di Humboldt di fronte ai grammatici logici
universali una forma interna della lingua,
innere Sprachform, che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la
veduta soggettiva ed INTENZIONALE che l’uomo si fa delle cose. Questa forma
interna è il principio di diversità
proprio della lingua, oltre il suono fisico: è l'opera della fantasia e del sentimento, è
l'individualizzazione del concetto. Congiunger la forma interna del linguaggio
col suono fisico è l'opera d’una sintesi interna: e qui, più che in altro, la
lingua ricorda, nelle più profonde ed inesplicabili parti del suo procedere,
l'arte. Anche lo scultore e il pittore sposano l'idea alla materia, e anche la loro opera si
giudica secondo che quest'unione, quest'intima compenetrazione sia opera del
genio vero, o che l'idea separata sia stata penosamente e stentamente
trascritta nella materia collo scalpello e col pennello. Ma lingua ed arte in Humboldt
non s'identificano: e questo è il difetto della sua dottrina, che tira seco non
tenui contraddizioni, come quella circa il
carattere differenziale della poesia e della prosa. Humboldt non vide
esattamente che la lingua è sempre poesia e che la prosa, o scienza, non è
distinzione di forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due
concetti, compresi in senso filosofico, manifesta profonde vedute. La teoria della
lingua d’Humboldt è integrata dal suo maggior seguace, Steinthal il quale,
nella polemica sostenuta (M
Ueb. d. Verschiendenheit d.
menschl. Sprachbaucs), opera, 2M ed. a cura di Pott, Berlino, in
Croce. Croce. Croce. coll'hegeliano Becker, autore
degl’ORGANISMI della lingua, uno degl’ultimi logici della grammatica,
dimostra, pur tr’affermazioni talvolta eccessive, che concetto e parola,
giudizio logico e proposizione sono incomparabili. La proposizione non è il giudizio, ma è la rappresentazione, Darstellung,
d’un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano giudizi logici.
Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica. Le divisioni
logiche dei giudizi, i rapporti dai concetti 1 non hanno
orrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. Parlar d’una
forma logica della proposizione è una contraddizione non minore che se si parlasse àttW angolo d’un
cerchio o della periferìa d’un
tria?igolo. Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua!
Senza entrar ora nel merito degl’altri problemi trattati da Steinthal, come
quello circa l'identità dell’origine e della natura della lingua che
esattamente risolve, e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e teoria
della lingua, cioè tra lingua e arte ch’interessa
propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia insoluto, perchè non
arriva mai ad affermare che PARLARE è PARLARE BENE – sententia come concetto
orientato al valore -- e bellamente, o non è punto parlare, a noi basta
l'osservar, qui, conchiudendo, il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal,
in quanto l'uno integra l'altro e lo rende coerente nella parte linguistica, s’ha un notevole
superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata dalla
mancata identificazione d’arte e
lingua: la liberazione della lingua dalla logica, la riconosciuta completa
autonomia della lingua da categorie di qualsiasi altra specie che non siano la
sua forma interna essenziale, rappresentano una vittoria della critica negativa
della grammatica. La dissoluzione della
quale viene così a coincidere perfettamente coll'avvento della scienza. La
ribellione e la reazione alla GRAMMATICA
RAGIONATA quale s’è venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel
grado e quel tono che hanno in SANCTIS (si veda), seguirono, [Croce] però, su
per giù, il medesimo sviluppo e i medesimi motivi: d’una parte riusce difficile specie a letterati di più
largo ingegno, come vedremo accadere, p. es.,
a Giordani (Puoti stesso concede
a Sanctis uno studio discreto di quella
gram matica), il chiuder
gl’occhi a quell’ELEVATE E SCINTILLANTI (alla Grice) INVESTIGAZIONI logiche che
sulle lingue avevan condotto i galli, incomparabilmente più geniali e profondi
dei loro epigoni italiani. L’aria è impregnata di logicismo, tutto suona FILOSOFIA,
il secolo è chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza delle cose e del
tempo? dall'altra, la vacuità di quel formalismo pel fine pedagogico che ora
s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO FILOSOFICO per essere
avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello studio della lingua. Si
puo credere, ancora, nella grammatica generale, raccomandarne l'utilità, e come
si puo fare anco per ispirito d' imitazione e per servilismo verso la moda
corrente, non occorre dire; ma, già, anche a tacer d'altro, con la grammatica
generale eravamo già fuori del campo de’bisogni pratici. La grammatica generale
è come un'estetica logica della lingua, quindi FILOSOFIA, e noi sappiamo che la
scienza non è espediente didattico, mentre il motivo principale dell'interesse
linguistico è ora in Italia più pratico che teorico. L'assoluta inefficacia
inoltre della GRAMMATICA logica a dirigere l'apprendimento della lingua e
l'esercizio dello scrivere dove essere tanto più fortemente sentita, quanto più
dilaga il gallicismo nella lingua e nello stile: il ritorno alla vecchia
pratica grammaticale e all' osservazione dei lodati scrittori, dove apparire
come una urgente necessità; e vi si ritorna infatti con fede rinnovellata e
sotto la bandiera del più rigoroso purismo inalberata dal Bembo dell'Ottocento,
Cesari, coronato alfiere dall'Accademia livornese, qual s'è mostrato degno
d'essere con la nota Dissertazione sopra lo stato della lingua}; e, in ogni
modo, con o contro Cesari per gli scrittori o pel popolo, la pratica dove
prevalere sulla teoria astratta; perfin nella grammatica em- [In Opuscoli
linguistici e letterari di Cesari, raccolti, ordinati e illustra/i ora la prima
rolla da Guidetti, Reggio d'Emilia, Collezione storico-letteraria presso il
compilatore.] pirica, normativa, tradizionale, presso non gli scapigliati ma i
pedanti, la vecchia fede se non scossa, certo fu illanguidita. La tradizione
puristica, peraltro, non era stata interrotta nella seconda metà del
Settecento, neppur quando più imperversò la bufera del filosofismo francese.
Già prima che il rappresentante più autorevole di esso in Italia, il Cesarotti,
fosse stato, appunto in nome della vecchia grammatica, contraddetto ricordammo
già, tra gli altri, Velo con uno stile forbito e piccante, come dicono i suoi
editori, si sforza Rosasco di rivendicare ai Fiorentini il tanto contrastato
primato intorno all'origine ed al governo della favella , introducendo nei suoi
Dialoghi sette della Lingua toscana a pontificare il Corticelli su lesecolari
questioni, sull'autorità dei grammatici, sulla necessità imprescindibile dello
studio della grammatica, di contrastare al nuovo sistema de' letterati
propugnanti l'uso d'un'altra lingua diversa dalla fiorentina, con tutto il
bagaglio de' vecchi argomenti grammaticali e rettorici in favore della purità,
della armonia e dolcezza della pronunzia fiorentina, dell'elegante stile, e con
le vecchissime distinzioni di discorso impensato e di discorso pensato. Eh via,
la legge che ne obbliga a studiare la grammatica, è giustissima, e chiunque
brama riportar gloria dal materiale della scrittura, dovrà o bere o affogare,
siesi chi egli si vuole . E cita in sostegno il Salviati, Quintiliano e altri .
Va notato peraltro che il Rosasco non solo propugna la necessità di uniformarsi
anche all'uso moderno, ma giudica ancora, sebbene coi soliti argomenti
estrinseci, che non dobbiamo per conto alcuno desiderare la perfezione delle
grammatiche, si perchè non si può questo desiderio avere, senza desiderare
insieme la estinzione della lingua; sì perchè quando siamo obbligati a scriver
solo secondo le regole e' precetti dell'arte prescritti, non è mai possibile
rendere le nostre scritture eccellenti : residui, come ognun vede, delle
dottrine estetiche prevalenti nel senso che volevano conciliare il rigore
grammaticale col criterio della libertà individuale: temperato purismo, che,
mentre per un lato moveva dall'antica traEd. della Bibl. scelta, Milano,
Silvestri] dizione grammaticale del classicismo, per l'altro era reso possibile
dal non essersi ancora la lingua italiana inoltrata pel declivio della
cosiddetta corruzione francesistica. Quando questa si accentuò maggiormente,
era naturale che l'iniziativa del riparo partisse dalla Crusca custode gelosa
del patrimonio linguistico: e già il ricordato Borsa protesta contro il
decadimento della lingua, e da Losanna un suo Accademico, Haupt, scrive la
Lettera dun tedesco stili' infranciosamento dello stile, com'è naturale che la
rifioritura linguistica fosse più di vocabolario che di grammatica ; lo stesso
lavorìo grammaticale, il più notevole dei primordi del secolo XIX, s'aggirò,
come vedemmo, intorno a quella parte della grammatica che è più intimamente
connessa col vocabolario, i verbi, di cui sorsero parecchi prospetti e
teoriche. E a studi di lingua, ossia di vocabolario, si era volto nel 1806
l'Istituto lombardo, fondato dal Bonaparte nel 1797 e convocato a Bologna nel
1803, di cui era segretario quel Luigi Muzzi che già incontrammo quale autore
del curioso libro sulle Permutazioni dell' italiana orazione, e che, dopo
essersi divertito e gingillato intorno a problemi filosofici secondo la moda
d'allora pe' quali non era affatto portato, si immerse talmente negli studi
grammaticali e lessicali e con si vero spirito di devozione alla Crusca, che il
Monti doveva titolarlo più tardi il più fatuo pedantuzzo che mai facesse
imbratti d'inchiostro. Partecipò nel 1809 al concorso dell'Accademia livornese
con un lavoro Dello siato e del bisogno di nostra lingua, ma il manoscritto,
per ragioni regolamentari, non fu accettato. Come sappiamo, di quel concorso il
trionfatore fu Antonio Cesari, odiatore quanto Giordani, delle dottrine di
Cesarotti, che, se avevano ancora seguaci dal Romani al Nardo, andavano però
perdendo terreno sempre più: quegli stessi che le propugnavano si avverta
inoltre erano assai più temperati del maestro e si guardarono meglio di lui
dall'esser accusati di gallofilia : verso l' italianità era un desiderio e un
moto generale, cui favoriva la ridesta coscienza nazionale: cesariani e
perticariani o mondani, neopuristi della prima maniera (cioè anteriore) e della
seconda, tutti concordavano non solamente nel In Mazzoni, L'Otl.] l'avversare i
criteri troppo licenziosi de' cesarottiani, ma ne! volere auspice la Crusca per
la quinta volta rimessosi nel 1813 alla ricompilazione del Vocabolario che alle
sottili fantasticherie sulle ragioni delle lingue si sostituisse il lavoro
concreto e modesto del raccogliere e del vagliare voci e locuzioni del buon uso
e a riprendere l'osservazione grammaticale secondo le migliori tradizioni del
Cinquecento. Balbo scrive al Vidua una lettera sulla lingua italiana per muover
lamenti intorno le tante esagerazioni e confusioni pratiche e teoriche del
filosofismo che non giovavano punto alla causa della lingua: e il Vidua
raccomandava a un compatriotta che, andando a Firenze come avevan fatto già
l'Alfieri e il Goldoni, e avrebbe fatto il Manzoni e avrebbero consigliato al
Cavour, non trascurasse di recarsi la mattina in Mercato Vecchio ad ascoltar il
pizzicagnolo e le contadine. E alla Crusca stendeva la mano l'Istituto lombardo
per proseguire concordi all'opera d'ampliamento del Vocabolario: né le ripulse
dell'Accademia orgogliosa e gelosa delle sue secolari tradizioni né i
risentimenti e le irritazioni, causa di tante guerre anche personali, che esse
provocarono nel Monti, poterono mai dividere gli animi concordi nella comune
avversione al logicismo, alle metafisicherie di provenienza
franco-cesarottiana, nonostante che, per quanto riguarda i criteri particolari
dell'uso linguistico italiano (pratica, dunque, non scienza), facilmente
potessero incontrarsi col Cesarotti in un vivo desiderio di libertà, e spesso
inconsciamente (come sarà avvenuto al Leopardi), non soltanto gli antipuristi
come il cesarottiano Torti di Bevagna, ma letterati meno bollenti nella
secolare battaglia. N'è prova l'atteggiamento assunto dal capo riconosciuto de'
classicisti, il Giordani, nelle contese tra il Cesari, Monti e Perticari:
richiesto del vero valore di alcune voci tolte dal greco, rispose [al Monti] e
colse quell'occasione per lodare l'opera e il suocero e il genero, ma anche per
addimostrare alcune sviste di essi due correttori degli altri, e per augurare
che gli avversari si riconoscessero invece compagni, come quelli che insomma
avevan un fine medesimo e uno stesso desiderio. Cfr. F. Colagrosso, La teoria
leopardiana della lingua, Napoli, 1905 (Estr. d. Rend. Accad. Arch. Lett. e B.
A. in Napoli, XIX) Mazzoni. Pure, il Giordani è appunto uno di quei puristi che
raccomandavano ai giovanetti il Du Marsais e il Beauzée. I volumi della
Enciclopedia Metodica ne' quali è trattata la grammatica e l' eloquenza ti
possono essere utili. Gli articoli rettorici di Marmontel non mi paiono più che
mediocri; quelli di Jancourt assai meno che mediocri. Ma bellissimi i
grammatici di Du Marsais, e di La-Beauzée. E il conoscere e adoperare
filosoficamente la lingua è gran virtù di eccellente scrittore. E prontamente
si applica alla nostra quel che è notato della francese (1). Ma che cosa
significa adoperare filosoficamente mia lingua ? specie quando la si consideri,
come fa il Giordani, cosa diversa dallo stile? Interrompi, consiglia, con la
lettura di quegli articoli, lo studio che devi far della lingua, e preparati a
quello che poi farai dello stile. Perchè io giudico che quello della lingua
debba precedere. Non si dee prima sapere qual sia la materia de' colori; poi
imparare ad impastarli e mescolarli; poi esercitarsi a collocarli, e accordarli
? (io). Tutto lo scrivere sta nella lingua e nello stile; due cose diversissime
egualmente necessarie.... I vocaboli e le frasi sono i colori di questa
pittura; lo stile è il colorito. Ora persuaditi, caro Eugenio, che l'acquisto
de' colori sia fatica della memoria: l'uso del colorito sia esercizio d'ingegno,
disciplina di buoni esempi, di pochi precetti, di moltissima osservazione, di
molta pratica. Ho letto molti antichi e moderni che vollero esser maestri: ho
perduto tempo e acquistato noia, senza profitto. Veri maestri ho trovato gli
esempi de' grandi scrittori. Tra i moderni consiglia, tuttavia il breve
trattato del Condillac, Art d'écrire. Di tutto quel libro abbastanza buono, m'
è rimasto in mente questo solo principio, molto raccomandato da lui = de la
plus grande liaison des idées Vero è che quel legame delle idee non deve esser
sempre logico; ma secondo la materia che si tratta, dev'esser pittorico o
affettuoso; di che i moderni intendon pochissimo: gli antichi vi furono
meravigliosi. In questo guazzabuglio di vedute, d'idee e di principi, c'è
tutto, meno lo spirito filosofico: dal che si vede quanto A un italiano
Istruzione per l'arte di scrivere, in Scritti di Giordani, ed. Chiarini, in
Firenze.] poco fosse compresa e con quanto poca convinzione raccomandata la
grammatica generale del Du Marsais e del Beauzée. Il nume che agitava
interiormente il Giordani e i degni suoi compagni d'arme non era la filosofia,
ma lo spirito italiano che si rinnovava, rinnovamento che alla coscienza di
molti si presentava come un problema di lingua: donde il calore con cui si
davano a questi studi. Il Giordani, mosso dall'invito dell' Accademia italiana,
non per rispondere ad essa, per ciò che questa materia non sia d'ozio
letterario .... ma importi non poco all'onore d'Italia , si dà ad abbozzare una
Storia dello spirito pubblico d' Italia per 600 considerato nelle vicende della
lingua e alcuni anni più tardi, discorrendo in una lunga lettera al Capponi di
una raccolta in trenta volumi che intendeva fare delle migliori e men note
prose della nostra letteratura, allargando e colorendo le linee di quel
primitivo abbozzo, esprimeva l'opinione che l'ordine escogitato lo menerebbe
quasi per una storia della nazione e della lingua ("), e che dalla somma
dei particolari discorsi introduttivi ne sarebbe derivato quasi un ritratto filosofico
delle menti italiane per quattro secoli . Perciocché io considerando la lingua
come uno specchio, nel quale cadano tutti i concetti da tutti i pensanti della
nazione, e dal quale nella mente di ciascuno si riflettano i pensieri di tutti;
volli con diligenza di storico e sagacità di filosofo esaminare il vario corso
del pensare italiano per le vestigia che di mano in mano lasciò impresse nel
variare delle lingua; della quale i vocaboli e le frasi, o nuovamente
introdotte, o dall'antico mutate, fanno certissimo testimonio (a chi '1 sa
interrogare) d'ogni mutamento nella vita intellettiva del popolo. Così il
Giordani si riallaccia al Napione. Tra il Napione e il Giordani spicca anche
per questo riguardo il Foscolo, che nella celebre orazione, recitata a Pavia
Opere: Scritti editi e postumi pubbl. da Antonio Gussalli , Milano. f;)
Scritti, ed. Chiarini. Per l'eccellente posizione che occupa il Foscolo nella
storia della critica, oltre che le note pagine del De Sanctis, vedi Croce, Per
la storia della critica ecc., già cit., p. 9 e 27, Trabalza, Studi sul
Boccaccio, e Borgese, Storia della critica romantica, libro è superfluo
avvertirlo pell'inaugurazione degli studi, Dell' origine e dell'ufficio della
letteratura e nelle Lezioni di eloquenza che le tennero dietro, e
particolarmente in quella su la Lingua italiana considerata storicamente e
letterariamente, (l) e ne' sei Discorsi sulla lingua italiana parlava della
nostra lingua coi medesimi spiriti e intendimenti d'italianità, in modo
veramente vivace. Nella sua Prolusione , ripeteremo col De Sanctis, tenta una
storia della parola sulle orme del Vico, censurata da parecchi in questo o quel
particolare, ma da' più ammirata, come nuova e profonda speculazione. Il suo
valore, anzi che nelle sue idee, è nel suo spirito, perchè non è infine che una
calda requisitoria contro quella letteratura arcadica e accademica, combattuta
da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa vuota e parolaia, e
contro quella poesia che suona e che non crea. Nessuno ha considerato, scriveva
il Foscolo, filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa
[lingua italiana], affine di conoscere per via d'analogia i principi, i
progressi oscurissimi delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue.
La storia d'una lingua, ecco il suo preciso punto di vista non può tracciarsi
se non nella storia letteraria della nazione; né la storia può somministrare
fatti certi e fondamentali a trovare in materie intricatissime il vero, se non
per mezzo di epoche distinte, in guisa che le cause non diventino effetti, e
gli effetti non sieno pigliati per cause . che dev'esser tenuto sempre presente
per tutto questo periodo, perchè, se le idee sulla lingua de' vari critici che
vi sono criticati poca luce diffondono sulle loro teorie poetiche, utilissimo è
invece conoscere la portata critica di esse per chi fa la storia della lingua.
In Opere edite e postume di Foscolo, Firenze, Le Monnier. In T.. È evidente
l'affinità tra il metodo del Foscolo e quello del Napione; ma com'è più profonda
la visione del Foscolo, così essa in certo senso precorre ancor meglio il
principio moderno onde si vorrebbe indagata la storia della cultura nella
lingua, specialmente in quanto si serve del metodo monografico per periodi di
affinità spirituali. Notevolissima sotto questo rispetto è una pagina della
Lez. II di Eoa. (è la 82 del voi. II) dove illustra il principio: La
letteratura è annessa alla lingua. Capitolo quindicesimo 485 Nel fatto, il
Foscolo intravvede così in confuso l'identità di lingua e pensiero, e
nell'evoluzione linguistica uno svolgimento spirituale, mostra cioè una vaga
coscienza del problema linguistico, e il suo sforzo di risolverlo, anche se non
felice, è già un progresso. Particolarmente notevoli, anche per la ragione
pedagogica, in cui però, come sappiamo, ben si riflette la scienza teorica, son
le pagine che scrive sulla dottrina dantesca del Volgare illustre. Ne riferiamo
volentieri un brano che ci tocca davvicino. Su ciò che Dante previde con occhio
sicuro egli fondava pochi principi generali intorno alla legislazione
grammaticale. Erano inerenti alla condizione e alla natura della lingua, onde
operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori, e quando
vennero trascurati da altri, o negati ostinatamente da molti; ed operarono fin
anche negli scritti di chi li negava ed oggimai l'esperienza ha convinto la più
gran parte degl'Italiani, che la loro lingua letteraria non può prosperare
senza l'applicazione dei principj di Dante: principi metafisici, dice Foscolo, annunziati
in tempi ne' quali la filosofia, l'arte dialettica, e la teologia erano tutt'
uno, e tali da intricarsi a vicenda, e perciò un po' oscuri forse allo stesso
ALIGHIERI (si veda). Al qual punto il pensiero di Foscolo corre a Locke che
facilita lo studio delle analisi delle idee, e quindi della natura delle lingue
– Grice: way of things, way of ideas, way of words -- e a Condillac che
illustrò questa difficilissima parte della metafisica. Ma il fine supremo di
tali studi è per tutti questi filosofi italiani raggiungere le nazioni che
appresso a noi surte ci sorpassarono, e poiché il mezzo non sembra potesse
esser la [Giordani, Scritti. cit., ed. Chiarini. Si richiamino a tal proposito
e si tengano presenti in questo capitolo anche peraltro le relazioni d'amicizia
personale che corsero tra maggiori e minori rappresentanti di questo movimento
d'ITALIANITÀ che s'agita nelle questioni linguistiche. V. specialmente
Guidetti, La questione linguistica e l'amicizia di Cesari con Monti, Villardi e
Manzoni narrata con l'aiuto di documenti inediti, Reggio d'Emilia; dello
stesso, Cesari giudicato e onorato dagl'italiani e sue relazioni coi
contemporanei con documenti inediti, Reggio d'Emilia; e Bertoldi, Giordani e
altri personaggi del tempo in Prose critiche di storia e d'arte, Firenze]
FILOSOFIA, lo studio cioè dei problemi della natura del linguaggio, ma lo
studio pratico della lingua che non si dove lasciare adulterare, da più parti,
non i soli fiorentini, ma tutti gl'italiani si danno e intesero con viva fede e
non tenue sentimento d'ITALIANITÀ all'opera di restaurazione, che un diffuso
lavorìo, specie nell'Italia centrale e particolarmente nell'Emilia, nella
Romaga, nella Marca, nell'Umbria, a Roma, di traduzioni dai classici latini,
condotto con superficiale ma sincero sentimento e gusto di bellezza formale,
favorisce grandemente. Il mondano, e avversario della Crusca, Lamberti pubblica
con aggiunte e correzioni Le Osservazioni del Cinonio. Ri-usce alla luce la
vecchia raccolta di Pistoiesi, Prospetto dei verbi toscani tanto regolari che
irregolari e Casarotti, torna a discorrere Sopra la natura e l'uso dei
dittonghi italiani trattato. MASTROFINI (si veda) pubblica Teoria e prospetto
ossia Dizionario critico de verbi italiani coniugati specialmente degl’anomali
e mal noti nelle cadenze. E un compilatore in Milano ri-assume tutto questo
lavorìo intorno ai verbi: Teorica dei verbi compilata sulle opere di Cinonio,
di Pistoiesi, di Mastrofini e di altri, e una compilazione ancor più ricca
attende Roster. Questo gruppo di saggi, com'è facile avvertire, si rannoda a
quella tradizione grammaticale che appunto con Cinonio inizia la trattazione di
categorie particolari della grammatica giunta allora al suo completo sviluppo
nel suo schema generale per opera di Buonmattei; ma non è certamente estraneo a
quell'esigenze d’osservazione diretta sul materiale della lingua a cui si
sforza di soddisfare il purismo che appunto in quegli anni si afferma
solennemente con la vittoria di Cesari. Il punto di vista è infatti ancora il
retorico, come precettivo è l'intendimento, anche se uno di quei quattro
autori, Casarotti, si abbella nella sua esposizione del culto professato alla
dottrina di VICO (si veda) che cita in più luoghi: mentre, [Pisa, Capurro,
nuova ed. riv. e corr. La prima ed. aveva visto la luce a Roma. Padova, nel
Seminario. Roma, De Romanis. Anche Greco, il grammatico consigliere di Puoti,
ha d'altra parte, non è identificabile con quello delle GRAMMATICHE RAGIONATE,
anche se un altro, Mastrofini, segue l'autorità di Varano, Ossian, e Cesarotti.
I tempi non potevano non esercitar la loro influenza. VICO (si veda) ormai
comincia a non esser più una sfinge, e ciascuno degli altri scrittori gode il
favor popolare. Vedasi come Casarotti, che indubbiamente non va confuso coi
grammatici di bassa lega, citi VICO (si veda). Egli, mosso alla sua trattazione
dalla necessità di sistemare una notevole serie di fatti, che inosservati danno
luogo a molti inconvenienti, constata che i dittonghi mobili non sono il
centesimo permalosi dei fermi, e senza sdegno stanno in bando da parecchie
voci, alle quali avrebbero diritto di entrare. Priemo, truovo, pruova, ed altre
già l'hanno quasi dimenticato. In questa parte verificasi la sentenza del
profondissimo e oscurissimo VICO (si veda) (Pr. di Se. N. Della Sapienza
Poetica, Corollarj d'intorno alle origini della locuzione ecc.), che i
dittonghi ne’principj delle lingue sono in assai più numero, e che a poco a
poco si scemano. E su VICO (si veda) stesso si appoggia per mostrare l'obbligo
degl’italiani a non bandirli nella lingua che riceve d’essi pienezza e varietà
di suono, due qualità carissime all'armonia, ed al canto. Di fatti i dittongi,
se hanno valore i pensamenti del citato filosofo napoletano, del primo canto de
popoli faìino gran pruova: e specialmente non dovrebbero bandirli i poeti,
poiché l'espressione poetica è tanto vaga d'indipendenza da ogni
fastidiosaggine grammaticale, che talvolta per lo disprezzo di certe rigide
leggi acquista forza e bellezza. E la poesia, come colui dice della pittura,
divien grande coli 'industrioso maneggio delle cose minime. Una consonante, una
vocale, un dittongo, un ACCENTO, letto, se non compreso, Vico. Caraffa fa
derivare Greco da Vico e lascia credere ch’un'infusione del spirito di VICO
Greco comunica a Puoti stesso. [,dove anche osserva. Tanto è rispetto a noi
della lingua del Lazio, che abbondantissima nella scrittura di sillabe
bifocali, come Terenziano Mauro chiama i dittongi, rarissimi ne conserva nella
pronunzia. E tanto è della lingua gallica, che compendia in una sola vocale
molti dittongi, de’quali sul labbro degl’antichi galli s’è probabilmente
lasciato sentire il duplice suono. Sul labbro italiano poi questo duplice suono
si fa sentir sempre: e in ciò siamo più ragionevoli de’galli, in quanto l’italiana
scrittura, si ritengano o si sbandiscano i dittongi, rimane sempre d'accordo
colla pronunzia.] tutto essa fa servire a’suoi sublimi disegni. Così la
filologia filosofica di VICO divienne in Casarotti rettorica grammaticale, ma
assai migliore di quell'altra della tradizione. Nella parte storica e empirica
il saggio di Casarotti non manca d’utilità. Passa in rassegna l’esposizioni di
MAZZONI che NEGA ALLA LINGUA ITALIANA IL VERO E PROPRIO DITTONGO, di Salviati
che n;ammise, di Buonmattei che ne giustifica tanti quanti sono i gruppi di due
vocali. Si ride di Gigli che rimanda a Mazzoni chi vuol aver cognizione piena
dei nostri dittonghi, avendo Mazzoni non scritto un trattato, ma un semplice
discorso, e non sui soli dittonghi italiani, ma sui dittonghi in genere:
rettifica non del tutto giusta, come s'è visto. Vero trattatista è certo egli
Casarotti, che dà del dittongo questa definizione: la comprensione di due
vocali diverse in una sillaba sola e indissolubile, di suono misto, come sono
“aura”, “euro”, “piovere”, “ciel”. Critica gli strafalcioni dei rimari, Folchi,
Fioretti, Ruscelli, Baruffaldi, non escluso quello di Rosasco, e, naturalmente,
discorre a lungo di metrica, con molte esemplificazioni, essendo compilato il
suo trattato principalmente in servizio della poesia. Riassume la storia di
tutti i capricci ortografici, dichiarandosi contro l’uso della dieresi,
co-operazione. Pistoiesi crede colmare una lacuna dei grammatici che danno sui
verbi ammaestramenti e prospetti troppo scarsi ai bisogni. E ora se ne ristampa
l'opera per il bisogno che se ne sente. Delle voci verbali vi si fanno quattro
classi classificazione che è un'altra prova del carattere empirico e retorico
del trattato: buone e corrette, regolari; antiche; poetiche; IDIOTISMI – Grice,
IDIO-LECT – IDIO-SYNCRATIC -- ed errori. Si rimprovera Buonmattei di non aver
avvertito che di contro al leggemmo si scrive l'errato lessamo. Si registra per
es. il “savamo” (= “eravamo”) che incontrammo nella grammatica vaticana
ricordata, ma, a sua volta, dimentica il “tro” e il “tretti” da “trarre,” che
quella grammatica diligentemente raccoglie. Per questa parte storica
specialmente il saggio di Pistoiesi conserva qualche interesse. Lo stesso
[Ricorda qui le 12 definizioni dei dittonghi date da Riccioli in De recia
diphthongorum promintiationc. Dice che nel Giornale di Padova si afferma che
Evangeli scrive un trattato sui dittonghi italiani, ma egli dubita
dell'asserzione. Non deriva dal latino questa definizione del dittongo.] dicasi
di quello di Mastrolilli, che, peraltro, adopera un metodo assai diverso di
trattazione sia nella parte introduttiva, dove porge, come meglio puo, delle
nozioni archeologiche sulle trasformazioni latine, sia nella sistematica, dove
registra di ogni singolo verbo tutte le voci, confinando nelle note gl’usi
antichi e dialettali, costruendo così una gran mole in due grossi volumi di
quattrocento pagine l'uno. Un'altra miniera di tutte le forme storiche del nome
e del verbo sono le Osservazioni grammaticali di Roster. Il quale, più che a
trattar sistematicamente la grammatica, intende soprattutto a radunare intorno
a ogni persona, come a ogni nome, tutte le varianti che gli scrittori
adoperarono, dando così un utile vocabolario metodico delle declinazioni e
delle coniugazioni nel loro uso storico. Qualche decennio più tardi, su questo
argomento avemmo un lavoro assai migliore e di una maggior portata, che è quasi
anello di congiunzione tra i precedenti prospetti più o meno empirici e i più
recenti trattati di analisi rigorosamente filologica: la Analisi critica dei
verbi italiani investigati nella loro primitiva orìgine da NANNUCCI (si veda),
a cui seguì il Saggiò del prospetto generale di tutti i verbi anomali e
diffettivi, sì semplici che composti, e di tutte le varie configurazioni,
dall'origine della li?igua in poi. Derivata da' medesimi principi e condotta
con l' istesso metodo è la Teoria de' nomi della lingua italiana, che, come X
Analisi, si raccomanda sia adoperata con cautela. Al Nannucci dobbiamo an
Osservazioni grammaticali intorno alla lingua italiana compilate da Giacomo
Roster professore delle lingue italiana, tedesca ed mg le se ecc. in Firenze,
mediante le quali si procura di fissar le regole sinora incerte e vacillanti,
fondate sull'uso generale de' classici antichi e moderni, e col parer de' primi
letterati d'Italia: opera necessaria per intendere gli scrittori antichi e
moderni, e per parlare e scrivere correttametite. Dedicata alla eulta nazione
italiana. Firenze, nella stamperia Ronchi. Dopo un Ristretto di termini
grammaticali e un Ristretto delle declinazioni tratta a lungo; della Dee lina
zio?ie, ossia delle varie terminazioni di nomi sost. e agg. Nella dà le Regole
per le formazioni di modi, tempi e persone delle tre coniug. de' verbi reg. e
irr. Seguono alcune pagine di note. (Il raro libro mi fu fatto conoscere dal
prof. Teza, che ne possiede un esemplare). Storia della Grammatica cora Voci e
locuzioni italiane derivate dalla lingua provenzale. Son tutte parti codeste et
uri opera vasta alla quale s'era dato l'esimio filologo e in cui si proponeva
di ricercare minutamente la natura, l'indole e la storia della nostra lingua,
seguitandola secolo per secolo ne' suoi movimenti e nelle sue trasformazioni,
ed investigando la ragione de' costrutti e delle forme grammaticali (Ai
lettori): un miscuglio, come ben s'intende, d'empirismo, di storia e di
filosofia del linguaggio in cui sarebbero state riassunte e conciliate le tre
tendenze degli studi linguistici prevalenti al suo tempo. Fu bene che il
Nannucci si limitasse alla parte storica usando, come le forze gli
permettevano, discretamente, del metodo comparativo ignoto ai suoi predecessori
specialisti: ne uscirono giustificate nella loro origine e nella loro analogia
con le neolatine, voci e frasi ritenute errori e idiotismi dagli altri; altre
furono ridotte alla loro vera lezione. Quelle che per altri erano minutezze,
cioè tutte le uscite varie di una stessa voce, egli raccolse e sistemò,
svolgendo la sua trattazione, se non con metodo, con ordine, chiarezza, cioè
tempo per tempo, persona per persona. Faccio la riserva sul metodo, appunto
perchè qui è il lato debole, filologicamente parlando, dell'opera del Nannucci:
la sua è una classificazione empirica, storica nel senso che parte dalle forme
più antiche per giungere alle moderne: non è, e non poteva ancora essere a base
fonetica, come oggi si esigerebbe. Se non che anche in questo rispetto supera i
precedenti trattatisti, de' quali egli stesso vorrebbe eccettuato il
Mastrofini, se oltre all'aver egli lasciato addietro tutte le anomalie più
riposte, che sono sparse per entro agli scritti de' nostri vecchi, anche nelle
più ovvie da lui riprodotte , non avesse per lo più errata la vera origine.
L'opera di NANNUCCI (si veda), come anche risulta d’un utilissimo indice, è ricca
di osservazioni grammaticali spicciole che servono a lumeggiare la posizione
sua di grammatico diligente e osservatore, raccoglitore di prima mano de’fatti
grammaticali, che sa ordinare nella loro serie storica, non nella loro genesi
ed evoluzione interiore, intese, è superfluo dirlo, nel loro significato
fittizio. È insomma, per l'Italia, a prescindere dai nostri filologi migliori,
l'anello di congiunzione tra la pura precettistica e l’indagine storica. Un
contenuto grammaticale hanno egualmente, chi più chi meno, tutti i nostri
retori ed eruditi e lessicografi filologi nel senso ristretto che a questa
parola da Diez in poi viene annesso, non li potremo chiamare dell'indirizzo
puristico-classico da CESARI (si veda) a FORNACIARI. D’essi, quando non sono anche
produttori di grammatiche vere e proprie, onde particolarmente vogliamo
desumere i caratteri della grammatica di questo periodo, basta che noi
ricordiamo poco più che i nomi per complemento di disegno, rientrando essi in
quanto tali alcuni sono grandissimi filosofi come Foscolo, Monti, Leopardi più
direttamente nella storia dell'erudizione linguistica o della rettorica o della
coltura o della critica letteraria o della cosiddetta questione della lingua,
secondo i singoli casi. Nel loro complesso, per quanto ha rapporto diretto con
la grammatica, essi seguono e costituiscono il medesimo moto onde derivarono le
varie grammatiche che esamineremo con quella brevità che l'interesse ormai
scarso della materia e la qualità possono consentire in una storia come la
presente. Di quei tre grandissimi, benché non siano stati, strettatamente
parlando, né grammatici né critici del concetto di grammatica e neppure
rinnovatori, saremmo tentati a far qui un meno breve cenno di quel che s'è
fatto, avendo essi dato allo studio della lingua una parte non piccola della
loro attività, se, considerando, a tacer d'altro, che le loro particolari
vedute non sono in sostanza se non antecedenti della dottrina di MANZONI (si
veda) sulla lingua, che è poi la dottrina linguistica del romanticismo, di
questa non dovessimo trattenerci più lungamente e per il nuovo indirizzo
grammaticale che ne deriva e per la connessione che ha particolarmente colla
critica della grammatica generale, che a noi sopratutto interessa. Ma di
Leopardi mi giova mettere in rilievo un curioso pensiero circa i rapporti tra
grammatica e lingua, che si può riassumere così. La varietà, ricchezza,
onnipotenza d'una lingua sono in ragione inversa del dominio regolatore della
grammatica, e che egli illustra con gl’esempi della lingua greca che ha
inesauribile ricchezza e assoluta potenza avanti il sorgere della sua
grammatica, della LATINA che, per antica, avendo avuto avanti la grammatica
greca, studiata per principi e nelle scuole, riuscì meno libera e meno varia
d'ogni altra , dell'italiana che, scritta primieramente da tanti che nulla
sapevano dell'analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua e
grammatica, come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna,
similissima di ricchezza e d’onnipotenza alla greca, della tedesca, che, avendo
grammatica e non forse rispettandola e non avendo vocabolario riconosciuto per
autorevole, è nelle migliori condizione per pervenire alla ricchezza, potenza,
libertà. Giudizio quant'altro mai ostile alla grammatica, ma il più servile
verso la sua immaginaria strapotenza. Su di un altro grande italiano, invece,
che citeremo tra poco, TOMMASEO (si veda), filosofo di professione, non
possiamo non fermarci un po’più, il che faremo con la scorta di BORGESE (si
veda), il quale ci sembra averlo caratterizzato con mirabile precisione. Il
CESARI (si veda) del romanticismo, lo chiama Borgese, e di CESARI non è così
spietato censore come molti non-romantici. Ha quel che a CESARI (si veda) manca
per divenire scrittore più che comune, la fede nel grande principio della
rivoluzione letteraria. Di singolare nelle teoriche sulla lingua di TOMMASEO
(si veda), è l'analogia coll’opinioni letterarie che si professano ornai da una
ventina d'anni. Egli stima doversi i significati delle parole distinguere
secondo l'uso più generale e ragionevole, proprio come gl’evangelisti del
romanticismo volevano ligie le lettere alle passioni e ai desideri del tempo,
perchè fossero secondo ragione e morale. Nel linguaggio vede tre pregi
essenziali di bellezza: l'etimologia più prossima e d'evidenza irrecusabile,
l'analogia filosofica e la grammaticale, l'armonia musicale e l'onomatopeica:
pregi che meglio d’ogni altro idioma ritiene possedere il toscano. Non rinnova
i concetti fondamentali della linguistica. Applica come BERCHET (si veda) e
MANZONI (si veda) in modo nuovo principi vecchi, e sostenne l'imitazione del
vero e l'uso di parole intelligibili al popolo. Ed ecco l'intento morale della
riforma. Giova osservare, scrive, che la straordinarietà della lingua, la quale
dà talvolta allo stile una cert'aria di dignità, è pregio tutto posticcio che
non compensa il difetto di pregi più intrinseci. Molti si credono d'essere
scrittori non comuni, allorché rivolgono un’idea comune in abito straordinario,
ma converrebbe, in quella vece, sotto forme comuni, ren[Pensieri di varia
filosofia e dì bella letteratura, Firenze. Del resto su LEOPARDI (si veda)
filologo, v. i noti lavori recentemente condotti sullo Zibaldone, il saggio di
BORGESE, e il citato studio di COLAGROSSO. Colagrosso.] -dere accessibile e,
quasi dirti, perdonabile la straordinarietà dell'idea. Nella pratica pesa con
scrupolo da farmacista parole e sillabe e della grammatica è cavalier senza
macchia. Il numero maggiore degl’eruditi e letterati che si occuparono in
questo tempo di lingua è dato dai vocabolaristi in genere: accademici della
Crusca, dell’Istituto lombardo, Cesari, Galiani, Tommaseo, compresi i
compilatori di dizionari di sinonimi (Grassi, Tommaseo), metodici (Carena) e
dialettali, e in particolare, dagl’avversari più o meno accaniti della Crusca
(Monti, Perticari, Compagnoni) coi loro rispettivi contradittori nelle
polemiche che seguirono alla Proposta di Monti (Biamonti, Galvani, Niccolini,
Tommaseo), e ancor più particolarmente dagli annotatori e correttori della
Crusca (Parenti). Astrazion fatta dall'utilità pratica di queste raccolte di
voci e locuzioni, sono ormai ben noti il nocciolo, le vicende e l'importanza
della questione agitatasi con tanto fervore e accanimento: sostenitori e avversari
della Crusca, nel propugnare secondo il loro partito un uso più o meno esteso
nel tempo e nello spazio, quale si è il loro ideale d'un’ITALIANITÀ più o meno
pura di pensiero, di sentimento e di lingua (entrano naturalmente nelle
questioni sentimentalismi patriottici più o meno caldi e sinceri), muoveno
dall’ormai stravecchia concezione meccanica del linguaggio abbuiata ancora non
poco dall’ignoranza dell'origine dell'italiano, o meglio, de’ [In Borgese.
Borgese. Tra i molti saggi di Tommaseo che in qualche modo si riferiscono al
nostro argomento, merita d'essere ricordato qui particolarmente l’aiuto air
unità della lingua, saggio di ìuodi con formi all'uso vivo italiano che
corrispondono ad altri d'uso meno comune e meno legittimo, Proposte, Firenze,
Le Monnier. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Voc. d. Cr., Milano,
R. Stamperia. Cvi collaborano segnatamente Perticari, Gherardini, Grassi,
Peyron ecc.. Devesi ricordare qui il Capitolo CHI di un'Opera cominciata a
scrivere dall’autore prima della Proposta di Monti e da non pubblicarsi se non
piu tardi (Estr. d. Quad. XV del Nuovo ricoglitore con un'aggiunta, Milano) di
Compagnoni, che pretende, come ODERZO (si veda) Oderzo -- Stilla libertà
concessa alla locuzione italiana della Crusca -- di aver precorso Monti.
Galvani, tra tutti costoro, si distingue per i suoi notevoli contributi alla
storia della letteratura occitanica. Ricordiamo qui particolarmente di lui il
discorso Del soverchio rigor de’grammatici.] vari dialetti italiani; e si
tormentano tutti egualmente intorno a un problema anti-fìlosofico. Lo stesso
dicasi dell'altra categoria, non meno numerosa, dei panegiristi della lingua
italiana e caldeggiatori del ritorno all'antica purezza e semplicità,
trattatisti in genere dell'origine e delle doti dell'elocuzione, dissertatori
di combattimento o no, tutti quali con più quali con meno di destrezza
armeggiami pel feticcio col vecchio bagaglio d'argomenti formali: Cesari, alla
testa, Amadi, Amicarelli, Bressan, Mazzoni, Biondelli, Betti, Ranalli, Paravia,
Fornaciari, Montanari, Mestica, Costa, Pagliese, Farini, Colombo, Marchetti,
Parenti, Giordani, a tacer di Puoti e della sua scuola. Una terza schiera,
infine, è costituita da molti di questi stessi, T. mette in prima linea
Colombo, e altri moltissimi tra questi ricorderemo honoris causa Leopardi e
Foscolo che o curano l'edizione de’testi antichi o li annotarono o fecero l'una
cosa e l'altra. L'opera di costoro ha un carattere più specificatamente
linguistico-retorico; ma, oltre che qui non se ne potrebbe molto agevolmente
tener conto, poiché sarebbe da ridurre a corpo sistematico, in fondo la
ritroveremo nelle singole grammatiche che accompagnarono questa produzione
esegetica, di cui a priori s’intendono i valori e i caratteri, sol che siano annunziati
i nomi dei produttori. Ma qui dobbiamo fermarci per registrare un fatto di
qualche importanza. Pensando a questa schiera di puristi e di retori,
generalmente ce li figuriamo anzitutto grandi credenti nella grammatica, come
nell'ultima panacea di sicura efficacia per il retto esercizio del parlare, del
comporre e dell'intendere [Un più recente correttore della Crusca è Cerquetti,
il cui nome è mescolato in nuove e non meno vivaci polemiche. Pubblica parecchi
saggi di Correzioni e giunte al vocabolario della Crusca, il primo de’uali vide
la luce in Forlì. Su Cerquetti, Trabalza, A. Cerouellt in Studi e profili. T.
ricorda qui, come segno del fervore puristico specialmente contro le insidie
del dialetto, quella Tavola e correzione d'un migliaio d'errori di grammatica e
di lingua ecc., per Ponza, sac, Torino.], dove Manzoni spigola esempi per la
sua tesi dell’unità linguistica (Opere inedite o rare cit. più innanzi. gli
scrittori. A mostrar l' inesattezza di tale opinione, senza che io mi stenda in
soverchie parole, T. riferisce qui proprio un brano della dissertazione di
Cesari, la cui testimonianza tronca la testa al toro. Dopo aver indicato, il
che fa in modo che tutti possiamo accettare, come s'abbiano a legger i
filosofi, dice che nel principio, la grammatica è necessaria per li nomi e
coniugazioni de’verbi, e per parecchi de’più notabili usi de’verbi singolari.
Io credo che i fanciulli non sono da stancare con molte regole. Al maestro sta
venirle toccando, secondo che negli autori si abbatte a cose che richiegge
spiegazione come che è. La grammatica di Corticelli crede molto ben acconcia
per quell’età; quantunque assai vi manchi di quelle cose che al maestro
s’appartiene d’aggiungere a luogo a luogo. Ma pella grammatica e i primi
elementi di lingua lui arde di mostrare un cotal mio trovato, che assai
felicemente mi riuscì. Io credo che grande agevolezza ad apprender la lingua
dove portare a’fanciulli l'aiuto d'un'altra lingua, loro già nota, la cosa
parla da sé. ora eglino nessun’altra ne sanno che il proprio dialetto. Essi,
nel loro dialetto parlando, sanno il valor delle voci che usano, e le parti
dell'orazione, nomi, pronomi, verbi, avverbi, eccetera, le usano tutte. Ora io
questa loro scienza vorrei recarla ad essi a profitto. Facendo che tutto il loro
studiar nella lingua è un tradurre dal dialetto lor naturale. E nella pratica
dell’insegnamento privato fa fare esercizi di retro-versione di novelle da lui
tradotte in volgar veronese e compila un Catalogo d'alcune voci di dialetto
veronese col corrispondente toscano a fronte. Non è stato il primo a servirsi
del [Precetti pochi di qualsivoglia autore, torna a predicare nello scritto Del
metodo d' insegnare lettere latine e italiane, in Opuscoli cit., ed. Guidetti.
Ed. Guidetti. Guidetti. Guidetti, a questo proposito, riferisce un brano di
lettera scrittagli d'Ascoli. È anche vero che Cesari e Manzoni hanno in qualche
modo la stessa filosofia, sostenendo entrambi che l'Italia dove attingere o
ri-attingere l'unità del proprio linguaggio dalla Toscana o meglio DA FIRENZE,
e n'è venuto assai naturalmente che in entrambi sorge il desiderio di raccolte
lessicali o di frasarj, dove ai modi di ciascun dialetto si contrapponessero
gl’equavalenti della pura e schietta FIORENTINITÀ.] dialetto per apprendimento
e l'insegnamento della lingua, come sappiamo; ma possiamo ben figurarci di
quale e quanta efficacia riuscissero e la dichiarazione di scarsa fede nella
grammatica per sé stessa e il consiglio di ricorrere al dialetto per
apprenderne naturalmente con gli schemi le parti dell'orazione italiana,
esposti come si trovavano in una dissertazione che, e per il nome dell'autore e
per il premio ond'è coronata, si divulga ed ha grandissima presa in Italia.
Infatti, a prescindere dalla ricca serie di vocabolari dialettali (anche Puoti,
oltre quello àé\ gallicismi, ne fece compilar uno domestico
NAPOLETANO-ITALIANO), che non è nostro compito illustrare, da questo impulso di
Cesari, indubitatamente, oltre che dalle cause generali che su Cesari stesso
agirono, derivarono in ogni parte d'Italia grammatiche italiano-dialettali,
dove appunto si fac servire il dialetto, anche più ufficialmente dirò cosi che
non si fa con le versioni dialettali e con lo studio e la compilazione del
dizionario dialettale, all'apprendimento della grammatica italiana. Ne T
ricorda due: la bergomense-italiana, dove l’influenza di Cesari si vede non
solo dall'innesto degli esercizi di retroversioni alle regole grammaticali e ai
paradigmi, ma anche dall’aver proposto tra i temi vernacoli una novella di Cesari:
e [Nel concorso alla cattedra di letteratura italiana a Napoli, a cui partecipò
anche Puoti, è dato per la dissertazione latina il seguente tema, che è la
traduzione del tema dell'Accademia livornese. Italici sermonis a Dante ac
Petrarca praecipue exculti elegantia, quibus de causis, quibusve scriptoribus
defecerit, quibusve de causis ac scriptoribus ad pristinum redeat splendorem.
In Caraffa. Per la storia de' Vocabolari dialettali e quanto li concerne
ne’rispetti dell'aiuto che posson recare a chi vuol imparar la lingua e a
scrivere, cfr. Manzoni, Dell' unità della lingua in Prose minori, ed. Bertoldi,
il Concorso bandito dal Ministero e relativa Relazione e T., L'insegnamento
dell'italiano nelle scuole secondarie Esposizione teorico-pratica con esempi,
Milano; per la necessità che se ne afferma anche ogs^i, né più né meno che con
le idee di Cesari e di Manzoni, mi sia permesso citare la prefazione al mio
Saggio di vocabolario umbro-fiorentino e viceversa, Foligno. Esperimento di una
Grammatica bergomense-italiana compilato a comodo ed utilità de’giovanetti suoi
connazionali dal sa e. G. A. M., Milano, Tip. Arciv., Ditta Boniardi-Pogliani
di Besozzi (Bibl. Teza).] la già ricordata Glottopedia italo-sicula di Pulci,
notevole per l'opinione tacita dell'A. che IL SICILIANO ben ripulito puo
coincidere con la lingua letteraria, ma più importante per LE TRACCE CHE LA
GRAMMATICA UNIVERSALE RAZIONALE FILOSOFICA ANCHE IN QUESTO CAMPO LASCIA.
Protesta l'autore contro le grammatiche di Biagioli e di Cerutti impiastricciate
d'ideologia Trasiana, afferma che le menti dei giovinetti sono immature a
intendere LA FILOSOFIA mentre per intender questa occorre la grammatica, ma LA
FILOSOFIA cacciata dalla finestra delle regole l'ha fatta ri-entrar per la
porta delle note. E finalmente T ooserva qui che quel calore che quei nostri
puristi senteno per la bella lingua giova a ravvivar la grammatica, in modo che
questa non è neppure quel che è oggi per molti una cosa parecchio
insopportabile. Venuti così alla rassegna delle vere e proprie grammatiche
compilate nel periodo di cui abbiam cercato determinare i caratteri, ci
risparmieremo dall'esame così dei trattati particolari come de' compendi e
delle compilazioni di seconda e terza mano, [Glottopedia italo-sicula e
Grammatica dialettica, in cui confrontasi il dialetto siciliano colla lingua
italiana in ciò che disconvengono, a buon indirizzo de’giovani siciliani per
evitare i SICILIANISMI grammaticali ridotta in tavole sinottiche corrispondenti
ad ogni trattato per lo can. seconda della cattedrale di Catania Doti. FULCI
(si veda) pubblico professore di lingua italiana nella Regia Università ecc.
Catania, dalla Tip. della R. Università per Pastore. Diamo qui in nota, come
abbiam fatto per molti continuatori di Soave e Cesarotti, una breve serie dei
moltissimi che, escluso che si possan far tagli netti, si possono riallacciare
alla tradizione di Cesari e Puoti. Regole ed osservazioni della lingua toscana.
In Genova per lo Caflarelli (cit. Da Casarotti). Romola, Delle dieci parti del
nostro discorso, Carmagnola, Agrati, Il maestro italiano con appendice delle
voci dubbie compilate e ridotte informa di dizionario ad uso delle scuole e di
chi ama a parlare e leggere e scrivere bene e correttamente, Brescia, Bettoni
[grammatica e vocabolario trattati alfabeticamente. Ricorda il Pergamini]. De
Filippi, Studio di lingua del fanciullo italiano, Milano, Osservazioni sull'uso
variante dei dittonghi fatte dai padri della poesia italiana, Milano. Antolini,
di Macerata, Saggio di parallelo di voci italiane; trattato della lettera J e
del doppio I, Milano [È una prima parte d'un'opera di cui annunziato il
programma. Attribuisce ai dialetti la colpa dei doppioni. Doppioni? Sono parole
di forma e senso chiaramente diverse: Abbatte, Abate; Accadde, Accade, e che
nessuno confonde. Negli altri trattati per fermarci ai quattro principali
autori che sono Gherardini, Puoti, Ambrosoli e Rodino, tacendo anche qui
interamente delle grammatiche italiane in lingua straniera per uso degli
stranieri. Il milanese Gherardini è più noto specialmente per la sua riforma
ortografica da pochi seguita avrebbe parlato dei nomi d'unica pronunzia e varia
ortografia, di voci medesime di varia pronunzia, voci di doppia vocalizzazione,
dell'/ e ii (Vj, del Z (VI), di monosillabi di vario significato (VIIj. Difende
l'j lungo, e dà un elenco alfabetico di voci parallele: Abbomini, Abbominj;
Accusatori, Accusatori (da accusatorio); Acquai (perf. da acquare, Acquai ecc.;
dividendoli in tre classi. Voci che richieggono la finale j; Il doppio ii
(Abbondi, Abbondii; Accoppi da accoppare, ecc., Accoppii, da accoppiare); Le
due terminazioni (Incendj pi. da incendio,Incendii, da incendiare). GRECO (si
veda) (un precursore di PUOTI (si veda) e degl’altri classicisti meridionali,
Avvertimenti del parlare e scrivere correttamente la lingua italiana, Napoli
(cfr. Sanctis, La giovinezza); AMADI (si veda), Dialogo della lingua italiana,
Venezia. Trovansi ms. nel Cod. Marc. BIAGIO (si veda), Istruzione grammaticali
da lui dettate, Cod. Marc. Regole ed osservazioni intorno alla lingua italiana,
Imola; LISSONI (si veda), Risposta al libercolo Aiuto contro l'aiuto di LISSONI
(si veda), ossia difesa di molte voci italiane a torto proscrìtte, Milano --
che T. cita per ricordare questa polemichetta e accennare che anche di questo
tempo si ha una colluvie di scritti ortografici); AZZOCCHI (si veda) insegna
italiano e latino al Collegio Romano e al Seminario. Scrive un Elogio di CESARI
(si veda), che si compiace di lui come di suo nuovo seguace, cfr. Cesari, Opuscoli,
ed. Guidetti, Avvertimenti a chi scrive in italiano (Fra noi, dice, è questo
difetto grandissimo d’educazione, che non curiamo punto la lingua che di
bellezza gareggia eziandio con la greca, mentrechè alle lingue morte attendiamo
e alle straniere. A proposito d’AZZECCHI (si veda) e de’suoi pari nel culto
della lingua, MAZZONI (si veda) (L’Ottocento) osserva giustamente. Il nome
d'Italia è da per tutto, anche nelle grammatichette e ne’lessici per i ragazzi,
rivendicato contro il forestierume e la barbarie. FALCHI (si veda) (I puristi;
1. Il classicismo de' puristi, Roma) vuole fare delle riserve e mettere le cose
a posto sul patriottismo de’puristi, e trova una frase felice per illustrare la
sua filosofia, dove dice che questi fanno servire il concetto di patria alla
causa del purismo: non viceversa. Verissimo. Pure è innegabile, e la cosa si
spiega facilmente, che, nonostante che PUOTI (si veda), prendiamo un esempio
perspicuo, si dolesse profondamente di non poter diventare il pedagogo di
Rampollo del Borbone, né s’accorgesse quali spiriti svegliasse nella scolaresca
il [un di codesti è CATTANEO (si veda), onde vuole ricondurre tutte le forme
alla grafia che l'etimologia esige. Vana ed illogica pretesa, ma,
filosoficamente, non meno ingiustificata di quant'altre mirano a costringere
l'arte entro determinati schemi grafici più o meno moderni, per quanto,
naturalmente, più di esse ripugnante alla coscienza moderna cui è meno estraneo
quel certo consenso formatosi intorno al cosiddetto uso vivo. Ma l'attività di
GHERARDINI (si veda) si svolge largamente e per lunghi anni anche nel campo
stesso della grammatica, concretandosi in saggi di gran lena e di grossa mole.
Comincia con studi lessicografici – la botanica linguistica Austin-Grice --
pubblicando un Elenco d;alante parole oggidì frequentemente in uso, le quali
non sono ?ie' Vocabolari italiani. Da alla luce una Introdìizione alla
Grammatica italiana per uso della classe seconda delle scuole elementari:
facile ma elementarissima esposizione accompagnata da tavole sinottiche e da un
modello d'interrogazione per uso de’maestri che suo insegnamento, resta sempre
vero quel che SANCTIS (si veda) ha ad osservare e altri a ripetere, che PUOTI
(si veda) con l'amore e la cura della lingua desta il sentimento nazionale in
tutta la gioventù che fa poi. Saggi critici, Napoli. Il viceversa è vero per i
discepoli, se non pei maestri. BRENNA (si veda), Elementi di ortografia,
Treviso. GUASTAVEGLIE (si veda), Compendio di grammatica, Perugia. È, per
dichiarazione stessa dell'a., un rimaneggiamento del Compendio di CHINASSI.
FECIA (si veda), Aiittarello a parlare faìnigliarmente italiano, Biella;
CAMANDONA (si veda), Saggio di grammatica italiana, Torino; GRAVANTI (si veda),
Grammatica della lingua, Cremona; MANNUCCI (si veda), Grammatica, Città di
Castello; MELGA (si veda), Grammatica compilata sulle opere de’migliori
filologi antichi e moderni, Napoli. Cfr. Borghini, e Rodino, Osservazioni sulla
grammatica di Melga, in forma di lettera all'a., Opuscoli, Napoli, di cui fan
parte anche l’osservazioni sopra il vocabolario d’UGOLINI (si veda) delle
parole e modi errati – “A nice derangement of epitaphs. Una lodata e più volte
ri-stampata Grammatichetta compila sulle tracce di quella di PUOTI (si veda)
GIANNINI (si veda), sul quale v. T., C. G. in La Favilla (Estr., Perugia). La
Riforma dell'ortografia in Alcuni scritti, Milano. CATTANEO (si veda) è
naturalmente disposto a seguire il sistema grafico etimologico di Gherardini
dalla propria dottrina filosofica sul linguaggio, intorno a cui è da vedere ora
un'acuta pagina da Gentile, LA FILOSOFIA IN ITALIA, I positivisti, Le origini,
CATTANEO (si veda), La Critica.] vogliano assicurarsi che i giovani abbiano ben
capito. Usce a Milano la più importante delle tre òpere principali, cioè l’APPENDICE
ALLE GRAMMATICHE, immensa raccolta, nella sua parte non-apologetica e
polemistica, di singole, innumerevoli osservazioni grammaticali, che o
correggono o accrescono il vecchio patrimonio della nostra grammatica. Dopo
l’avvertenza, in cui trova modo di pigliarsela con PUOTI (si veda), autore d'un
Dizionario de’ gallicismi, consacra il saggio all'apologia del suo sistema
LESSIGRANCO con gl’argomenti che i lettori ben conoscono. Svolge anche
l'appendice (che appendice!) alla grammatica. Nel resto chiarisce alcuni dubj
proposti al compilatore e dà altri avvertimenti lessigrafici con aggiunte. Son
tutti problemi che riguardano l’uso e la forma di particolari voci o il giro
d’un costrutto. Nessun principio nuovo, s'intende. Anzi i vecchi principi sono
ri-messi a nuovo con qualche velleità di arguzia e d’eleganza. P. es., paragona
l'ellissi, la famosa ellissi, a Poppea, la quale, andando velata, fa sì che la
sua beltà è aggrandita dall’incitata imaginativa de’riguardanti. Né sempre dà
la spiegazione giusta. Il passo boccaccesco che vedemmo male spianato anche da
Cinonio, non ne dov’io dì certo morire che io non me ne metta a fare ciò che
promesso v’ho, è così dichiarato da Gherardini. Non rimane che io mi metta a
fare ciò che l’ho promesso, se anche dì certo io ne dovessi morire -- che non è
vero. Questi sforzi, peraltro, di tutti i grammatici ed ESEGETI [cf. Grice,
“Love that never told can be”] per sostituire la locuzione o costruzione
rigorosamente grammaticale a certe irregolari espressioni, anche quando
sembrino aver ottenuto lo scopo, cozzano irremissibilmente contro la muraglia
cinese dell'impossibilità della sostituzione, e confermano sempre meglio
l'insostenibilità della precettistica grammaticale. Da che, se non da questo
carattere della grammatica, derivano tutte le secolari diatribe circa
l’interpretazione di singoli passi, di singoli costrutti, di singoli
significati, circa il riconoscimento di determinate grafie, che vediamo
rinnovarsi di età in età? Nel corpo della nostra grammatica ci sono parecchi
temi che sono ripresi in discussione continuamente, in modo che noi vediamo, p.
es., un ottocentista ancora (Cfr. Zambaldi) rimproverare a Bembo o a Buonmattei
una certa formula. Mirando ognuno la frammentaria espressione non col resto
dell'opera d'arte di cui è una molecola, ma coll'archetipo grammaticale che si
contempla nella nostra mente, è naturale che l'accordo il più spesso manchi e
che le discussioni grammaticali si rinnovino di continuo anche da persone
colte, d’artisti provetti che non sieno riusciti a liberarsi completamente
dall'ereditario quanto servile ossequio all'impotente ma riveritissima dea. Ma
il moltiplicarsi di tali discussioni è anche un mezzo potentissimo alla
dissoluzione della grammatica: e Gherardini con un gigantesco volume di
Appendice alla Grammatica, dimostrando col fatto la dilatabilità del corpo
della grammatica, ne affretta del pari la morte. Egli è il Salviati
dell'Ottocento. Minuto, analizzatore come lui, come lui riassuntore d'un lungo
lavorìo grammaticale e esegetico, sviluppa come lui all'infinito le
particolarità lessicografiche, ortografiche e sintattiche della lingua,
capovolgendo cosi i cardini della grammatica, che sono le regole, e
sostituendoli con l'eccezioni. Di modo che l'opera sua finale piuttosto che una
grammatica è un immenso materiale da costruzione, ma per costruirvi un edificio
bizzarro dove tutti i pezzi meccanici adoperati dai singoli scrittori o da
gruppi di scrittori sono ammucchiati e che non può aver mai né fine né unità.
All’appendice seguirono la Lessigrafia, che rappresenta la forma definitiva del
suo sistema ortografico, e le Voci e Maniere di dire -- Grice, WOW – Way of
Words -- additate ai futuri Vocabolaristi. Proprio l'opposto dell'appendice
gherardiniana per condotta e architettura, benché ispirate ai medesimi
principi, sono le regole eleì7ientari della lingua che il napoletano PUOTI (si
veda) pubblica. Il più diffuso e noto e fors'anche efficace dei molte suoi
saggi con le quali intende a integrare il suo altrettanto ben noto e efficace
insegnamento, che impartì in modo così simpatico a Napoli a scolaresche
entusiaste e intelligenti a cui furono ascritti uomini quali SANCTIS (si veda),
MEIS (si veda), ed altri filosofi famosi. Oratore nelle esequie del marchese di
Montrone a Bari, che a lui consegna i suoi saggi da stampare, dice che lo
piange come maestro, e ben rammentò come egli, discepolo, anda cercando che
frutta nel Mezzogiorno d’Italia quella nobile confederazione, come la chiamò,
che in Bologna ha stretta MONTRONE (si veda) con SAVIOLI (si veda); di cui
canta nel Peplo, con Marchetti, Costa, Schiassi, Giusti, Strocchi, e Giordani :
preziosa testimonianza per la storia del Classicismo e del Purismo sceso
dall’Italia centrale nel Mezzogiorno. Dei caratteri del purismo di PUOTI e del
suo insegnamento non occorre che qui ripetiamo quanto ormai è ben noto. Basta
che diciamo qualcosa della sua grammatica, alla quale, come dichiara egli
stesso nella prefazione all'edizione napoletana, collaborarono de’suoi allievi
principalmente SANCTIS (si veda) e RODINO (si veda), MELGA (si veda) e
FABBRICATORE e che basta a parecchie generazioni non del solo Mezzogiorno come
lo provano i dodicimila esemplari che gl’editori della ristampa dell’edizione
livornese dicono essersi esauriti in diverse edizioni fatte in Toscana, in
Parma e in Napoli: grammatica che PUOTI circonda delle cure più amorevoli e
venne correggendo e migliorando via via in tutte le edizioni che egli stesso
cura. A lode del buon senso didattico di Puoti dobbiamo subito ricordare che a
lui non sfuggirono le due principali condizioni che sole giustificano nel campo
della pratica e rendono utile la grammatica. Che essa sia, non maestra
dell'arte, ma semplice strumento per lo studio e l'apprendimento delle lingue.
Che i suoi precetti, perchè riescano veramente utili, siano ravvisati nelle
scritture -- e addita tra queste come meglio accomodate il Governo della
famìglia, l’Antologia di prose italiane, i Fatti d’Enea. Come disegno, la
grammatica di PUOTI è mirabile di sobrietà e d’armonia, dati non affatto
spregevoli in un libro scolastico. La distribuzione è l'antica -- etimologia,
SINTASSI, ortoepia e ortografia --, e riflessa bene, quasi quanto il contenuto,
lo stato della linguistica d’allora e dell’importanza che si da a certi
problemi. Il prevalere dell'etimologia (o, meglio, MORFOLOGIA) e della
SINTASSI, sull'ORTO-EPIA [cf. Grice on ‘correct,’ procedure – what is proper -e
sull’orto-GRAFIA e il quasi nessun conto fatto della fonetica [cf. Grice,
distinctive features of phonetic analysis of phonematic sequences] dimostrano
che non si ha alcuna coscienza del problema storico della lingua e che tutto
l’interesse è ancora il puramente formale ORETTORICO. Mentre il persistere di
questo interesse per la forma e l'uso delle pa[Mazzoni, L'Otl.. Napoli] -role
quali si possono riconoscere negli scrittori pei rispetti della purità e della
correttezza fa fede dopo tanto lavorìo grammaticale, dopo la crisi filosofica
della grammatica prescrittiva, che sopravvive soltanto la parte puramente
empirica, cessando ogni interesse per quella filologicamente storica,
sopravvive cioè la grammatica spogliata d'ogni elemento filosofico e
conoscitivo. A che si dove logicamente venire, e il fine e la funzione della
grammatica non possoo non esser quelli che abbiam visto aver riconosciuto
Puoti. Oggi essa non si studia diversamente ne con diverso fine. Ed è
presumibile che nel futuro si seguiterà a fare altrettanto. E se alcuni
resultati della grammatica storica si sono incorporati nella moderna grammatica
normativa ed altri ancora vi si includeranno, ciò potrà forse migliorare il
metodo d’esse e aiutare l'apprendimento, ma come conoscenza, come contenuto
conoscitivo, storico, rimarrà sempre estraneo al fine della grammatica, che è
quello di condurre all'acquisto della lingua da adoperare per i bisogni
pratici, tant'è vero che delle grammatiche per gli stranieri quest’elemento
conoscitivo è assolutamente escluso. Pure è facile avvertire nel contenuto
specifico della grammatica di Puoti l' influenza tanto dei precedenti accertamenti
della filologia quanto delle tendenze della GRAMMATICA RAZIONALE UNIVERSALE
FILOSOFICA; com'è naturale che vi è tenuto conto delle formule trovate dai
migliori precedenti grammatici, da Bembo a Salviati a Cittadini, da Buonmattei
e da Cinonio a Corticelli. Sicché Puoti ci appare come un diligente vagliatore
di quanto è escogitato dai grammatici dei vari tempi e indirizzi, un
disegnatore sobrio e corretto, un espositore chiaro e temperato che sa bene il
suo fine e che ha coscienza de’suoi mezzi e del proprio metodo, e perciò
esibitore d'una materia che passa immediatamente nel cervello de’discepoli,
osservabile negli scrittori e applicabile nelle scritture e nella parola viva,
scartata ogni superfluità, ogni suppellettile che rivesta carattere scientifico
o conoscitivo. Vedasi, p. es., quanto è rimasto in PUOTI dei trattati
cittadineschi su cui tanto si travagliarono per sistemarli didascalicamente i
grammatici posteriori; quanto, nella sintassi, di tutte le categorie della
grammatica filosofica; quanto, per la morfologia, di tante forme di nomi e di
verbi e d'altre categorie scovate dai più minuti ricercatori; quanto, per
l'ortografia, delle smisurate trattazioni precedenti. Su tutto sta come
principio dominatore infrangibile il più rigoroso criterio puristico. Valga
d'esempio l'osservazione che il Puoti oppone alla regola del luì, del lei e del
loro, che non si possono usare nel caso retto , sebbene << non manchino
esempi in contrario anche del buon secolo della favella: Ma ora che la
grammatica della lingua è ben fermata, questi esempi voglionsi tenere come
errori, e punto non debbonsi imitare. Avvertiva il marchese che, se l' ingegno
de' discepoli il poteva comportare , s'incominciasse per bel modo a far loro
comprendere le ragioni delle cose , e, come già vedemmo, tollerò che il suo
prediletto discepolo e assistente studiasse la grammatica generale, concessioni
strappategli dalla riverenza in che ancora era questa tenuta, ma nelle sue
Regole fu soppresso ogni perchè, e tutto dato come fatto e come legge.
Concludendo, diremo che la grammatica del Puoti è l'espressione più
caratteristica che presero le dottrine grammaticali ornai trionfanti di questo
periodo. AMBROSCOLI, comasco, grande ammiratore del Giordani e del Leopardi,
più noto per il suo Manuale (edito nel 31 e rifatto nel 60), fu meno restio del
Puoti all'ammettere un po' di elemento filosofico: si vuol render conto,
infatti, del come sorsero le categorie e le forme grammaticali; ma in questo,
lungi dall'ispirarsi agli enciclopedisti francesi, egli tornava al Buonmattei;
come pure adottava il metodo lessicale del Cinonio per la dimostrazione
dell'ufficio e dell'uso pratico delle voci. La sintassi appar fondata sul
principio della grammatica generale e particolare nella sua divisione di
regolare e irregolare e nell'accettazione della dottrina dell 'ellissi: ma
nella sua fisonomia generale come anche nella maggior parte della trattazione
questa grammatica dell'Ambrosoli è ormai la grammatica di stampo moderno;
tant'è vero che è stata ristampata, con le debite modificazioni, anche qualche
decennio fa. Un vero ritorno alla grammatica filosofica sembra avverarsi con
quella novissima della lingua italiana del palermitano Milano. Grammatica
nuovissima della lingua italiana " ricomposta da Leopoldo Rodino per uso
del Liceo arcivescovile e de'Seminari di Napoli, sopra quella compilata nello
studio di Basilio Puoti. Prima edizione fiorentina rivista da un Maestro
toscano", Firenze, Barbèra Bianchi u Comp.] Rodino, che anche si è
ristampata non è molto e vien citata come autorevole, meritando forse l'elogio
che il Betti le tributò di lavoro filosofico, magistrale, compiuto, sebbene non
le siano mancati critici acerbi come Giannini. Col Rodino si dimostra, quello
che era naturale che accadesse, che la grammatica empirica aveva dovuto venire
a patti con la ragionata, la quale, spregiata dopo tanti onori ricevuti, non se
ne poteva andare senza lasciar tracce: e le tracce ne son rimaste nelle
grammatiche moderne specialmente con la famosa analisi logica della proposizione
e del periodo. Nella Grammatica popolare della lingita italiana tratta dalla
grammatica novissima, manifestava A chi legge questa sua veduta: La grammatica
si può insegnare per tre differenti modi. L'uno è il filosofico, e sta nel
porre alcuni principi di logica, da' quali si facciano discendere come
conseguenze le regole grammaticali. Questa io chiamerei la scienza della
Grammatica ; ed è lavoro, eh' io mi propongo di pubblicare di qui a qualche
anno. L'altro è positivo e pratico, ed è quando si raccolgono tutti i precetti
di quest'arte applicati alla lingua, e derivati dalla logica, ma esposti per
modo, che nulla apparisca della loro origine filosofica alla mente de'
giovanetti non ancora capaci di lunghi e severi ragionamenti. Questo secondo
modo ho io tenuto nella mia Grammatica nuovissima. Ma non tutti possono
imparare tutti i precetti di questa Grammatica....: quindi Grammatica popolare,
circa al qual modo a due, si dee por mente. La prima è che i precetti non siano
mai né contro alla ragione logica né contro alla verità positiva della lingua.
L'altra è che si scelga giudiziosamente quella parte de' precetti che è più
necessaria a sapere, e contro alla quale si falla più generalmente dal popolo.
Che la esecuzione tanto della nuovissima quanto della popolare sia riuscita
opera secondo il fine pratico veramente magistrale per l'agilità e la
chiarezza, nessuno Napoli. Cfr. ftass. crii. d. I. it.. La Grammatica antica e
le moderne. Osservazioni, Viareggio, Malfatti, opusc. recensito in Borghini.
Giannini vi prende posizione contro i riformatori della grammatica, difendendo
l'antica nomenclatura e gli antichi metodi. i4j Firenze, Barbèra, Bianchi e
Comp., Storia della Gr animai ica vorrà negare che s' intenda di cose
didattiche, e il favore goduto da entrambe l'attesta; ma questo stesso
tentativo di adattare, anzi specializzare la grammatica alla varia mentalità
degli apprenditori, stabilendo de' gradi non pur nell'ampiezza maggiore o
minore della materia, ma nella maggiore o minore infusione dello spirito
filosofico, come se ci sia un vero grammaticale più o meno potenziato di virtù
illuminatrice, non solo, ma affermando il principio che questo vero ci abbia a
essere anche nel grado inferiore, ma senza mostrarcisi, se può riuscire in lode
del maestro che s' industria e s'affanna nell'escogitazione di espedienti
sempre meglio e specialmente efficaci, è indizio però assai grave contro la
stessa grammatica, scienza che si stira e s' impolpetta a piacere altrui.
Infine, questo scolaro del Puoti che sorride alla grammatica filosofica, ma si
regola nel compilarne una su per giù come si regolava il maestro, e ne escogita
un'altra in cui la filosofia a braccetto dell'empirismo sia posta in servizio
del popolo, è, grammaticalmente parlando, l' incarnazione di quel periodo di
crisi e di transizione e della filosofia e dell'empirismo, in cui il popolo
-appunto affermava il suo diritto di partecipare al banchetto della
letteratura, asserendolo per bocca del Manzoni. Verità, necessità, chiarezza
delle regole sono pel Rodino i requisiti che deve avere una grammatica. La
verità è nella logicità, essendo la grammatica figlinola piimogcnita della
logica. Ma non si aspetti per questo alcuno di vedere in questa Grammatica
quelle teoriche di filosofia, che si vorrebbero da certi in questo secolo, che
dicesi filosofico. Che, lasciando stare tutte le altre ragioni, questo non
sarebbe acconcio a quelle tenere menti che non potrebbero sostenere difficili
principi ideologici, e poco utile riuscirebbe all'uso della parola, la quale se
ha la sua ragione nella ideologia, ha la sua forma dalla maniera propria di
ciascuna lingua. Adunque lasciando star questa maniera che sarebbe conveniente
ad una Grammatica generale o meglio alla Ragion della grammatica, bisogna star
contenti a questo, che i principi cioè, che per necessità si hanno a porre
nelle regole grammaticali, sieno secondo la logica. E si noti, intanto, che Y
'e tuttologia vien chiamata l'analogia. Così che la sintassi conserva le tre
parti della grammatica generale: collocazione, concordanza, reggimento.
Naturalmente la proposizione è il complesso di parole con cui si esprime
quell'operazione della mente che si chiama giudizio. Tra il fragor d'armi che
la Proposta montiana aveva destato, il Manzoni era venuto componendo il suo romanzo,
non senza esser condotto naturalmente a meditare il problema della lingua sia
dalle vivaci discussioni che intorno ad esso si agitavano, sia dagli ostacoli
che si figurava aver incontrati nell'opera sua per non possedere tutta la
lingua che gli sarebbe occorsa a raggiungere almeno la forma approssimativa del
suo pensiero. Sicché, quando diede fuori la seconda edizione de' Promessi sposi
nella nuova veste fiorentina che si era persuaso dover ad essi indossare,
mostrando un esempio pratico della necessità e bontà della tesi di cui s'era
venuto sempre meglio convincendo, era naturale che si aprisse un nuovo periodo
di ardenti polemiche intorno a quel problema dell'unità della lingua, di cui in
quel libro aveva praticamente dimostrato qual potesse e dovesse secondo lui
esser la soluzione. La storia di quest'ultima fase della secolare controversia
è ben nota anche nei minuti particolari e quel problema per fortuna è stato
ormai risoluto nella pratica con la vittoria della dottrina manzoniana,
vittoria immancabile non solo per merito di questa e dei sostegni che ha, ma
anche per cause sociali che non importa dichiarare; nella teoria con il
riconoscimento della sua natura non filosofica. Poiché quella di MANZONI (si
veda) non è neppur nella sua mente e non puo essere una tesi estetica; ma
semplicemente un vivace lavorìo di pensiero per trovare la via di soddisfare a
un'imprescindibile esigenza pratica del momento non pur nei rispetti
dell'artifizio stantìo della vecchia prosa, ma in quelli della lingua d' Italia
intesa anche come mezzo d'integrazione della constituenda unità nazionale.
Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di
pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare
con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni
preziosissime alla morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte
del mondo, se l'Italia divenne tutta d'una sola favella! Che maggior
fratellanza non crescerebbe tra noi ! Che aumento alla carità della patria
comune! . Così pensava anche il Rosmini i Opere edite e inedite O, meglio, la
tesi pratica sorse imperiosa dal suo stesso spirito artistico, ma cercò nella
speculazione la sua base critica, tramutandosi necessariamente in pedagogica:
resultato triplice dell'elaborazione, la correzione del romanzo, la negazione
teorica della grammatica generale, le proposte di mezzi d’unificazione
linguistica; criterio dominante, anzi assoluto, l'uso, particolarmente il
fiorentino, quale lo forma l'evoluzione storica dell’italiano ed in cui è il
maggior consenso di tutti i parlanti d'Italia. Il punto di partenza della
dimostrazione teorica di MANZONI (si veda) è il concetto di lingua. Le lingue
sono complesso di vocaboli soggetti a regole. Ma ciò che le fa essere quel che
sono, non è l’analogìa, intendi: le leggi immutabili e universali della
grammatica generale, sì bene l’uso, le regole grammaticali, in lume Pedagogia e
Metodologia, che, come ben dice BORGESE è maestro in FILOSOFIA e scolaro in
letteratura di MANZONI (si veda). E per non tornarci sopra altrove, aggiungo
qui che ROSMINI (si veda) distingue nella lingua la materia e la FARINA. Quanto
alla forma della lingua, avverte ai maestri, il fanciullo non è ancora da ciò.
Perocché la FORMA della lingua (“Pirots karulise elatically”), cioè la SINTASSI
– o grammatica -- esige dell’intellezioni d'un ordine molto superiore al
secondo. Gli scritti di MANZONI (si veda) sui quali fermiamo più specialmente
la nostra attenzione sono le due minute dell'opera “Della lingua italiana,”
nell’Opere inedite o rare pubblicate da BONGHI (si veda), Milano. Ma teniamo
presenti tutti gli altri scritti linguistici raccolti e egregiamente illustrati
da BERTOLDI (si veda) nelle Prose minori, col corredo d'un'abbondante quanto scelta
bibliografia. Minuta prima. Nella seconda, la definizione è corretta così.
Materia propria d'ogni lingua sono de' vocaboli, e delle FORME
MORFO-SINTATTICHE E PURAMENTE SINTATTICHE O GRAMMATICALI applicate ad essi, e
che sono comunemente chiamate ‘regole.’ Il mutamento è stato suggerito dalla
necessità di tener ben distinti tra loro nella trattazione il vocabolario e la
MORFO-SINTATTICA, MORFOLOGIA, SINTASSI -- grammatica, -- mezzi che s'adoprano
per rappresentare qualunque lingua nel suo complesso. Abbiam preso qui le mosse
dalla prima minuta, tanto per dare subito una prova di quel che è la seconda,
che la supera specialmente di rigore metodico e maggior precisione dialettica;
e noi questa terremo a nostro fondamento, benché nella prima qua e là nell'incertezza
dell'espressione par che si scopra meglio il pensiero dell'autore, il quale
nella seconda ha cura di mostrarne di mano in mano e seguirne il progresso,
perchè alla fine balzi più vivo: è l'arte sua] ogni Lingua, dipendono in tutto
dall'USO, come i vocaboli. Così la dimostrazione viene a constare di due parti,
non sempre nettamente distinte, ma rispondenti alle due parti fondamentali che
ci restano dell'opera, dopo la prima che serve d'introduzione, Dello stato
della lingua in Italia, e degl’effetti essenziali delle lingue, e che trattano,
la prima. Quale è la causa efficiente delle lingue, rispetto ai vocaboli e
rispetto alle regole morfologiche, morfo-sintattiche, e puramente sintattiche
-- grammaticali. La seconda. Se l’analogia produce degl’effetti necessari nelle
lingue, riguardo alla parte morfologica, morfo-sintattia, e puramente sintattia
– o grammaticale. Quest'ultimo capitolo, che è quello che più ci riguarda qui,
contiene la critica negativa della grammatica generale, cioè la parte veramente
nuova del sistema di MANZONI (si veda). E dall'esame d'esso ci vien messa in
rilievo la profonda differenza che intercede tra MANZONI (si veda) e SANCTIS
(si veda) nella loro comune critica grammaticale. SANCTIS (si veda), mente
filosofica speculativa, muove dalla grammatica per andare verso la scienza,
verso l'estetica, e riuscì a vedere tanto quanto basta per esser libero nella
sua critica, cioè nella manifestazione della sua vera personalità da pregiudizi
teorici. MANZONI (si veda), anima d'artista – grammatica pratica non
speculativa --, anda dalla TEORIA verso la PRATICA, verso la tecnica, alla
ricerca de’mezzi dell'espressione, o meglio combatte per vincere quegl’ostacoli
che ai grandi suoi pari spesso op[Minuta prima. Ecco tutta la materia dell'opera
che sarebbe stata in tre parti: Principi generali, riconoscimento del fatto
particolare; confutazioni delle obiezioni; esame de’sistemi; tale è l'assunto,
e tale è l'ordine di questa parte. Nella seconda s'esaminano i diversi sistemi.
Nella terza si tratta de’mezzi atti a propagar le lingue, e da impiegarsi, per
conseguenza, a rendere, per quanto è possibile, comune di fatto in tutta Italia
quella che si dimostra esser la lingua italiana. Chi ha presenti tutti gli
altri saggi linguistici di MANZONI (si veda), s'accorge che il libro in quel
che ci manca non è che una rielaborazione e sistemazione di quel che in essi è
contenuto. Ma è sempre a dolere grandemente che l'opera rimane incompiuta. –
cf. Vio compiuta Aquino. Soccorrono facilmente alla memoria i nomi d’ALFIERI
(si veda) e LEOPARDI (si veda). Delle fatiche del primo per conquistar la
lingua italiana, dell’elaborazione tormentosa dell’espressione formale delle
sue tragedie, è superfluo dire. Ci piace invece riferire un pensiero che egli
esprime a proposito dei gallicismi da lui avvertiti (Voci e modi toscani] pone
la lingua come passività, come cosa morta, vuole insomma parlare. Il volgare
illustre d’ALIGHIERI (si veda), le varie grammatiche e la correzione
dell’Orlando Furioso, l'USO e la correzione de' Promessi Sposi di MANZONI (si
veda), sono aspetti diversi d'un medesimo problema spirituale, il bisogno
d'esprimersi in tutta la pienezza, di creare la propria espressione; nuove
teorie, nuove grammatiche, rifacimenti, polemiche, tormenti teorici d’ogni
genere accompagnano fatalmente quello sforzo inevitabile, specie ne’momenti di
grandi rivoluzioni dello spirito. Grandi e piccoli partecipano calorosamente a
tali dibattiti. I primi sciolgono il problema, se sono artisti, non con le
teorie che costruiscono, ma creando capolavori, se sono FILOSOFI CREANDO
SISTEMI, i secondi imitando gl’uni e gl’altri,, ripetendo, ma pur dando nel
loro lavoro complessivo un riflesso TEORICO di quella che è stata chiamata la
creazione collettiva della lingua, perchè tutti che abbiano in sé una sola
favilla di vita interiore collaborano allo svolgimento della lingua, e tutti
vogliono rendersi ragione e asserire un piccolo dritto sul capitale comune.
Così si può intendere, meglio che non si fa comunemente, il valore che la parola
“uso” – cfr. GRICE ON RYLE use/usage --, tanto frequente sulla bocca di MANZONI
(si veda), ha nel suo discorso. L’USO è il parlar vivo, il con la corrisp. in
lingua gallica e in dialetto piemontese, ed. Cibrario, Torino, Alliana -- nel
Boccaccio. Le regole o inezie grammaticali debbono pell'appunto essere dai
sommi scrittori più rispettate, perchè più grandezza d'animo si richiede per
sottomettervisi che per disprezzarle (in Fabris, I primi scritti in prosa
d’ALFIERI (si veda), Firenze), e che, lungi dall'essere una banalità o un
paradosso, rivela quale importanza ha nella coscienza del grande artista
annunziatore della terza Italia l’ITALIANITÀ della sua lingua. Quell'omaggio
alla grammatica è un omaggio reso al nume agitatore del suo spirito poetico. LEOPARDI
(si veda) anch'egli vuole andare ad abbeverarsi al fonte linguistico di
Firenze, e a GIORDIANI (si veda) che l'ammonisce non esser paese che parli MENO
ITALIANO di Firenze, risponde piacergli imparare quell'infinità di modi volgari
che spesso stan tanto bene nelle scritture, e quella proprietà ed efficacia che
la plebe per natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole. E se pur
allora di quell'andata non ne è nulla, risciacquò però anch'egli più tardi le
sue prose nell'Arno, sebbene in modi diversi da quello tenuto da MANZONI (si
veda) (Mazzoni, Storia). Giudicano rettoricamente di lingua sì GIORDANI (si
veda) che LEOPARDI (si veda), ma, chi guardi, con perfetta concordia col
proprio temperamento spirituale.] parlare, il solo parlare: e quand' egli
sostiene che la vera causa efficiente delle lingue, l'unica è l'Uso, in fondo
non dice altro che questo, che il parlare è il. parlare: di codesta causa
efficiente egli dovrebbe pur sapere che v' è un' altra causa più intimamente
efficiente, che è lo spirito: su questo non si sofferma, e qui è la parte
manchevole del suo sistema; il che vuol dire che egli non ha un'estetica, una
filosofia sua del linguaggio vera e propria. Ma chi metta questa sua parola Uso
o Parlar effettivo in rapporto col suo spirito artistico, vedrà che in esso
l'Uso s' identifica con la causa generatrice dell'espressione. E in questo è la
superiorità della sua dottrina. V ha di più. Questo propugnare l'Uso vivo del
popolo, e del popolo fiorentino che certo fu il grande collaboratore della
lingua nazionale, che altro rivela, in sostanza, se non una viva coscienza che
il Manzoni avesse dell'attività spirituale collettiva onde il linguaggio si
altera, si crea ogni momento? Perchè altri facevano della questione della
lingua una questione storica, dimenticavate sempre più che è una questione
atttiale di sua natura, dice in un punto ai suoi supposti avversari, e, a suo
modo, diceva una verità. Sicché si può dire che egli, pur facendo una questione
pratica, rasenta sempre il vero problema scientifico della lingua. E se n' ha
una conferma magnifica nella critica eh' ei fa delle leggi immutabili della
grammatica generale, dove egli riesce ancor più nuovo e originale e limpido
negatore che non fosse il De Sanctis medesimo. Potrei citare moltissimi luoghi
che dimostrano eh' egli intuiva la vita spiritunle del linguaggio, tanto come
creazione collettiva quanto come creazione individuale. V. specialmente le
pagine dove afferma che la causa della lingua non può esser che una, e
l'esempio addotto d'una parola del Malherbe che diviene francese dopo solamente
che è accettata dall'Uso. Sono le . Ma un luogo singolarmente caratteristico è
il seguente: La grande operazione dell'Uso, l'operazione essenziale, permanente
e omogenea, quella che fa viver le lingue, è, al contrario, quella di
mantenere, e di mantenere incomparabilmente più di quello che, in ogni momento,
possa andarsi mutando, com'è s'è accennato dianzi. Unico, tra tutti i letterati
italiani, il Manzoni ha comune con SANCTIS (si veda) la conoscenza intima de'
grammatici sì antichi che moderni, in particolare, s'intende, dei galli. Una
correzione notevole di storia della questione della lingua è l'aver detto nella
seconda minuta che della lingua italiana si va dispu- [Di negazione in senso
assoluto, veramente, non si potrebbe parlare, in quanto che il Manzoni non nega
l'esistenza delle regole, cioè d'un fondamento logico del linguaggio; ma
sostiene che queste regole si trasformano via via sotto l'imperio dell'uso, in
modo che esse non sono universali né immutabili: il che equivale a non
ammenterle, tanto più quando si affermino continuamente i capricci e gli
arbitri dell'Uso. Negazione è, e inconfutabile, quando il Manzoni dimostra con
ragioni ed esempi l'arbitrarietà delle categorie grammaticali e delle loro
funzioni. Dopo dimostrato, rispetto alla causa efficiente de' vocaboli, che ciò
che fa essere nelle lingue i rispettivi vocaboli, sia col significato che si
chiama proprio, sia con uno traslato, sia considerati ognuno da se, sia
aggregati in locuzioni speciali, non è altro che l'Uso; e, rispetto alle regole
grammaticali, che ogni effetto grammaticale può essere ottenuto con mezzi
diversi; e che, per conseguenza, l'applicazione d'uno piuttosto che d'un altro
di essi dipende da un arbitrio, Manzoni si fa a confutare l'opinione che
l'Analogia, per una sua virtù propria, produca nelle lingue degli effetti
necessari, e quindi indipendenti da qualunque arbitrio, ossia ad abbattere
tutto il fondamento della grammatica generale. tando da cinquecent'anni, mentre
nella prima aveva detto da trecento. Vi volle evidentemente comprendere anche
Dante. Aggiungo qui a suo titolo esclusivo di lode, che il Manzoni nelle
innumerevoli esemplificazioni e analisi particolari fa anche (e in che modo!)
la grammatica normativa! Questo canone salva la forma non filosofica potrebbe
esser propugnato anche dalla nostra estetica, se per arbitrio s'intendesse la
libertà dello spirito. E quest' identità, occorre avvertirlo, il Manzoni non
pone affatto; né tanto meno sospetta egli l'identità tra linguaggio e attività
fantastica: il linguaggio resta sempre per lui qualcosa di estraneo allo
spirito, una materia fonica a cui si dia un significato. L'eufonia, p. es., per
cui si appella all'autorità di Donato, è per lui un motivo affatto materiale e
estraneo agi' intenti razionali della lingua: laddove per l'estetica moderna
ogni minima sfumatura fonetica deve riportarsi a un movimento spirituale. Il
Manzoni riman sempre in fondo sotto la veduta del logicismo e del dinamismo
meccanico. Per analogia M. intende l'applicazione de'medesimi mezzi esteriori
e, dirò così, materiali della lingua a de'medesimi intenti del pensiero. Per
Manzoni l'analogia è impotente a dare alla lingua legge veruna, né circa i
vocaboli, né circa i mezzi grammatica/i, cioè l'inflessioni, i vocaboli che
fanno un ufizio grammaticale, la costruzione, in altre parole le categorie
grammaticali e sintattiche. Alla confutazione generale serve di discussione la
definizione data da Beauzée nell' Encyclopédie Methodìque, art. analogia. In
una Nota si fa poi ad esporre la critica delle parti del discorso – “shaggy”--
o categorie, passando in rassegna i vari grammatici antichi, poi quel Bordoni,
che ama meglio usurpare il nome di Scaligero che render celebre il suo, Sanzio,
Sdoppio e Vossio, i porto-realisti Arnauld e Lancelot, Buffier e Girard,
Beauzée, determinando con molta acutezza la posizione d'ognuno e il modificarsi
del problema delle categorie ne'vari periodi, colla conclusione della sua
insolubilità. In un'appendice discute Se ci siano de'vocaboli necessariamente
indeclinabili, concludendo anche qui pell'insolubilità di tali questioni,
perchè derivate da una supposizione affatto arbitraria, cioè che tutti i
vocaboli di tutte le lingue siano naturalmente e necessariamente divisi e
scompartiti in tante classi diverse, o parti dell'orazione, ciascheduna delle quali
sia esclusivamente propria a ‘significare’ una data modalità – shaggy –
degl’oggetti del pensiero, o, come dicono, a fare una funzione speciale e
distinta, e esamina con opportuni esempi comparativi tolti dalla lingua
d’Italia le questioni particolari della pretesa essenziale indeclinabilità
della preposizione, dell'avverbio, della congiunzione e dell'interiezione.
Infine, dopo toccato d'una restrizione e d'una necessità imposte
arbitrariamente alla declinazione, viene alla conclusione, sulla scorta della
quale abbiam creduto, per ragioni di brevità, di fare il riassunto del pensiero
di Manzoni. Gl’errori particolari di alcuni filosofi della lingua circa le
categorie grammaticali morfosintattiche dimostra che hanno un'origine comune,
la sopraddetta supposizione, che è quella medesima su cui si fonda la così
detta grammatica generale. Ma il nome di parti dell'orazione non è forse
solenne da secoli? Non sono esse state, già nell'antichità greca, oggetto Cj Di
questo cita V Aristarchus, sive De arte grammatica delle ricerche di diversi
filosofii e non sono poi, senza interruzione, la base, o dirò cosi, l'ordito
delle grammatiche positive e speciali della lingua d’Italia, antica e moderna?
Quale è dunque la scoperta per cui la grammatica di Porto Reale acquise e
conserva, la reputazione d'aver fondata, o almeno iniziata, una filosofia? E
qui Manzoni spiega come poteron sorgere le categorie e il loro variare dai
filosofi romani, il cui carattere è la mancanza d'ogni intento sistematico. Ci
si vede bensì un progresso, o piuttosto un aumento successivo, ma occasionale
e, si può dire, empirico; un'analisi continua, ma che non è né lo svolgimento,
né la ricerca d'una sintesi. Se a qualcheduno de'filosofi di quel tempo, che
parlarono, in qualunque modo, di parti dell'orazione, fosse potuto venir in
mente di ordinarle in un complesso scientifico, pare che Aristotele avrebbe
dovuto esser quello. Ma, dai saggi che rimangon di lui, appare tutt'altro.
Continua poi fino a Prisciano, che ne enumera quattordici, lo stesso suddividere,
e per motivi d’egual valore. L'intento de’grammatici è sempre pratico: indicare
le regole positive dei vocaboli – cf. Grice on ‘shaggy’ – ‘significazione’ . We
need to be able to apply some such notion as a predication of B (adjectival) on
a (nominal). "Smith is tactful," "Smith, be tact-ful,"
"Let Smith be tactful," and "Oh, that Smith may be tactful"
would be required to count, all of them, as predications of "tactful"
on "Smith." It would again be the business of some linguistic theory
to set up such a sentential characterization. Suppose we, for a moment, take
for granted two species of cor-relation, R-correlation (referential) and
D-correlation (denotational). We want to be able to speak of some particular
object as an R-correlate of a (nominal), and of each member of some class as
being a D-correlate of B (adjectival). Now suppose that U has the following two
procedures (P): P1: To utter the indicative version of o if (for some A) U
wants/ intends A to think that U thinks... (the blank being filled by the
infinitive version of o, e.g. "Smith to be tactful"). Also, P1':
obtained from P1 by substituting "imperative" "indicative"
and "intend"/ "think that U thinks." (Such procedures set
up correlations between moods and specifications of "ft.")P2: To
utter a t-correlated (cf. P1 and P1' predication of B on a if (for some A) U
wants A to d a particular R-correlate of a to be one of a particular set of
D-correlates of B. Further suppose that, for U, the following two correlations
hold: C1: Jones's dog is an R-correlate of "Fido." C2: Any
hairy-coated thing is a D-correlate of "shaggy." Given that U has the
initial procedures P1 and P2, we can infer that U has the resultant procedure
(determined by P1 and P2): RP1: to utter the indicative version of a
predication of ß on a if U wants A to think U to think a particular R-correlate
of a to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP1 and C1, we
can infer that U has: RP2: To utter the indicative version of a predication of
B on "Fido" if U wants A to think U to think Jones's dog to be one of
a particular set of D-correlates of B. Given RP2 and C2, we can infer that U
has: RP3: To utter the indicative version of a predication of
"shaggy" on "Fido" if U wants A to think U to think Jones's
dog is one of the set of hairy-coated things (i.e. is hairy-coated). And given
the information from the linguist that "Fido is shaggy" is the
indicative version of a predication of "shaggy" on "Fido"
(as-sumed), we can infer U to have: RP4: To utter "Fido is shaggy" if
U wants A to think U to think that Jones's dog is hairy-coated. And RP4 is an
interpretant of "For U, 'Fido is shaggy' means 'Jones's dog is
hairy-coated." I have not yet provided an explication for statements of
timeless meaning relating to noncomplete utterance-types. I am not in a
position to provide a definiens for "X (noncomplete) means ... deed, I am
not certain that a general form of definition can be provided for this schema;
it may remain impossible to provide a definiens until the syntactical category
of X has been given. I can, however, provide a definiens which may be adequate
for adjectival X (e.g. "shaggy"): D7: "For U, X (adjectival)
means'... '"=df. "U has this proce-dure: to utter a y-correlated
predication of X on a if (for some A) U wants A to yet a particular R-correlate
of a to be.." (where the two lacunae represented by dots are identically
completed).Any specific procedure of the form mentioned in the definiens of D7
can be shown to be a resultant procedure. For example, if U has P2 and also C2,
it is inferable that he has the procedure of uttering a vt-correlated
predication of "shaggy" on a if (for some A) U wants A to dt a
particular R-correlate of a to be one of the set of hairy-coated things, that
is, that for U "shaggy" means "hairy-coated." I can now
offer a definition of the notion of a complete utterance-type which has so far
been taken for granted: D8: "X is complete" =df. "A fully
expanded definiens for "X means'...'" contains no explicit reference
to correlation, other than that involved in speaking of an R-correlate of some
referring expression occurring within X." (The expanded definiens for the
complete utterance-type "He is shaggy" may be expected to contain the
phrase "a particular R-correlate of 'he.") Correlation. We must now
stop taking for granted the notion of correlation. What does it mean to say
that, for example, Jones's dog is the/an R-correlate of "Fido"? One
idea (building in as little as pos-sible) would be to think of "Fido"
and Jones's dog as paired, in some system of pairing in which names and objects
form ordered pairs. But in one sense of "pair," any one name and any
one object form a pair (an ordered pair, the first member of which is the name,
the second the object). We want a sense of "paired" in which
"Fido" is paired with Jones's dog but not with Smith's cat.
"Selected pair"? But what does "selected" mean? Not "selected"
in the sense in which an apple and an orange may be selected from a dish:
perhaps in the sense in which a dog may be selected (as something with which
(to which] the selector intends to do something). But in the case of the
word-thing pair, do what? And what is the process of selecting? I suggest we
consider initially the special case in which linguistic and nonlinguistic items
are explicitly correlated. Let us take this to consist in performing some act
as a result of which a linguistic item and a nonlinguistic item (or items) come
to stand in a relation in which they did not previously stand, and in which
neither stands to noncorrelates in the other realm. Since the act of
correlation may be a verbal act, how can this set up a relation between items?
Suppose U produces a particular utterance (token) V, which belongs to the
utterance-type "shaggy: hairy-coated things." To be able to say that
U had by V correlated "shaggy" with each member of the set of
hairy-coated things, we should need to be able to say that thereis some relation
R such that: (a) by uttering V, U effected that "shaggy" stood in R
to each hairy-coated thing, and only to hairy-coated things; (b) uttered V in
order that, by uttering V he should effect this. It is clear that condition
(b), on which some will look askance because it introduces a reference to U's
intention in performing his act of correlation, is required, and that condition
(a) alone would be inadequate. Certainly by uttering V, regardless of his
inten-tions, U has set up a situation in which a relation R holds exclusively
between "shaggy" and each hairy-coated thing Z, namely the relation
which consists in being an expression uttered by U on a particular occasion O
in conversational juxtaposition with the name of a class to which Z belongs.
But by the same act, U has also set up a situation in which another relation R'
holds exclusively between "shaggy" and each non-hairy-coated thing
Z', namely the relation which consists in being an expression uttered by U on
occasion O in conversational juxtaposition with the name of the complement of a
class to which Z' belongs. We do not, however, for our purposes, wish to think
of U as having correlated "shaggy" with each non-hairy-coated thing.
The only way to ensure that R' is eliminated is to add condition (b), which
confines attention to a relationship which U intends to set up. It looks as if
intensionality is embedded in the very foundations of the theory of language.
Let us, then, express more formally the proposed account of cor-relation.
Suppose that V= utterance-token of type ""Shaggy': hairy-coated
things" (written). Then, by uttering V, U has correlated
"shaggy" with (and only with) each hairy-coated thing=(R) {(U
effected by V that [Vx] [R "shaggy" x=*Ey (y is a hairy-coated thing)])
and (U uttered V in order that U effect by V that [Vx]... )}.' If so
understood, U will have correlated "shaggy" with hairy- 1. The
definiens suggested for explicit correlation is, I think, insufficient as it
stands. I would not wish to say that if A deliberately detaches B from a party,
he has thereby correlated himself with B, nor that a lecturer who ensures that
just one blackboard is visible to each member of his audience (and to no one
else) has thereby explicitly correlated the blackboard with each member of the
audience, even though in each case the analogue of the suggested definiens is
satisfied. To have explicitly correlated X with each member of a set K, not
only must I have intentionally effected that a particular relation R holds
between X and all those (and only those) items which belong to K, but also my
purpose or end in setting up this relationship must have been to perform an act
as a result of which there will be some relation or other which holds between X
and all those (and only those) things which belong to K. To the definiens,
then, we should add, within the scope of the initial quantifier, the following
clause: "& U's purpose in effecting that Vx (.....) is that (BR') (Vz)
(R' "shaggy'z=zEy (y is hairy-coated))."coated things only if there
is an identifiable R' for which the condition specified in the definiens holds.
What is such an R'? I suggest R'xy=x is a (word) type such that V is a sequence
consisting of a token of x followed by a colon followed by an expression
("hairy-coated things") the R-correlate of which is a set of which y
is a member. R'xy holds between "shaggy" and each hairy-coated thing
given U's utterance of V. Any utterance V' of the form exemplified by V could
be uttered to set up R"xy (involving V' instead of V) between any
expression and each member of any set of nonlinguistic items. There are other
ways of achieving the same effect. The purpose of making the utterance can be
specified in the utterance: V = utterance of "To effect that, for some R,
'shaggy' has R only to each hairy-coated thing, 'shaggy': hairy-coated
things." The expression of the specified R will now have "V is a
sequence containing" instead of "V is a sequence consisting of ...
" Or U can use the performative form: "I correlate 'shaggy' with each
hairy-coated thing." Utterance of this form will at the same time set up
the required relation and label itself as being uttered with the purpose of
setting up such a relation. But by whichever form an act of explicit
correlation is effected, to say of it that it is (or is intended to be) an act
of correlation is always to make an indefinite reference to a relationship
which the act is intended to set up, and the specification of the relation
involved in turn always involves a further use of the notion of correlation
(e.g. as above in speaking of a set which is the correlate [R-correlate] of a
particular expression [e.g. "Hairy-coated things"]). This seems to
involve a regress which might well be objectionable; though
"correla-tion" is not used in definition of correlation, it is used
in specification of an indefinite reference occurring in the definition of
correlation. It might be considered desirable (even necessary) to find a way of
stop ping this regress at some stage. (Is this a characteristically empiricist
demand?) If we don't stop it, can correlation even get started (if prior
correlation is presupposed)? Let us try "ostensive" correlation. In
an attempted ostensive correlation of the word "shaggy" with the
property of hairy-coatedness: U will perform a number of acts in each of which
he ostends an object (a,, az, ag, etc.). Simultaneously with each ostension he
utters a token of the word "shaggy." It is his intention to ostend,
and to be recognized as ostending,only objects which are either, in his view,
plainly hairy-coated or are, in his view, plainly not hairy-coated (4) In a
model sequence these intentions are fulfilled. For a model sequence to succeed
in correlating the word "shaggy" with the property of being
hairy-coated, it seems necessary (and perhaps also suffi-cient) that there
should be some relation R which holds between the word "shaggy" and
each hairy-coated thing, y, just in case y is hairy-coated. Can such a relation
R be specified? Perhaps at least in a sequence of model cases, in which U's
linguistic intentions are rewarded by success, it can; the relation between the
word "shaggy" and each hairy-coated object y would be the relation
which holds between each plainly hairy-coated object y and the word
"shaggy" and which consists in the fact that y is a thing to which U
does and would apply, rather than refuse to apply, the word "shaggy."
In other words in a limited universe consisting of things which in Us view are
either plainly hairy-coated or plainly not hairy-coated, the relation R holds
only between the word "shaggy" and each object which is for U plainly
hairy-coated. This suggestion seems not without its difficulties: It looks as
if we should want to distinguish between two relations R and R'; we want U to
set up a relation R which holds between the word "shaggy" and each
hairy-coated object; but the preceding account seems not to distinguish between
this relation and a relation R' which holds between the word "shaggy"
and each object which is in U's view unmistakably hairy-coated. To put it
another way, how is U to distinguish between "shaggy" (which means
hairy-coated) and the word "shaggy" * (which means "in Us view
unmistakably hairy-coated")? If in an attempt to evade these troubles we
suppose the relation R to be one which holds between the word
"shaggy" and each object to which U would in certain circumstances
apply the word "shaggy," how do we specify the circumstances in
question? If we suggest that the circumstances are those in which U is
concerned to set up an explicit correlation between the word "shaggy"
and each member of an appropriate set of objects, our proposal becomes at once
unrealistic and problematic. Normally correlations seem to grow rather than to
be created, and attempts to connect such growth with potentialities of creation
may give rise to further threats of circularity. The situation seems to be as
follows: We need to be able to invoke such a resultant procedure as the
following, which we will call RP12, namely to predicate B on "Fido,"
when U wants A to vt that Jones's dog is a D-correlate of B; and we want to be
able to say that at least sometimes such a resultant procedure may result from
among other things, a nonexplicit R-correlation of "Fido" and Jones's
dog. It is tempting to suggest that a nonexplicit R-correlation of
"Fido" and Jones's dog consists in the fact that U would, explicitly,
correlate "Fido" and Jones's dog. But to say that U would explicitly
correlate "Fido" and Jones's dog must be understood as an elliptical
way of saying something of the form "U would explicitly correlate 'Fido'
and Jones's dog, if p." How is "if p" to be specified? Perhaps
as "If U were asked to give an explicit correlation for 'Fido""
But if U were actually faced with a request, he might well take it that he is
being asked to make a stipulation, in the making of which he would have an
entirely free hand. If he is not being asked for a stipulation, then it must be
imparted to him that his explicit correlation is to satisfy some nonarbitrary
condition. But what condition can this be? Again it is tempting to suggest that
he is to make his explicit correlation such as to match or fit existing
procedures. In application to RP12, this seems to amount to imposing on U the
demand that he should make his explicit correlation such as to yield RP12. In
that case, RP12 results from a nonexplicit correlation which consists in the
fact that U would explicitly correlate "Fido" and Jones's dog if he
wanted to make an explicit correlation which would generate relevant existing
procedures, namely RP12 itself. There is an apparent circularity here. Is this
tolerable? It may be tolerable inasmuch as it may be a special case of a
general phenomenon which arises in connection with the explanation of
linguistic practice. We can, if we are lucky, identify "linguistic
rules," so called, which are such that our linguistic practice is as if we
accepted these rules and consciously followed them. But we want to say that
this is not just an interesting fact about our linguistic practice but also an
explanation of it; and this leads us on to suppose that "in some
sense," "implicitly," we do accept these rules. Now the proper
interpretation of the idea that we do accept these rules becomes something of a
mystery, if the "acceptance" of the rules is to be distinguished from
the existence of the related practices-but it seems likea mystery which, for
the time being at least, we have to swallow, while recognizing that it involves
us in an as yet unsolved problem. C. Concluding Note It will hardly have
escaped notice that my account of the cluster of notions connected with the
term "meaning" has been studded with expressions for such intensional
concepts as those of intending and believing, and my partial excursions into
symbolic notation have been made partly with the idea of revealing my commitment
to the legitimacy of quantifying over such items as propositions. I shall make
two highly general remarks about this aspect of my procedure. First, I am not
sympathetic toward any methodological policy which would restrict one from the
start to an attempt to formulate a theory of meaning in extensional terms. It
seems to me that one should at least start by giving oneself a free hand to
make use of any intensional notions or devices which seem to be required in
order to solve one's conceptual problems, at least at a certain level, in ways
which (metaphysical bias apart) reason and intuition commend. If one denies
oneself this freedom, one runs a serious risk of underestimating the richness
and complexity of the conceptual field which one is investigating. Second, I
said at one point that intensionality seems to be embedded in the very
foundations of the theory of language. Even if this appearance corresponds with
reality, one is not, I suspect, precluded from being, in at least one important
sense, an extensionalist. The psychological concepts which, in my view, are
needed for the formulation of an adequate theory of language may not be among
the most primitive or fundamental psychological concepts (like those which
apply not only to human beings but also to quite lowly animals), and it may be
possible to derive (in some relevant sense of "derive") the
intensional concepts which I have been using from more primitive extensional
concepts. Any extensionalist has to deal with the problem of allowing for a
transition from an extensional to a nonextensional language; and it is by no
means obvious to me that intensionality can be explained only via the idea of
concealed references to language and so presupposes the concepts in terms of
which the use of language has to be understood. As we study the systematicity
of the system, we need to be able to apply some such notion as a ‘predication’
of B adjectival – nome aggetivo on a nominal. "Smith is tactful,"
"Smith, be tactful," "Let Smith be tactful," and "O,
that Smith may be tactful" would be required to count, each of them, as a
‘predication’ of il nome aggettivo "tactful" – educato -- on
"Smith”, if you want to specify what ‘educato’ ‘signifies.’ It would be
the business of some linguistic theory to set up such a sentential
characterisation. Suppose we, for a moment, take for granted two species of
cor-relation, a referential correlation and a denotational correlation. We want
to be able to speak of some particular thing as a referential correlate of a
nominal, and of each member of some class as being, extensionally,, a
denotational correlate of B adjectival. Now suppose that the utterer has the
following two procedures: To utter the indicative version of o if, for some
addressee, the utterer wants/intends the addressee to think that the utterer
thinks... -- the blank being filled by the infinitive version of o, e.g. Smith
to be tactful, or Fido to be shaggy. Also, another procedure, obtained from the
previous one, by substituting "imperative" "indicative" and
"intend"/"think that U thinks." Such procedures set up
correlations between modes and specifications of "ft." Another
procedure: To utter a t-correlated (cf. P1 and P1' predication of B on a if
(for some A) U wants A to d a particular R-correlate of a to be one of a
particular set of D-correlates of B. Further suppose that, for the utterer, the
following two correlations do hold: C1: Smith's dog is an R-correlate of
"Fido." C2: Any hairy-coated THING is a D-correlate of the adjective
– nome aggettivo -- "shaggy." Given that U has these initial
procedures, we can infer that U has a RESULTANT procedure, determined by P1 and
P2: to utter the indicative version of a predication of ß on a if U wants A to
think U to think a particular R-correlate of a to be one of a particular set of
D-correlates of B. Given RP1 and the first correlation, we can infer that U has
a further resultant procedure: To utter the indicative version of a predication
of B on the nome proprio "Fido" if U wants A to think U to think Smith's
dog to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP2 and C2, we
can infer that U has, now, still a further resultant procedure: To utter the
indicative version of a predication of il nome aggetivo "shaggy" on
il nome proprio "Fido" if U wants A to think U to think Smith's dog
is one of the set of hairy-coated things -- i.e. is hairy-coated. And given the
information that "Fido is shaggy" – Fidus est hirsutus -- is the
indicative version of a predication of "shaggy" on "Fido,” as
assumed, we can infer U to have the further resultant procedure: To utter the
complete sentence now Fidus est hirsutus, "Fido is shaggy" if U wants
A to think U to think the complete proloquium, as Varro has it, that Smith's –
or indeed Cato’s, dog is hairy-coated. And this resultant procedure is an
interpretant, as a semiotician would say, of "For the utterer U, 'Fido is
shaggy' or Fidus est hirsutus ‘signifies’: Smith's dog is hairy-coated.’ Grice
has at this point not yet provided an explication for a statement, report, or
ascription, of timeless ‘significatio’ relating to non-complete
utterance-types. Grice feels he is not really in a position to provide a
definiens for the generic "X (noncomplete) ‘signifies’ ‘…’. Indeed, Grice
is far from certain that a generic form of ‘definition’, or Aristotelian logos,
can be provided for a schema such as that – although Plato and Aristotle played
with NOMEN and RHEMA. It may well remain impossible to provide a definiens
until the syntactical CATEGORY of X has been given – this is the scholastic
way: NOMEN EST VOX SIGNIFICATIVA; VERBVM EST VOX SIGNIFICATIVA, NOMEN
SVBSTANTIVM EST VOX SIGNIFICATIVA, NOMEN ADIECTIVVM EST VOX SIGNIFICATIVA.
NOMEN PROPRIVM EST VOX SIGNIFICATIVE – and it was good that Grice never
attended a GRAMMAR school! Grice can, however, provide a definiens which may be
adequate for ‘il nome aggetivo,’ as Italians have it, or adjectival X -- e.g.
hirsutus, or "shaggy". DEFINITIO or LOGOS: For utterer, X (adjectival
– nome aggetivo) ‘signifies’ '... '" iff the Utterer U has this procedure:
to utter a y-correlated predication of ‘il nome aggetivo’ X on a if (for some
addressee) the utterer wants A to psi-asterisk a particular R-correlate of a to
be …,’ where the two lacunae represented by dots are identically completed. Any
specific procedure of the form mentioned in the definiens of this DEFINITIO can
be shown to be a resultant procedure. E. g. if U has P2 and also the second
correlation, it is inferable that U has the procedure of uttering a
vt-correlated predication of il nome aggetivo hirsutus or "shaggy" on
a if (for some A) U wants A to psi-asketerisk a particular R-correlate of a to
be one of the set of hairy-coated things, i. e., that, for U, the specific nome
aggetivo hirsutus or "shaggy" means ‘hairy-coated.’ – cf.
Lewis/Short, hirsutus, a, um: shaggy. Grice can now offer a definition of the
notion of a COMPLETE utterance TYPE which has so far been taken for granted.
DEFINITIO: X is complete" iff a fully expanded definiens for "X means
'...’” contains no explicit reference to correlation, other than that involved
in speaking of an R-correlate of some referring expression occurring within X.
The expanded definiens for the complete utterance type "He is shaggy"
– Hirsutus est -- may be expected to contain the phrase "a particular
R-correlate of 'he,’ and for simplificatory purposes we may either assume
demonstrative for ‘he’ in Latin, or involve the conjugated form of ‘est’ to let
us know it is not I, or you, or we, or ye, or indeed they the shaggy, but just
HE – hirsutus, not hirsutum. We must now stop taking for granted the notion of
correlation. What does it mean to say that, for example, Cato's dog is the, or
a referential correlate of "Fidus"? One idea, building in as little
as possible, would be to think of the NOMEN PROPRIVM "Fidus" and
Cato's dog as paired, in some system of pairing in which a NOMEN PROPRIUM and a
thing forms an ordered pair. But in one sense of ‘pair,’ any one NOMEN PROPRIVM
and any one thing form a pair: an ordered pair, the first member of which is the
NOMEN PROPRIVM, the second the thing: as Grice, Grice. We want a sense of
‘pair’ in which the specific – however generic, alas -- "Fidus" is
paired with Cato's dog but not with Smith's cat. – or with Cato’s OTHER dog,
should he happen to have another one."Selected pair"? But what does
"selected" mean? Surely not ‘selected’ in the sense in which an apple
and an orange may be selected from a dish, out of your ‘placitum’. Perhaps
‘selected’ qua adjudicated, in the sense in which one of Cato’s dogs may be selected,
as something with which, or to which, the selector intends to do something – to
beware of him, for example – cave Catonis canem. But in the case of the
NOMEN-PROPRVM-thing pair, do what? Beware? Surely that’s too specific. And what
is this process of selecting, anyway? Which its range? Grice suggests that we
consider initially the special case in which a linguistic item such as a NOMEN
PROPRIVM and a non-linguistic item is explicitly correlated. Let us take this
to consist in performing some act, or other, as a result of which the
linguistic item, the PROPER NAME – say, Frege -- and the non-linguistic item,
or items – say the Freges -- come to stand in a relation in which they did not
previously stand, and in which neither stands to non-correlates in the other
realm. Since this act of co-relation may indeed be a verbal, or sonorous, act,
how can this set up a relation between two – or more items? Think: The Freges.
Suppose U produces a particular utterance (token) V, which belongs to the
utterance-type "hirsutus: hairy-coated things." To be able to say
that U had, by uttering V, correlated "hirsutus" with each member of
the set of hairy-coated things, we should need to be able to say that there is
some relation R such that: by uttering V, U effects that "hirsutus"
stan in relation R to each hairy-coated thing, and only to hairy-coated things;
and that utteres V in order that, by uttering V he should effect this. It is
clear that this second, teleological, goal-oriented condition, on which some
will look askance because it introduces a reference to U's intention – indeed
with regard to an end -- in performing his act of correlation, is required, and
that the first condition alone would clearly be inadequate. Certainly by
uttering V, regardless of his intentions, U IS setting up a situation in which
a relation R holds exclusively between "hirsutus" and each
hairy-coated thing Z, scil.,the relation which consists in being an expression
– to use Croce’s favoured idiom – (Grice borrowed it from Collingwood, but
never returned it) -- uttered by U on a particular context of utterance or
conversational occasion O in conversational juxtaposition – wtin his same
conversational move, as it were -- with the name of a class to which Z belongs.
But, by the same act – by exclusion or elimination, as Descartes has it, U is
also setting up a situation in which another relation R' holds exclusively
between "hirsutus" and each non-hairy-coated thing Z', scil., the
relation which consists in being an expression uttered by U on conversational
occasion O in conversational juxtaposition with the name of the complement of a
class to which Z' belongs. Surely Grice does not, however, for HIS purposes,
wish to think of U as having explicitly correlated "hirsutus" with
each non-hairy-coated thing, such as Julius Caesar, or Ottavian. The only way
to ensure that R' is eliminated is to add the further condition, which confines
attention to a relationship which U intends to set up. It looks as if
intensionality – or intentionality (Urmson had Grice doubt about the spellings
here) is embedded in the very foundations of the theory of language. Let us,
then, express more formally the proposed account of a co-relation. Suppose that
V= utterance-token of type ""hirsutus': hairy-coated things"
(inscribed, as T. Fjeld would have it). Then, by uttering V, U has correlated
"shaggy" with (and only with) each hairy-coated thing=(R) {(U
effected by V that [Vx] [R "shaggy" x=*Ey (y is a hairy-coated
thing)]) and (U uttered V in order that U effect by V that [Vx]... )}.' If so
understood, U will have correlated "shaggy" with hairy- [The
definiens suggested for explicit correlation is, I think, insufficient as it
stands. I would not wish to say that if A deliberately detaches B from a party,
he has thereby correlated himself with B, nor that a lecturer who ensures that
just one blackboard is visible to each member of his audience (and to no one
else) has thereby explicitly correlated the blackboard with each member of the
audience, even though in each case the analogue of the suggested definiens is
satisfied. To have explicitly co-related X with each member of a set K, not
only must I have intentionally effected that a particular relation R holds
between X and all those, and only those, items which belong to K, but also my
purpose or end in setting up this relationship must have been to perform some
sort of Austinian baptismal act as a result of which there will be some
relation, or other, which holds between X and all those, and only those, things
which belong to K. To the definiens, then, we should add, within the scope of
the initial quantifier, the clause: "& U's purpose in effecting that
Vx (.....) is that (BR') (Vz) (R' "hirsutus' z=zEy (y is hairy-coated)).]
coated things only if there is an identifiable R' for which the condition
specified in the definiens holds. What is such an R'? Grice suggests: R' xy=x
is a (word) type such that V is a sequence consisting of a token of x, followed
by a colon, followed by an expression ("hairy-coated things") the
R-correlate of which is a set of which y is a member. R'xy holds between
"hirsutus" and each hairy-coated thing, given U's utterance of V. Any
utterance V' of the form exemplified by V could be uttered to set up R"xy,
involving V' instead of V, between any expression – again Croce’s term,
borrowed by Grice from Collingwood -- and each member of any set of
non-linguistic items. There are, of course, other more complicated ways of
achieving the same effect, as you will expect. The purpose of making the
utterance can be specified in the utterance: V = utterance of "To effect
that, for some R, 'hirsutus' has R only to each hairy-coated thing, 'hirsutus':
hairy-coated things." The expression of the specified R will now have
"V is a sequence containing" instead of "V is a sequence
consisting of ...”. Or U can use the performative – as Scots law goes,
‘operational’ -- form: "I hereby,” with the proper Roman attitude,
“co-relate 'hirsutus' with each hairy-coated thing." Utterance of this
form displaying such Roman gravitas, will at the same time fit Plato’s and
Varro’s description of the first IMPOSTORS of name – and set up the required
relation, AND label itself as being uttered with the purpose of setting up such
a relation. But by whichever form an act of explicit correlation is effected –
Romulus allegedly rejected them all! --, to say of it that it is (or is
intended to be) an act of co-relation is, or has to be, always to make an
indefinite reference to a relationship which the act is intended to set up, and
the specification of the relation involved in turn always involves a further
use of the notion of co-relation -- e.g. in speaking of a set which is the
referential correlate of a particular expression [e.g. "Hairy-coated
things"]). This seems to, but does not, involve a regress which might well
be objectionable; though "co-relation" is not blatantly used in
definition of ‘correlation,’ ‘co-relation’ is used in the specification of an
indefinite reference occurring in the definition of correlation. It might be
considered desirable -- why, even necessary -- to find a way of stop ping this
regress at some stage. Is this, one pupil asked me, a characteristically
empiricist demand? If we do not stop it, can correlation even get started -- if
prior co-relation is presupposed, that is? Let us try ‘ostensive’ correlation
and play the Witters! In an attempted ostensive correlation of the word NOME
ADIECTIVM "hirsutus" with the property of hairy-coatedness: U will
perform a number of acts in each of which he ostends an object (a,, az, ag,
etc.). Simultaneously, with each ostension, he, say Brutus, utters a token of
the word "hirsutus." It is Brutus’s intention to ostend, and to be
recognised as ostending, only things – or parts of things (a body part, say),
which are either, in his view, plainly hairy-coated or are, in his view,
plainly not hairy-coated – or smooth. – an smooth man, say. In a model
sequence, these intentions ny Brutus, are fulfilled. For a model sequence to
succeed in co-relating the word NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" with the
property of being hairy-coated, it seems necessary, but fortunately also
sufficient, that there should be some relation R which holds between the word
NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" and each hairy-coated thing, y, just in
case y – say, Cato’s dog -- is hairy-coated. Can such a relation R be
specified? Varro certainly thought it could. Grice: “I’m not so sure myself –
as Varro was.” Perhaps at least in a sequence of model cases, in which U's
intention is rewarded by success, it can, and the relation between the word
NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" and each hairy-coated thing y would be the
relation which holds between each plainly hairy-coated object y and the word
"shaggy" and which consists in the fact that y is a thing to which U
does and would apply, rather than refuse to apply, the word "shaggy."
In other words in a limited universe consisting of things which in Us view are
either plainly hairy-coated or plainly not hairy-coated, the relation R holds
only between the word "shaggy" and each object which is for U plainly
hairy-coated. This suggestion seems not without its difficulties: It looks as
if we should want to distinguish between two relations R and R'; we want U to
set up a relation R which holds between the word "shaggy" and each
hairy-coated object; but the preceding account seems not to distinguish between
this relation and a relation R' which holds between the word "shaggy"
and each thing which is, in Brutus’'s view unmistakably hairy-coated – and
provided he has learned the correct ‘signification’ of the adjective – from his
mother, most likely. To put it another way, how is Brutus, our utterer, to
distinguish between "hirsutus,” which ‘signifies,’ of coarse, or course,
hairy-coated, and the word "hirsutus" * -- hirsutus with a twist,
which now ‘signifies’ "in Us view of things, unmistakably
hairy-coated"? If Cicero, in an attempt to evade these troubles, supposes
the relation R to be one which holds between the word NOMEN ADIECTIVVM
"hirsutus” and each thing to which Brutus (our utterer) would, in this or
that conversational circumstance, apply the word "hirsutus," how do
we specify these conversational circumstances in question? If we suggest, as
Cicero does – in his long letter to Atticus -- that the conversational
circumstances are those in which U – Brutus, that is -- is concerned to set up
an explicit co-relation between the word NOMEN ADIECTIVVM "hirsutus"
and each member of an appropriate set of things, Grice’s proposal becomes at
once, unrealistic for a non-Oxonian, and problematic for the rest of the world!
Normally, Grice would expectd, a co-relation seems to grow rather than to be
created. An attempt to connect such a growth with potentialities of creation
may give rise to further threats of circularity, especially for or to the Practical
Roman. The situation seems to be, however, and as far as Oxford is concerned,
as follows. Grice desperately (to put it mildly, but kindly – ‘despeartely’ is
always an understatement at Oxford) needs to be able to invoke such a resultant
procedure as the following, namely to predicate B on "Fidus," when U
wants A to vt that Cato's dog is a denotational correlate of B; and we want to
be able to say that, at least sometimes, such a resultant procedure may result
from, among other things, a non-explicit REFERENTIAL now co-relation of
"Fidus" and Cato's dog. It is tempting to suggest that a non-explicit
referential co-relation of "Fidus" and Cato's dog consists in the
fact that Brutus would, explicitly, correlate "Fidus" and Cato's dog.
But to say that Brutus would explicitly correlate "Fidus" and Cato's
dog must be understood as an elliptical or pleonastic or periphrastic way of
saying something of the form "U – Brutus, that is -- would explicitly
correlate 'Fidus' and Cato’s dog, if, conversationally, p." How is
"if p" to be specified? Perhaps as "if U were asked to give an
explicit correlation for 'Fidus"" But if he were actually faced with
a request, Brutus might well take it that he is being asked to make a stipulation,
in the making of which he would have an entirely free hand. But if Brutus is
not being asked for an arbitrary stipulation, it must be imparted to him that
his explicit correlation shall have to satisfy some NON-arbitrary, or
‘natural,’ as Cicero prefers, condition. But what condition can this be? Cicero
does not say. Again, it is tempting to suggest that Brutus is to make his
explicit co-relation such as to match or fit some existing procedure. “If
there’s something us Romas are, is traditional,” Varro is alleged to have said.
In application to our resultant procedure, this seems to amount to imposing on
Brutus the demand that he should make his explicit correlation such as to yield
such resultant procedure. In that case, the resultant procedure in fact
‘results’ from a non-explicit co-relation which consists in the fact that
Brutus – or any other utterer inAncient Rome, would explicitly correlate
"Fidus" and Cato's dog if he wanted to make an explicit correlation
which would generate some relevant existing procedure, namely the resultant
procedure in question itself. There seems to be a slight circularity here. Is
this tolerable? Grice does tolerate it, and we cannot think why you should not!
It
may be tolerable, Grice explains, in tutorial tones, inasmuch as it may be a
special case of a general phenomenon which arises in connection with the
explanation of linguistic practice, ‘or conversation, as I prefer.’ We can, if
we are lucky or fortunate, identify this or that "linguistic rule," --
so called, -- Grice is reminded of O. P. Wood, “The Force of Linguistic Rules”
– The Aristotelian Society --, even analytic Meaning or ‘signification’
postulate alla Carnap, to please Roger Bishop Jones, which is such that our
linguistic conversational practice is as if we accepted these rules and more or
less consciously – or at least not totally unconsciously, pace Chomsky -- followed
them. But we want to say that this is not just an interesting fact about our
linguistic conversational practice, but also an explanation – it provides
explanatory adequacy, as some pompously put it -- of it; and this leads us on
to suppose that "in some sense," "implicitly," we do accept
these rules. Think: Kripkenstein! Now the proper interpretation of the idea
that we do accept these rules becomes something of a mystery, if the "acceptance"
of the rules is to be distinguished from the existence of the related conversational
practices -- but it seems like a mystery which, for the time being at least, we
shall have to swallow, while recognising that it involves us in an as yet
unsolved problem. In any case, it will hardly have escaped notice by now that
Grice’s account of the cluster of notions connected with the term "significatio"
has been studded with expressions for such intensional concepts as those of
intending and believing, and Grivce’s partial amusing, care-free, VERY Oxonian,
and leisurely, excursions into strange symbolic notation and expression –
“blame it on Oxford!” -- have been made partly with the idea of revealing Grive’s
commitment to the legitimacy of quantifying over such items as propositions. Grice
goes on tomake two highly general remarks about this aspect of his procedure.
First, he is hardly sympathetic toward any methodological policy which would
restrict one from the start to an attempt to formulate a theory or analysis –
to appease Mrs. Jack -- of ‘signification’ in purely extensional set-theoretical,
dully Boolean terms. It seems to Grice that one should at least start by giving
oneself a free hand to make use of any intensional notion or devices which you
please, and that seem to be required in order to solve one's conceptual
problems, at least at a certain level, in ways which, your ugly metaphysical
bias apart, reason and intuition commend. If one denies oneself this
freedom, one runs a serious risk of underestimating the richness and complexity
of the conceptual field which one is investigating – “and my pupils, don’t WANT
that!” – “Recall that only the poor learn at Oxford.” Second, Grice said at one
point that intensionality seems to be embedded in the very foundations of the
theory of language. Even if this appearance corresponds with reality, one is
not, Grice suspects, precluded from being, in at least one important sense, an
extensionalist – such an ugly word, even when applied to Boole!The
psychological concepts which, in Grice’s view, are needed for the formulation
of an adequate theory of language, conversation, ‘significatio,’ or what have
you, may not be among the most primitive or fundamental psychological concepts
(like those which apply not only to human beings but also to some quite lowly
animals – such as The Amoeba – as genial Ian Dengler would remind us!), and it
may be possible to derive (in some relevant sense of "derive") this
or that intensional concept which Grice used in his tutorials from more
primitive extensional concepts. Any extensionalist has to deal with the problem
of allowing for a transition from an extensional to a non-extensional language;
and it is by no means obvious Grice that intensionality can be explained only
via the idea, “as Occam sadly thought, to the disgrace of Oxford!” -- of
concealed references to language – O ccam’s sermo mentalis -- and
so presupposes the concepts in terms of which the use of language has to be
understood! E in questo si
trovano d'accordo senza fatica, perchè segueno tutti una medesima guida, l'uso
– Grice: “Ryle distinguished between use and usage. I don’t!” -- : sfido a
prenderne un’altra per comporre delle grammatiche positive. Anche quel novo e
artifizioso edilìzio filosofico che è la GRAMMATICA SPECULATIVA di Scoto, è
fondato sull’autorità sottintesa e costrutto sul metodo arbitrario d’un
grammatico. E l’arbitrio è proseguito da VALLA (si veda) a BUONMATTEI (si
veda). Novo e notabile /w in questo l'assunto de’due celebri filosofi galli,
che lo fondarono su questo principio. La maggior distinzione di ciò che accade
nel nostro spirito è che ci si può considerare e l'oggetto del nostro pensiero,
e la forma o la maniera del pensiero medesimom che, applicato al linguaggio, li
conduce alla deduzione che, avendo gl’uomini BISOGNO DI SEGNI o INDICI per
INDICAR ciò che accade nel loro spirito, la distinzione più generale
de’vocaboli dev’essere che gli uni SIGNIFICANO gli oggetti o CONTENUTI
de’pensieri, e gl’altri la FORMA, o il modo de’pensieri medesimi. Qui MANZONI
(si veda) trova acutamente che una supposizione è stata sostituita da una
ricerca. Mentre i fondamenti dell'arte di PARLARE o CONVERSARE dovevano esser
cercati altrove che in una distinzione de' vocabili in due categorie. Ciò che
da origine a tutte le arbitrarietà della grammatica generale. Ed è una storia
lunga e superflua quella di tant’altre questioni dello stesso genere [di quella
della pre-posizione non pre-posizione o participio non participio Excepté]; vai
a dire se tali o tali altri vocaboli s’hanno a collocare tra gl’avverbi, o tra
le pr-eposizioni, o tre le congiunzioni, o tra’nomi, o tra’pro-nomi, o
tra’verbi o tra pro-verbi. Questioni non mai sciolte, e, MANZONI osa dire,
insolubili, perchè con esse si cerca ne’vocaboli una qualità supposta
arbitrariamente, qual'è l'attitudine esclusiva a fare un ufizio grammaticale –
cf. Grice on Gellner on Words and Things. Quindi ognuna delle parti puo avere
una ragione; nessuna puo aver ragione. Dalla qual conclusione è facile
concludere che MANZONI (si veda) colpe a morte la grammatica generale, ma non
la grammatica simpliciter. Come tesi pratica, lungi dall’esser una reazione e
opposizione al purismo trionfante di CESARI (si veda) come quello che offre un'unità
linguistica da seguire di contro alla nuova barbarie del gallicismo e alla
babele della LINGUA UNIVERSALE, la teoria di MANZONI (si veda) ne è, non dico
la continuazione, ma una trasformazione – cf. la grammatica trasformata –
rivoluzione. Il purismo afferma i diritti della lingua letteraria e dei
filosofi posteriori che la mantenno viva, ossia dell'unità fiorentina quale si
è stabilita. MANZONI (si veda) afferma i diritti dell'unità fiorentina viva e
PARLATA in quanto, non discordando da quel tanto di fiorentino ch’è rimasto
vivo e ch’è perciò adoperabile e rappresenta il nucleo che gl'italiani hanno in
comune, puo essere comunicata a tutti e bastare ai bisogni di tutti, cioè
diventare con la maggior facilità e precisione la lingua comune, universale della
letteratura e perciò dell’Italia. Su MANZONI (si veda) grammatico, seguendo
l’opere inedite o rare da noi esaminate, scrive una memoria ZOPPI (citato da
VAILATI) nella Miscellanea per le Nozze Biadego- Bernardinelli, Verona. Il che
viene a concordanza con quanto osserva BORGESE (si veda) circa le relazioni tra
il purismo classico e il romanticismo. I classicisti puristi hanno quasi
troncato tutte le dispute sulla natura storica della nostra lingua, stabilendo
ch'ella doves modellarsi sulla toscana, o meglio, sulla fiorentina; se non che,
per la medesima ragione che la poesia esprime sentimenti, passioni, opinioni di
tempi [Le opposizioni di genere teorico non possono mancare alla tesi di
MANZONI (si veda), e non mancarono, come non mancarono le calorose difese.
Intervenno nella disputa anche filologi e glottologi, con gl’argomenti a favore
e contro che la grammatica storica puo loro offrire. Ma dubitiamo che la
partecipazione di non filosofi al dibattito è stato il deus ex machina che è
riuscito a risolverlo. Poiché, se i non filosofi possono ben chiarire col
metodo positivo come è sorta e si è sviluppata la lingua italiana intesa come
evoluzione, non è vero che con questo chiarano ancora che cosa una lingua
effettivamente è. Il problema non è filologico. È FILOSOFICO. E noi sappiamo
con che LA FILOSOFIA identifica la lingua – il deutero-Esperanto di Grice. Nel
fatto invece il problema di MANZONI (si veda) in quanto ha di pratico è
risoluto nel senso da lui voluto. Che cosa vuole MANZONI (si veda)? Quello che
ottenne, e che dirò con parole di SANCTIS (si veda), di uno cioè che non prende
e non puo prender parte a una controversia che non ha per lui alcuna portata né
critica né FILOSOFICA. MANZONI (si veda) rinnova la forma, rendendola popolare,
perchè combatte a morte la forma convenzionale. Distrugge l'atmosfera classica.
Vince la rettorica, producendo una forma semplice, vera, reale, forma cercata
nelle viscere stesse del popolo, forma ingentilita con tali colori accessibili
al popolo. Su questo nuovo fatto, che non è naturalmente tutt' opera di MANZONI
(si veda) e de’suoi valorosi seguaci (son troppi per citarli tutti, ma qui è
doveroso ricordare BONGHI (si veda), MORANDI (si veda), e, benché sia
manzoniano temperato, OVIDIO (si veda)), sorge la nuova grammatica italiana
oggi adottata nelle scuole, cioè la gram[andati, parla anche colle parole
morte, quasi è LATINA. I romantici mostrano che, se la poesia vuole imitare il
vero, per vero deve intendere quello a cui noi crediamo, e che, se ha da
parlare ai contemporanei e non ai defunti, deve usar di quelle parole che
possono intendersi anche dai non dotti. Sulla dibattuta questione è pubblicato
perfino uno speciale periodico, “L'unità della lingua,” per cura di FANFANI (si
veda), GELLI (si veda) e VESCOVI (si veda). Firenze.A titolod'onore dobbiamo
qui registrare il proemio d’Ascoli nell’Archivio glottologico, che degnamente
combattuto dagl’avversari, solle la controversia alla maggiore elevatezza di
discussione possibile. In Vivaldi] matica dell'uso, o della lingua parlata e
dell'uso vivo, di cui avemmo tipi invero in qualche parte diversi. Il che
chiarendo avremo assolto anche il compito che qui ci è riservato, di dar conto
complessivamente di un gruppo di grammatiche, troppo numerose per essere
singolarmente esaminate, e troppo uniformi non solo nel principio che lor serve
di base ma anche nella configurazione loro, non gran che, s’aggiunga,
differente da quella che ha la grammatica del purismo, per meritare un'analisi
minuta del loro speciale contenuto, considerato sopratutto che non scaturendo
esse, come invece avvenne dal bisogno di rendersi conto della letteratura
bisogno che assume aspetto di PROBLEMA FILOSOFICO né connettendosi, come si
avverò, agli sforzi compiuti dai filosofi del linguaggio per intenderne la
natura e insieme le tradizionali categorie, ma solo rappresentando un indirizzo
pratico, come quelle del purismo di CESARI (si veda), vengono a perdere
individualmente gran parte del loro interesse in una storia come la di T.
Trascurando non senza ragione gl’ultimi epigoni della grammatica del purismo,
non esclusi quelli che sotto veste di novità in sostanza esponeno la medesima
materia [Melgaj, e tacendo anche per amor di brevità di trattazioni
particolari, che per certi rispetti si ricongiungono alla grammatica storica
(CAMPO (si veda), Regole pella pronunzia italiana, e per altri che vertono più
specialmente sulla SINTASSI tradizionale (Bulgarini e Castagnola, LA STRUTTURA
DEL PERIODO – “We studied ‘Syntactic Structure’ with Austin!” – Grice --, e delle
solite disquisizioni sullo studio o sull’importanza o SULLA PORTATA FILOSOFICA
della grammatica generalmente prive di senso scientifico, noteremo che, se ben
presto, dopo cessate completamente le polemiche rinnovatesi più vivacemente
coll’elazione di MANZONI (si veda) e quando ormai i fatti cominciano a parlar
da sé sorgeno e pullulano le grammatiche del principio dell'uso [cf. Little
Oxford Dictionary, Fowler – Grice], invero quella ch’applica rigorosamente,
cioè nel suo preteso esclusivismo m’in tutta la sua larghezza e in tutte le sue
contemperanze, il concetto fondamentale di MANZONI (si veda), usce Trapani.
Torino] relativamente tardi, e precisamente: ed è la Grammatica italiana
diMORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda), non essendoci lecito dubitare,
anche se non ce ne siamo convinti col nostro studio, di quanto essi affermano
nell’introduzione. Più di ventanni fa, uno di noi [MORANDI (si veda), in saggi
incorporati in Le correzioni ai Pr. Sp. ], sostene come fosse ormai tempo di
rinnovare la grammatica italiana sul concetto fondamentale di MANZONI (si
veda): concetto che l’indagini e gli studi filologici hanno sempre meglio
illustrato e confermato. Ma questo voto rimane quasi del tutto inesaudito, come
puo vedere chiunque confronti accuratamente il nostro lavoro colle grammatiche
che si pubblicarono d’allora ad oggi. Cf. la Grammatica italiana dell'uso
moderno di FORNACIARI (si veda) e la Grammatica italiana di ZAMBALDI (si veda),
la Grammatica della lingua parlata cogl’esempi cavati da MANZONI (si veda) di
BONI (si veda), la Grammatica della lingua italiana di PETROCCHI. Son tutte
pregevoli, come garantiscono i nomi degl’autori chiari e autorevoli quanto
benemeriti e infaticabili cultori del nostro idioma. Ma il principio dell'uso
v'è stato applicato diremo così un po'all'ingrosso, con maggior simpatia verso
l'uso letterario in quelle di FORNACIARI (si veda) e ZAMBALDI (si veda), con
più libertà -- cf. Grice contro Macaulay -- manzoniana, dirò così, nelle altre
due. Scendere a particolari qui non possiamo, né ne mette il conto. È un
giudizio che i lettori ci possono menar buono anche senza prove, purché pensino
ai nomi di codesti autori e alla diffusione che l’opere loro hanno ancora nelle
scuole. Il nome di ZAMBALDI (si veda) e più ancora di FORNACIARI assicurano,
per es., d’un certo freno, quasi d’una remora prudente e ragionevole alla
scapestrataggine grammaticale. Infatti le loro grammatiche si ristampano coi
dovuti miglioramenti anche oggi, e sono meglio accette ai maestri che vogliono
sì l'uso ma colle debite cautele e restrizioni: gente che ha naturalmente molta
fede nella grammatica come ausiliatrice della rettorica pegl’effetti del
corretto e bello scrivere degl’alunni. Invece interamente manzoniana nel senso
largo ch’abbiamo determinato, ma non ESCLUSIVAMENTE MANZONIANA, perchè vi si
tien conto nella fonetica dei più notevoli e certi resultati della gram-
[Parma] matica storica, è quella di MORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda). I
quali l'hanno caratterizzata meglio di quel che potremmo far noi. Posto come
norma fondamentale l'uso civile fiorentino, senza punto occultarne, m’anzi
mettendone in rilievo i rari e leggieri dissensi coll'uso vivo generale
italiano, noi facciamo poi largo luogo anche all'uso letterario, distinguendo
il comune od ORDINARIO (Grice on Austin on Donne on Nowell-Smith) del poetico,
o dell'antiquato, o dal pedantesco – Grice on Austin against VOLITION --, ecc.,
e notando spesso ciò che di quest'uso sopravvive tuttora nel volgare, ossia
plebeo – cf. Grice the lay --, di Firenze, o ne’vari dialetti. Sicché, quella
parte storica della lingua, che anche quando è addirittura morta, può alle
volte essere ri-adoperata nello stile poetico, ovvero per ironia – “Methinks
the lady doth protest too much” --, o per ischerzo, o per altro, qui non solo
non manca, ma ce n'è di più che in molte altre grammatiche, colla differenza
però che ci si trova nettamente distinta. E a proposito di lingua, dobbiamo pur
dire che dell'usata e usabile abbiam procurato, negl’esempi e nel resto, di darne
colla maggiore possibile varietà e ricchezza, senza però invadere il campo
proprio del vocabolario, se non quando i vocabolari sono discordi tra loro, o
addirittura in errore. Se spesso poi, specialmente rispetto all'uso vivo, noi
ricorriamo ai forse, ai più o meno, ai d’ordinario, e simili, anche di questo
la colpa non è nostra. Gli è che noi non vogliamo dar per certo ciò che è
dubbio, ne sostituire il nostro gusto alla realtà de’fatti. E i fatti, in ogni
lingua viva, son di tre specie: ben determinati, e di questi noi diamo regole
fisse; che si vanno determinando (“pirot”), e qui noi diciamo la tendenza, il
più comune; ancora incerti, e noi notiamo l'incertezza (il deutero-Esperanto di
Grice). Non vi par questa una pagina sinteticamente illustrativa della dottrina
di MANZONI (si veda) nella sua parte più essenziale e praticamente attuabile?
e, nel tempo stesso, non vedete qui disegnato l'ideale della grammatica
NORMATIVA? della grammatica che, conscia del suo modesto compito, vi spiana la
via all'apprendimento della lingua che vi occorre o vi può occorrere senza
mettervi né la catena a’piedi né le manette? La grammatica MORANDI (si
veda)-CAPPUCCINI (si veda) chiude l'ultimo momento storico dello svolgimento di
questo prodotto di cui siam venuti descrivendo le vicende, riflettendo in sé
esattamente l'ambiente linguistico in cui si matura. Delle moltissime altre che
le si sono succedute colla rapidità e frequenza onde l’imitazioni sogliono
accompagnare l'opera originale, è superfluo qui spender parole, anche se in
qualcuna d’esse avessimo da segnalare particolari espedienti didattici, non
essendo stato l’assunto di T. il far la storia dell’istituzioni scolastiche e
dei metodi d' insegnamento. Ma lasceremmo una lacuna, se non facessimo un cenno
dello sviluppo della grammatica storica, non perchè l'argomento rientri nel
nostro tema, specie quando si consideri che la grammatica storica si svolge in
quest'ultimo suo veramente glorioso periodo affatto indipendentemente, come il
suo metodo e i suoi intenti esigeno, dalla MERA GRAMMATICA NORMATIVA il che non
accadde, p. es., quando il problema appare unico e intimamente connesso con
quello della rifiorita letteratura nazionale ma perchè la grammatica storica s'
immischia nelle discussioni intorno alla lingua, o meglio alla tesi di MANZONI
(si veda) e, fuori di queste relazioni, vuole esser rappresentata non senza
ragione nell’antica sezione della pronunzia e dell'ortografia, costituendovi un
riassunto dei principali accertamenti della fonologia. BIANCHI (si veda) in quella
sua lodata “STORIA DELLA PRE-POSIZIONE A E DE’SUOI COMPOSTI NELLA LINGUA
ITALIANA” dichiara d'essersi giovato di NANNUCCI (si veda), che da noi segna il
passaggio dell'antica alla nuova scuola, e che ancora egli stima assai più di
certi arrembati, i quali montati a cavalluccio sopra i Bopp, i Grimm e i Diez,
si danno il facile vanto di far passar da ciuchi tutti i loro predecessori.
Prima ancora di NANNUCCI (si veda), non manca un certo interesse per lo studio
storico della lingua. CIAMPI (si veda) nel suo DE VSTE LINGUAE ITALICAE SALTEM
ripiglia la vecchia tesi di BRUNI (si veda) e CITTADINI (si veda) con molta
dottrina ed erudizione, ma così, mi pare, peggiorandola. LINGVAM ITALICAM
extitisse APVD VETVS ITALVM VVLGVS, in multo ante, nec equidem repugnabo,
saltem a saeculo R. S. Quinto. Eamque ortam non tantum ab RELIQVIS LATINAE
linguae cultioris, sed AB VNIVERSIS VETVSTISSIMIS ITALICIS DIALECTIS, dein,
varie, variis [Una grammatica italiana a cui sottostà la coscienza della sua
INCONSITENZA FILOSOFICA e che cerca d’attenuare i danni dell'eccessivo
schematismo tradizionale è quella di RADICE (si veda), seguace dell'Estetica
del Croce, Catania] temporibus, adauctam latino maxime, et graeco sermone: tum
edam quibusdam externorum vocibus. Post saeculum vero R. S. alterimi supra
decimum, e triviis in aedes hominum elegantiorum successiti hinc et ad normam,
libellumque redacta, scriptorum statu et praeceptis grammatices polita est. È
il tono degl’eruditi, MURATORI (si veda), TIRABOSCHI (si veda), MAFFEI (si veda),
del quale infatti Ciampi ri-pubblica Y ITALICA ehtaibratio hi idem argumentum,
riassumendo e criticando tutt'e tre i nominati, che, nello sfogliare le
cartapecore antiche, vedendo tante voci e modi della nostra lingua adoperati in
tempi ne’quali si crede non sono mai sonati sulle bocche de’parlanti, sono
stati condotti a veder chiaro nel problema lasciato insoluto dai precedenti
trattatisti: il primo riferisco CIAMPI (si veda), s'intende, conclude che la
lingua italiana è derivata dalle rovine del latino, e che è parlata dal volgo;
il secondo ridotto l'antichità dell'origine al periodo longobardico e
riconnessala alle genti barbare più ch’alle latine; il terzo negato ogni
straniera e particolarmente tedesca derivazione, mettendosi così sulla buona
via di dimostrarla in tutto d'origine latina sebbene con molte alterazioni
della lingua dotta. Anche questa di CIAMPI (si veda) è un'esercitazione
erudita, sebbene scende a particolari de usu verborum quæ vocant auxiliaria e
di voci e costrutti volgari rintracciati nel latino antico e di vocaboli
derivati dal greco. Né puo far fare un passo al vecchio problema. Ma intanto lo
mantiene vivo ed è già un progresso e lascia visibile l'orizzonte verso cui
avrebbero i posteri spinto così profondamente lo sguardo. Anche MANNO (si veda)
col suo fortunato saggio, “Della fortuna delle parole” contribuisce a tener
vivo l’interesse per gli studi storici intorno alla lingua; e le stesse
polemiche destate dalla proposta e particolarmente le dissertazioni di
PERTICARI (si veda) e de’suoi contradittori non possono non considerarsi, con
tutti i loro errori e traviamenti più o meno spontanei, non possono non
considerarsi almeno come caratteristici episodi nella storia della grammatica
storica. Tra le ricerche d'indole storica, si ricora TOSELLI (si veda), ORIGINE
DELLA LINGUA ITALIANA, BOLOGNA; BIONDELLI (si veda), ORIGINE E SVILUPPO DELLA
LINGUA ITALIANA, Milano; SICHER (si veda), ELEMENTI E STATI DELLA LINGUA
ITALIANA, Trento.] La quale si mise finalmente sulla strada regia dell'indagine
metodica storico-comparativa, quando, cessate le vane logomachie, le ricerche
complessive che si contentano di raggiungere un'idea approssimativa delle
parentele delle lingue e del loro stato in determinati periodi storici, pone
sulla pietra anatomica il vario materiale linguistico dei gruppi affini
mono-genetici criticamente vagliato, e, coi potenti aiuti della comparazione e
delle leggi dell'analogia e de’suoni, puo stabilire con matematica sicurezza le
derivazioni dell’ITALIANO e delle lingue romanze dal LATINO popolare, fissarne
le fasi e le condizioni e costituirsi così in corpo organico di dottrina capace
d’ulteriori modificazioni ne’suoi aspetti particolari, ma stabilmente fondato
su basi incrollabili, s’intende nel senso che diamo noi a queste parole.
Ricordare i nomi e le date più notevoli di questo serio e fecondo lavorìo che
rappresenta uno de’caratteri più spiccati e più seri dell'erudizione ci è molto
facile. Ci è permesso solo accennare qui che, di fronte ai celebri nomi dei
fondatori della scienza positiva della lingua e della grammatica storica
particolarmente ROMANZA, Bopp, Diez, e degl’ammirati maestri che ci danno la
grammatica storica della lingua d’Italia, Meyer-Lùbke, e alle loro importanti
riviste e enciclopedie, Romania, Zeitschrift, Grundriss, ecc., l'Italia può
vantare una schiera di valorosi filologi, dai compianti CAIX (si veda), CANELLO
(si veda) e MUSSAFIA (si veda) a RAJNA (si veda), Crescini, Parodi, Gorra,
Salvioni, Lollis, Biadene, Goidanich, Zingarelli, Lopez, Bartholomaeis,
Bertoni, a molti altri, a Renier e Novati, benemeriti della filologia anche pel
Giornale storico, ad OVIDIO (si veda), sempre ricercato anche dai colleghi
d'Oltralpe a collaborare in libri e periodici, a Teza, cui, come dice un nostro
poderoso glottologo, Ceci, nessun territorio linguistico è sconosciuto, a
Monaci che fonda riviste che gareggiano felicemente colle straniere migliori e
ora è anima d'una fiorentissima e attivissima società filologica, stretti già
quasi tutti intorno ad Ascoli, il glorioso fondatore dell’archivio
glottologico. Tra i divulgatori della grammatica storica dell’italiano sono
degni tra noi di menzione Fornaciari e Mattio, che sono preceduti fuori da
Blanc, la cui “Gratnmatik der italienischen Sprachen” ha ancora un certo valore
pella dottrina delle forme. Se la grammatica generale, non mai del tutto
rassegnata a morire, giacque sotto i colpi e i sarcasmi della scienza della
lingua, non mancarono tra noi tentativi d’una FILOSOFIA della GRAMMATICA –
ragionata e razionale, ovviamente --, e notevole è quellodi ZOPPI (citato da
VAILATI), un rosminiano -- ROSMINI (si veda) -- acuto quanto dotto e diligente
e anche garbato espositore. Il quale crede appunto di costruire una scienza
della grammatica col connubio della grammatica generale e della scienza
positiva del linguaggio, inconsapevolmente ese- [T. ricorda il saggio di
Starck, Grammar and Language, Boston, fondato sulla credenza che almeno i tre
gruppi attuali e più importanti delle lingue indo-europee sono retti da comuni
principi generali; e i numerosi saggi di Grasserie e particolarmente “L’Essai
de syntaxe generale,” Louvain, che parimenti a T. sembrano ispirarsi alla
medesima fede nelle leggi generali. Per curiosità T. ricorda anche una ristampa
della grammatica ragionata di COMPAGNONI (si veda), “Grammatica scientifica,
ossia la teoria della lingua italiana secondo i principi naturali del
linguaggio,” Milano, e Bert, “Grammaire rationelle et pratique de la langue
italienne,” Paris. Inoltre: DONATELLI (si veda), Appunti di logica e
grammatica, Venezia; Fink, Logisches und Grammatisches, Progr., Ploen; Peine,
Notes sur l’analyse grammaticale et logique, Montemorency, Societé amicale des
proff. elèni, de Paris et de départ., Breve contributo agli studi
logico-sintattici, e nel testo, modesto contributo a una SINTASSI filosofica
della meravigliosa lingua di quel popolo,il greco, a cui nessuna intuizione
manca, è il sottotitolo della citata memoria sulla teoria kantiana del giudizio
già intuita e fissata nella sintassi de’greci di PIAZZA (si veda), il quale T.
non sa quanto si è confortato a proseguire nell’ardua impresa dalla recensione
parimente citata che gliene fa CROCE (si veda). II vero fondatore della scienza
del linguaggio intesa in senso IDEALISTICO è Humboldt, e sotto i colpi
de’principi di questa cade effettivamente la grammatica generale. Ma si sa che
il punto di vista humboldtiano è spesso smarrito dagl’indagatori della parola
col metodo positivo: e questi non sappiamo quanto possano aver da ridire sulla
grammatica generale, che in fondo è un tentativo di filosofia del linguaggio.
T. dice qui per chiarezza positiva in ordine a quanto osservo nella nota
precedente. Perchè la pubblicazione del frammento di MANZONI (si veda) è
posteriore al suo tentativo che risale agli anni quando ne’quali lo pubblica
nella Rivista La Sapienza.] guendo un disegno abbozzato già dal Manzoni stesso.
Il miglior mezzo di farle cessare [le controversie sulla distribuzione delle
parole nell’arbitrarie classi grammaticali] è una GRAMMATICA veramente FILOSOFICA,
dice MANZONI (si veda), la quale, in vece di supporre nel fatto della lingua
una simmetria arbitraria, cerca nella natura dell'oggetto della mente o anima –
PSICOLOGIA RAZIONALE --, e nella condizione imperfetta e necessariamente
limitata della lingua, la spiegazione del fatto qual’è, vale a dire di quella
molteplice attitudine di diversi vocaboli. Il campo della quale ricerca deve
naturalmente essersi allargato colla cognizione più diffusa e più intima di
lingue altre volte o ignorate in Europa, o studiate da pochissimi, e con
intenti più pratici che FILOSOFICI. Si veda, per un esempio, ciò che dice d’una di queste il
celebre sinologo Rémusat. Molti vocaboli chinesi possono essere adoperati
successivamente come sostantivi, come aggettivi, come verbi, e qualche volta
anche come particelle. La FILOSOFIA della grammatica, dice ZOPPI (si veda),
diversamente dalla grammatica generale, che pretende che certe forme o
espedienti grammaticali sono cosi necessari ed inerenti a certe specie di
vocaboli da costituire una teorica grammaticale assoluta, a cui devono
conformarsi ogni lingua, confrontando i risultati della FILOSOFIA colle leggi
psicologiche del pensiero, cerca l’origini, studia, ed espone il PERCHE di
quelle forme grammaticali che si
trovano DI FATTO diversamente
svolte ed attuate nelle
diverse lingue. Essa
per una parte
è l'applicazione della filosofia
e la logica alla lingua, ed è quindi per questo rispetto scienza cocettuale
analitica A PRIORI. Ma dall'altra è fondata sulla più diligente e minuta
osservazione -- “linguistic botany” –
Grice -- dei fatti che nelle sue molteplici varietà presenta il linguaggio, ed
è perciò anche scienza induttiva ed A POSTERIORI (“I don’t give a hoot what the
dictionary said” – Grice to Austin). Laonde, la
filosofia della grammatica dev’essere il frutto dell’accordo
di questi due metodi. La sola logica o l’analisi filosofico concettuale a
priori in effetto ci da delle generalità forse per alcuni troppo astratte e
spesso apparentemente contradette dai fatti, come è avvenuto delle grammatiche
generali. La sola linguistica, poi, ossia, la critica delle lingue si sta paga
a raccogliere e ad ordinare dei vocaboli o ad accertare alcune leggi di questo
o di quell'idioma, ed a formarne delle [Opere inedite o varie; Manzoni grammatico] famiglie e dei gruppi, senza però
levarsi mai alla sommità di principi universali, in cui deve trovarsi la
ragione ultima di tutte le varie forme, onde il pensiero s’attua e si plasma
nella parola. Ma noi dubitiamo assai che ZOPPI (si veda) con tutto il suo buon
volere sia riuscito a far di meglio che
un lavoro di
natura egualmente arbitraria,
vorremmo dire doppiamente arbitraria, com'è quello in cui si uniscono, anzi si
confondono due sistemi, l’uno de’quali il
logico, è falso
e arbitrario, l’altro, il
positivo, è semplicemente metodologico e non gnoseologico e che si giova di
schemi e di categorie per pura comodità pratica, senza dare ad essi alcun
valore. Due punti di vista sono troppi per comprendere un unico fatto. Congiunti
in un terzo non possono dare che un nuovo punto di vista falso, tanto più falso
in quanto tra gl’altri due non vi è intimità di rapporti e l'uno è più insufficiente dell'altro a
spiegar da solo quell'unico fatto. E il vero linguaggio, il linguaggio come
creazione resta fuori d'ogni considerazione sia storica (storia letteraria) che
teorica (estetica). Il superamento della concezione grammaticale della lingua e
il concetto della vera natura spirituale e intuitiva d’essa si sono ottenuti in
modo pieno e definitivo solamente ai nostri giorni coli 'opera capitale di CROCE
(si veda), l’estetica come scienza dell’ESPRESSIONE e linguistica generale,
che, riannodandosi a VICO (si veda), a Hegel,
a Humboldt nella correzione integrativa
di Steinthal, scioglie il problema identificando parola e intuizione e
riferendo arte e lingua alla medesima attività teoretica dello spirito, l’intuitiva o fantastica. Qui la
grammatica ha finalmente la sua critica completa. Se la lingua è ESPRESSIONE e
non esistono classi d’espressioni, la linguistica in quanto ha di riducibile a
scienza è tutt'uno coll’estetica, e non
può davvero costruirsi sulle particolari teoriche che sono escogitate
dell'interiezione, dell'associazione [A questo punto
ZOPPI (si veda) cita MANZONI (si veda), e tutto il brano è riportato nel saggio su MANZONI (si veda) grammatico i La filosofia della grammatica, Verona.
ZOPPI (si veda) alla fine del suo saggio dà due tavole dimostrative, l’una
della genesi psicologica delle parti del discorso, l'altra di quella
glottologica.] o convenzione e dell'onomatopea, mescolate insieme: e poi che, se
la lingua è creazione spirituale, dev’esser sempre creazione (onde resta senza
significato la distinzione del problema in origine e svolgimento), l’altra
considerazione che può farsi
sul linguaggio non
può esser che
storico-artistica, ogni ESPRESSIONE essendo un
individuo artistico da
studiare in sé
stesso e da rivedere e ricreare
in noi col ricollocarci nelle condizioni storiche in cui si produce. Una terza considerazione
della lingua, la logica, che consiste nell’elaborare logicamente il fatto
estetico, che è di natura sua indivisibile, dividendolo in concetti e ricavando
le categorie grammaticali del moto o dell'azione (verbo), dell’ente o materia
(nome) eccr, se è lecita, è infeconda pella comprensione del fatto estetico,
perchè in quella elaborazione esso è stato distrutto: e quelle categorie non
possono valere come modi imitabili d’espressione, come formule e precetti pella creazione artificiale della lingua. Una
tecnica dell' 'espressione è un termine erroneo, contradittorio: e appunto tale
è la grammatica normativa, il cui valore è semplicemente didattico. Una forte
risonanza dell’estetica di CROCE (si veda),
per quanto riguarda la lingua, s’è avuta nel saggio di Vossler,
Positivismo e Idealismo nella scienza della lingua, dove si conducono
argute polemiche contro recenti teorici
della lingua e in bellissime particolari analisi è mostrata tutta la fecondità
e la verità del principio idealistico propugnato da CROCE (si veda) e si
traggono deduzioni importantissime pel metodo e il fine dell'indagine
linguistica. Vossler trova nella lingua due aspetti distinti sotto cui
dev'essere conformemente considerato: 1’uno del progresso assoluto, cioè dalla
libera creazione individuale e teorica, 1’altro del progresso relativo, cioè
dello sviluppo regolare e della creazione teorico-pratica collettiva
condizionantisi a vicenda. Nel primo caso la considerazione è estetica o
stilistica (cioè di storia artistica, o critica letteraria, o storia, semplicemente),
nel secondo è storica o evoluzionistica (cioè di storia della coltura, [Con
questo titolo è uscita per i tipi del
Laterza di Bari, e per merito di GNOLI (si veda), la traduzione] grammatica
storica). Un terzo modo di considerar la lingua, puramente positivistico o descrittivo senza
valutazione estetica o spiegazione
evoluzionistica, non esiste. È teoricamente impossibile. Ossia quel
terzo modo è la grammatica empirica e normativa, sussidio didattico. Ma il sistema idealistico
vige pienamente in entrambe le prime considerazioni. Anche nel momento
del progresso relativo della lingua opera un’attività spirituale. La grammatica, quando è conoscitiva, è così
sciolta o nella storia letteraria o nella storia della cultura, sempre cioè
nella storia. Quando vuol esser normativa, e non più empirica ma FILOSOFICA e
rigorosa, s’annulla nell'estetica. Col suo saggio T.
spera d'esser riusciti a confermare la verità di tale sistema
idealistico, applicandone i PRINCIPII alla considerazione d'un prodotto
caratteristico dello spirito teorico ITALIANO studiato nelle condizioni
storiche del suo svolgimento, nei suoi
rapporti cioè coll'arte e colla scienza. Un importante filosofo. Ciro
Trabalza. Trabalza. Keywords: la grammatica razionale di Grice, ‘Logic and
conversation,’ repinted in Davidson and Harman, Logic and Grammar!. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Trabalza”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Trabucco: FILOSOFIA
SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della filosofia della salute – filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Lirary, Villa Speranza (Caltagirone). Abstract. Kewyords: salute, sano, sanita. “If there
was an adjective that Aristotle loved was healthy” (Grice). Grice attempts an
application of ‘healthy’ to Plato, too, in the Republic. Note that ‘salute’ is
a corruption of ‘salvus,’ and thus not cognate with ‘sanus’, which is the word
Boezio uses to translate hygeion, as used by Plato and Aristotle. Filosofo italiano. Caltagirone, Catania,
Sicilia. Non abbiamo grandi notizie
della sua vita, della quale sappiamo solo che esercita con successo la medicina
a Caltagirone, soprattutto durante l'epidemia. Per il suo contributo è creato
nobile da Fernando d'Aragona. Alcune suoi saggi sono conservate nella biblioteca
comunale di Caltagirone, città che gli ha anche dedicato una strada. Saggi: “De Morbis puerorum et mulierum.” Chaudon, Dictionnaire universel, historique, critique,
et bibliographique, v. Amico e Statella, V. M., Dizionario topografico della Sicilia,
Palermo. Libro d'oro della nobilità dell'imperial casa amoriense, Roma, s.v. Amati, Dizionario corografico dell'Italia.
Trabucco. Keywords: salute, filosofia della salute. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Trabucco” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Tragella: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazional dei caduti – filosofia lombarda
-- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Trezzano sul Naviglio). Abstract. Keywords. per i
caduti. Grice, “How I met my wife.” As it happens, Grice was a student at
Merton. A younger recipient of the same Senior scholarship, J. S. Watson,
called him on short noice to fulfil the task of best man – seeing that the
original best man had been killed in action shortly before. It was a Watson’s
wedding that Grice met his future wife. While Grice himself was engaged in action in the North Atlantic, he was
transferred to the Admiralty for the remaining of the duration of the war. Filosofo italiano. Trezzano, Milano, Lombardia.
Studia a Gorla Minore, Milano, e Torino. Si occupa di serbare la memoria della
battaglia di Magenta con la costruzione di una cappella espiatoria all'interno
della chiesa per accogliere le spoglie dei caduti. Ricovero vecchi poveri Sito
Lombardia Beni Culturali. Viviani, cfr.
Tunesi, Morani Le stagioni, op. cit.. T., Lettera a Murri in: Murri, L.
Bedeschi, Carteggio. II. Lettere a Murri. Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, Le stagioni di un prete, Le stagioni di un prete, «Rivista di storia
e letteratura religiosa», Viviani, Dalle ricerche la prima storia vera,
Magenta, Zeisciu. Cesare Tragella. Tragella. Keywords: per i caduti. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Tragella” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapaninapola:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionle – filosofia italiana
– Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. implicatura. Filosofo
italiano. Trapaninapola. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Trapaninapola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapè:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’umanità di
Varrone -- -- filosofia marchese – scuola di Montegiorgio --filosofia italiana –
Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Montegiorgio). Abstract. Keywords. humanitas, homo,
Varrone. Flosofo italiano. Montegiorgio, Fermo, Marche. Uno dei massimi
studiosi della filosofia semiotica d’Agostino. Si laurea a Roma con una “Il
concorso divino in Colonna” (Tolentino). Insegna a Roma. Promosse la fondazione
dell'Istituto patristico augustinianum. Fonda la "Biblioteca agostiniana"
che si occupa della volgarizzazione di Agostino (Città Nuova) e il "Corpus
scriptorum augustianorum", che pubblica le opere dei filosofi scolastici
agostiniani. Altri saggi: “Introduzione ad Agostino e le grandi correnti
della filosofia contemporanea”, Atti del congresso Italiano di filosofia agostiniana,
Roma, Tolentino; Varro et Augustinus praecipui humanitatis cultores, Latinitas Augustinus
et Varro, Atti del Congresso di studi varroniani, Rieti) – VARRONE --; “Escatologia
e anti-platonismo” Augustinianum, “Agostino, filosofo e teologo dell'uomo”; Bollettino
dell’Istituto di filosofia (Macerata); Agostino: L'ineffabilità di Dio, in «La ricerca di Dio nelle religioni (EMI,
Bologna); “La Aeterni Patris e la filosofia”, Atti del Congresso Tomistico, Roma;
Agostino, l'uomo, il pastore, il mistico” (Roma, Città Nuova); Patrologia,
Casale Monferrato, Dizionario patristico e di antichità cristiana, Casale
Monferrato, Introduzione e commento alla lettera apostolica «Hipponensem
episcopum», Roma, Introduzione ad Agostino, Roma, L'amico, il maestro, il pioniere, Cremona,
apostolo della cultura. Agostino Trapè. Trapè. Keywords: la semiotica
d’Agostino, Varrone, humanitas. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapè” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e
Trasea: la ragione conversazionale della morale romana e l’implicatura
conversazionale del diritto romano -- Roma antica – scuola di Padova -- filosofia
italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Abstract. Keywords: portico, suicidio, vita
pubblica, vita privata, virtute, ius, principe, principato, reppublica, senato,
morale, diritto e moral. Roma antica, giustizia morale, giustizia
politco-legale, Grice. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Nato da una
famiglia illustre e agiata. Mantenne stretti legami con Padova, come dimostra
la partecipazione ai festeggiamenti in onore del fondatore, Antenore. Nulla è
degli inizi della carriera politica tranne contrasse matrimonio colla figlia di
CECINA PETO, console suffetto. Il suocero è implicato nella rivolta di Lucio
Arrunzio Camillo Scriboniano che mira ad eliminare Claudio e a RESTAURARE LA
REPUBBLICA e pertanto e costretto al suicidio. Lo segue, sebbene T. avesse
cercato di impedirlo, anche la moglie. Probabilmente, dopo la morte del
suocero, T. aggiunse il suo nome al proprio, prassi inconsueta per un genero, che
può essere letta come un segno di opposizione al principato. Non abbiamo
informazioni sulla cronologia della progressione di Trasea tra i ranghi più
bassi del cursus honorum ed è possibile, ma non è affatto certo, che la sua
carriera politica fosse ad un punto morto. A seguito della morte di
Claudio e l'ascesa di NERONE, l'influenza del precettore del nuovo principe, il
filosofo Seneca, del Portico, gli permise T. a di divenire console suffetto
acquistando nel frattempo l'importante amicizia del genero ELVIDIO PRISCO. Dopo
il consolato, T. ottenne il prestigioso incarico di quindecim-vir sacris
faciundis. Tale ascesa e, forse, aiutata dall'attività svolta presso le corti
di giustizia né è da escludere una sua nomina come governatore provinciale in
accordo alla testimonianza di PERSIO, amico e parente di T., il quale scrive di
aver viaggiato con lui. Sostenne in senato la causa di concussione
avanzata dai cilici contro il loro ex-governatore, COSSUZIANO CAPITONE, vicino
al principe, che e condannato probabilmente proprio per l'influenza e la
capacità oratoria mostrata da T.Si oppose ad una mozione con cui i siracusani
chiedevano di superare il numero legale di gladiatori per i loro giochi censurando
di fatto l'irrilevanza cui e giunto il senato. Quando, poi, NERONE invia
al senato una lettera – scritta da Seneca -- in cui giustifica l'appena
compiuto omicidio della madre, T. e il solo ad uscire dall'aula affermando di
non poter dire ciò che voleva e che non avrebbe detto quel che poteva, mentre
molti dei suoi colleghi si congratulavano bassamente con Nerone. Il pretore ANTISTIO
SOSIANO, che scrive poesie diffamatorie su Nerone, a accusato da Cossuziano
Capitone, recentemente riabilitato in Senato su impulso del suocero di questi, TIGELLINO,
di maiestatis. T. dissente dalla proposta di imporre la pena di morte sostenne
la più lieve sanzione dell'esilio, conforme per il reato. La proposta è approvata
con larga maggioranza nonostante il parere contrario di Nerone consultato prima
della votazione ed il principe e costretto ad aderirvi per far mostra di
clemenza. Al processo contro il pro-console di Creta, CLAUDIO TIMARCO, accusato
dai provinciali di continui abusi, avendoli costretti a compiere frequenti voti
di ringraziamento, T. censura il comportamento del pro-console. Fa approvare a
maggioranza un senatoconsulto che però dove aspettare il placet del principe. E
dispensato dal principe dal portargli i ringraziamenti, insieme alla
delegazione del senato, per la nascita di una figlia. Tale gesto e,
probabilmente, il preludio della fine anche perché TIGELLINO, tra i più
influenti cortigiani di Nerone e ostile a T. essendo il suocero di Cossuziano
Capitone, fatto condannare da T. stesso. Tuttavia, è noto che Nerone dice a
Seneca di essersi riconciliato con T. e che Seneca si fosse congratulato perché
recupera un'amicizia piuttosto che averlo costretto a chiedere clemenza. Dopo
tale vicenda, T. si ritira dalla vita politica. Non sappiamo esattamente quando
è presa la decisione ma TACITO fa dire a Capitone, in occasione del processo,
che T. ha da oltre III anni disertato tutte le sedute del senato ma, occorre
ricordare che la fonte è polemica e quindi poco affidabile. Non è noto neppure
quale sia stato il catalizzatore di una tale decisione che contrasta
apertamente con la sua vita precedente. Forse è la sua ultima forma di protesta
al principe. In questo lasso di tempo, T. continua a curare gl’interessi
dei suoi clienti e probabilmente compose anche la sua “Vita di CATONE [si
veda]”, in cui loda il sostenitore della libertà senatoriale contro GIULIO
CESARE (si veda) con il quale condivide la filosofia del portico. Tale opera,
oggi perduta, e una fonte importante per la biografia di Plutarco. Nerone, dopo
aver violentemente represso la congiura dei Pisoni, decide di sbarazzarsi di
chiunque sospettava ostile, e tra questi anche T. e Barea Sorano che da tempo detesta.
Spinto da Cossuziano Capitone, decide di agire durante la visita del re
Tiridate I di Armenia a Roma, come scrive sarcasticamente Tacito "quasi
fosse atto da re", affinché passassero inosservate le vicende di due così
illustri cittadini. L'accusa contro T. e assunta da Cossuziano Capitone e
Marcello Eprio, mentre Ostorio Sabino si occupa di Barea Sorano. Dapprima
Nerone esclude T. dal ricevimento in onore di Tiridate ma questi, anziché farsi
prendere dal timore, chiede che gli fossero notificati i capi d'accusa e che
gli fosse dato tempo di difendersi. Nerone accolge la risposta di T. con
agitata premura e come mai prima d'ora comincia a temere la presenza,
l'ardimento e lo spirito di libertà della sua vittima e pertanto comanda di
convocare il senato. L'imputato, dopo aver consultato gl’amici, decise di non
partecipare al processo per evitare che Nerone si incrudelisse anche con la
moglie e la figlia e per non prestare orecchio all’ingiurie degl’accusatori. In
tale occasione, inoltre, impede al tribuno ARULENO RUSTICO di porre il veto al
decreto del senato affermando che una siffatta azione mette in pericolo la vita
del tribuno senza salvare la sua. Il giorno del processo, il tempio di Venere
Genitrice, luogo di raduno del Senato, e circondato da due coorti della guardia
pretoriana. Iniziata la seduta, il questore legge una lettera del principe che,
senza far nomi, accusa alcuni senatori di trascurare da tempo i loro doveri e
di essere, pertanto, cattivo esempio anche per i cavalieri. Gl’accusatori
accolsero tali affermazioni come un dardo pronto per essere scagliato e subito
Cossuziano si scaglia contro T. per essere seguito poi da Marcello Eprio il
quale, con maggiore energia, grida che si tratta di LA SALVEZZA DELLO STATO
ROMANO e che la longanimità del principe sarebbe venuta meno di fronte
all'arroganza dei sottoposti e che fino ad ora troppo indulgenti sono stati i
senatori nei confronti di T., di Barea Sorano, definiti faziosi ribelli. Non si
ricordano discorsi della difesa ed in ogni caso i senatori, nel più profondo
terrore per i reparti armati, non hanno altra alternativa che votare la
condanna a morte nella forma del liberum mortis arbitrium ovvero l'ordine di
suicidarsi. T. e ovviamente condannato a morte, il genero Elvidio Prisco e
esiliato insieme agl’amici Paconio Agrippino e Curzio Montano. Gl’altri
imputati, Barea Sorano e la figlia di lui, processati separatamente, seguirono
lo stesso destino di T.. Al crepuscolo, T. intento ad intrattenere numerosi
ospiti e ad ascoltare con molta attenzione il filosofo Demetrio, del CINARGO, con
il quale discute della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal
corpo, riceve da uno dei suoi intimi, DOMIZIO CECILIANO, la notizia della
condanna. A tal punto, esorta i più a non disperarsi e a ritirarsi in gran
fretta per evitare di compromettere le loro sorti con la sua, poi persuase la
moglie che, memore della madre, si prepara a seguire nella morte il marito, a
restare in vita e a non privare la figlia dell'unico sostegno. Poco dopo,
mentre T. si avvia al portico con un'espressione lieta, avendo saputo che il
genero, Elvidio Prisco, è stato solo esiliato, giunse il questore a
comunicargli ufficialmente la condanna. Si ritira, quindi, accompagnato da
Demetrio e dal genero, nelle proprie camere, porse ad uno schiavo le vene di
entrambe le braccia e, come il sangue scorse, lo sparse a terra libando a Giove
liberatore sempre alla presenza del questore. Infine, dopo molte sofferenze, muore.
In Prato della Valle, Padova, è presente una statua che lo raffigura, opera d’
Andreosi ed eretta a cura della associazione padovana Excisa Civitas. T. è
rappresentato in abito consolare, ai suoi piedi un piedistallo, simbolo della
costanza con cui sostenne la sua impari lotta contro Nerone. È menzionato nel
romanzo Quo Vadis di Sienkiewicz. È menzionato nel romanzo Memorie di Adriano
di Yourcenar. Dione Cassio. Tacito. Plinio. Tacito, Historiae. Plutarco Moralia.
Geiger. Statua di T. su digilander.libero. Cassio Dione Cocceiano, Historia
Romana, libri LXVI-LXVII. Plinio il Giovane, Epistulae. Tacito, Annales. Brunt,
Stoicism and the Principate, PBSR, Devillers, Le rôle des passages relatifs à
Thrasea Paetus dans les Annales de Tacite, Neronia, Bruxelles, Collection
Latomus Geiger, Munatius Rufus and T. on Cato the Younger, Athenaeum. Rudich, Political Dissidence
under Nero, Londra, (Strunk, Saving the life of a foolish poet: Tacitus on
Marcus Lepidus, T., and political action under the principate, Syllecta
Classica, Syme, A Political Group, Roman Papers, Turpin, Tacitus, stoic
exempla, and the praecipuum munus annalium, Classical Antiquity, Wirszubski,
Libertas as a political idea in Rome in the late republic and early principate,
Cambridge. T., su Enciclopedia
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romaniFilosofi del I secoloScrittori del I secolo Romani Nati a Padova Morti a
Roma Filosofi giustiziati Stoici Morti per suicidio. The wide circulation of the
philosophy of the Porch among Romans of the upper class from the time of
Panaetius to the reign of Marcus Aurelius is a familiar fact. Few Romans of
note can indeed be marked down as committed ‘filosofi del portico’, and even
those, like Seneca, who avowedly belongs to the school borrows ideas from other
philosophies. Still, even if eclecticism is the mode, the ‘Porch’ element is
dominant. The PORTICO permeates the writings of ‘filosofi’ like Virgil and
Horace who professed no formal allegiance to the sect, and became part of the
culture that men absorb in their early education. One might think that the
Porch exercises an influence comparable, at Oxford, at in some degree with that
which Christianity has often had on men ignorant or careless of the nicer
points of systematic theology. It has often been supposed that it did much to
humanise Roman law and government. That is a contention of which I should be
rather sceptical, but it is not my present theme. I propose to examine the
effects that The Porch had on men's attitudes to the Principate, the
essentially monarchical form of government created by Ottavianus. Prima facie
we might expect these effects to have been significant, yet it is not easy to
discern exactly what they are. At the very outset an apparent contradiction
confronts us. The Porch seems to be both upholders and opponents of the regime.
The Stoic Atenodoro is an honoured counsellor of Ottaviano; Seneca the
preceptor of Nerone and then one of his chief ministers, Marcus Aurelius Antonino
a philosopher on the throne. Seneca exalts the autocratic power of the Princeps.
Under Nerone, a ruler vigilant for the safety of each and all of his subjects,
anxious to secure their consent, and protected by their affection, Rome (Seneca
claims) enjoyed the happiest form of constitution, in which nothing is lacking
to our complete freedom but the license to destroy ourselves. We may always
suspect Seneca of insincere rhetoric and special pleading. But Seneca’s
approval of monarchy in principle is shared by the honest Musonius, and Antonino
clearly assumed that it was by divine providence that he had been called to
exercise absolute power. And yet that perfect philosopher of the Porch, as
Seneca calls him (Const. Sap.), Catone, died in defence of the old Republic,
which Giulio Cesare had overthrown and Ottaviano had replaced. Cato’s conduct
was still viewed as exemplary by philosophers of the Porch during the
Principate. T. writes Catone’s life, and he is the centre of a circle,
including ELVIDIO PRISCO and ARULENO RUSTICO, which offers the most intractable
opposition to certain princes, opposition which was certainly ascribed to the
teaching of the Porch. Nerone’s suspicions of RUBELLIO PLAUTO, a kinsman and
potential pretender to the Principate, are enhanced by the allegation that he
had adopted the Porch’s presumptuous creed, which made men turbulent and avid
for power. Writing soon afterwards, Seneca himself admits that some thought,
though erroneously, that the votaries of philosophy were 'defiant and stubborn,
men who held in contempt magistrates, kings and all engaged in government', and
he advises Lucilius to devote himself to philosophy, but not to boast of it,
since philosophy itself, associated with arrogance and defiance, has brought
many men into danger. Let it remove your faults and not reproach those of
others, and let it not recoil from social conventions ('publicis
moribus"), nor produce the appearance of condemning what it does not
practise'? Though Seneca speaks of 'philosophy' in general, the context shows
that he has in mind only that philosophy in which he thought the truth resided,
the Porch. The second passage indeed may suggest that what endangers the Porch
was not so much resistance to authority as censure of the behaviour common in
the world, which made the Porch generally unpopular. Seneca had also admitted
earlier that The Porch had the reputation, in his view undeserved, of excessive
harshness, which was held to make it incapable of giving wise advice to rulers.
It was under Gaius, Nero, Vespasian and Domitian that the Porch certainly
suffered persecution. The last two princes actually expelled professional
philosophers from Rome and Italy; Epictetus was among the exiles. Yet he too
repudiates the charge that the Porch is opposed to authority. By reconciling
the interests of the individual, truly conceived, with those of society, the
Porch, Epitteto claims, produced concord in a state and peace among peoples.
The Porch teaches men to obey the laws, but not to despise the authority of
'kings', though in his view neither laws nor kings could give or take away
anything essential to a man's blessedness. On the other hand, the Stoic would
not comply with the orders of 'tyrants', which conflicted with his own moral
purpose. We might then infer that it was not political authority, nor monarchy
as such, that the Porch rejects, but those rulers whose vile conduct made them
'tyrants',"' and that what the Porch – in a figure like T. -- admires in
Catone is not his fight for the Republic but his rectitude and constancy. However,
Vespasian was never reproached with tyranny, and ELVIDIO PRISCO, at least, whom
Dio called a Republican, and whom Vespasian puts to death, must have had convictions
by which an emperor could be judged in political as well as moral terms. The
apparent inconsistency in the Porch’s attitude to monarchy is not the only
ambiguity in their relations to the state. Seneca meets the charge of political
defiance by replying that none are more grateful to rulers who preserve peace
than philosophers who have retired from public life to the nobler activity of
tranquil contemplation and teaching. Much writing of the Porch suggests that
their teaching tended to promote not active resistance to government but entire
withdrawal from political activity. Quintilian speaks of philosophers as men
prone to neglect their civic duties. P. Suillius had contemptuously referred to
Seneca's own 'studia inertia'. In the very passage in which Tacitus marks out ELVIDIO
PRISCO as a Stoic he says that 'from early youth he devoted his brilliant mind
to deeper studies, not as so many (plerique') do, to make the high-sounding
name of philosophy a screen for indolent retirement ('segne otium'), but in
order to undertake public duties, while fortified against the strokes of
fortune. Evidently, in his judgement, the general tendency of philosophic
training was to render men unfit for public careers by making them prefer the
life of contemplation. Hence an ambitious mother, like Agricola's, would
restrain her son from drinking too deeply at the philosophic spring. Indeed all
writings of the Porch illustrate a certain tension between the claims of public
activity and those of study and meditation (injra). We must, of course, distinguish
sharply between Stoics who deliberately chose 'segne otium' from the start and
those, like T., who retires from politics in such a way as to manifest their
disapprobation of the government, even though such retirement could be
justified by arguments that might rather have persuaded the believer never to
enter the political arena. The former might by their indifference to the state
deprive it of useful talent, but they constituted no danger to the regime. But
we may wonder how a creed which encouraged such quietism could also be accused
of making men turbulent enemies of the Princeps. To understand these apparent
contradictions in the political attitudes of Stoics under the Principate, we
must look more closely than historians generally do at the moral principles
they embraced. All I can attempt here is naturally no more than a rather
impressionistic sketch of those aspects of Stoic teaching which seem to me most
relevant to their actual political behaviour, in office, opposition or
retirement. This is no place for a systematic exposition of the logical and
physical presuppositions of their moral creed, and indeed the Stoics of our
period evinced no keen interest in the dialectical subtleties and doctrinal
coherence of the system the earlier masters of their school had evolved.
Rhetoric and devotion had largely replaced inquiry and argument. None the less
their moral convictions continued to rest on metaphysical dogmata, however
uncritically accepted. Like other philosophers, the Stoics assume that each man
does and must pursue his individual happiness. This he can secure only if he
conforms his life to nature, his own nature and that of the universe, of which
his own is of necessity a part. In the impulses of animals and of children we
can see how Nature herself directs living beings to seek what is conducive to
life and to avoid what is contrary. Life itself and all that assists the proper
functioning of the living creature belong to the category of things that are natural
and therefore can be described as things of value. They include wealth, health
and nearly all that men generally make their objects of endeavour. Now, man is
endowed with reason, and reason shows that he cannot live in isolation. We are
born for one another, and it is proper to our nature to prefer things of value
for our fellows as well as for ourselves. However, experience teaches us that
such things may not be in our power. If, then our happiness, or that of our
fellows, were to depend at all on their possession, it would not necessarily be
within our grasp, our minds would be filled with anxiety, and our failures to
obtain what we desire would seem to be limitations on our freedom. But no man
can be happy if he is not secure from anxiety and free. Now Nature must have
designed our happiness, for all being is permeated by a substance the Stoics
described as reason or the divine. This ruling element in the world, which
causes all things to work together for good, is also present in our souls, and
it is its presence that enables us in some measure to apprehend the
providential order of the Universe. Our reason should also be the ruling
element in our own nature, as it must be capable of directing us to that true
happiness, security and freedom which nature impels us to seek, and which,
given the rationality and beneficence of nature, it must be in our power to
attain. Hence the so-called things of value cannot be truly good, simply
because they are not always and necessarily in our reach. By contrast nothing
can ever prevent us from constantly willing to do what is right, even though
the resultant actions may fail to produce the effects intended; these effects
are external to ourselves and do not or should not affect that permanent
disposition of the soul in which our blessedness, security and freedom are to
be found. The only true good, which reason prescribes, lies then in a virtuous
disposition and in the activity that flows from it, and the only true evil is
the lack of such a disposition, while the things of value and their contraries
must alike be classed, to use the technical term, as things indifferent to us.
Yet this leaves no criterion for identifying the particular acts the good or
wise man will perform, and that criterion has still to be supplied by the things
of value. Is The acts which were termed in Greek “KaOkovaand” in Latin “officia”,
acts incumbent on men, which we may render as duties, even though the word has
perhaps excessively Kantian overtones, consist in promoting states of affairs which
will contain as much as possible of such secondary goods as health or wealth, and
as little as possible of their contraries. We are bound to make the best
calculations we can on the consequences of our acts, and to exert ourselves to
the utmost in performing them. But we should always act with the reservation in
our minds that what we seek may not be attainable and that its actual
attainment is not per se good. A father will jump into deep water to rescue his
child. But the goodness of his act is not enhanced if the child is saved, nor
diminished if it drowns. Indeed, since the universe is providentially ordered,
the death of the child, if it occurs, must be for the best. Chrysippus is
quoted by Epictetus as saying that, so long as the consequences are not clear
to me, I cling to what is best adapted to securing things that accord with
nature; for the divine has created me such that I shall choose these things;
but if I actually knew that it was now ordained for me to be ill, I would aim
at being ill. Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni. As a good Stoic,
Catone should not have fought against Caesar, if he could have foreseen
Caesar's victory. But lacking this foresight, he could still be subjectively
right; and the admiration a Stoic could express for Cato is not in itself
incompatible with acceptance of the regime for which Caesar's victory had
prepared the way. For the Stoics only the wise man has an understanding of
nature so complete and a disposition so unchangeable that he will never do what
is not right, and only his actions are truly successful or good. Others may
perform the same actions, but in a way that is somehow flawed. However, the
wise man, as Seneca remarked, is as rare as the phoenix. Not even the great
Stoic teachers pretended to the title. Most of their statements about his
conduct may then be understood as the presentation of a model for others, and
in fact the Stoics did not hesitate from the first to lay down rules for the
guidance of ordinary beings. In such prescriptions they continued to attach
value only to the purpose of moral activity, and not to success in performance.
The fullest discussion we possess of their teaching on men's duties is to be
found in Cicero's “de officiis,” the first two books of which are avowedly
based on a treatise of Panaetius. But though Panaetius, who departed in various
ways from the doctrines of his predecessors, did not care to describe the ideal
sage and expressly turned to the duties of men in whom perfect wisdom was not
to be found but whose conduct might still manifest the semblances of virtue
('similitudines honesti'), his concern with this topic was certainly not new.
Moreover, there are some indications that Stoics extrapolated the concept of
perfect virtue from the conduct of ordinary men which commanded universal
approval. Orazio on the bridge could not be called truly brave, because he was
no sage. Yet, his heroism gives an idea, by analogy, of what tcourage is. Thus
Stoic practical morality was founded on commonly received opinions. While every
man is bound to be of service to his fellows, the particular services he should
render vary with his special relationships to them. From the first orthodox
Stoic thinkers enjoined specific duties on the husband, father, slave-owner and
so forth. Tacitus alludes to this practice when he describes ELVIDIO PRISCO as
steady in performing all the duties of life, as citizen, senator, husband,
son-in-law and friend. Epictetus and others conceive such duties as arising
from the place in the world, the station or military post (Tá§is, statio) to
which each individual is appointed, and which may limit, as it always defines,
the kinds of action incumbent on him; though a life of virtue is open to all,
even to slaves, what a man can do determines what he ought to do; for instance,
if he is poor, he cannot hold office or endow his city with fine buildings
(Ench.). But how do we identify these specific duties, which are given to us by
our place in the world? If you are a town-councillor, says Epictetus, remember
that you are one; if you are young, that you are young, if old, that you are
old, if a father, that you are a father; on reflection each name invariably
suggests the appropriate tasks. These tasks can, I think, only have been
regarded as obvious if they were those conventionally expected from the persons
so designated, and in fact Stoics seldom recommend acts that would have
violated conventions. All that Epictetus himself tells a provincial governor is
to render just decisions, to keep his hands off others' property, and to see no
beauty in another man's wife or a boy or a piece of gold or silver plate.
Epictetus does not go far beyond the maxims of abstinentia and integritas,
always accepted, if often infringed, by the Roman ruling class. In fact he adds
that we ought to look for doctrines that agree with but give additional
strength to such common notions of duty. The great mind, as Seneca puts it, is
intent on honourable and industrious conduct in that station in which it is
placed. The good man does not change the rules, but obeys them more strictly. In
another metaphor the Stoics employed the world was viewed as a stage in which
each man had to play a part (persona, mpóocov). Panaetius exploited this
metaphor in connexion with a doctrine he himself seems to have transferred from
aesthetic to ethical theory, that there is a kind of moral beauty, called in
Greek pétrov and in Latin decorum, which 'shines out' in virtuous activity,
even in that of the man still imperfect in wisdom. It would not be germane to
my theme to attempt to expound this doctrine in full, but two points are
important. First, just as the physical beauty of a living creature must be attributed
to the due relation of all the parts to the whole, so the moral beauty of a
man's activity lies in the order and coherence of all his words and deeds, and
just as the correct delineation of a figure in a drama depends on the
suitability to his character of what he does and says, so in real life men must
aim at maintaining the consistency, 'constantia'' or 'aequabilitas, of their
conduct. But while the dramatist may properly portray the wicked man, on the
stage of life we are all bound to play the role of rational beings subject to
the moral law. None the less, the manner of the performance must vary from man
to man." Besides the role which is common to all Panatius distinguished
three others. The first arises from the individual's special inborn endowments,
which he must develop to the full, so far as they are compatible with virtue,
and his natural disabilities, which limit what he can do, the second from his
position in the world, the third from the choice of a vocation that he is bound
to make on the basis of his capacity and of the resources at his disposal, but
which tends to commit him for the future. Thus a Roman of rank might choose to
be a philosopher or a jurist, an orator or a soldier; having made his decision,
he should normally carry it out to the end. For Panaetius it is only by
recognizing the potentialities and limitations imposed by his own personality
and circumstances that the individual can avoid those inconsistencies in
conduct which would mar the moral beauty of his life. 'It is of no avail to
contend with nature or to pursue an end you cannot reach'. Similarly in
Epictetus' view, 'if you assume a role beyond your ability, the result is that
you perform it disgracefully (hoxnuóvndas) and neglect the role you were able
to fill. To thine own self be true, And it must follow, as the night the day,
Thou canst not then be false to any man. Secondly, according to Panaetius,
moral beauty, like physical, attracts the approval and love of other men.
Indeed that approval comes to be regarded as a criterion for determining
whether particular actions really do manifest 'decorum'. We ought to respect
the opinions and feelings of others. Hence deportment, polite conversation and
other matters of social etiquette become the subjects of moral precepts. Manual
labour is condemned as unbefitting the free man. Even the liberal professions
are pronounced below the dignity of an aristocrat. In general the conventions
of the upper class society to which both Panaetius and Cicero belonged are unquestioningly
accepted. We are told that for actions to be performed in accordance with
custom and civic practices no rules need be prescribed. These practices are the
rules, and no one should make the mistake of thinking that he has the same
license as Socrates or Aristippus to transgress them. It was only their great
and superhuman virtue that gave that privilege to them. This teaching justified
Romans in treating their own traditions as equivalent to moral laws. It is no
accident that the Stoic RUBELLIO PLAUTO 'respected the maxims of old
generations' in the strictness of his household, or that Seneca admires the
mores antiqui in which Romans had always tended to find the secret of Rome's
greatness. The very use of the term “officium” to render Kankov had a similar
effect. In common speech “officum” could mean both the kind of service which
social conventions expected one man to render another, and the function of a
magistrate, for example, or a senator. Its use in ethical theory suggested that
such a service or such a function constitutes a moral obligation. Cicero
illustrates Panaetius' doctrine of the special duties imposed by a man's
individual personality from the suicide of Cato. Not every one would have been
right to kill himself in such circumstances. Cato was justified because he had
always held that it was better to die than to set eyes on a tyrant;
his'constantia' left him no choice. Plutarch, who drew directly or indirectly
on a firsthand account, shows that Catone consciously acted on this view. For Catone,
death is the only way out. His son might live, but being also a Catone, should
not serve Caesar. Others might make their peace with the victor and incur no
blame. An anecdote in Plutarch's life of Cicero tells us that Catone also held
in that while he himself could not honourably have abandoned his consistent
opposition to Caesar, Cicero, whose past conduct had been very different, would
have done better to remain neutral in the civil war. Catone’s conceptions are
certainly known to the circle of T., whose own life of the hero may be
Plutarch's immediate source. When they debate whether T. should appear in the
senate to answer the capital charges against him, the question is essentially
what course it is fitting – “deceret” -- for him to take, if he were to be true
to the course of behaviour he had pursued without a break for so many years. Another
man even within his circle is not bound to the same intransigence. Similarly,
his friend, PACONIO, says that any one who so much as thought of going to
Nero's games should go, but his own 'persona' did not allow him to consider the
possibility. ELVIDIO PRISCO is for Epictetus the shining example of a man who
was true to his persona. This sort of conception is indeed ascribed to men who
are not known to have embraced the Stoic creed, just as the word 'persona' is
sometimes used unphilosophically in a way compatible with Panaetius' doctrine
but not derived from it. These are further indications that his doctrine
corresponded closely with the thought and behaviour natural to traditional
Romans. The concept is found in ORAZIO as well as in all the later Stoic
writers, Seneca, Musonius, Epictetus and Marcus (and indeed elsewhere); though
sometimes they think more of the special duties that were imposed on the
individual by his place in the world or his vocation than of those which flow
from his inborn propensities and disabilities, a few texts show that that part
of Panaetius' doctrine was not wholly forgotten. The idea of decorum also
survives in the attention still devoted to etiquette, to seemly ways of
walking, talking, laughing, dressing, behaviour at the table and even in bed,
for all such behaviour was considered an outward manifestation of the
disposition of the soul. It is characteristic that Epictetus would rather have
died than shaved off the beard that symbolized his role as a philosopher. In
all these precepts we find the assumption that the moral law required
performance of traditionally accepted duties and respect for conventions. After
telling his readers that the poet can discover how to treat his personae
appropriately by learning the duties that belong to the citizen, friend,
father, brother, host, senator, judge and general, Horace adds: respicere
exemplar vitae morumque iubebo doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces.
For the Stoics a virtuous disposition necessarily issued in virtuous activity.
All had to perform their duties within that City of Gods and men which was not
a city in any ordinary sense, nor a world-state that might one day be brought
into being, but the providentially ordered Universe in which all live here and
now. However, political activity could certainly be included among these
duties. From the first the Stoic fathers had taught that the wise man would take
part in public affairs, if there were no hindrance. Indeed it was a famous
Stoic paradox that only the wise man was a king or statesman; he alone
possessed the art of ruling, whether or not he had any subjects, just as only
the doctor has the art of healing, even if he has no patients. His principal
aim in politics would be to restrain vice and encourage virtue, ' although he
would also necessarily be concerned with the 'things of value' and would treat
wealth, fame, health etc. as if they were goods. But it could hardly fail to
influence his attitude to such objects of endeavour that he was always to remember
that his efforts to promote them might fail, and that failure or success was
unimportant; they were not truly goods. As Epictetus observed, 'Caesar seems to
provide us with profound peace... but can he give us peace from love or sorrow
or envy? He cannot'. And yet blessedness comes only from such spiritual peace.
In the real world, according to Chrysippus, all laws and constitutions were
faulty. He once despairingly said that if the wise statesman pursued a bad
policy he would displease the gods, if a good policy, he would displease men.
So too Seneca could suggest that there was no state which could tolerate the
wise man or secure his toleration. However, such pessimism did not represent
the final judgement of the Stoa. It was recognized, most emphatically by
Panaetius, that the state answered human material needs and fulfilled men's
natural and reasonable impulse for co-operation." It would hardly have
been consistent with the Stoics' faith in providence if all or most existing
states had been irremediably evil. Did not the mere existence of any given form
of institutions perhaps imply that those institutions served a worthy purpose
in the divine economy? At any rate there is no evidence that Stoics condemned
any political system as such; for instance what they disapproved of in the
tyrant was not his absolute power but his abuse of it. We are told that it was
particularly (though not exclusively) in states that exhibited some progress
towards perfection that the wise man would be active. Progress must here be
construed in a moral sense, of states that tended to imbue their citizens with
virtue. Old Sparta apparently evoked Stoic admiration, because of the strict
and simple life prescribed by Lycurgus. Sparta was also most often cited as an
instance of that mixed or balanced constitution which won the approval of many
ancient thinkers, perhaps above all for its stability. In the individual
stability of purpose was for Seneca a mark of moral progress, s and perhaps
stability was also a Stoic criterion for judging constitutions. Certainly we
are told, without explanation, that the old Stoics preferred a mixed
constitution. Panaetius is often held, with no certain proof, to have commended
the Republican system at Rome for its balance,' and the historical work of his
illustrious successor, Posidonius, was probably biased in favour of the Roman
aristocracy. At Sparta Cleomenes I, who professed to be re-establishing both
the old austerities and the old political balance, enjoyed the assistance of a
Stoic counsellor. Cato could probably have cited Stoic texts to justify his
struggle to preserve the Republic. On the other hand Stoics did not condemn
monarchy in theory. Some scholars even suppose that they gave it their special
approbation. No doubt rule by a Stoic sage would have been in their eyes the
best form of government. That may be one reason why several of the early Stoic
masters wrote treatises on kingship. Yet, given the rarity of the sage, it must
have seemed a remote possibility that if he emerged at all, he would also
happen to obtain sovereign authority. Probably these treatises were intended to
depict the perfect ruler as a model for contemporary kings. Conceivably, like
Seneca in the de clementia, their authors did not insist over much on the gulf
that divided actual rulers from their ideal. Moreover, a philosopher had the
best hope, so it might seem, of effecting what he thought right as the minister
of an autocrat, and since kings enjoyed great power in the Hellenistic world,
Stoics who were ready to engage in political activity entered their service;
this was only natural. However, once the aristocratic Roman Republic had become
dominant, they were no less prepared to attend and advise men of influence at
Rome. Panaetius was an intimate of Scipio Aemilianus, and Tiberius Gracchus and
Cato had their Stoic counsellors. Only after Augustus did monarchy become the
one system towards which for practical purposes a Stoic needed to define his
attitude. The precepts and examples of the early masters of the school did not
require him to reject it on doctrinal grounds; how indeed could he have done
so, without impugning the dispensations of Providence? At a merely empirical
level Tacitus reluctantly conceded that it was in the interest of peace that
all power should be conferred on one man; he had been anticipated, a century
earlier, by Strabo, who was an avowed Stoic. Seneca argued that the struggle
for Republican freedom had been futile, and not only his career but those of T.
and Helvidius, men of firmer resolution, indicate that their principles did not
lead these Stoics to condemn the Principate as such. The wise man would not be
hindered from participating in public life by any form of government, yet under
any form he might conceive that he had a higher duty to a vocation of
philosophic investigation and teaching his fellows by precept and example,
besides fulfilling the obligations of private life." And under any form he
might also see that he had no opportunity for effective political action,
because of the wickedness of those in high places at the time. The doctrine
that the goodness of every act lay in the disposition from which it was
performed and not in its results did not require Stoics to engage in an
undertaking doomed to fail ab initio; the wise man would not take a leaking
ship to sea, nor, if unfit to fight, enlist in the army. Under a tyranny he
simply could not do any service. As for the ordinary man, there were reasons
why he might abstain from public affairs which did not apply to the sage. By
definition the latter had already attained to that perfect understanding and
virtue to which others at best aspired. But the pre-occupations of a busy public
career might be sufficient of themselves to prevent imperfect men from ever
reaching that goal. Seneca could hold at times that it was justifiable for a
man to retire from long public service to private duties and to care of his own
soul, at times that the whole of his life was not too long for this task, all
the more because his example could be beneficial to others. The sage too was
impregnable in his virtue, which he could hardly lose, but in other men moral
progress might be impeded by what St. Paul calls 'evil communications' (I
Cor.). Moreover, even when arguing that a man should normally undertake public
duties, Seneca concedes, in a way reminiscent of Panaetius' emphasis on
individual endowments, that he might be debarred not only by his physical,
intellectual or pecuniary resources but also by his temperament; he might be
too sensitive or insufficiently pliable for life at court, too prone to
indignation, or to untimely witticisms that showed high spirit and freedom of
speech but would only do the speaker harm. Again, as Panaetius had also held,
he might be suited only to contemplation, not to public affairs; and
'reluctante natura, irritus labor est'. None of these considerations applied to
the sage, who was omnicompetent and impervious to what others would regard as
insults or injuries. Seneca's views on the propriety of a political career are
self-contradictory, but the assumption that these contradictions can be
explained simply by the hypothesis that he recommended otium only when his own
political prospects were impaired and political activity only when himself
engaged in public affairs, hardly fits the fact that we find the same antinomy
in the sermons of Epictetus and the Meditations of Marcus. Seneca's advocacy of
quietism reflects one important aspect of Stoic influence. Epictetus recognizes
of course that men are bound to perform the duties that arise from their social
relationships, but he is much more insistent on the ultimate worthlessness of
all those secondary goods to which activity in the world is inevitably
directed. A man of a certain station should take office, but it is wrong for
him to set his heart either on holding it or on freedom from its cares; it is significant
that he should think it necessary to warn his pupils against yielding to both
these kinds of pestic Ofeis i a is les kiy Fallivan my police it cno doubt
because no good man would submit to the humiliations on which advancement
depends;? the few whose aim is to bring themselves into a right relation with
the divine earn the mockery of the crowd, and they can hardly pursue their aim
as procurators of Caesar. Epictetus was himself a former slave with no chance
of a public career, but it is plain that his audiences were mainly drawn from
the upper class, some of them aspirants to a career at Rome, like the young
Arrian who took down his words.' In fact Epictetus' own low social station and
the academic character of his way of life may have made him less conscious of
the dangers of evil communications than Seneca had been, even though two of his
diatribes are devoted to the theme (n. 69). We also find a greater serenity in
his teaching than in Marcus' reflections. When Marcus looked back to the time
of Vespasian or of Trajan, he saw a world in which men were engaged in flattery
and boasting, suspicions and plots, praying for the death of others, murmuring
at their own lot, given to sexual passions, avarice and political ambition. It
was the same in his own court. More than once he dwells with loathing on the
dark qualities of those who surrounded him, the emptiness of their aims, their
longing for the death of 'the schoolmaster', though he had so greatly toiled,
prayed and thought on their behalf; indeed death would be a release, the more
merciful, the earlier it came. However, Marcus had his duty to perform; he was
set over mankind as the ram over the flock or the bull over the herd (ibid). No
other vocation (inó®ois) is so suited to philosophy, that is to say, to the
exercise of a reason which has accurately established the rationality of nature
and of all that life contains. But it is evidently by a conscious effort that
Marcus reconciles himself to the place Providence has assigned him, and he can
also say that his role impedes him in the pursuit of philosophy." The general
character of his Meditations shows that his inclination was to ponder on the
divine order and his own relation to it rather than to consume his energies in
'the daily round, the trivial task' which, nonetheless, furnished him on his
own principles with all his reason required him to ask. Those principles taught
him that the wise man would serve the state, if there were no external
hindrance. But an autocrat could plead no hindrance, so long at least as his
natural capacities permitted him to render good service. All the same we can
see how a man of Marcus' temperament, set in some lower station, must have
preferred that life of contemplation which in the end Seneca had pronounced the
best. Thus the more seriously Stoic teaching was accepted, the more ardent in
some minds must have been the desire for retirement and meditation, at most
combined with the performance of inescapable private duties. Whether Stoics commonly
yielded to this desire, as some of their critics averred (p. 9), we cannot say;
our records can hardly be expected to commemorate lives of quiet seclusion;
Sextius is a rare example, known by name (n. 10). It is with others that we
must henceforth be concerned, men who thought themselves bound by their
principles to enter public life, who believed what Seneca once said (ep. 96,
5),'vivere militare est', and who tried to play the part, or to occupy the
station, to which they had been called by birth and ability. This Stoic concept
of the individual's station was applied, as Koestermann showed long ago, to the
emperor himself. Augustus seems consciously to have adopted it, probably under
the influence of the Stoic Athenodorus; this was known to such panegyrical writers
of the time as Ovid and Velleius. Claudius too appears to have spoken of his
station, and in his reign and Nero's the notion is found in Seneca and Lucan.
Tacitus referred to Vespasian's station, Pliny to Trajan's. Pius himself also
employed the term. It survived into the fourth century.? Curiously, Koestermann
failed to observe that the idea is implicit in Marcus' Meditations. Pius,
according to Marcus, always acted in the way which had been appointed for him.
He exhorts himself to let the god within him be lord of a living being, who is
a male, a Roman, a ruler, who has taken up his post, as one who awaits the
signal for retirement from life, fully prepared. He has to carry out the task
set him like a soldier storming the breach. Similarly he speaks of his 'place'
in the world, or of his 'vocation'; like all men, he has tasks to perform,
proper to his own constitution and nature, and 'as Antoninus, my city and
fatherland is Rome'; he must be strenuous in doing his duty, acts of piety and
benefit to men, like Pius before him. He is a sort of priest and servant of the
gods, and this makes him, rather like the Pope, a servant of men; he regards
his life as a 'liturgy' or as 'servitude'. Long before, Antigonus Gonatas under
Stoic influence had described kingship as 'noble servitude', and Seneca had
applied this to Nero's position. But what were the particular duties that
Stoics attached to the station or role of the emperor? According to Seneca he
is to be 'vigilant for the safety of each and all'. He belongs to the state,
not the state to him.® Seneca recommends Nero to win his subjects' consent,
respecting public opinion 3 and freedom of speech,* and to observe the laws.
Under the good ruler justice, peace, morality ('pudicitia'), security and the
hierarchical social order ('dignitas') will be upheld, and economic prosperity
will be assured.& The greatest stress is of course laid, for reasons not
hard to discern, on clementia. But it is everywhere implicit that the emperor
should be guided by traditional standards and objectives accepted by his
subjects. Marcus accepted similar criteria. Marcus adjures himself to do
everything as a pupil of Pius, to emulate his justice, beneficence, clemency,
piety, frugality, his respect for the opinions of others combined with firmness
and foresight in making his own decisions, the purity of his sexual life, his
mildness and cheerfulness, his civilitas, and so forth. Marcus himself
continually reflects on two themes, the providential order of the world and the
duty incumbent on all men to perform acts of fellowship (praxeis koinônikai), a
duty that springs from man's place in that order." This creed undoubtedly
supplied him with a deeper sense of the value of the virtues that Pius had
exemplified, not least his untiring devotion to work. 'Rejoice and take thy
rest in one thing, proceeding from one social act to another, with God in mind'
(VI 7). There was no novelty in all this. For instance, Hadrian's procurators
had proclaimed the 'indefatigable care with which he is unceasingly vigilant
for the interests of men'. Fergus Millar has illustrated at length the standard
of personal industry which was expected of emperors, though (I suspect) not as
often reached as his more unwary readers might suppose. Dio tells us that
Marcus himself was a hard worker who applied himself diligently to all the
duties of his office, who never said or wrote or did anything as if it were of
small account, but who would spend whole days, without hurrying, on the
slightest point, believing that it would bring reproach on all his actions, if
he neglected any detail. The assiduity always expected of an emperor was now
grounded in Marcus' own philosophic convictions. Recently a scholar has
censured Marcus for speaking of the obligations we have in the universal city
of gods and men without telling us what they are.? But for Marcus each man has
his own station in that city: his was that of Rome's ruler. He was not writing
a treatise to instruct others, but meditating privately on his own duties, and
he could have learned these, in conformity with Epictetus' teaching, by merely
considering the name of emperor which he bore; it told him that his task was to
do what was expected of an emperor. Numerous principles of government are in
fact implicit in his account of Pius, for instance in his allusion to Pius'
husbandry of financial resources. The same critic rightly observes that Marcus'
policy and legislation were largely traditional, and concludes that he was
basically a Roman rather than a Stoic. But the antithesis is false. I suppose
that it rests on a presupposition that Stoic teaching on the kinship of all men
as such ought to have made genuine believers critical of the existing order and
ready, when they had the power, to reform it. But at least after Zeno and
Chrysippus (n. 37) no Stoic thinker drew any such practical implications from
the doctrines of the school: their aim was to amend the spiritual condition of
individuals, not their material lot, nor the social structure. Epictetus held
that it was man's task not to change the constitution of things - 'for this is
neither vouchsafed us nor is it better that it should be' - but to make his
will conform with what happens." So too Marcus, vested with autocratic
power, tells himself 'not to look for a Utopia, but to be content if the least
thing goes forward, and even in this case to count its outcome a small matter.
"3 Marcus' portrait of Pius has special value for two reasons. First, as
the product of intimate familiarity and perfect sincerity, it shows us both
what Pius was in the eyes of one who had long worked with him closely and what
Marcus himself sought to be." It is thus infinitely more authoritative
testimony to the practice of Pius and to the ideals of Marcus than we possess
for any other ruler in the judgements of historians or in the propaganda of
panegyrics and coins. But, in the second place, if we leave on one side a few
merely personal traits and anecdotes, it presents a model that corresponds to
the conventional view of the good emperor that we can construct from such
evidence. The qualities that Marcus imputes to Pius are precisely those for
which other emperors take credit themselves or which are lauded by their
admirers or flatterers, and the judgements of later historians such as Tacitus
and Dio reflect the extent to which they considered these claims justified.
Augustus himself provided the prototype. There is thus no sign that Marcus
recognized any objectives that had not been pursued by those among his
predecessors who had earned the approval of the upper classes, or that his
doctrines either led him to question the established principles of imperial
policy or offered him any guidance in determining the objective content of his
actions. His philosophy inspired him to do what he thought to be right, but
what he thought to be right was fixed by tradition. His convictions made him
give the most conscientious attention to even trivial tasks, but that very
absorption can have left him the less time to re-examine the content of his
duties; probably it never occurred to him that such re-examination could be
needed. The principles and virtues he admired in Pius are almost the same as,
for instance, Pliny had ascribed to Trajan, and Pliny admits that they had been
attributed to all earlier rulers, Domitian included, though with less sincerity
and truth.? To take one example of the traditional character of the ideal,
Pius' firmness of purpose, his self-consistency, recalls the 'constantia' of
the Stoic wise man," but it was Tiberius who had proclaimed to the senate
his wish to be 'far-sighted in your affairs, constant in dangers, fearless of
giving offence for the public interest'. And in this same speech Tiberius
re-asserted his policy of treating all Augustus' words and deeds as having the
force of law. That was known even to a provincial contemporary; Strabo remarked
that he had made Augustus the standard for his administration and commands.' It
was by that standard that each of peror our or prided, a deo which the syst a
uration of y ravis a adjustments had from time to time to be made, but it
developed slowly and almost imperceptibly from a sequence of new expedients
rather than from any deliberate pursuit of reform. Deliberate innovation was
characteristic only of those emperors whose policy was reversed after they had
been overthrown. There are certain features in Marcus' imperial ideal which are
highly relevant to the attitudes that Romans of rank might be expected to adopt
towards the emperor and his service. Pius had disliked pomp and adulation and
treated his friends as one gentleman treats another; Marcus warned himself not
to be 'Caesarified'. This civilitas may seem to be no more than a matter of
etiquette, but Panaetius had already elevated sensibility for the feelings of
others into a moral obligation, and the more indes-tructibly absolute the real
power of the emperor appeared, the more the upper class at Rome prized the
semblance of his being no more than the first citizen. Perhaps nothing in
Domitian's conduct so enraged them as his claim to be 'God and Master' and the
behaviour that went with this claim. Moreover, civilitas generally accompanied
and conduced to something of more political significance, the emperor's
readiness to tolerate free expressions of opinion and to listen to advice. Both
Pius and Marcus were notable for respecting such 'libertas' (even though there
is no good reason to think that Marcus did not reserve the final decision to
himself). 1a Such respect was demanded of emperors by senators, and it could be
seen as an indispensable condition of their performing their own role in the
service of the state. In name at least the imperial senate retained the highest
responsibilities. Augustus had pretended to restore the old Republic, and it
could even be said of him and of Tiberius that they had revived the maiestas of
the senate. On Republican principles, as stated by Cicero, that should have
meant that the senate was once again the ruling organ of the state with the
magistrates as its servants;1°4 of these the princeps could no doubt be regarded
as the first. In theory he was to be the public choice ('vocatus electusque a
re publica'), and Tiberius expressly acknowledged that it was the senate which
had entrusted him with his wide powers; like Augustus, he would not allow
himself to be styled dominus, but actually addressed the senators as his 'bonos
et aequos et faventes dominos', 105 In outward appearance the majesty of the
senate had been enhanced by new judicial, electoral and legislative
prerogatives, and the privileges of its members were sedulously preserved or
extended. At his accession Tiberius had professed to desire that the functions
of government discharged by Augustus should be more widely shared; later he
censured the senate for casting the whole burden on the emperor; he disliked
flattery, and at least pretended that senators should speak their minds; in his
reign, as under Augustus, 108 there remained what Tacitus calls vestiges of
free speech in the senate. Tiberius began by consulting it on all matters,
however weighty;''° it was still expected to be the great council of state.
Gnaeus Piso, renowned for his free speaking, urged that it would be proper
('decorum') for the senate and Equites to show that they could assume the
burdens of government in the absence of the emperor.!" The reigns of
terror in Tiberius' later years and under several of his successors in the
first century cowed most members, but the emperors continued, however
insincerely, to treat their constitutional rights as unchanged. Claudius could
tell the senate that it was 'minime decorum maiestati huius ordinis' that its
members should not all give their considered opinions. Pliny tells how Trajan
exhorted them to resume their liberty and 'capessere quasi communis imperii
curas'; we may be sure that 'quasi' was inserted as discreetly by Pliny as it
had tactfully been omitted by Trajan. This was not new, as he remarks; every emperor
had said the same, though none had been believed before. Thus in theory the
senate remains the great council of state, and just as a conscientious emperor
could conceive that he was bound to perform the traditional duties of his
station as ruler, so conscientious senators could take seriously the fulfilment
of the responsibilities that the emperors themselves continued to recognise as
constitutionally belonging to their order. Under Nero T. saw it as his duty
'agere senatorem', to play the role of a senator. At the outset of his reign in
Nero declares that the senate should retain its ancient functions, lis and, until
the conspiracy of Piso, most senators are
free from the terror that hardly abates in the previous generation. Nero's
victims in these years consisted almost wholly of the few who stood too near
the throne. T. has some ground for hope, not least in the influence of Seneca, that
there is now a place for senatorial freedom. T.’s first recorded initiative
consists in unsuccessful opposition to a motion permitting Syracuse to exceed
the appointed number of gladiators for a show. T. is standing for the old
order. T’s critics urge that an advocate of senatorial liberty should devote
himself rather to great questions of state. T. replies that, by attention to
the smallest matters, the senate shows its competence to deal with the
greatest. To T., virtue is manifest in EVERY ACTIVITY ALIKE. We may recall
Marcus' attention to detail and insistence that it was of value if the least
thing went forward. T. also shows his care for good government by assisting the
Cilicians to obtain the conviction of an oppressive governor. Yet T. is to
inveigh against the 'novam provincialium superbiam', manifested in the power
some subjects possessed, to secure or prevent votes of thanks to governors in
provincial councils. It is shameful that
'nunc colimus externos et adulamur'. This solicitude for the superior dignity
of a senator is no more inconsistent with T’s belief in the common humanity of
all men, irrespective of their status, than their failure to challenge the
institution of slavery, or indeed to promote strict equality before the law
among free men. They never expressed disapproval of degree, priority and
place', which were such marked features of the Roman social structure and which
they could not have regarded as incompatible with the providential order of the
Universe. Not that T. is showing indifference to the true interests of the
provincials. It is the 'praevalidi provincialium et opibus nimiis ad iniurias
minorum elati' whom T seeks to check. Tacitus makes T. aver his care for good
government on this very occasion. T.’s sincerity need not be doubted. And, in
all probability, T.’s motion, which was approved after reference to Nero, is
beneficial. Once again it only extended the principle of a senatus consultum of
Augustus' time. Already T. walks out of the senate rather than assent to the congratulations
it proffers to Nero on Agrippina's murder. T. also shows less enthusiasm than
Nero desired for the ludi luvenales. T.’s enemies suggested that it is
inconsistent that T. himself performs in the garb of a tragic actor in his home
town of Padova. But the ludi cetasti which T so honours are of ancient
institution, ascribed to Antenor, and it is very possible that T. does no more
than tradition requires. By contrast, Nero's histrionic performances are a
hated novelty. Ordinary Romans came to detest Nero no less for his breaches of
convention than for his crimes; 'I began to hate you' Subrius Flavus told him: 'once
you appeared as the murderer of your mother and wife, as charioteer, actor and
incendiary' It was typical of a Stoic to disapprove of departures from the old
mores. Yet T. still does not despair. What Seneca could excuse, T. overlooks. T.
advocates a mild penalty for the praetor, Antistius, accused of treason because
he had published poems libellous of the emperor. The senate should not impose
sentence of death 'egregio sub principe', when it was free to make its own
decision and could opt for clemency. Even flattery of Nero was justified in a
good cause, and in fact Seneca's old pupil was not yet ready to disregard the
maxims of his master. Long assiduous in attending the senate, T. at last withdraws,
though he still performs private duties to his clients in the courts, in the
manner Seneca recommends. There is no vestige of evidence that T. conspires. But
T.’s retirement implies that, in his view, the regime is irretrievably corrupt,
since his previous devotion to public affairs showed that it could not be set
down to 'ipsius inertiae dulcedo.’ It may seem strange that his friends,
Arulenus Rusticus, tribune, and Helvidius Priscus, did not retire with T. But
each Stoic had to make his own decision, true to his own persona. T.’s conduct
marks Nero as a tyrant. It may be construed, and genuinely felt, as a threat.
Tyrannicide was esteemed in antiquity as not a crime but a noble deed. In an
extreme case, according to Seneca, it was an act of mercy to the tyrant
himself. The poet, Lucan, who was tinged with Stoicism, had been implicated in
Piso's conspiracy,and that was the occasion for the banishment of Musonius,
though there was apparently no evidence of his guilt. In general, there is no
ground for thinking that Stoics turned to plotting against the emperors of whom
they most profoundly disapproved. Epictetus merely insists that no commands of
the tyrant can affect true freedom; a man can always choose to obey God rather
than Caesar. Thus he only contemplates passive resistance. T. goes no further,
and perishes on that ground alone. Under DOMIZIANO too Arulenus Rusticus,
called an ape of the Stoics, is said to have suffered death merely for his
laudation of T., Herennius Senecio for his biography of the elder Helvidius and
for failing to pursue the normal senatorial career, and Helvidius' own son for
his withdrawal from politics and for alleged libels on the emperor; by what
they did not do, and sometimes by what they said, these men had indicated that
Domitian was a tyrant, no more, but that was sufficient offence. The elder
Helvidius, T.'s son-in-law, undoubtedly went further. Exiled by Nero and
recalled by Galba, he was encouraged by Vitellius' practice of consulting the
senate even on minor matters to controvert the emperor's proposals, and new
hope was brought by the accession of Vespasian, a friend of T.. At first
Helvidius spoke of T. with honour but without insincere adulation. He judged
that the time had come for independent action. The senate should indeed
'capessere rem publicam', all the more, as Gnaeus Piso had once held because
the emperor was absent. Helvidius proposed that the senate should take
immediate measures to remedy the deficiencies of the treasury and to restore
the Capitol, a task in which Vespasian might merely be asked to assist. By
selecting deputies to congratulate the new ruler it should mark out the men on
whom Vespasian should rely for advice. Equally the great delators of Nero's
reign, such as T.’s accuser, Eprius Marcellus, should be punished. Perhaps the
motives for this demand made by Helvidius' friends as well as by himself were
vindictive; we cannot read their minds. But we may see a justification that
went beyond rancour, one of the same kind that lay behind the impeachments and
Acts of Attainder that served to promote the development of a constitutional
monarchy in our own country; the punishment of wicked ministers of the past
might deter their like in the future. Helvidius' aim was surely to ensure that
Vespasian and his successors should rule by the advice and consent of the
senate and of those it trusted. His initiatives found insufficient support. 136
It was in the same year after Vespasian's return that the fatal conflict began.
According to Dio Helvidius incurred Vespasian's hatred partly for abusing his
friends - that is easy to understand, for Eprius was again in high favour - and
still more for turbulence in rousing the people with denunciations of monarchy
and praise of a Republican system. 138 That is not to be believed. Long ago
Helvidius had consented to serve the Principate; he had recently approved of
Vespasian's accession, and rabble-rousing was as alien to Stoic practice as it
was futile. Probably Dio confused Helvidius' attachment to libertas, an
ambiguous word, with Republican allegiance. 139 But the breach was serious: it
led first to Helvidius' arrest and then to his banishment and execution, of
which Vespasian himself is said to have repented. He must in the emperor's view
have been guilty of treason. But in what way?Dio, in making out that Helvidius
appealed to the rabble, probably associates his opposition with the expulsion
of Stoic and Cynic philosophers that occurred about the same time. It is highly
probably that some Cynics under the Principate did assail monarchy and the
whole social order. This view indeed hardly fits the notion that there was a
'Cynic-Stoic' theory of kingship, but that notion should surely be discarded.
Just as the Cynic 'citizen of the world' was a man who rejected the ties of
citizenship in any particular state, so the Cynic 'king' was one who truly
possessed the unfettered freedom that was falsely ascribed to autocrats; both
conceptions were moral, not political.140 In any case Cynics and Stoics ought
not to be confused, though some Stoics, notably Epictetus, undoubtedly admired
the true Cynic's indifference to worldly goods; but not even Epictetus held
that it was right, except for a few persons with a special vocation, to neglect
ordinary social and political obligations. 14 But just because there was a
certain measure of agreement between Stoics and Cynics, and because there were
a few Stoics who could be called 'paene Cynici' (n. 37), it was easy for the
enemies of aristocratic Stoics to resort to malicious misrepresentation of
their attitudes. Thus the accusers of T. had suggested that his attachment to
liberty was a mere pretence that concealed anarchic designs inimical to the
Roman peace. Tacitus' detailed account of his actions disposes of this calumny.
Unfortunately, Tacitus' evidence of Helvidius' quarrel with Vespasian is lacking, and Dio,
usually unsympathetic to philosophers, probably adopted uncritically somewhat
similar allegations against him. It is not in the least likely that a man of
mature age whohad sought to uphold the authority of the senate and had
previously been ready to serve emperors now threw over all his past convictions
and engaged in attacks on the whole established order. Epictetus (n. 152) and
Tacitus (n. 22) depict him as true to the last to his own role as a senator. We
must then look for another explanation. Dio's epitomator collocates Helvidius'
quarrel with Vespasian with an incident in which Vespasian left the senate in
tears, saying that either his sons would succeed him or no one would. It is an
old conjecture, which I would endorse, that Helvidius objected to Vespasian's
manifest intention to pass on his power to his sons. Once Titus had actually
been invested with imperial power as his father's colleague in 71, Helvidius'
protests could plausibly have been construed as treason. If this explanation be
true, we can see that there was right on both sides. Constitutionally the
choice of a princeps lay with the senate, and a man was to be chosen in the
public interest as the person best fitted for the task. There was no reason to
think that Titus or Domitian fulfilled this criterion. In practice the succession had been dynastic
from the first, and it had given Rome a series of rulers, every one of whom in
senatorial opinion had proved a tyrant. The crimes and follies of Nero had
resulted in civil war that imperilled the very fabric of the empire. Galba
(having no heir in his family) had allegedly proclaimed a very different
principle: the adoption of the best man to be marked out by consent. 147 Yet
from the first Flavian supporters had seen in the fact that Vespasian had two
grown sons a guarantee of stability. Dynastic sentiment might count for little
in the senate, but it made a powerful appeal to the armies and the provinces.
'4) Not one of Vespasian's successors could afford to disregard this factor.
Marcus Aurelius admired Helvidius as well as Thrasea; from them he had learned,
he says, the conception of a state with one law for all, adminstered by the
principles of equality and free speech for all alike, and of a monarchy that
valued most highly the liberty of the subjects;150 yet he too made a worthless
son his successor. We need not think that this must be explained by Aristotle's
dry observation that it would be an act above human virtue for an absolute
king to disinherit his own son:151 dynastic succession was part of the
tradition that Marcus could think it right to accept.Epictetus illustrates his
thesis that every man has his own individual role to play by dramatizing a
confrontation between Helvidius and Vespasian. 'When Vespasian forbade him to
attend the senate, Helvidius replied, "It lies with you to exclude me from
the senate, but while I am a senator, I must attend". "Then attend,
but say nothing." "Do not ask my opinion and I will say
nothing." "But I am bound to ask your opinion." "And I am
bound to say what I think right." "But if you speak, I shall put you
to death." "When then did I tell you that I was immortal: You will do
your part and I mine. It is your part to put me to death, mine to die without
trembling, your part to banish me, mine to depart without repining.'" What
good did Helvidius do, asks Epictetus, as he stood alone? 'What good does the red
stripe do the mantle? What but this? It shines out (iopÉTTE!) as red, and is
there as a fine (koóv) example to the rest. Anyone but Helvidius would simply
have thanked Vespasian for excusing his attendance, but then Vespasian would
not have had to issue any prohibition; any one else would have sat in the
senate, inanimate as a jug, or have heaped on the emperor the flatteries he
wished to hear. '152 Helvidius had assumed a role, conscious of what his
personality required, had prepared himself to play it, and was resolved to play
it to the last. And his conception of that role was determined by
constitutional principles, to which indeed most men now rendered only lip
service. His stand was unsuccesstul. lo a Stoic that was of no consequence.
Similarly it is no valid criticism of T. that, in disapproving of Agrippina's
murder, he imperils himself without promoting the freedom of the rest. Not all
men have the same duties, and in any case you could not prescribe another's
conduct, nor could it affect your own blessedness. If my contentions are
correct, Stoics as such had no theoretical preference for any particular form
of government, monarchical or Republican. They acknowledged the value of the
state, and they accepted that an individual whose position in the world and
natural endowments permitted him to render the state some service had a duty to
take part in public life, but only under certain conditions. His preoccupation
with political activity must not be such as to impair his spiritual welfare,
and even though the value of every action derived wholly from the agent's state
of mind and not at all from the external consequences of the action, it was
senseless for a man to involve himself in public cares, if it were certain from
the start that he could achieve nothing so long as he acted as a good man should.
Thus Stoic teaching may have tended to induce many of its devotees never to
emerge from a quiet course of philosophic study and private duties: it
certainly led others to retire from public life, or to manifest their
opposition to the government, under rulers whose conduct violated moral rules.
These rules were, for the Stoics, those which were endorsed by their society.
It did not occur to them that the political principles that rulers were
commonly expected to observe might need to be reviewed. Each man had a role to
perform, a station to fill, the duties of which were fixed by general consent.
The good emperor, and the good senator, were bound to carry out these duties
conscientiously. It was this way of thinking that united Stoics in power and Stoics
in opposition. Hence, as the good ruler, Marcus could easily recognize the
merits of good subjects such as Thrasea and Helvidius, who had done their best
to play their own, different, parts in public affairs. If in politics success
is the standard of judgment, there was little to commend in men who did not
identify outward defeat with sheer futility, who admired above all the 'iustum
et tenacem propositi virum' and would have thought it praise enough to say that
si fractus illabatur orbis impavidum ferient ruinae, without even admitting
that there might be something unwelcome in the ruin of the world. Moralists may
find some comfort that history occasionally reveals men in high places ready to
do or endure anything for what they suppose to be right. The historian can note
that what the Stoics supposed to be right, what they could conscientiously
devote or sacrifice their lives to doing, was largely settled by the ideas and
practices current in their society, and that a Helvidius or a Marcus was inspired
by his beliefs not to revalue or reform the established order, but to fulfil
his place within that order, in conformity with notions that men of their time
and class usually accepted, at least in name, but with unusual resolution, zeal
and fortitude. T. was thus a Roman politician of the Porch persuasion. As a
member of the Senate, he fearlessly follows an independent line, and in the
process antagonised with Nerone, who eventually pressurises the Senate into
condemning him to death. T. duly commits suicide by opening his veins in the
presence of his son-in-law, Elvidio Prisco and Demetrio di Roma. He was a great
admirer of Catone Minore and wrote a biography of him. Publio Clodio Tràsea Peto. Keywords: portico, suicidio,
vita pubblica, vita privata, virtute, ius, principe, principato, reppublica,
senato, morale, diritto e moral. Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Trasea.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filiale della setta di
Crotone a Metaponto – Roma – filosofia italiana – Grice italico – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Metaponto). Abstract.
Keywords: Crotone, filosofia italica. Filosofo italiano. Metaponto, Bernalda,
Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasea. Keywords: la
setta di Crotone, filiale a Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasci:
la ragione conversazionale del colloquio lizio con me stesso -- filosofia italo-albanese
-- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Bisignano). Abstract. Keywords. Grice: “A good thing about
having a ‘colloquio con me stesso’ is that you don’t need to follow the
Cooperative Principle, or do you?! -- But while some such
quasi-contractual basis as this may apply to some cases, there are too many
types of exchange, like quarreling and letter writing, that it fails to fit
comfortably. In any case, one feels that the talker who is irrelevant or obscure
has primarily let down not his audience but himself. Filosofo italiano. Bisignano, Cosenza, Calabria. “Spera
in Deo”. Nato in una famiglia di origine arbëreshë. Essendo il primogenito
della famiglia e, dunque, contravvenendo alle regole del maggiorascato, a causa
della salute cagionevole venne avviato alla carriera ecclesiastica nel locale seminario,
proseguendo gli studi a Roma e Napoli. È nella città partenopea che si lega
particolarmente alla compagnia di Gesù divenendo uno dei confessori più vicini
a Isabella della Rovere, principessa di Bisignano. Per non essere distolto dai
propri studi filosofici si ritira volontariamente a vita privata, dapprima
nella Tuscia e poi ospite nel Castello di Proceno, presso Viterbo di proprietà
dei Sforza. Ancora nei primi professore una lapide marmore posta nella rocca ne
ricorda la sua permanenza. Da tale esilio usce in pochissime occasioni,
assistito dal nipote. Fu durante la reclusione nella rocca di Proceno che ha modo
di conoscere GALILEI ospite nel palazzo durante un suo viaggio verso Roma. Dopo
esser stato vescovo di Umbriatico,venne creato vescovo di Massimianopoli in
partibus infidelium da Alessandro VII. Saggi: “Colloquio con me stesso”, di Antonino.
Universam Aristotelis philosophiam; Summa Aristotelicha – LIZIO. Summa theologica
dogmatica. Tomassetti, Cenno storico sulla vita dell’illustrissimo T. (Roma); Nutarelli,
Proceno-Memorie storiche, Acquapendente, T., Amalfitani di Crucoli, erudito
italo albanese Professore or mai dimenticato, MIT Cosenza. Ferrante Marco Antonio Baffa
Trasci. Ferruccio Baffa-Trasci. Trasci. Keywords: “conversazione con me stesso”,
lizio, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trasci” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasillo: la ragione
conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Grice italo
-- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. philosophus rex, Antonino. Filosofo
italiano. the philosophy teacher or tutor of emperor TIBERIO. A Pythagorean and
member of the Accademia. Trasillo. Keywords: Tiberio, principe filosofo. Per H.
P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasimede: la ragione
conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia
della Basilicata -- filosofia italiana – Grice Italico – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Abstract. Keywords: Crotone. Filosofo
italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by
Giamblico. Trasimede. Keywords: setta di Crotone, filiale di Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trebazio: la ragione
conversazionale della repubblica romana e l’implicatura conversazionale del luogo
– Roma antica -- la filosofia romana – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Velia). Abstract. Keywords. Filosofo italiano.
Novi Velia, Salerno, Campania. È molto dubbio che si debbano prendere alla
lettera certe espressioni di CICERONE che accennano l’inclinazione di T. por la
filosofia dell’Orto. Provenne da famiglia agiata e pare che si reca a Roma per
darsi agli studi giuridici. Per raccomandazione di CICERONE, GIULIO CESARE
lo conduce nelle Gallie e si serve di lui per pareri giuridici. Ritornato a
Roma all’inizio della guerra civile, T. age da mediatore tra GIULIO CESARE e CICERONE. Nel conflitto fra CESARE e POMPEO,
T. si schiera col primo al quale rimase sempre fedele. Dopo la morte di GIULIO
CESARE, T. si reca spesso alla villa Tuscolana di CICERONE, ove gli caddero in
mano i "Topica" di Aristotele. Per contentare il suo desiderio di
avere chiarimenti di quella trattazione, CICERONE scrive il saggio omonimo che
dedica ed invia a T. In seguito T. segue
OTTAVIANO. ORAZIO dedica a T. una satira, in cui lo presenta come un
insigne giurista. T. venne nominato cavaliere o da GIULIO CESARE o d'OTTAVIANO. T.
è il maggiore giurista del tempo suo e ha come scolaro ANTISTIO LABEONE (si
veda). Scrive sul diritto civile e sulle religione, ma ci restano soltanto
citazioni di autori posteriori. T. probabilmente adere a un eclettismo simile
in parte a quello di CICERONE con forti caratteri dell’ACCADEMIA e del PORTICO,
ma non si può dire se accetta la scessi probabilista dell'ACCADEMIA. È in
stretti rapporti di amicizia e confidenza con GIULIO CESARE, OTTAVIANO, ORAZIO,
MECENATE, oltre che con CICERONE, col quale intrattenne un fitto epistolario e
che gli dedica i “Topica”. In qualità di giureconsulto, segue GIULIO CESARE
nelle sue campagne galliche, ricoprendo, anche se solo formalmente, la carica
di tribuno militare. E inoltre ascoltato consigliere d’OTTAVIANO ed ha notevole
fama quale maestro di MARCO ANTISTIO LABEONE (si veda), che, nella fase
evolutiva che dalla Res publica al Principato, è l'artefice di quel movimento
innovatore del diritto romano che e stato detto dei proculiani. Delle sue
numerose opere nulla si è conservato, se non le frequenti menzioni che di lui
si trovano nelle Pandette e nelle Institutiones del Corpus iuris civilis
giustinianeo. Da CICERONE e POMPONIO apprendiamo che è allievo a Roma di CORNELIO
MASSIMO (si veda). Secondo POMPONIO, la perizia giuridica di T. e maggiore
dell'eloquenza, arte in cui fu superato da qualcuno, come CASCELLIO, giuridicamente
meno dotato di lui. Potrebbe essersi avvicinato all'ORTO tramite PANSA,
una scuola dalla quale si sarebbe poi allontanato su sollecitazione di CICERONE
che la considera poco consona alle virtù civili e allo studio e alla pratica
del diritto. La questione ritorna poco dopo, quando CICERONE parla dei rischi
del disimpegno civico di T., in relazione al suo ruolo di patrono di Ulubrae, i
cui cittadini, in nome dell'amicizia tra i due, saputa della presenza
dell'oratore di Arpino, si sono mobilitati nel dare un'entusiastica
accoglienza. Nelle stesse righe, CICERONE già si mostra perplesso alla notizia
di un suo precedente avvicinamento, sulla scia di Selius, all’ACCADEMIA di
Carneade, della scessi, una tradizione filosofica un tempo seguita e apprezzata
da CICERONE, ma dalla quale, come si evince indirettamente anche dalla lettera,
egli aveva preso le distanze in favore di una sua particolare interpretazione
del PORTICO. Ha poi una notevole reputazione come maestro di MARCO
ANTISTIO LABEONE (si veda), che avrebbe ricoperto un ruolo importante nella cruciale
fase di svolta che portò dalla repubblica romana al principato. Nell’accanite
dispute dottrinarie che divisero in fazioni i giureconsulti dell'epoca, LABEONE
è l'iniziatore di quella corrente innovatrice che sarebbe stata detta dei proculiani. La
familiarità con CICERONE è testimoniata dall'intensa corrispondenza – XVII lettere
- nelle quali aleggia sempre un tono umoristico e confidenziale e da cui è
possibile attingere molte delle notizie sulla sua vita. Ecco come CICERONE,
probabilmente ospite di T. (o forse dell'amico THALNA) a VELIA in un viaggio
verso la Grecia, si rivolge all'amico assente. Tu però, se, come sei solito,
darai ascolto ai miei consigli, serberai i tuoi beni paterni, né lascerai il
nobile fiume Alento, né diserterai la casa dei Papiri. Cicerone. Velia, lettera
a T. in Roma. Da CICERONE proviene anche qualche annotazione critica sul
carattere di T., secondo lui troppo incline, a volte, ad atteggiamenti
presuntuosi e giudizi tranchant: come quando CICERONE, in mezzo ai brindisi,
viene messo alla berlina dall'amico sulla questione dell'esistenza o meno di
una particolare tradizione dottrinaria. L'esistenza della tradizione, a cui
peraltro nessuno dei due adere, vienne negata da T.. CICERONE allora, pur
rientrato tardi a casa, e tra i fumi dell'alcool, trova il tempo di puntigliose
ricerche in biblioteca per dimostrare la fondatezza delle sue ragioni e
rinfacciarle all'amico. Tratti caratteriali che CICERONE considera evidentemente
difetti e che non manca di rimproverare all'amico, in maniera anche piuttosto
aspra. E ora ascoltami bene, mio caro Testa [T.]! Io non so cosa ti renda
più superbo, se il denaro che ti guadagni o l'onore che GIULIO CESARE ti fa nel
consultarti. Conoscendo la tua vanità, possa io crepare se non credo che tu ami
più l'essere da GIULIO CESARE consultato piuttosto che da lui arricchito! -- Cicerone.
Roma, Lettera a T. in Gallia. CICERONE lo raccomanda come giureconsulto a GIULIO
CESARE, allora pro-console della Gallia, definendolo probo, modesto e dotato di
profonda conoscenza e dottrina dello ius civile. T. si une a GIULIO CESARE nella
campagna di Gallia venendo investito della carica di tribuno militare. Mostrandosi
poco attratto dalle faccende militari, sembra che GIULIO CESARE, pur
confermandogli la carica e la paga, lo avesse esentato dagl’oneri connessi. La
stessa cautela in materie militari lo dissuase dal seguire GIULIO CESARE in
Britannia, facendogli meritare ancora le frecciate di CICERONE che ironicamente
si chiede come mai un accanito nuotatore come lui non abbia voluto bagnarsi
nell'oceano. Poté quindi godere dei favori di GIULIO CESARE con il quale entra
in grande confidenza e al cui fianco resta fedele nel corso della guerra
civile. A proposito di tale confidenza è significativo un aneddoto, riportato
da SVETONIO, in cui GIULIO CESARE da prova di superbia e scarso rispetto verso
il senato romano ricevendo, senza neppure alzarsi, una delegazione senatoria
venuta a rendergli onori presso il tempio di Venere genitrices. In
quell'occasione GIULIO CESARE letteralmente fulmina T. con lo sguardo, per il
solo fatto di aver letto nei suoi occhi una poco gradita esortazione ad
alzarsi. Ha anche da GIULIO CESARE il delicato incarico di mediare con CICERONE
e con il tentennante SERVIO SULPICIO, nel tentativo, risultato poi vano, di
condurre i due dalla sua parte. Dopo l'assassinio di GIULIO CESARE alle idi di
marzo, si une alla cerchia d’OTTAVIANO e MECENATE, divenendo consigliere
giuridico del principe. Da POMPONIO apprendiamo che T. acquisce l'ufficio di
quaestor ma che il suo cursus honorum si ferma a quel gradino per scelta deliberate.
T. infatti, non volendo profittare della posizione privilegiata, rifiuta il
consolato offertogli d’OTTAVIANO. Si sa ad esempio che OTTAVIANO, dopo aver
dato personale attuazione a un fidecomesso formalizzato da un certo LUCIO
LENTULO attraverso codicilli, incaricò una commissione di saggi, fra cui T.,
dall'indiscussa autorità, di pronunciarsi sulla legittimità dei codicilli
stessi. Dalla stessa fonte apprendiamo che la favorevole risposta di T. e improntata
a un'argomentazione molto pragmatica. I codicilli, più informali di un vero e
proprio testamento, permetteno di dare efficacia anche alle disposizioni mortis
causa di quei cittadini romani che, impegnati in lunghi viaggi, non potevano
conformare le loro volontà nelle solenni formalità richieste al testamento. Ogni
sorta di scrupolo sulla legittimità dei codicilli sarebbe svanita quando
perfino il prestigioso LABEONE, allievo di T., ne avrebbe fatto personalmente
uso. Questa innovazione giuridica infranse la regola secondo cui le
disposizioni testamentarie dovessero essere integrate in un unico atto
unitario, che disponesse simultaneamente di tutti i beni. Da allora in poi è
possibile frammentare le proprie disposizioni testamentarie in una serie di
singoli atti scollegati. Alla cerchia di MECENATE appartene ORAZIO che
recalcitra, con tono leggero e confidente, ai pareri legali dell'amico sui
rischi insiti nella mestiere di poeta satirico. C'è di quelli cui sembro nella
satira troppo feroce e oltrepassare i limiti consentiti. T., dimmi tu che cosa
fare. Startene quieto. Dici che non devo scriver più versi affatto? Appunto
questo. Che mi prenda un malanno se non era questo il meglio. Però soffro
d'insonnia. La consulenza si sposta allora su un altro terreno. Coloro che han
bisogno di dormire attraversin tre volte il Tevere unti. A sera si bagnino di
vino. O se tanta mania ti forza a scrivere osa cantar le imprese dell'invitto
Cesare, e avrà compensi la fatica. ORAZIO insiste ancora. Non che gli manchi la
voglia ma i suoi mezzi poetici non li sente all'altezza del compito. T. sembra
inchiodarlo alla durezza della norma che non tollera ignoranza, ma poi si
arrende agli argomenti del poeta e conclude con un'interpretazione pragmatica. Tuttavia
vorrei darti il mo consiglio di stare attento, di restare in guardia che non ti
porti qualche seria noia l'ignoranza di leggi inviolabili. Se qualcuno abbia
scritto contro un altro versi cattivi sia condotto innanzi al tribunale e sia
data sentenza. Sta bene. Se cattivi; ma se buoni qualcuno li abbia scritti e
con la lode di Cesare che giudica la causa? Se qualcuno ha latrato, integro
lui, dietro a un altro che è degno di disprezzo? Saranno disarmate dalle risa
le leggi e tu sarai lasciato andare. -- Orazio, Satire. Gli scritti di T.
annoverano un De religionibus, in almeno X libri e un “De iure civili”. Delle
sue opere, che si conservavano ancora al tempo di POMPONIO, non ci è pervenuto
direttamente alcun frammento. Sappiamo tuttavia che e frequentemente citato dai
giuristi successivi come desumibile dalle occorrenze nelle Pandette e nelle
Institutiones del Corpus iuris civilis giustinianeo. La congettura sulla data
di morte si deve a Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen,
Böhlau Verlag. Tale datazione si basa sull'identificazione del LENTULO della
diatriba giuridica sui codicilli con il LUCIO CORNELIO LENTULO, pro-console
d'Africa. CICERONE pone mano a questa breve opera proprio su richiesta di T. Vi
si dedica, lavorando a memoria, nella tappa da VELIA a REGGIO di un suo viaggio
-- Si veda: Cic. ad familiares. La decisione di intraprendere questo viaggio è maturata
nelle turbolenze successive all'assassinio di GIULIO CESARE, volendo CICERONE
raggiungere la Grecia attraverso una lunga e inusuale, ma più sicura
navigazione litoranea che, dalle coste tirreniche, attraversasse lo stretto di
Sicilia. Cic. ad familiares. Pomp. Enchiridion, nel frammento incorporato
nelle Pandette giustinianee (The Latin Library). Un accenno a una possibile
vicenda epicurea di T. compare nell'epistola ad familiares 7.12 scritta dalle
paludi pontine. La notizia è riferita a CICERONE dallo stesso PANSA, allora in
Gallia e in procinto di diventare tribuno per il biennio 52-51 a.C. L'accenno è
inserito in una sorta di canzonatura, in cui Cicerone indulge all'ironia lieve
sullo scarso impegno di T. nella campagna di Gallia, quasi l'avesse scambiata
per una molle vacanza tarantina. ^ Altre fonti lo indicano invece come epicureo
seguace di Irzio, legato di Cesare in Gallia (che sarà console con Pansa). Si
veda Gravina. Origines juris civilis (De ortu et progressu juris civilis), riportata
in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napol. Ad familiares. L'accoglienza
degli ulubrani intenti a rendergli onore viene comicamente resa con l'immagine
fabulistica di un'orda di ranocchi gracidanti, in una lettera di poco
successiva (ad familiares). Sellius, comune amico dei due, fu un oratore le cui
doti non sono ritenute eccelse da Cicerone (Cic. ad familiares). Pomp.
Enchiridion, in: Pandette. Il riferimento, non chiaro, a Thalna è in una
lettera scritta da Vibo a Tito Pomponio Attico: ad Atticum. Dovrebbe trattarsi,
in questo caso, di persona sicuramente diversa dal Thalna nominato (o
pseudonimato) in ad Atticum, giudice corrotto ai tempi del famoso processo in
cui Clodio fu imputato e Cicerone testimone. È anche possibile che Cicerone,
nella corrispondenza, non facesse menzione dell'ospitalità offertagli a Elea da
Trebazio, per non compromettere l'amico. Cic. ad familiares. La disputa, per
inciso, riguardava l'esistenza di certe tradizioni giuridiche circa una
facoltà, in capo all'erede, di perseguire giudizialmente un furto avvenuto
prima della successione mortis causa. Cicerone tende ad imputare
l'atteggiamento così titubante -- e così poco saggio -- dell'amico agli
insegnamenti di Cornelio Massimo. ^ “studiosissimus homo natandi” -- così lo
definisce in ad familiares. Svetonio, Vite dei Cesari. Si veda, su Lacus Curtius
di Thayer. Il tentativo con Cicerone è in Plutarco, Vite parallele. Cicerone o
su Lacus Curtius. La notizia su Sulpicio è tratta dal già citato Biografia
degli uomini illustri del Regno di Napoli, che riprende, anche in questo caso,
il Gravina. Origines
juris civilis, Vol. 1, (De ortu et progressu juris civilis). Forse identificabile con Lucio Cornelio Lentulo,
console e pro-console d'Africa, morto in Provincia d'Africa (cfr. Kunkel,
Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Böhlau Verlag,
Institutiones. Sul prestigio di T. troviamo questo inciso: «cuius tunc
auctoritas maxima erat». ^ Si intende meglio il consiglio se lo si confronta
con l'immagine di un T. appassionato nuotatore, già ricordata in una precedente
nota (ad familiares. In questo caso
Augusto. In Orazio - Tutte le opere. Versione, introduzione e note di
Cetrangolo, Sansoni. Intratext Library. Macrobio, in Saturnalia cita infatti,
fra gli altri, il decimo libro della sua opera. Treccani – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ruiz, T., in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, T. su sapere.it, De Agostini. Opere di T. su
PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Portale Antica Roma
Portale Biografie Categorie: Giuristi romaniPolitici romani del I secolo
a.C.Giuristi del I secolo a.C.Persone delle guerre galliche[altre] A lawyer and
a friend of Cicerone. When he converted to The Garden, Cicerone writes to him questioning
whether being a gardener is compatible with belonging to the legal profession.
Trebazio is also the author of some works about the divine and its cult. Gaio Trebiano Testa. Keywords: I topica di
Cicerone, ius, IVSTVM, legge, Ottaviano, Labeone, satira, Orazio, religione,
ius civile, pragmatica del diritto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Trebiano
la ragione conversazionale dell’orto romano e l’implicatura
conversazionale del Grice italo – Roma – filosofia italiana – By Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract.
Keywords: edonismo, placitum. Orto. Lucrezio. Il secolo d’oro – Ottaviano. Filosofo italiano. Friend of CICERONE.
He takes an interest in philosophy and may have been a ‘Gardener.’ Trebiano. Keywords: Roma antica, l’orto. Per H.
P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Treves:
la ragione conversazionale dei giudici e l’implicatura conversazionale della giustizia
nella filosofia italiana – ventennio fascista – la scuola di Torino – filosofia
torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Torino). Abstract.
Keywords. IVSTVM. Grice: “Aristotle claims that IVSTVM is analogical. Ross's
suggestion about 'good' would, moreover, be at best only a description of one
special case of analogical unification, and would not give us any general
account of such unification. I might add that little supplementary assistance
is derivable from those who study general semantic concepts; such persons seem
to adhere to the principle that silence is golden when it comes to discussion
of such questions as the relation between analogy, metaphor, simile, allegory
and parable. So far as Aristotle himself is concerned it seems fairly
clear to me that tie primary notion behiad the concept of analogy is that of
'proportion'. This notion is embodied, for example, in Aristotle's
treatment of justice. where one kind of justice is alleged to consist in a due
proportion between return (reward or penalty) and antecedent desert (merit or
demerit) but it remains a mystery how what starts life as, or as something
approximating to, a quantitive relationship gets converted into a
not-quantitive relation of correspondence of allinity. It looks as if we might
be thrown back upon what we might hope to be inspired conjecture. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Compie gli studi al liceo AZEGLIO
(vedi) e poi nella facoltà dove entra in contatto, fra gl’altri, con BOBBIO, FOA,
LUZZATI, ENTRÈVES, e simpatizza con il gruppo di giustizia e libertà
abbracciando i principi del socialismo liberale. Si laurea sotto la guida di SOLARI con una tesi su Henri
de Saint-Simon. Insegna a Messina, dove viene arrestato per sospetta attività contro
IL REGIME FASCISTA. Trasferito a Urbino e escluso dal concorso bandito sulla
sua cattedra. Insegna a Parma, si trasfere a Milano. Protagonista della
rinascita post-bellica della sociologia in Italia, co-opera attivamente col centro
nazionale di prevenzione e difesa sociale e col suo segretario generale Argentine,
coordinando fra l'altro una vasta ricerca su “L'amministrazione della giustizia
e la società italiana in trasformazione” da cui escono volumi di vari filosofi.
Presiede questo comitato facendosi attivo promotore della sociologia del
diritto. Fonda la rivista italiana della
disciplina, di cui ottiene il riconoscimento accademico e che insegna a Milano.
Difende una posizione filosofica relativista e prospettivista, influenzata da
Mannheim, Mills e Kelsen, del quale ultimo introduce in Italia la dottrina pura
del diritto positivo. Alieno dal dogmatismo e paladino di una concezione
critica della scienza, rifiuta ogni visione metafisica del diritto in favore di
una visione metodologica che sfocia nella sociologia del diritto intesa come
scienza prevalentemente empirica, non avalutativa, ma ispirata a valori, nel
suo caso quelli di libertà e giustizia sociale -- è considerato insigne maestro
per un'intera generazione di filosofi e sociologi del diritto. Due sono i
problemi che la sociologia del diritto deve affrontare: da un lato la
posizione, la funzione e il fine del diritto nella società vista nel suo
insieme. Dall'altro la società nel diritto, cioè quei comportamenti effettivi
che possono essere conformi e difformi rispetto alle norme, ma comunque
forniscono informazioni su come una società vive le regole che si è data. Del
primo problema si sono occupate soprattutto le dottrine sociologiche e polito-logiche,
mentre sul secondo si sono soffermate le dottrine giuridiche anti-formalistiche.
Saggi: “Il diritto come relazione” (Torino); “Diritto e cultura” (Torino); “Spirito
critico e spirito dogmatico” (Milano); “Libertà politica e verità” (Milano); “Giustizia
e giudici nella società italiana” (Bari); “Introduzione alla sociologia del
diritto” (Torino); “Sociologia del diritto -- Origini, ricerche, problem” (Torino);
“Sociologia e socialism - ricordi e incontri” (Milano); “Dizionario biografico
dei giursti italiani” (Bologna, Il Mulino); Il magistero; in La Nuova
Antologia, Colombo, La lezione in La Nuova Antologia, FERRARI, FSociologo del
diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, in Ratio Juris, ss. FERRARI, GHEZZI, La scienza del dubbio.
Volti e temi di sociologia del diritto (Mimesis, Milano-Udine), Losano, Sociologo
(Unicopli, Milano); Marconi, Il legato culturale, in Sociologia del diritto, Tanzi,
dalla filosofia alla sociologia del diritto, ESI, Napoli, Nitsch, T. esule in
Argentina. Sociologia, filosofia sociale, storia. Con documenti inediti e la
traduzione di due scritti di T., Memorie dell'Accademia delle Scienze di
Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Sociologia del
diritto, Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. When it comes to The Debate
between Socrates and Thrasymachus in the Republic, We should bear in mind that
Grice’s purpose of looking at the discussion of Justice is to see if the
course of that discussioncould be looked on as a conscious, subconscious, or
unconscious venture by Socrates or Plato into the discipline of philosophical
escha-tology. The discussion begins with a pressing invitation to Socrates to take
part in an examination of the question "What is Justice?" It is clear
that despite the intrusion of distractions Socrates has not lost sight of this
focus. Two preliminary answers are put
forward; that of Cephalus ("to tell the truth and pay one's debts");
and that of his son Polemar-chus ("to give every man his due"). The
first of these answers seems to be an attempt to exhibit the nature of Justice
by means of its paradigmatic rules, while the second attempts to provide a
general characterization or definition. Socrates points out that even
paradigmatic rules allow of exceptions, with the consequence that a practical
principle will be needed to identify the exceptions; while Polemarchus's
suggested definition is faulted on the grounds that counterintuitively it
allows Justice on occasion to be exhibited in causing harm. It seems to be open
to Polemarchus to reply to Socrates that the connection of Justice with
punishment makes it questionable whether it is counterintuitive to suppose that
Justice sometimes involves causing harm. Indeed we might inquire why the
answers suggested by Cephalus and Polemarchus are given house-room at all if
they are going to be so cursorily handled. (3) The debate with
Thrasymachus. A number of different factors to my mind raise serious questions
about the role of this debate in the general scheme for the treatment of
Justice in the Republic. The quality of Thrasymachus's dialectical apparatus
seems to be (to put it mildly) not of the highest order. Socrates himself remarks that
in the course of the debate the original question ("What is
Justice?") becomes entangled in a confused way with a number of other
seemingly different questions such as whether the just life is the happiest
life (or is more, or less, happy than the unjust life), whether the just life
is worthy of choice, etc. What does Thrasymachus achieve beyond the generation
of confu- Socrates' replies to
Thrasymachus are by no means always intellectually impeccable; yet so far as I
can see, this fact is not pointed out. Glaucon and Adeimantus are dissatisfied with the
upshot of this debate and call upon Socrates to show that the just life is the
happylife, not making it clear what the connection is between this demand and
the answering of the original question about the nature of Justice. (e)
Socrates endeavors to meet the demands of Plato's older broth-ers, but to do
this, he resorts to the elaborate presentation of an analogy between the soul
and the state. What justifies the presentation, in the current context, of the nature
of this analogy? (4) Blow-by-blow details of the debate with
Thrasymachus. Round 1. Thrasymachus at the outset couples the thesis that
"jus-tice is the interest of the stronger" with the admission that
rulers are not infallible in their estimates of where the interest of the
stronger lies. As the comments of Socrates, Polemarchus, and Cleitophon make
clear, this leads Thrasymachus into an intolerable tension between the idea
that the edicts of the ruler command obedience because they spring from a belief
on the part of the ruler that obedience is in the interest of the stronger, and
the idea that obedience is demanded if, but only if, it would in fact be
conducive to the interest of the stronger. Thrasymachus seeks to repair his
position by distinguishing between (a) what the ruler commands and (b) what the
ruler commands qua ruler; the latter cannot but be conducive to the interest of
the stronger, though no such assurance attends the former. Though no one
points this out, the attempted escape seems to carry the consequence that
whether the ruler's commands do or do not call for obedience may be, and may
continue to be, shrouded in obscurity. But apart from this initial
confusion, the debate in Round 1 is characterized by a number of further
disfigurements or blemishes, responsibility for which may attach not only to
Thrasymachus but, by as-sociation, to Socrates. Some of these disfigurements or
blemishes may indeed also be visible in subsequent rounds. It is not made clear, nor
indeed is the question raised, whether the kind of justice under discussion is
political (or politico-legal) jus-tice, or moral justice. The general tenor of
Thrasymachus's remarks would suggest that his concern is with political or
politico-legal jus-tice. Indeed it seems not impossible that it is part of
Thrasymachus's position that there is no such thing as moral justice, that the
concept of moral justice is chimerical and empty. If this were his position, he
could be characterized as a certain sort of skeptic; but whether or not it is
his position should surely not be left in doubt. Thrasymachus nowhere makes it
clear whether he regards the popular application of the term "just,"
which Thrasymachus may not himself endorse, as a positive or a negative
commendation. Are justacts supposed to be acts which fulfill some condition
which acts should fulfill, or acts which are free from an imputation that they
fulfill some condition which acts should not fulfill? It is not clear whether
Thrasymachus's thesis that justice is the interest of the stronger is to be
taken as a thesis about the "nominal essence" or about the "real
essence" of justice. Is Thrasymachus suggesting that the right way to
conceive of justice, the correct interpretation of the term "just,"
is as signifying that which is in the interest of the stronger? Or is he
suggesting that whatever content we attach to the concept of justice, the
characteristic which explains why just acts are done and why they have the
effects which standardly attend them, is that of being in the interest of the
stronger? Thrasymachus seems uninterested
in distinguishing between the use of the word "just"
("right") as part of a sentential operator which governs sentences
which refer to possible actions (e.g., "it is just (right) that a
person who has contracted a debt should repay it at the appointed time,"
"it is just for a juror to refuse offers of bribes") and its use as
an epithet which applies to actually performed actions (e.g., "he
distributed payments, for the work done, justly"). The two uses are no
doubt intimately connected with one another, but they are surely
distinguishable. (e) Thrasymachus is not at pains to make it clear
whether the phrase "the stronger" refers to the ruler or government
(the official boss) or to the person or persons who wield political power (the
real boss). These persons might or might not be identical. As a result of
these obscurities the precise character of Thrasyma-chus's position is by no
means easy to discern. Round 2. At the end of Round 1, as it seems to me,
Socrates seeks to counter Thrasymachus's reliance on a distinction between what
the practitioner of an art ordains simpliciter and what the practitioner
ordains qua practitioner of that art, by suggesting that if we take this
distinction seriously, we shall be led to suppose that when the practitioner
acts qua practitioner, his concern is not with his own wellbeing but with the
well-being of the subject matter which the art con-trols; so rulers qua rulers
will be concerned with the well-being of their subjects rather than of themselves.
This contention seems open to the response that there is nothing to prevent the
well-being of the subject matter from being, on occasion, that state of the
subject matter which is congenial to the interest of the practitioner. This
indeed may be the tenor of Thrasymachus's outburst comparing the treat-ment of
subjects by rulers with the treatment of sheep by shepherds. If so,
Socrates does not seem to have any better reply than to suggest that the
dominance of concern on the part of rulers to obtain compensation for their
operations hardly supports the idea that it is common practice for them to use
their offices to feather their own nests; a response to which Socrates adds an
obscurely relevant demand for a distinction between the practice of an art
which is typically not directed toward the interests of the practitioner, and
the special case of a concomitant exercise of the art of profit-making, which
is so directed. Thrasymachus, however, complicates matters by introducing
a new line of attack against the merits of justice vis-à-vis injustice. He
suggests that in the private citizen justice (devotion to the interest of the
stronger, that is, of the ruler) is folly, while injustice (devotion to his own
interest) is sensible even if dubiously effective; while the grand-scale
injustice of rulers, as exhibited in tyranny, has everything to recommend it.
It is not clear that this manifesto is legitimate, since it is not clear that,
on his own terms, Thrasymachus is entitled to count tyranny as injustice; the
tyrant is not preferring his own interests to the interests of someone stronger
than himself, since no one is stronger than he. It is true, of course, that
while Thrasymachus may not be entitled to call tyranny injustice, he may be
equally not entitled to call it justice, since though the tyrant may be the
strongest person around, he is certainly not stronger than himself. So perhaps
Thrasy-machus's plea for injustice may turn out to be a misfire. Round 3.
In response to a query from Socrates, Thrasymachus recapitulates his position,
which is not that injustice is a good quality and justice a bad quality, nor
(exactly) the reverse position, but is rather that justice is folly or extreme
simplicity, whereas injustice is good sense. With this contention there is also
associated Thrasyma-chus's view that injustice implies strength, and that the
unjust life rather than the just life is the happy life. Socrates' reply
to Thrasymachus invokes arguments which seem weak to the point of feebleness.
In his first argument he gets Thra-symachus to agree that the just man seeks to
compete with, or outdo only the unjust man, whereas the unjust man competes
both with the just and with the unjust. Reflection on the arts, however,
prompts the observation that in general the expert competes only with the
inex-pert, whereas the nonexpert competes alike with the inexpert andwith the
expert, so it is the just man, not the unjust man, who runs parallel to the
general case of the expert, and who therefore must be regarded as possessing
not only expertise but also good sense. Among the flaws in this argument one
might point particularly to the dubious analogy between the province of justice
and the province of the arts, and also to a blatant equivocation with the word "compete,"
which might mean either "try to perform better than" or "try to
get the better off.” In the succeeding argument against the alleged
strength of injustice, Socrates remarks that injustice breeds enmity, observes
that efficient and thoroughgoing injustice requires "honor among
thieves," and concludes that a fully unjust man would in real life
be weaker than one who was less fully unjust. Maybe this argument shows that
the unjust man cannot, with maximum effectiveness, literally "go the whole
hog" in injustice; but this is far from showing that he should never have
started on any part of the hog. Finally, Socrates counters Thrasymachus's
claim that the unjust life, rather than the just life, is the happy life, by
getting Thrasymachus to agree that at least for certain kinds of things the
best state of a thing of that kind lies in the fulfillment of the function of
that kind, which will also constitute an exhibition of the special and peculiar
excellence of things of that kind; and also that justice is in the required
sense the special excellence of the soul; from which he concludes that justice
is the best state of the soul and as a consequence gives rise to the happy
life. This argument, perhaps, palely foreshadows Socrates' strategy in the main
part of the dialogue; but at this point it seems ineffective, since no case has
been made out why Thrasymachus should agree to what one would expect him to
regard as the quite uncongenial suggestion that justice is the special
excellence of the soul. (5) Transition to the main body of the Dialogue.
Glaucon and Ad-eimantus express dissatisfaction with Socrates' handling of
Thrasy-machus. Glaucon invokes a distinction between three classes of
goods: those which are desirable only for their own sake, those which are
desirable both in themselves and for the sake of their conse-quences, and those
which are desirable only for the sake of their con-sequences. He remarks that
it is the view of Socrates, shared by himself and Adeimantus, that justice
belongs to the second class of goods, those which are doubly desirable; but he
wishes to see the truth ofthis view demonstrated, particularly as the generally
received opinion seems to be that justice belongs to the third class of goods
which are desirable only for the sake of their consequences and have no
intrinsic value. He wishes Socrates to show that justice is desirable in
respect of its effect on those who possess it, independently of any rewards or
consequences to which it may lead. He wishes Socrates to show that it is
reasonable to desire to be just rather than merely to seem just, and, indeed,
that the life of the just man is happy even if his reputation is bad. Otherwise
it will remain feasible: that the institutions of justice are acceptable only
because they secure for us the greater good of protection from the inroads of
others at the cost of the lesser evil of blocking our inroads upon others, and that if the possession of
Gyges's ring would enable our inroads upon others to remain undiscovered, no
reasonable person would deny himself this advantage. Adeimantus reinforces the
demands expressed by Glaucon by drawing attention to the support lent by the
prevailing education and culture to the received opinion about justice as
distinct from the view of it taken by Socrates, Glaucon, and himself. Apart
from the tendency to represent the rewards associated with justice as really
attending not justice itself but the reputation for justice, Adeimantus
observes that even when the rewards are thought of as attending not merely the
semblance of justice but justice itself, the rewards are conceived of as
material and consequential rather than as consisting in the fact that justice
is its own reward. He also points to the fact that even when recognition that
it is injustice rather than justice which pays leads to the pursuit of
injustice and thereby to the incurring of divine wrath, the prevailing culture
and education teach that the gods can be bought off. So unless Socrates follows
the course proposed by Glaucon, he will be saddled with the charge that really
he agrees with Thrasymachus, that so-called justice is really pursuit of the
interest of the stronger, the strength of whose case lies in his command of the
big battalions, and that the so-called injustice involved in the alternative
pursuit of one's own interests is really inhibited only by the threat of force
majeure. In his attempt to accede to the demands of Glaucon and
Adeiman-tus, Socrates embarks on his elaborate analogy between the state and
the soul. The details of this presentation lie outside the scope of my present
inquiry, which is concerned only with the structural aspects of Socrates'
procedure.III. Does Thrasymachus Have a Coherent Position? When we operate as moral
philosophers in the borderland be-tween Ethics and Political Theory, one of the
salient questions which we encounter is whether there is a distinction between
moral and political concepts and how such a distinction, if it exists, should
be characterized. In this connection it will be of great importance to con-
sider the viewpoint of a philosopher, if such a philosopher can be found, who
maintains that there is no distinction, or at least no genuine distinction,
between moral and political concepts in this area or in some significant part
of this area. If it were possible without undue distortion to exhibit
Thrasymachus as a kind of moral skeptic—as someone who holds, for example, that
while political justice, or polit-ico-legal justice, is an intelligible notion
with real application, the same cannot be said of moral justice, which can be
seen to be ulti-mately an illusion-then it might be philosophically
advantageous to regard Thrasymachus in that way. We should examine, therefore, the
prospects of success for such an interpretation of Thrasymachus's po-sition.
Can he be viewed as one who regards political justice, but not moral justice,
as a viable concept? If we attempt to proceed further in this direction, we encounter a
difficulty at the outset, in that it is unclear just what concept it is which
the friends of moral justice suppose to be the concept of moral justice. Is the
term "moral justice" to be thought of as referring to moral value in
general, as distinct from other kinds of value? Or is the notion of moral
justice to be conceived as possessing some more specific content, so that,
while both fairness and loyalty are morally admirable qualities, only the first
can be properly regarded as a form of moral justice? And if the notion of moral
justice is to be supposed to cover only a part of the domain of moral value, to
which part of that domain is its application restricted? To the region of
fairness? To that of equality of opportunity? To that of respect for natural
rights? Rival candidates seem to abound. In the case of Plato's
Thrasymachus it seems that he, perhaps like Plato himself, is not disposed to
engage in the kind of conceptual sophistication practised by Aristotle and by
some philosophers since Aristotle; for Thrasymachus, the friends of moral
justice (on the as-sumption that the representation of Thrasymachus as a kind
of moral skeptic is legitimate) will be philosophers who treat the term
"moral justice" as one which refers to morality, or to moral virtue
in general,a usage which Aristotle also recognizes as legitimate, alongside the
usage in which "justice" is the name of one or more specific
virtues. If our program requires that we
try to represent Thrasymachus as a certain sort of moral skeptic, obviously one
part of his position will be that the concept of moral justice is unacceptable.
One or both of two forms of unacceptability might be in question, namely
alethic unacceptability and semantic unacceptability. The suggestion might be
that positive ascriptions of moral justice are never in fact true, and so are
always alethically unacceptable, or that such ascriptions, together perhaps
with their negations, suffer from some form of un-intelligibility, and so are
semantically unacceptable. Some indeed might contend that general alethic
unacceptability generates semantic unacceptability, that if a certain kind of
characterization is always false, that implies that that kind of
characterization is in some way unintelligible. Let us assume that the revised
presentation of Thrasy-machus will be one which, for one reason or another,
ascriptions of moral justice are semantically unintelligible. This assumption
will leave open a considerable range of possibilities with regard to the more
precise interpretation of the notion of semantic unacceptability, ranging
perhaps from the extreme suggestion that ascriptions of moral justice are just
gibberish, to the suggestion that they admit no fully successful rational
elucidation. Within the boundaries of this
position, the new Thrasymachus might perhaps hold that, though the concept of
moral justice is semantically unacceptable, a related concept, which we may
call "moral justice»," is fully admissible. Moral justice* is to be
supposed to have precisely the same descriptive content as moral justice;
ascrip-tions, however, of moral justice* will entirely lack the ingredient of
favorable valuation or endorsement which is carried by the term
"moral justice." It might, however, be objected that the proposed
separation of the descriptive content of moral justice from its evaluative
content is quite inadmissible; if we are looking for predicates which from an
ascriptive point of view are specifications of the general descriptive condition
for moral justice, but which at the same time lack the evaluative element which
attaches to the term "moral justice," we shall need predicates which
are considerably more specific than "morally just»." Indeed, some
might claim that it is pure fantasy to suppose that any predicate, however
specific, could signify a descriptive character which falls within the general
character signified by the term "moral justice" after detachment of
the term's eval-uative signification. Description cannot be thus severed from
evalua-tion. (5) Whatever may be the final upshot of debate about the
possibility of separating the descriptive and the evaluative significations of
the term "morally just," it is clear that a further element in the
position of the new Thrasymachus will be that whatever semantic unacceptability
may attach to moral justice, there is a further kind of jus-tice, namely
political (or politico-legal) justice, which is free from this defect.
Political justice is a concept which is both intelligible and has application.
The old Thrasymachus, however, wished to combine this recognition of the
intelligibility and the applicability of the concept of political justice with
the contention that the applicability of the concept of political justice to a
particular line of actual or possible action provided a basis not for the
commendation but rather for the discommendation of that line of action; the
wise, prudent, or sensible man would be led away from rather than toward the
adoption of a certain course of action, would become less rather than more
favorably disposed toward the idea of his becoming engaged in it, if he were
told, perfectly correctly, that political justice required his engagement in
it. This further contention has the air of paradox; how could the fact that
political justice, or indeed any kind of justice, requires a man to undertake a
particular course of action, be in the eyes of that man a bad mark against
doing the action in question? Can the new Thra-symachus align himself in this
matter with the old? It can fairly easily be seen that the idea that the
position of the old Thrasymachus involves paradox is ill-founded. That this is
so can best be shown by the introduction of one or two fairly simple
distinctions. First, a value (or disvalue) may be either intrinsic or
extrinsic. Roughly speaking, the value (or disvalue) of x will be intrinsic if
it attaches to x in virtue of some element in the character of x; it will be
extrinsic if it depends on the nature of some effect of x. To present the distinction
somewhat more accurately, a value or disvalue of x will be intrinsic if its
presence is dependent on some property of x which may indeed be a causal
property, but if it is a causal property, it is one whose value or disvalue
does not depend on the value or disvalue of that which is caused. The property
of causing raised eyebrows is a causal property and may be one with which value
or disvalue is associated; but if the eyebrow-raising is something with which
value or disvalue is associated, this is not because of the antecedent value or
disvalue of elevated eyebrows, but rather because of a connection between
raised eyebrows and sur-prise. A value or disvalue will be extrinsic if it
attaches to x in virtue of a causal property the value or disvalue of which
depends upon the antecedent value or disvalue of that which is caused. Second,
a value or disvalue may be either direct or indirect. A value which is a direct
value of x must rest, if it rests on other features at all, on features of x
which, at least on balance, are values rather than disvalues; simi-larly, a
direct disvalue of x, if it rests on other features of x, must rest on features
which are at least on balance disvalues. An indirect value of x may rest on a
prior disvalue of x, provided that this disvalue is less than that which would
attach to any alternative state of x. The disvalue of being beheaded may be
indirectly a value, provided that (for example) it is less than the disvalue
which would attach to the only other option, namely to being burned at the
stake. The least of a number of possible evils may thus be indirectly a good.
The old Thrasymachus, then, was perfectly entitled to deny that political
justice is directly a kind of good, provided he was willing to allow (as he
was) that indirectly it is, or may be, a good. There is then no conceptual
barrier to incorporating in the position of the new Thrasymachus the thesis
that political justice is only indirectly a good; it is acceptable only as a
way of averting the greater evil of being at the mercy of predators. (6)
This would perhaps be an appropriate moment to consider a little more closely
what I have been speaking of as Thrasymachus's combination of rejection of the
concept of moral justice and acceptance of the concept of political justice.
There are two ways of looking at this matter. One, which is, I think, suggested
by my discussion, is that there are two distinct concepts, which some
philosophers regard as being both parallel and viable, namely moral justice and
political justice. The special characteristic of Thrasymachus is supposed to be
that he allows the second concept while rejecting the first. I shall call this
approach the "two-concept" view of justice, according to which the
unqualified term "justice" might be used to refer to either of two
distinct concepts. The second way of looking at things I shall call the
"one-concept" view of justice, according to which the least
misleading account of the difference between moral justice and political
justice will be not that two different concepts are involved, but that two
different kinds of reason or backing may be relied upon in determining the
application of a single concept, namely that expressed simply by the word
"justice" without the addition of any adjectival modifi-cation. The
term "justice" will always ultimately refer to a system of practical
rules for the regulation of conduct, perhaps not just any andevery such system
but one which conforms to certain restrictions— for example, perhaps, one which
is limited to the regulation of certain kinds of conduct or regions of conduct.
The difference between moral and political justice might be thought of as lying
in the fact that in the case of moral justice the system of rules is to be
accepted on account of the intrinsic desirability that conduct of a certain
sort should be governed by practical rules or by practical rules of a certain
sort, where a system of rules of political justice rests on the desirability of
the consequences of making conduct subject to rules, or to those particular
rules. This possibly more Kantian conception of the relation between moral and
political justice will perhaps carry the consequence that the view of Socrates
and his friends that moral justice is desirable independently of the
consequences of acting justly is no ac-cident, but is a constitutive feature of
moral justice; without it, moral justice would not be moral. It should of
course be recognized that the idea that there is only one concept of justice,
though there may be different kinds of reason for accepting a system of rules
of justice, does not entail that one and the same system of rules of justice
may be acceptable for radically different kinds of reasons; there might be a
single concept of justice without its ever being true that different sorts of
reason could ever justify the acceptance of a single system of rules of
justice. We may, of course, if we wish to treat a one-concept view of justice
as in fact invoking two concepts of justice; but if we do, we should recognize
that the two concepts of justice are higher-order concepts, each relating to
different kinds of reasons governing the applicability of a single lower-order
concept of justice. (7) Let us take stock. We seem to have reached a
position in which (a) we have failed to detect any incoherence in the
views of the old Thrasymachus, and (b) it seems to be a live possibility that
intrinsic desirability is not an accidental feature but is a constitutive
feature of moral justice. We should now inquire what considerations, if any,
would be grounds for dissatisfaction with the viewpoint of Thra-symacus.
IV. Moral Justice and Skepticism (1) The claim that what I am presenting
is a reconstruction of Socrates' original defense of moral justice rests on my
utilization of some of Socrates' leading ideas, notably on the idea that the
presence of moral justice in a subject x depends upon a feature or features of
components of x, that the relevant feature or features of the compo-nents is
that individually each of them fulfills its role or plays its part, whatever
that role or part may happen to be (or, perhaps better, taken all together,
their overall state is one which realizes most fully their various separate
roles), that in satisfying this condition, they, the com-ponents, enable x to
realize the special and peculiar virtue of excellence of the type to which x
essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as a good or
well-conditioned T (where "T" refers to the type in question), and
this in turn, if membership of T consists in being a soul, ensures that the
life of x is happy, in an appropriate sense of "happy." My account
also resembles the original account given by Socrates in that it deploys the
notion of analogy which was a prominent ingredient in Socrates' story, though
it seeks to improve on Socrates' presentation by making it clear just why the
notion of analogy should be brought into this discussion, and by making its
appearance something more than an expository convenience. My presentation seeks
also to link the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely
with the concept of moral injustice but more centrally and more directly with
the more widely applicable concept of what one might call "health."
This change carries with it an increase in the number of stages to be
considered from two (the political and the moral) to three (the physiological,
the political, and the moral). My presentation also introduces the suggestion
that the very same factors which determine whether a particular entity x, belonging
to a certain type T, merits the accolade of being a T which is healthy,
well-conditioned, or in good shape, also by their presence (in lower de-grees)
determine the difference between the existence (or survival) of x, rather than
its nonexistence (or nonsurvival). The same features, for example, which at the
physiological stage determine whether a body is or is not well-conditioned,
also determine by their appearance or nonappearance in lower degrees whether
that body does or does not exist or survive. (This example in fact calls for a
more careful formulation.) I shall proceed to a more detailed discussion of the
three stages recognized in my account. The complications are consid-erable, and
intelligibility of presentation may call for omissions and convenient
distortions. (2) Stage 1. At this stage (the physiological stage) there
appear a number of different items or types of item, namely: physiological things, such as
human and animal bodies (ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs).These will include both distinct types of
d-component or organ, like the Liver and the Heart, and distinct instances or
tokens of these types, like my liver and my heart, or my liver and your heart.
Entry will distribute a number of
different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For
these purposes sets of teeth and pairs of human legs will have to count as
single organs. Functional properties of
physiological components or organs. These correspond to the jobs or functions
which the various organs crucially fulfill in the life of the -thing or body to
which they belong, such as walking, eating, achieving, and digestion. For
convenient oversimplification I assume that each organ has just one
functional property, which will be variable in degree. (d) Certain
properties of -things (bodies) ("global properties") which will be
dependent on the functional properties exhibited by the arrays of physiological
components or organs which belong to the things in question. The properties
under this head which presently concern me are two in number: one, which will
not be variable in degree, will be the property of existence or survival, which
will depend on the array of physiological components belonging to a particular
d-thing achieving a minimal level with respect to the functional properties of
the members of the array, that is to say, a level which is sufficient to ensure
that the array of physiological components continues to exhibit some positive
degree of the functional properties of that array. The other -thing property
which will concern me is one which will be variable in degree; it is the
property of well-being, or wellbeing as a -thing of the sort to which it
belongs. Maximal well-being will depend on an optimal combined exemplification
of the functional properties of a -thing's physiological components. The higher
levels of this latter property are commonly known as "bodily health"
(with-out qualification), or as "bodily healthiness." At all levels
the phrase "bodily health" may be used to signify the dimension
within which variation takes place between one level and another. (3)
Before I embark on a consideration of the details of subsequent stages, perhaps
I should amplify the account of my intended proce-dure, including the general
structure of my strategy for the characterization and defense of moral
justice: (a) The items involved in the stage 1 (physiological entities or
bod-ies, their components or organs, the functional properties, and certain
overall features of bodies, such as existence and being in good shape, which
are dependent on the functional properties of organs) exist or are exemplified
quite naturally and without the aid of analogy at this level. The stage
therefore may be regarded as providing paradigms which may be put to work in
the specification of related items which appear in subsequent stages and into
the constitution of which analogy does enter. (b) Those members of the
list of items, mentioned in 3(a) as appearing in later stages, which are
properties as distinct from things, may be specified in two different ways. One
way will be to make use of abstract nouns or phrases which are peculiar and
special to properties belonging to that stage, and which do not incorporate any
reference to more generic properties specifications of which are found also at
stages other than the one to which the property under discussion itself
belongs. The other way is to build the specifications from what at least seem
to be more generic properties, together with a differentiating feature which
singles out the particular stage at which the specified properties apply.
Leaving on one side for a moment the second mode of specification, I shall
comment briefly on the first. This may be expected to yield for us, at the
political stage, such properties as those expressed by the phrases
"political justice" and "political existence," and by
whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this or
that part of a state on which the global properties of political justice and
political existence will depend. Again, at the psychological stage, the
first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions
for the psychological properties of moral justice and psychological existence,
and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may
be) on which the presence of moral justice and psychological existence will
depend. It will be noted that more than one important issue has so far been
passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice
might be different specifications of a more general feature for which the name
"justice," without added qualification, might be appropriate; I have
left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded,
as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way,
perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the
question of the objects of reference of the phrase "parts of the
soul." Such matters obviously cannot be indefinitely left on one
side. (c) I turn now to the considerably more complicated second mode of
specification of the relevant range of properties. As already re-marked, this
mode of specification will incorporate references to seemingly generic
properties the appearance of which are not restricted to just one stage, a fact
which perhaps entitles us to talk here about "multistage" epithets
(predicates) and properties. Examples of second-mode specification will be such
epithets as "is in good shape as a body" and "is in good shape
as a state," both of which incorporate the more generic epithet "is
in good shape" which seemingly applies to objects belonging to different
stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such
"holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different
stages, there will also be "meristic" epithets, like "part"
itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main
suggestions is that the multistage epithets which are characteristically
embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind
of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may
remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled
with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical
application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly
important in view of the fact that it is also one of my contentions that there
will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by
use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second
mode. It should be observed that although I have claimed that there are
two different modes of property-specification, I have not claimed that for each
individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen
of each mode of specification will be available for use; it may be that in
certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode
specification, or that a first-mode specification can be made available only
via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode
specification. Since in my view most of the difficulties experienced by
philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts
about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps
which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to
favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can
make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications
are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the
onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should
also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode
and first-mode specifications might make a substantial contribution to two
distinct philosophical questions, namely: (i) whether it is sometimes
true that description presupposes valuation (since second-mode specification
seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to
go); (i) whether it is sometimes or always true that valuation
presupposes Teleology or Finality, since second-mode specifications
characteristically introduce references to functions and purposes. (d) I
shall now recapitulate the main features which I am supposing to attach to
first-mode and second-mode specifications, with a view to raising some further
questions about the two modes: (i) Properties which will be specified,
when one uses first-mode specifications by single-stage epithets (properties
like bodily health, political justice, and, perhaps controversially, moral
justice) may also be specified by the use of second-mode specifications which
will incorporate references to seemingly multistage properties such as
wellbeing and existence. The property of bodily health, for example, may also
be referred to as the property of well-being as a physiological entity, the
property of political justice as the property of well-being as a political
entity (or state), and the property of moral justice (perhaps) as the property
of well-being as a psychological entity (or soul). (ii) The global
properties of well-being as this or that type of entity will depend on a
maximal (or optimal) degree of fulfillment, by the various parts of the
subjects of those global properties, of a sequence of meristic properties associated
with the jobs or functions of those (iii) The very same meristic
properties on which the various forms of well-being depend will also determine,
at a lower degree of realiza-tion, the difference between the existence and the
nonexistence of the entities which inhabit a particular stage. (iv) It
might be possible, by a move which would be akin to that of
"Ramsification," to redescribe the things which inhabit a certain
stage, their components or parts, the jobs or functions of such com-ponents,
the property of well-being and the property of existence as being just those
items which, in a certain realm, are analogical coun terparts to the prime
items, in the physiological realm, respectively, of bodies, organs, bodily
functions, health, and life (survival). (v) These proposals might achieve
a combination of generalizationand justification (validation) of the items to
which they relate, given the assumption that the proposed redescriptions are
semantically and alethically acceptable. Among the questions which most
immediately clamor for consideration will be the following: (Q1) How are
we to validate my intuitive judgment that second-mode specifications which
involve multistage epithets will always, or at least sometimes, be analogical
in character? (Q2) How are we to elucidate the phrase used in (iv)
"in a certain realm"? (Q3) How is it to be shown that the
proposed redescriptions are not merely semantically but also alethically
acceptable? I will take these questions in turn. (e) Question (Q1)
calls for the justification of a thesis which, without offering arguments in
its support, I suggested as being correct, namely that if there are multistage
epithets, that is to say, epithets which apply sometimes to objects belonging
to one stage and also sometimes to objects belonging to another stage, the
application of such an epithet to one, and possibly to both, of these segments
of its extension must be analogical rather than literal. It seems to me that,
before such a thesis can be defended or justified, it needs to be emended,
since as it stands it seems most unlikely to be true. Consider first the
epithet "healthy"; there would, I think, be intuitive support for the
idea that when we talk, for example, of "a healthy mind in a healthy body,"
at least one of these applications of the epithet "healthy"
must be analogical rather than literal, since only a body can be said to be
literally healthy. But if we turn to the epithets "sound" and
"in good order," though I think there will be intuitive support for
the idea that both bodies and minds may be said to be sound or to be in good
order, and indeed for the idea that bodies and minds can truly be said to be
sound or in good order just in case they can truly be said to be healthy, there
will not, I think, be intuitive support for the idea that the application of
the epithets "sound" and "in good order" to either
bodies or minds, or to both, is analogical rather than literal. I would in fact
be inclined to regard the application of each of these epithets to both kinds
of entity as being literal. I would suggest that the needed emendation, while
it allowed that the literal application of epithets may straddle the division
between its applicability to subjects that belong to one stage and to subjects
that belong to another, would insist that, when such literal
cross-stageapplications occur, they depend upon prior cross-stage applications
of some other epithet, where one or even both of the segments of application
are analogical rather than literal. How should the emended thesis be
supported? My idea would be that the barriers separating the applications of an
epithet to objects belonging to one stage from its application to objects
belonging to another will in fact be category-barriers, and that there are good
grounds for supposing that objects which differ from one another in category
cannot genuinely possess common properties, and so cannot ultimately, at the
most fundamental level, be items to which a single epithet will literally and
nonanalogically apply. If objects x and y are categorically debarred from
sharing a single property, then they are also debarred from falling, literally
and nonanalogically, within the range of application of an epithet whose
function is to signify just that property. There is nothing to prevent a body
and a mind from being, each of them, literally in good order, provided that the
condition needed for being literally in good order is that of being either
literally healthy (in the case of a body) or (in the case of a mind)
(analogically speaking) healthy. Perhaps the first matter to which we should
attend in an endeavor to form a clear conception of (for ex-ample) the place of
being (analogically speaking) healthy, a feature which may attach to minds,
within a generalized notion of being in good order, or (perhaps) of being
healthy, is the consideration that the question whether the application of a
certain epithet to certain things is literal or analogical, is by no means the
same question as the question whether its application to those things is or is
not to be taken seriously. It may, for example, remain an importantly serious
question whether John Stuart Mill is properly to be regarded as a friend of the
working classes long after it has been decided that, if the epithet
"friend of the working classes" does apply to John Stuart Mill, it
applies to him analogically rather than literally; it does not apply to him in
at all the same kind of way as that in which the epithet "friend of Mr.
Gladstone" may have applied or, perhaps, failed to apply to him. The
question whether a particular person is in good shape may be a question an
important aspect of which is expressed by the question "Is his mind
(analogically speaking) healthy?"; if so, given that the first question
is, as it may be, one to be taken seriously, the same would be true of the
second question. A second consideration, which we should not allow
ourselves to lose sight of, is one which has already been briefly mentioned in
thefirst part of this essay. We are operating in an area in which, not
infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle would have
called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of seemingly
distinct kinds of items, and by a number of features each of which is special
to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed the way
we talk —we shall be led to suppose that these features are all specifications
of some more general feature which is manifested, with specific variations,
throughout the range formed by the kinds in question, a putative general
feature for which ordinary language may even provide us with a candidate's
name. Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to suppose that
the members of this range of special features have a common explana-tion, a
further general feature which accounts for the first general feature, and also,
with the aid of specific variations, for the original range of special
features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures
which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which
the world lays before us. In the present case, the application of this method
would be to a range of items which includes bodies, states, and (perhaps) souls
and also to such special features of these items as (respectively) bodily
health, political justice, and (perhaps) moral justice. Unfortunately, at
this point, we encounter a major difficulty. The items which are the subjects
to which the members of the range of special features attach, namely bodies,
states, and souls, insofar as they are genuine objects at all, seem plainly to
belong to different categories from one another; and these categorial
differences would be such as to preclude, if widely received views about
categories are to be accepted, the possibility that there are any properties
which are shared by items which differ from one another with respect to the
kinds to which they belong. It looks, then, as if the possibility that there is
a generic property of which the special properties are differ-entiations, and
the possibility that there is a further generic property which serves to
account for the first generic property, have both been eliminated. I have in
fact not attempted to set out a theory of categories which would carry this
consequence, and it would certainly be necessary to attempt to fill this
lacuna. But the prospects that this undertaking would remove the difficulty do
not at first sight seem encouraging. If, then, we are not to abandon all hope
of rational so-lution, we shall be forced to do one of three things: (i)
Relinquish the idea of applying here procedures for descriptionand explanation
which are operative in examples which are not bedeviled by category
difference. (ii) Argue that the category differences which seem only too
prominent on the present occasion are only apparent and not real. (iii)
Devise a less restrictive theory of the effect of category differences on the
sharing of properties. In the light of these problems, we should
obviously be at pains to consider whether attention to the notion of analogical
application would have any chance of providing relief. I propose to leave
this problem on one side for a moment, returning to consideration of it at a
later point; immediately, I shall address myself to a possible response to the
suggestion that the question whether the possible application of a given
epithet to a certain subject is an issue which it is proper to take seriously,
is quite distinct from the question whether such application, if it existed,
would be analog-ical or literal. The response would be that the distinction
between the two questions does not have to be a simple black-or-white matter;
it might be that, while the fact that if such application existed at all it
would be an analogical application is not a universal obstacle to the idea that
the application is one which should be taken seriously, it is also not true
that there is no connection between the two questions; if the inquiry into the
application of the epithet is one of a certain sort or one which is conducted
with certain purposes in view, then the idea that such application would be
analogical stands in the way of the idea that the application is one to be
taken seriously; if, however, the character and purposes of the inquiry are of
some other sort, then the two questions may be treated as distinct. It
might, for example, be held that if the inquiry about the application of an
epithet is one which aims at reaching scientific truth, at laying bare the true
nature of reality, then the fact that the application of the epithet would be
analogical conflicts with the idea that it should be taken seriously; if,
however, the inquirer's concern is not with scientific truth but rather with
the acceptability, either in general or in a particular case, of some practical
principle (or principle of conduct), then the two questions may be treated as
distinct. Something like this "halfway" position is perhaps
discernible in Kant; in, for example, his claim that Ideas of Pure Reason, with
regard to which no transcendental proofs are available, admits of
"regulative" but not of "constitutive" employment, a
suggestion which is perhaps repeated in his demand for a nondogmatic kind of
teleology, a teleol-ogy which somehow guides our steps without adding to our
stock of beliefs. The situation, however, is vastly complicated by the fact
that the notion of what is "practical" is susceptible to more than
one in-terpretation; on a wider interpretation, any principles or precepts
would count as practical provided that they relate to questions about how one
should proceed. On a second interpretation of "practical," only those
examples of principles and precepts which are "practical" in the
first sense will count as "practical" which relate not just to some
form of procedure but to procedure in the world of action as distinct from
procedure in the world of thought. Imperatives which are practical in the
second and narrower sense will, as Kant himself seems to have thought, include
those which tell us how to act but will not include those which tell us how to
think; they will be concerned with the conduct of the business of life but not
with the conduct of the business of thought. This ambiguity leaves principles
and precepts which concern conduct of the business of thought in a somewhat
indeterminate position; they will be practical in the wider sense since they
are concerned with questions about how we should conduct our-selves; however,
what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other when we
observe that the conduct they prescribe is conduct which is specifically
involved in arriving at decisions about scientific truths and the nature of
reality. For me the issue is made even more complicated by the fact that I have
instinctive sympathy toward the idea that so-called transcendental proofs
should be thought of as really consisting in reasoned presentation of the
neces-sity, in inquiries about knowledge and the world, of thinking about the
world in certain very general ways. This viewpoint would introduce
interconnections between what we are to believe and how we are to proceed which
will be by no means easy to accommodate. I return now to discussion of
the quandary which I propounded a little while ago, and the severe limitations
on explanation seemingly imposed by category-differences between features which
need to be explained. As I see it, my task will be to provide a somewhat more
formalized characterization of the phenomenon of analogical application than
has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical char-acterization, which
will at the same time be one which both preserves those category-differences
and their consequential features, and at the same time avoids undue
restrictions on the application of standard procedures for the construction of
explanations. This may seem like a tall order, but I think it can be met.Let us
first look at the notion of instantiation and at one or two related notions. If
I am informed that x instantiates y (that x is an instance of y), and also that
y specifies z (that y is a specification of z, that being y is a way of being
z, that y is a form of z), then I am entitled to infer that x instantiates z.
If, however, instead of being informed that y specifies z, I am informed that y
instantiates z, the situation is different; I cannot infer from the information
that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z. The relation
of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue, and blue
specifies color, then it looks as if azure must specify color. Let us now
define a relation of "subinstantiation"; x will subinstantiate z just
in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y
instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque
representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y,
then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x
instantiates y, then x belongs to a level which is one step lower than that of
y, and that if x subinstantiates y, then x belongs to a level which is two
steps lower than that of y. Now it seems natural to suppose that when a number
of more specialized explanations are brought under a single more general and so
more comprehensive ex-planation, this is achieved through representing the
various features, which are separately accounted for in the original
specialized expla-nations, as being different specifications of a single more
general fea-ture. If, however, we were entitled to say that the crucial relation
connecting the more specialized explicanda with a generalized expli-candum is
not, or at least is not in those cases in which the specialized explicanda are
categorically different from one another, that of specification but rather of
subinstantiation, then we shall be able to avoid the uncomfortable conclusion
that the admissibility of generalized ex-plicanda involves the admissibility of
the idea that categorically different subject items may be instances of common
properties. An item need not, indeed perhaps cannot, instantiate that which it
subinstan-tiates. To conclude my treatment of the quandary, I need to
show, as best I can, that a systematic replacement of references to the
relation of specification by references to the relation of instantiation would
have no ill effect on the standard procedure for generalizing a set of
specialized explanations, with which we have provided ourselves, of the
presence of discriminated specialized properties. To fulfill this under-taking,
I must consider two cases, one involving the application of aprocedure for
generalization which is characterized in terms which involve reference to the
relation of specification, and the other in which all references to
specification are replaced by references to additional and
"higher-level" occurrences of the relation of instantia-tion.
Case I. (i) We start with a group of particulars (x, through x,), with regard
to each of which we are informed that it possesses property D; and with two
further groups of particulars (y, through Ym and z, through z,) instantiating,
respectively, properties E and F. (ii) The generalization procedure begins when
we find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and
z, through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or
legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. (iii) We
next find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way
1, respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and
C and F, specify in way 3, respectively, P and Q (iv) We are now, it
seems, in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in
a corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for
example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to
say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing
as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am
consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has
in fact been achieved. Case I1. Case Il begins to differ from Case I only
when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and
D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect
that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q;
and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase
"first-group instance" either the phrase "second-group
instance" or "third-group instance" will be made in what we say about
properties B and E and properties C and F. Though I would not claim to
have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference
between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of
legitimacy of the procedure for generalization with which I am currently
concerned. The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be
quite un-affected. If I am right in this suggestion I shall, I think, have
succeeded in providing what was mentioned in Part I of this essay as a
desider-atum, namely a development of a concept of Affinity, which would be
less impeded by category-barriers than the more familiar notion of
Similitude. (f) I now turn briefly to question Q2. This is the question
how to interpret the expression "in respect to a certain realm"
within such phrases as in "an analogical extension, in a certain realm, of
the property of health, in the primary physiological realm to which animal and
human bodies are central." I should make clear the problem of ambiguity
which prompts this question; there is one way of looking at things, one
conception, according to which there is a certain realm, which is that to which
souls are central, and into which there is projected an analogical extension of
the property of health. In this conception the notion of souls is logically
prior to the notion of the psychological realm to which souls are central, and
both are logically prior to the property which is the analogical extension of
the property of health, which in the primary physiological realm is the
property of bodies. But there is another conception which might particularly
appeal to those who regard souls as being, initially at least, somewhat dubious
entities, according to which souls are introduced into the psychological realm
to be the subjects or bearers of a property in that realm which is an
analogical extension of the property of health, which in the physiological
realm belongs to bodies. According to this conception, fairly plainly, the
conception of souls is logically posterior both to the notion of the
psychological realm and to the analogical extension of the property of health
which exists in that realm. Question Q2 is in effect an accusation: it suggests
that the two conceptions are mutually inconsistent, since souls cannot be at
one and the same time both logically prior to and logically posterior to both
the concept of the realm to which they are supposedly central and to a certain
property, analogous to bodily health which exists in that world; it further suggests
that Socrates (or neo-Socrates) need both of these conceptions, but, of course,
cannot have both of them. To meet this objection, I would suggest that a
promising line to take would be to deny that we start with a certain realm, the
psychological realm, the nature of which is determined either by the
subject-items, namely souls, which are central to it, or by the properties,
such as a certain analogue of bodily health, which characterize things in it;
and that we then proceed at a later point to add to it the remaining members of
these two classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of
the elements in the primary physiological realm,souls which are analogues of
bodies and a class of properties one of which is an analogue of bodily health,
and call the realm to which these analogues belong the psychological realm. In
this way the incoherence covertly imputed by question Q2 will be dissolved,
since neither of these psychological elements (souls and properties like the
analogue of bodily health) will be logically prior to the other. What in fact
has been done is to introduce, first, a double analogical extension of two
types of items which belong to the primary physiological realm and, second, the
notion of a psychological realm for use in a convenient way of talking about
what has initially been done. No doubt more than this will need to be
said in a full treatment of the topic; but perhaps for present purposes, which
are primarily directed toward defusing a certain criticism, what has been said
will be sufficient. V. Prospects for Ethical Theory (Question Q3)
Question Q3 might be expanded in the following way; we can imagine ourselves
encountering someone who addresses us in the following way: "You have
certainly achieved something. There is one class of philosophers who would be
inclined to deny that the notion of moral justice can be regarded as an
acceptable and legitimate con-cept, because there is no way in which the
intuitive idea of moral justice can be coherently presented in a rigorous
manner. What you have said has shown that such a philosopher's position is
untenable; for you have shown that if we allow the possibility of representing
moral justice as a certain sort of analogical extension of a basic no-tion,
namely health, which is a property of bodies, items which belong to a basic or
primary realm of objects, you have succeeded in characterizing in a
sufficiently articulated way the possession of moral justice to which the
philosopher in question is opposed on the grounds of its incoherence. That is
no small achievement, but it is not, nevertheless, from your point of view,
good enough. For there will be another class of philosophers who find no
incoherence in the notion of moral justice, but claim that lack of incoherence
is a necessary condition but not a sufficient condition for accepting moral
justice as a genuine feature of anything in the world. The uses that we make of
our characterizations of moral justice and other such items must be as part of
an as it were encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents
of the rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one
contains everything which the other contains together with something which the
other does not contain, while the other account contains nothing beyond a
certain part of what the first account contains, it will be rational, in
selecting the optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger
vol-ume, unless it can be shown that what is contained in the larger volume but
omitted in the smaller one is something which should be present in a
comprehensive picture of the rational world. To be fit for inclusion in an
account of the rational world, a contribution must be not only coherent but
also something which is needed. This demand you have not fulfilled."
To this critic I should be inclined to reply in the following manner.
"I agree with you that more is required to justify the incorporation of
moral justice within the conceptual furniture of the world than a demonstration
that the notion of moral justice is one which is capable of being coherently
and rigorously presented; and I agree that I have not met this additional
demand, in whatsoever it may consist. But I think it can be met; and indeed I
think I can not only say what is required in order to meet it but also bring
off the undertaking of actually meeting it. The required supplementation will,
I suggest, involve two elements; first, a demonstration of the value, in some
appropriate sense of "value," of the presence in the world of moral
justice, and second, a demonstration that it is, again in the same ap.
propriate sense, up to us whether or not the notion of moral justice does have
application in the world." I shall now enlarge upon the two ingredients of
this proposed response. First Supplementation. A person who is concerned
about the realization in the world of moral or political justice will encounter
at a number of points alternative options relating to such realization which he
may have to take into account. The number of such options will vary according
to whether a "two-concept" view or a "one-concept" view is
taken of justice; the number will be larger if a two-concept view is taken, and
I shall begin with that possibility. (1) On a two-concept view, there
will be two properties the realization of which has to be considered, moral
justice and political justice. One who is concerned about the application
of these properties, and who is unhampered by any skeptical reservations, will
have to consider the application of each of these properties to a particular
indi-vidual, standardly himself, and also to a general subject-item, such as a
particular totality of individuals each of whom might consider theapplication
to himself as an individual of each of the initial proper-ties. There will also
be a variety of distinct motivational appeals which the application of one of
these forms of justice has to a particular subject-item, the consequential
appeal of that realization (e.g. its payoff), or both. If we go beyond Plato,
we might have to add such forms of motivational appeal as that which arises
from subscriptions to some principle governing the realization of the initial
property. (2) On a one-concept view the initial array of options will be
considerably reduced, though it is perhaps questionable whether such reduction
will correspond to any reduction in genuinely distinct and authentic options.
On the assumption that it would not, I shall temporarily go along with the idea
that a one-concept view is the correct one. On this view a distinction between
moral and political justice will reappear as the difference between concern for
the application of a single property, that of justice, when it is motivated by
the intrinsic appeal of its realization in a given subject-item (one might
perhaps say its moral appeal) or alternatively, when it is motivated by the
idea of the consequence of such a realization (one might say by its political
appeal). One should perhaps be careful to allow that the idea that a single
concept or property may exert different forms of motivational appeal does not
carry with it the idea that one and the same body of precepts will reflect that
concern, regardless of the question whether the motivational foundation is
moral or political. It is crucially important to recognize that
situations which are only subtly different from one another may exert quite
different forms of motivational appeal. Nothing has so far been said to rule
out the possibility that while Socrates and other such persons may each be
concerned that people in general should value the realization of justice in
themselves because of its intrinsic appeal, that is to say, for moral reasons,
nevertheless their concern that people in general should value for moral
reasons the realization in themselves of justice is based at least in part on
consequential or political grounds rather than on any intrinsic or moral
appeal. It is possible to be concerned that people be sensitive to the moral
appeal of being just, and at the same time for that concern to be at least
partly founded on political rather than on moral considerations. If that is so,
then the concern for a widespread realization of moral justice might itself
have a nonmoral foundation. Such considerations as these might be sufficient to
ensure that the realization of moral justice in a community is of value to that
community. This value might consist in the fact that if themembers of a
community are morally concerned for the realization of justice in themselves,
their manifestation of socially acceptable behavior will not be dependent on
the real or threatened operations of law-enforcers, to the advantage of
all. Second Supplementation. If we were to leave things as they are at
the end of the first supplementation, though we should perhaps have shown that
the realization of moral justice in the world was of value to inhabitants of
the world and possibly also absolutely, we should not have escaped the
suggestion that this alone is not adequate to our needs; it would leave open
the possibility that all one could do would be to pray that moral justice is
realized in the world, and then when we have found out whether this is or is
not the case, to jubilate or to wail as the case might be. To make good our
defense of moral justice, we should need to be able to show that in some sense
the realizability of moral justice in the world is up to us. At this point it
seems to me we move away from the territory of Socrates and Plato and nearer to
the territory of Kant; it also seems to me that at this point the problems
become immensely more difficult, and partly because of that, I shall not
attempt to devise here a solution to them, but only to provide a few hints
about how such a solution might be attained. As we have been interpreting the
notion of moral justice, its realizability is an idea which is very close to
that of the validity of Morality; and if we were to follow Kant's lead, we
should be on our way to a supposition which is close to his idea that the
validity of Morality depends upon the self-imposition of law, an idea which,
though obscure, seems to suggest that what secures the validity of Morality is
something which, in some sense or other of the word "do," is
something that we ourselves do, and so perhaps in some sense or other
"could," we could avoid doing. What kind of "doing" this
might be, and how it might be expected to support Morality, to my mind remain
shrouded in darkness even after one has read what Kant has to say; there seems
little reason to expect that it would closely resemble the kind of doing with
which we are familiar in the ordinary conduct of life. There is also important
uncertainty about the proper interpretation of the word "could"; it
might refer to some kind of psychological or natural possibility, something
which some would be inclined to call a kind of causal possibility; or it might
refer to some kind of "rational" possi-bility, the existence of which
would require the availability of a reason or possible reason for doing whatever
is said to be rationally possible. Not everything which is
psychologically possible is also rationallypossible; and I think it might be
strategically advantageous if it could be held that the Kantian view assigns
psychological possibility but not rational possibility to the avoidance of the
institutive act which underlies Morality; but whether this is Kant's view, and
how, if it is his view, it is to be made good, are problems which I do not know
how to solve. VI. The Republic and Philosophical Eschatology Let me
first present what I see as the background to the reconstructed debate between
Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps between neo-Thrasymachus and
neo-Socrates. Neo-Thrasyma-chus is a Minimalist and a Naturalist who has
affinities with Hume; he rejects the concept of moral justice on the grounds
that it would be at one and the same time a nonnatural and psychologistic
feature and also an evaluative feature. At this point we may suppose that
neo-Socrates, who is not committed to any form of Naturalism, will have
retorted to neo-Thrasymachus that a blanket rejection of psychologis-tic and
evaluative features will totally undermine philosophy. This part of the debate
is not recorded, but we may imagine neo-Thrasymachus to have responded that
neo-Socrates is in no better shape; for he can make sense of the notion of
moral justice only by representing it as a special case of a favorable feature,
namely well-being, which spans category-barriers between radically different
sorts of entities, such as bodies, political states, and persons. But
neo-Socrates himself will be committed to holding a view of universals which
will prohibit any such crossing of category-barriers by a single universal. To
this charge neo-Socrates may resort to two forms of defense, one less radical
than the other. The less radical form would involve the claim that while there
have to be category-barriers, these do not have to be as severe and restrictive
as the accusation suggests. The more radical form of defense would
refrain from relying on a more permissive account of category-barriers even
though it allowed that such increased permissiveness would be in order. It
would rely rather on a distinction between concepts which may span
category-barriers, whether these are more or less severe in nature, and
universals which may not span such barriers. A closely parallel distinction
between (i) an expression's having a single meaning and (ii) its being used to
signify a single universal can, I think, be found in Aristotle. This
distinction would be made possible by making concepts rest ona foundation of
affinities as distinct from the foundation of similarities which underlies
universals; affinities may, while similarities may not, be characterizable
purely in analogical terms. The working out of such a distinction would be one
of a variety of concerns which would be the province of a special discipline of
philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance
of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion
would permit generalization and explanation to cross category-barriers and
would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against
neo-Socrates and his favored notion of moral justice. At some level of
reinterpretation, then, Socrates's appeal to an analogy between the Soul and
the State would be at least partly aimed at showing that the concept of Moral
Justice, which Thrasymachus would like to banish as theoretically
unintelligible, is analogically linked with the concept of bodily health,
admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate concept, in such
a way that, despite radical categorial differences between the two con-cepts,
if the concept of bodily health is intelligible, the concept of Moral Justice
is also intelligible. However, to exhibit Moral Justice as a feature
which is really applicable to items in the world, such as persons and actions,
more is needed than to show that its ascription to such items is free from
incoherence. It will be necessary to show that such ascription, if it were
allowed, would serve a point or purpose, and also that it is in some important
way up to us to ensure that such ascription is admis sible. The fulfillment of
the last undertaking might force us to leav the territory of Socrates and Plato
and to enter that of Kant. When it comes to the debate on what Aristotle
has as ‘dikaios’ from his years at the Academy, before he moved to the Lycaeum,
between Plato’s Socrates and TRASIMACO in Republica, Grice makes it explicit
that what we should bear in mind that Grice’s purpose – and indeed Treves’s -- of
looking at the discussion of “δίκαιον” – Cicero’s IVSTVM -- is to see if the course of that
discussion between TRASIMACO and SOCRATE could be looked on as a conscious, sub-conscious,
or even un-conscious venture by Socrates – indeed Plato, as Ryle would point
out: “We are not sure Socrates existed” -- into eschatology. TRASIMACO’s and
SOCRATES’s discussion – Grice: “I would not call it a conversation” -- begins
with a pressing invitation to Socrates to take part in an examination of the
question "What is δίκαιον?" – or as Hardie prefers,
“What do you mean by δίκαιον?” It is clear that, despite
the intrusion of distractions, Socrates – whom from now on Grice calls PLATO --
has not lost sight of this focus. Two preliminary answers are put forward. The first is that
of Cephalus ("δίκαιον =df ‘to tell the truth and pay
one's debts’ – Thou shalt pay thy debts – P. G. R. I. C. E. Clarendon --). The
second is that of of Polemarchus – Cephalus’s son, it happens -- δίκαιον =df to give every man his due – cf. Horatio Nelson, a maxim crucial,
but trite. A maxim tremendous, but trite. CEFALO’s answer seems to be an
attempt to exhibit the nature of δίκαιον by means of a paradigmatic rule
– alla Flew or Urmson. POLEMARCO’s answer, instead, attempts to provide a
general or generic – via genus -- characterisation or definition, terminus or
horos – logos. Socrates – or Plato -- points
out that even a paradigmatic rule allows of this or that exception – Hare: “Do
not tell the truth to the Nazi enquirer” -- , with the consequence that a
practical principle is needed to identify this or that exception. POLEMARCO’s
suggested definition or conceptual analysis is faulted on the grounds that, counter-intuitively
it allows δίκαιον on occasion to be exhibited in
causing harm – cf. Lucas on the justification of punishment in PHILOSOPHY. It
seems to be open to Polemarco to reply to Socrates or Plato that the connection
of δίκαιον with punishment makes it
questionable whether it is counter-intuitive to suppose that δίκαιον sometimes involves causing harm. Indeed, we might
inquire why the answers suggested by Cefalo and Polemarco are given house-room
at all if they are going to be so cursorily handled! The debate with
Thrasymachus. A number of different factors to Grice’s mind raise serious
questions about the role of this debate in the general scheme for the treatment
of δίκαιον in Republica. The quality
of Thrasymachus's dialectical apparatus seems to be, to put it mildly, not of
the highest order. Socrates himself remarks that in the course of the debate the original
question ("What is δίκαιον?") becomes entangled in a
confused way with a number of other seemingly different questions such as
whether the just -- δίκαιον -- life is the happiest life, or
is more, or less, happy than the unjust [not δίκαιον] life, whether the just [δίκαιον] life is worthy of choice,
etc. What does Thrasymachus achieve beyond the generation of confusion? Socrates's replies to
Thrasymachus are by no means always intellectually impeccable. Yet, so far as Grice
and T. can see, this fact is not pointed out. Glaucon and Adeimantus are
dissatisfied with the upshot of this debate and call upon Socrates to show that
the just δίκαιον life is the happy life, not
making it clear what the connection is between this demand and the answering of
the original question about the nature of δίκαιον. Socrates endeavours to meet the demands of GLAUCONE e ADEMANTO -- Plato's
brothers, as it happens: his was a philosophical family -- but to do this, Socrates
resorts to the elaborate presentation of a FULL-BLOWN analogy between the soul psyche
ANIMA and the state LO STATO. What justifies the presentation, in the current
context, of the nature of this full-blown – Cajetan, almost --
analogy? Blow-by-blow details of the debate with Thrasymachus. Round
1. Thrasymachus at the outset couples the thesis that " δίκαιον =df the interest – not the duty -- of the
stronger" with the admission that a ruler – the rex -- may not not
infallible in his estimates of where the interest – not the duty -- of the
stronger lies. As the comments of Socrates, Polemarchus, and Cleitophon make
clear, this leads Thrasymachus into an intolerable tension between the idea
that the edicts of the ruler or rex – think Fasage -- command obedience because
they spring from a belief on the part of the ruler that such intended obedience
is in the interest of the stronger, and the idea that obedience is demanded if,
BUT only if, it would in fact be conducive to the interest of the stronger.
Thrasymachus seeks to repair his position by distinguishing between (a) what
the ruler commands and (b) what the ruler commands qua ruler. The latter
cannot but be conducive to the interest – not duty -- of the stronger, though
no such assurance attends the former. Though no one points this out, the
attempted escape seems to carry the consequence that whether the ruler's
commands do, or do not, call for obedience may be, and may continue to be,
shrouded in obscurity. But, apart from this initial confusion, the debate
in Round 1 is characterised by a number of further disfigurements or blemishes,
responsibility for which may attach not only to Thrasymachus but, by
association, to Socrates. Some of these disfigurements or blemishes may indeed
also be visible in subsequent rounds. It is not made clear, nor indeed is
the question raised, whether the kind of δίκαιον
under discussion is political (or politico-legal) δίκαιον, or moral δίκαιον. The general tenor of
Thrasymachus's remarks would suggest that his concern is with political or politico-legal
δίκαιον. Indeed it seems not
impossible that it is part of Thrasymachus's position that there is no such
thing as moral δίκαιον, that the concept of moral
δίκαιον is chimerical and empty. If
this were his position, he could be characterized as a certain sort of sceptic,
avant la letter – the Porch had not been built yet! -- ; but whether or not it
is his position should surely not be left in doubt. Thrasymachus nowhere makes it
clear whether he regards the popular, or vulgar, application of the term "δίκαιον," which Thrasymachus may not himself endorse, as
a positive or a negative commendation. Are just δίκαιον acts supposed to be acts which fulfill some condition which acts should
fulfill, or acts which are free from an imputation that they fulfill some
condition which acts should not fulfill? In other words, is Trasimaco defending
Hall’s view on EXCLUDERS? It is not clear whether Thrasymachus's thesis that δίκαιον is the interest of the stronger is to be taken as a
thesis about the "nominal essence" – alla Robinson: what is there?
you name it -- or about the "real essence" of δίκαιον. Is Thrasymachus suggesting that the right way to conceive of δίκαιον, the correct interpretation of the term " δίκαιον," is as ‘signifying’ that which is in the
interest of the stronger? Or is he suggesting that whatever content we attach
to the concept of δίκαιον, the characteristic which
explains why just δίκαιον acts are done and why they
have the effects which standardly attend them, is that of being in the interest
of the stronger? Thrasymachus seems uninterested
in distinguishing between the use of the word " δίκαιον " – what Austin would have as ‘just’, ‘fair’, or "right"
-- as part of a sentential operator which governs a sentence which refers to this
or that possible action (e.g., "it is δίκαιον -- just or right -- that a person who has contracted a debt
should repay it at the appointed time," "it is δίκαιον --just -- for a juror to refuse
offers of bribes" -- and its use as an adjunctive – aggetivo -- epithet
which applies to actually performed actions -- e.g., "he distributed
payments, for the work done, justly -- δίκαιον.
These two uses are no doubt intimately connected with one another – cf. it is
certain, x is certain --, but they are surely
distinguishable. Thrasymachus is not at pains to make it clear whether the
phrase "the stronger" refers to the ruler or government, the official
boss, or to the person or persons who wield political power (legitimately or
not): the real boss. These persons might or might not be identical. Think
Mussolini – I owe this remark to T. As a result of these obscurities which
Grice one and again forbirds from conversation – ‘avoid obscurity of expression
– be perspicuous [sic] -- the precise character of Thrasymachus's position is
by no means easy to discern. Round 2. At the end of Round 1, as it seems
to Grice, Socrates seeks to counter Thrasymachus's reliance on a distinction
between what the practitioner of an art ordains simpliciter and what the
practitioner ordains qua practitioner of that art – think Picasso --, by
suggesting that if we take this distinction seriously, we shall be led to
suppose that when the practitioner acts qua practitioner, his concern is not
with his own well-being but with the well-being of the subject matter which the
art controls.Therefore, rulers, qua rulers, will be concerned with the
well-being of their subjects rather than with the well-being of themselves.
This contention seems open to the response that there is nothing to prevent the
well-being of the subject matter from being, on occasion, that state of the
subject matter which is congenial to the interest of the practitioner. This
indeed may be the tenor of Thrasymachus's outburst comparing the treatment of
subjects by rulers with the treatment of (allegedly good) sheep by an (allegedly
good) shepherd – in fact, Catholics in Italy call Christ The Lord is My
Shepherd – PASTORE. If so, Socrates does not seem to have any better
reply than to suggest that the dominance of concern on the part of rulers to
obtain compensation for their operations hardly supports the idea that it is
common practice for them to use their offices to feather their own nests; a
response to which Socrates adds an obscurely relevant demand for a distinction
between the practice of an art which is typically not directed toward the
interests of the practitioner, and the special case of a concomitant exercise
of the art of profit-making, which is so directed. Thrasymachus, however,
complicates matters by introducing a fresh line of attack against the merits of
δίκαιον vis-à-vis injustice – non- δίκαιον. He suggests that in the private citizen δίκαιον (devotion to the interest of the stronger, that is,
of the ruler) is folly, while injustice – non- δίκαιον -- (devotion to his own interest) is sensible even if dubiously
effective; while the grand-scale injustice – non- δίκαιον -- of rulers, as exhibited in
tyranny – cf. Aristotle on ‘consttutio’ as an analogical term in JOACHIM --,
has everything to recommend it. It is not clear that this manifesto is
legitimate, since it is not clear that, on his own terms, Thrasymachus is
entitled to count tyranny as injustice – non- δίκαιον; the tyrant is not preferring his own interests to the interests of
someone stronger than himself, since no one is stronger than he (is). It is
true, of course, that while Thrasymachus may not be entitled to call tyranny
injustice – non- δίκαιον --, he may be equally not
entitled to call it justice -- δίκαιον --, since though the tyrant
may be the strongest person around, he is certainly not stronger than himself.
So perhaps Thrasymachus's plea for injustice – non- δίκαιον -- may turn out to be a
misfire. Round 3. In response to a query from Socrates, Thrasymachus
recapitulates his position, which is not that injustice – non- δίκαιον -- is a good quality and justice -- δίκαιον -- a bad quality, nor (exactly) the reverse position,
but is rather that δίκαιον is folly or extreme simplicity,
whereas non- δίκαιον is good sense. With this
contention there is also associated Thrasymachus's view that non- δίκαιον implies strength, and that the unjust – non- δίκαιον -- life rather than the just δίκαιον life is
the happy life. Socrates' reply to Thrasymachus invokes arguments which
seem weak to the point of feebleness. In his first argument, Socrates gets
Thrasymachus to agree that the just δίκαιον man seeks to compete with, or
outdo only the unjust -- non δίκαιον -- man, whereas the unjust –
non δίκαιον -- man competes both with the
just -- δίκαιον and with the unjust, non δίκαιον. Reflection on the arts, however, prompts the
observation that, in general, the expert competes only with the inexpert,
whereas the non-expert competes alike with the inexpert AND with the expert, so
it is the just δίκαιον man, not the unjust non δίκαιον man, who runs parallel to the general case of the expert, and who
therefore must be regarded as possessing not only expertise but also good
sense. Among the flaws in this argument, one might point particularly to the
dubious analogy between the province of the δίκαιον and the province of the arts, and also to a blatant aequi-vocality
with "compete," by whose
utterance, in Greek, the utter might mean
"try to perform better than", but also "try to get the
better off.” In the succeeding argument against the alleged strength of
injustice non δίκαιον, Socrates remarks that
injustice, non δίκαιον breeds enmity, observes that
efficient and thorough-going injustice, non δίκαιον, requires "honour among thieves," and concludes
that a fully unjust – non δίκαιον -- man would in real life be weaker than one
who was less fully unjust – non δίκαιον. Maybe this argument shows
that the unjust, non δίκαιον, man cannot, with maximum
effectiveness, literally "go the whole hog" in injustice, or non δίκαιον; but this is far from showing that he should never
have started on any part of the hog. Finally, Socrates counters
Thrasymachus's claim that the unjust, non δίκαιον, life, rather than the just, δίκαιον, life,
is the happy life, by getting Thrasymachus to agree that at least for certain
kinds of things the best state of a thing of that kind lies in the fulfillment
of the function or metier of that kind or genus, which will also constitute an
exhibition of the special and peculiar excellence – ANDREIA, or virtus -- of
things of that kind; and also that justice, δίκαιον, is in the required sense the special excellence of the soul psyche
ANIMVS ANIMA; from which he concludes that justice, δίκαιον, is the best state of the soul and as a consequence gives rise to the
happy life. This argument, perhaps, palely foreshadows Socrates's strategy in
the main part of the dialogue. But at this point it seems ineffective, since no
case has been made out why Thrasymachus should agree to what one would expect
him to regard as the quite uncongenial suggestion that justice, δίκαιον, is the special excellence of the
soul. Transition to the main body of the Dialogue. Glaucon and Adeimantus
express dissatisfaction with Socrates's handling of Thrasymachus. Glaucon
invokes a distinction between three classes of goods: those which are
desirable only for their own sake, those which are desirable both in themselves
and for the sake of their consequences, and those which are desirable only for
the sake of their consequences, which Glaucon dubs ‘futilitarian.’ Glaucon goes
on to remark that it is the view of Socrates, shared by himself and Adeimantus,
that justice, δίκαιον, belongs to the second class
of goods, those which are doubly desirable; but he wishes to see the truth of this
view demonstrated, particularly as the generally received opinion seems to be
that justice belongs to the third class of goods which are desirable only for
the sake of their consequences and have no intrinsic value. He wishes Socrates
to show that justice, δίκαιον, is desirable in respect of
its effect on those who possess it, independently of any rewards or
consequences to which it may lead – duty without interest, in Prichard’s terms.
He wishes Socrates to show that it is reasonable to desire to be just, δίκαιον, rather than merely to seem just, δίκαιον, and, indeed, that the life of the just, δίκαιον, man is happy even if his reputation is bad.
Otherwise it will remain feasible: that the institutions of justice, δίκαιον, are acceptable only because they secure for us the
greater good of protection from the inroads of others at the cost of the lesser
evil of blocking our inroads upon others – benevolence versus self-love --, and
that if the possession of
Gyges's ring would enable our inroads upon others to remain undiscovered, no
reasonable person would deny himself this advantage. Adeimantus reinforces the
demands expressed by Glaucon by drawing attention to the support lent by the
prevailing education and culture to the received opinion about justice, δίκαιον, as distinct from the view of it taken by Socrates,
Glaucon, and himself. Apart from the tendency to represent the rewards
associated with justice, δίκαιον, as really attending not
justice, δίκαιον, itself but the reputation for
justice, δίκαιον, Adeimantus observes that even
when the rewards are thought of as attending not merely the semblance of
justice, δίκαιον, but justice, δίκαιον, itself, the rewards are conceived of as material and
consequential rather than as consisting in the fact that justice, δίκαιον, is its own reward. He also points to the fact that,even
when recognition that it is injustice, non δίκαιον, rather than justice, δίκαιον, which pays leads to the
pursuit of injustice, δίκαιον, and thereby to the incurring
of divine wrath, the prevailing culture and education teach that the gods can
be bought off. So unless Socrates follows the course proposed by Glaucon, he
will be saddled with the charge that really he agrees with Thrasymachus, that
so-called justice, δίκαιον, is really pursuit of the
interest of the stronger, the strength of whose case lies in his command of the
big battalions, and that the so-called injustice, δίκαιον, involved in the alternative pursuit of one's own interests is really
inhibited only by the threat of force majeure. In his attempt to accede to
the demands of Glaucon and Adeimantus, Socrates embarks on his elaborate
analogy between the state and the soul. The details of this presentation lie
outside the scope of Grice’s inquiry, which is concerned only with the
structural, eschatological aspects of Socrates' procedure. Does Thrasymachus have
a coherent position? When we operate, as moral philosophers, in the
borderland between ethics and political theory – not Hart’s JURISPRUDENCE! –
when or why was that chair instituted at Oxford, and wy doesn’t it count as
philosophy?--, one of the salient questions which we encounter is whether there
is a distinction between a moral concept and a political concept, and how such
a distinction, if it exists, should be characterised. In this connection it
will be of great importance to consider the view-point of a philosopher, if such
a philosopher can be found, who maintains that there is no distinction – “I
don’t count Mussolini as a philosopher” (Grice) --, or at least no genuine
distinction, between a moral concept and a political concept in this area of
the δίκαιον, or in some significant part
of this area. If it were possible without undue distortion to exhibit
Thrasymachus as a kind of moral (avant la letter) sceptic — as someone who
holds, for example, that while political justice δίκαιον, or politico-LEGAL justice δίκαιον – the deontological alla
Kelsen --, is an intelligible notion with real application, the same cannot be
said of moral justice, δίκαιον, which since Prichard, at
Oxford, can be seen to be ultimately an illusion, it might be philosophically
advantageous to regard Thrasymachus in that way. We should examine, therefore,
the prospects of success for such an interpretation of Thrasymachus's position.
Can he be viewed as one who regards political justice δίκαιον, but not moral justice δίκαιον, as a viable concept? If we attempt to proceed further in this direction, we
encounter a difficulty at the outset, in that it is unclear just what concept
it is which who Grice calls The Friends of Moral Justice δίκαιον suppose to be the concept of moral justice δίκαιον. Is the term – or phrase -- "moral justice" δίκαιον to be thought of as referring to moral value – axis
-- in general, as distinct from other kinds of value? Or is the notion of moral
justice, δίκαιον, to be conceived as possessing
some more specific content, so that, while both fairness and loyalty are
morally admirable qualities, only the first can be properly regarded as a form
of moral justice δίκαιον? And if the notion of moral
justice, δίκαιον, is to be supposed to cover
only a part of the domain of moral value, to which part of that domain is its
application restricted? To the region of fairness – Cricket is an Englishman?
To that of equality of opportunity – VICO, AEQVITAS alla romana? To that of
respect for this or that natural right? Rival candidates seem to abound – as we
well know – and not just at Oxford! In the case of Plato's Thrasymachus it
seems that he, perhaps like Plato himself, is not disposed to engage in the
kind of conceptual sophistication practised later by Plato’s former pupil, Aristotle
– I am reminded at this point of my own tutor Hardie, whose bedside book was
the ETHICA NICOMACHEA -- and by some philosophers since Aristotle –
notably my tutor, from Scotland, Hardie. For Thrasymachus, The Friends of Moral
Justice δίκαιον (on the assumption that the
representation of Thrasymachus as a kind of moral sceptic is legitimate) will
be philosophers who treat the term or phrase "moral justice δίκαιον " as one which refers to morality, or to moral virtue in general, a
usage which, not Philippa Foot, but Aristotle also recognises as legitimate,
alongside the usage in which "justice" δίκαιον is the name of one or more specific virtues, and for which he offers an
analogical explanation in terms of quantitative merit/demerit to
non-quantitative reward-punishment – the proportio or aequilibrium praised by
Cicero. If our programme requires that we try to represent Thrasymachus as a
certain sort of moral sceptic, obviously one part of his position will be that
the concept of moral justice δίκαιον is unacceptable. One or both of
two forms of unacceptability might be in question, namely alethic
unacceptability and semantic unacceptability, concerning what an utterer might
‘signify’ by uttering δίκαιον. The suggestion might be that a
positive ascription of moral justice, δίκαιον, are
never in fact true, and so are always alethically unacceptable, or that such
ascriptions, together perhaps with their negations, suffer from some form of
un-intelligibility, and so are semantically unacceptable. Cfr. Carnap: It is
not the case that pirots karulise elastically. Some indeed might contend that it
is general or generalized alethic unacceptability which generates semantic
unacceptability, concerning what an utterer might ‘signify’ – but recall
Humpty-Dumpty on ‘glory’ --, that if a certain kind of characterization is
always false, that implies that that kind of characterisation is in some way
unintelligible. Let us assume that the revised presentation of Thrasymachus
will be one which, for one reason or another, ascriptions of moral justice, δίκαιον, are semantically unintelligible, by way of an
utterer ‘signifying’ by the uttering of δίκαιον.
This assumption will leave open a considerable range of possibilities with
regard to the more precise interpretation of the notion of semantic
unacceptability, concerning what an utterer ‘signifies’ – consider Humpty
Dumpty --, ranging perhaps from the extreme suggestion that an ascriptions of
moral justice, δίκαιον, are just gibberish, as
Humpty-Dumpty’s Jabberwocky, to the suggestion that they admit no fully
successful rational elucidation – cf. Grice’s pupil Strawson on the bounds of
sense – grenzen der sinnlichkeit.. Within the boundaries of this position, the new
Thrasymachus might perhaps hold that, though the concept of moral justice, δίκαιον, is semantically unacceptable, a related concept,
which we may call "moral justice», -** δίκαιον - Owen would have a double star here -- " is fully admissible.
Moral justice* δίκαιον *-- I’ll use just one star -- δίκαιον is to be supposed to have precisely the same descriptive content as
moral justice δίκαιον; ascriptions, however, of
moral justice*, δίκαιον, will entirely lack the
ingredient of favourable valuation or endorsement which is carried by the
term "moral justice δίκαιον." It might, however, be
objected that the proposed separation of the descriptive content of moral
justice, δίκαιον, from its evaluative content
is quite inadmissible. If we are looking for a predicate which from an
ascriptive point of view is the specification of the general descriptive
condition for moral justice, δίκαιον, but which at the same time
lack the evaluative element which attaches to the term "moral
justice," δίκαιον , we shall need predicates
which are considerably more specific than "morally just»." δίκαιον .Indeed, some might claim that it is pure fantasy to
suppose that any predicate, however specific, could ‘signify’ a descriptive
character which falls within the general character ‘signified’ by the term
"moral justice", δίκαιον , after detachment of the
term's very core evaluative ‘signification’! Description cannot be thus severed
from evaluation, or the etic from the emic. Whatever may be the final upshot of
debate about the possibility of separating the descriptive ‘signification’ and
the evaluative ‘signification’ of the term "morally just," δίκαιον , it is clear that a further element in the position
of the new Thrasymachus will be that whatever semantic unacceptability may
attach to moral justice, δίκαιον, there is a further kind of
justice, δίκαιον, namely political (or
politico-legal) justice, δίκαιον – of the type Hart adored, and
Hare, on occasion, too--, which is free from this defect. Political justice, δίκαιον, is a concept which is both intelligible and has
application. Thrasymachus, however, wishes to combine this recognition of the
intelligibility and the applicability of the concept of political justice, δίκαιον, with the contention that the applicability of the
concept of political justice, δίκαιον, to a particular line of
actual or possible action provided a basis not for the commendation but rather
for the discommendation of that line of action; the wise, prudent, or sensible
man would be led away from rather than toward the adoption of a certain course
of action, would become less rather than more favorably disposed toward the
idea of his becoming engaged in it, if he were told, perfectly correctly, that
political justice, δίκαιον, required his engagement in
it. This further contention has the air of paradox; how could the fact that
political justice, δίκαιον, or indeed any kind of
justice, δίκαιον, requires a man to undertake a
particular course of action, be in the eyes of that man a bad mark against
doing the action in question? Can the new Thrasymachus align himself in this
matter with the old? It can fairly easily be seen that the idea that the
position of Thrasymachus involves paradox is ill-founded. That this is so can
best be shown by the introduction of one or two fairly simple distinctions.
First, a value (or disvalue) may be either intrinsic or extrinsic. Roughly
speaking, the value (or disvalue) of x will be intrinsic if it attaches to x in
virtue of some element in the character of x; it will be extrinsic if it
depends on the nature of some effect of x. To present the distinction somewhat
more accurately, a value or disvalue of x will be intrinsic if its presence is
dependent on some property of x which may indeed be a causal property, but if
it is a causal property, it is one whose value or disvalue does not depend on
the value or disvalue of that which is caused. The property of causing raised
eyebrows is a causal property and may be one with which value or disvalue is
associated; but if the eyebrow-raising is something with which value or
disvalue is associated, this is not because of the antecedent value or disvalue
of elevated eyebrows, but rather because of a connection between raised
eyebrows and surprise, or moral indignation (in Strawson’s case). A value or
disvalue will be extrinsic if it attaches to x in virtue of a causal property
the value or disvalue of which depends upon the antecedent value or disvalue of
that which is caused. Second, a value or disvalue may be either direct or
indirect. A value which is a direct value of x must rest, if it rests on other
features at all, on features of x which, at least on balance, are values rather
than disvalues; similarly, a direct disvalue of x, if it rests on other
features of x, must rest on features which are at least on balance disvalues.
An indirect value of x may rest on a prior disvalue of x, provided that this
disvalue is less than that which would attach to any alternative state of x.
The disvalue of being beheaded – if you are Charles I, if not Antoinette - may
be indirectly a value, provided that (for example) it is less than the disvalue
which would attach to the only other option, namely to being burned at the
stake – as Bruno and a few other Italian philosophers were on account of the
technicalities of axe-yielding – never mind the guillotine The least of a
number of possible evils may thus be indirectly a good. Thrasymachus, then, is perfectly
entitled to deny that political justice, δίκαιον, is
directly a kind of good, provided he was willing to allow, as he is, that
indirectly it is, or may be, a good. There is then no conceptual barrier to
incorporating in the position of the new Thrasymachus – think my pupil Nozick
(And I did my best by teaching Rawls’s ‘Fairness’ on Saturday mornings! -- the
thesis that political justice, δίκαιον, is only indirectly a good; it
is acceptable only as a way of averting the greater evil of being at the mercy
of predators. This would perhaps be an appropriate moment to consider a
little more closely what Grice is speaking of as Thrasymachus's combination of
rejection of the concept of moral justice, δίκαιον, and acceptance of the concept of political justice, δίκαιον. There are two ways of looking at this matter. One,
which is, I think, suggested by Grice’s discussion, is that there are two
distinct concepts, which some philosophers regard as being both parallel and
viable, namely moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον. The special characteristic of Thrasymachus is
supposed to be that he allows the second concept while rejecting the first. I
shall call this approach the "two-concept" view of justice, δίκαιον -- senses are
not to be multiplied, etc. -- according to which the unqualified term
"justice", δίκαιον, might be used to refer to
either of two distinct concepts. The second way of looking at things I shall
call the "one-concept" view of justice, δίκαιον, according to which the least misleading account of the difference
between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will be not that two different concepts are
involved, but that two different kinds of reason or backing may be relied upon
in determining the application of a single concept, namely that expressed
simply by the word "justice" δίκαιον -- without
the addition of any adjectival modification. The term "justice" δίκαιον will always ultimately refer to a system of practical rules for the
regulation of conduct, perhaps not just any and every such system but one which
conforms to certain restrictions — for example, perhaps, one which is limited
to the regulation of certain kinds of conduct or regions of conduct. The
difference between moral justice, δίκαιον , and political justice, δίκαιον, might be thought of as lying in the fact that in the
case of moral justice, δίκαιον, the system of rules is to be
accepted on account of the intrinsic desirability that conduct of a certain
sort should be governed by practical rules or by practical rules of a certain
sort, where a system of rules of political justice, δίκαιον, rests on the desirability of the consequences of making conduct
subject to rules, or to those particular rules. This possibly rather more
Kantian conception of the relation between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will perhaps carry the
consequence that the view of Socrates and his friends that moral justice, δίκαιον, is desirable independently of the consequences of
acting justly is no accident, but is a constitutive feature of moral justice, δίκαιον; without it, moral justice, δίκαιον, would not be moral. It should of course be recognised that the idea
that there is only one concept of justice, δίκαιον, though there may be different kinds of reason for accepting a system
of rules of justice, does not entail that one and the same system of rules of
justice may be acceptable for radically different kinds of reasons. There might
be a single concept of justice, δίκαιον, without its ever being true
that different sorts of reason could ever justify the acceptance of a single
system of rules of justice, or δίκαιον. We may, of course, if we wish
to treat a one-concept view of justice δίκαιον as in fact
invoking two concepts of justice δίκαιον; but if we do, we should
recognise that the two concepts of justice δίκαιον are higher-order concepts, each relating to different kinds of reasons
governing the applicability of a single lower-order concept of justice δίκαιον. Let us take stock. We seem to have reached a
position in which we have failed to detect any incoherence in the views
of Thrasymachus, and it seems to be a live possibility that intrinsic
desirability is not an accidental feature but is a constitutive feature of
moral justice δίκαιον. We should now inquire what
considerations, if any, would be grounds for dissatisfaction with the viewpoint
of Thrasymacus. When it comes to moral Justice δίκαιον and Scepticism, the claim that what Grice is presenting is a
reconstruction of Socrates' original defense of moral justice δίκαιον rests on my utilisation of some of Socrates' leading ideas, notably on
the idea that the presence of moral justice δίκαιον in a subject x depends upon a feature or features of components of x,
that the relevant feature or features of the components is that individually
each of them fulfills its role or plays its part, whatever that role or part
may happen to be (or, perhaps better, taken all together, their overall state
is one which realizes most fully their various separate roles), that in
satisfying this condition, they, the components, enable x to realize the
special and peculiar virtue of excellence ANDREIA or virtvs of the type to
which x essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as a good
or well-conditioned T (where "T" refers to the type in question), and
this in turn, if membership of T, or U, for universalia, if you wish to forget
about Russell,consists in being a soul, ensures that the life of x is happy, in
an appropriate sense of "happy." Grice’s account also resembles the
original account given by Socrates in that it deploys the notion of analogy
which is a prominent ingredient in Socrates' story, though it seeks to improve
on Socrates' presentation by making it clear just why the notion of analogy
should be brought into this discussion, and by making its appearance something
more than an expository convenience. Grice’s presentation seeks also to link
the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely with the
concept of moral injustice non δίκαιον but more centrally and more
directly with the more widely applicable concept of what one might call
"health." This change carries with it an increase in the number of
stages to be considered from two (the political and the moral) to three (the PHYSIOLOGICAL,
the political, and the moral). Grice’s presentation also introduces the
suggestion that the very same factors which determine whether a particular
entity x, belonging to a certain type T, merits the accolade of being a T which
is healthy, well-conditioned, or in good shape, also by their presence (in
lower degrees) determine the difference between the existence or survival of x,
rather than its non-existence, or non-survival, or lack of operancy. The same
features, for example, which at the physiological stage determine whether a
body is or is not well-conditioned, also determine by their appearance or non-appearance
in lower degrees whether that body does or does not exist or survive, i. e.
collapses instead. This example in fact calls for a more careful formulation.
Grice proceeds to a more detailed discussion of the three stages recognized in his
account. The complications are considerable, and intelligibility of
presentation may call for omissions and convenient distortions. At Stage
1, the physiological stage, there appear a number of different items or types
of item, viz.: physiological things, such as human and animal bodies -- ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs. These will include both
distinct types of d-component or organ, like the Liver and the Heart, and
distinct instances or tokens of these types, like GRICE’S liver and GRICE’S heart, or GRICE’s liver and STRAWSON’s
heart. Entry will distribute a number of
different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For
these purposes, sets of teeth and pairs of human legs will have to count as
each a single organ. Functional properties of physiological components or organs. These
correspond to the jobs or functions which the various organs crucially fulfill
in the life of the -thing or body to which they belong, such as walking,
eating, achieving, and digestion. For convenient oversimplification I
assume that each organ has just one functional property, which will be variable
in degree. (d) Certain properties of -things (bodies) ("global
properties") which will be dependent on the functional properties
exhibited by the arrays of physiological components or organs which belong to
the things in question. The properties under this head which presently concern
me are two in number: one, which will not be variable in degree, will be the
property of existence or survival, which will depend on the array of
physiological components belonging to a particular d-thing achieving a minimal
level with respect to the functional properties of the members of the array,
that is to say, a level which is sufficient to ensure that the array of
physiological components continues to exhibit some positive degree of the
functional properties of that array. The other -thing property which concerns
Grice is one which will be variable in degree; it is the property of
well-being, or well-being as a -thing of the sort to which it belongs. Maximal
well-being will depend on an optimal combined exemplification of the functional
properties of a -thing's physiological components. The higher levels of this
latter property are commonly known as "bodily health" (with-out
qualification), or as "bodily healthiness." At all levels the
phrase "bodily health" may be used to signify the dimension
within which variation takes place between one level and another. (3)
Before I embark on a consideration of the details of subsequent stages, perhaps
I should amplify the account of my intended proce-dure, including the general
structure of my strategy for the characterization and defense of moral
justice: (a) The items involved in the stage 1 (physiological entities or
bod-ies, their components or organs, the functional properties, and certain
overall features of bodies, such as existence and being in good shape, which
are dependent on the functional properties of organs) exist or are exemplified
quite naturally and without the aid of analogy at this level. The stage
therefore may be regarded as providing paradigms which may be put to work in
the specification of related items which appear in subsequent stages and into
the constitution of which analogy does enter. (b) Those members of the
list of items, mentioned in 3(a) as appearing in later stages, which are
properties as distinct from things, may be specified in two different ways. One
way will be to make use of abstract nouns or phrases which are peculiar and
special to properties belonging to that stage, and which do not incorporate any
reference to more generic properties specifications of which are found also at
stages other than the one to which the property under discussion itself
belongs. The other way is to build the specifications from what at least seem
to be more generic properties, together with a differentiating feature which
singles out the particular stage at which the specified properties apply.
Leaving on one side for a moment the second mode of specification, I shall
comment briefly on the first. This may be expected to yield for us, at the
political stage, such properties as those expressed by the phrases
"political justice" and "political existence," and by
whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this or
that part of a state on which the global properties of political justice and
political existence will depend. Again, at the psychological stage, the
first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions
for the psychological properties of moral justice and psychological existence,
and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may
be) on which the presence of moral justice and psychological existence will
depend. It will be noted that more than one important issue has so far been
passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice
might be different specifications of a more general feature for which the name
"justice," without added qualification, might be appropriate; I have
left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded,
as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way,
perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the
question of the objects of reference of the phrase "parts of the
soul." Such matters obviously cannot be indefinitely left on one
side. (c) I turn now to the considerably more complicated second mode of
specification of the relevant range of properties. As already re-marked, this
mode of specification will incorporate references to seemingly generic
properties the appearance of which are not restricted to just one stage, a fact
which perhaps entitles us to talk here about "multistage" epithets
(predicates) and properties. Examples of second-mode specification will be such
epithets as "is in good shape as a body" and "is in good shape
as a state," both of which incorporate the more generic epithet "is
in good shape" which seemingly applies to objects belonging to different
stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such
"holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different
stages, there will also be "meristic" epithets, like "part"
itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main
suggestions is that the multistage epithets which are characteristically
embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind
of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may
remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled
with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical
application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly
important in view of the fact that it is also one of my contentions that there
will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by
use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second
mode. It should be observed that although I have claimed that there are
two different modes of property-specification, I have not claimed that for each
individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen
of each mode of specification will be available for use; it may be that in
certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode
specification, or that a first-mode specification can be made available only
via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode
specification. Since in my view most of the difficulties experienced by
philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts
about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps
which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to
favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can
make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications
are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the
onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should
also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode
and first-mode specifications might make a substantial contribution to two
distinct philosophical questions, namely: (i) whether it is sometimes
true that description presupposes valuation (since second-mode specification
seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to
go); whether it is sometimes or always true that valuation presupposes
Teleology or Finality, since second-mode specifications characteristically
introduce references to functions and purposes. (d) I shall now
recapitulate the main features which I am supposing to attach to first-mode and
second-mode specifications, with a view to raising some further questions about
the two modes: Properties which will be specified, when one uses
first-mode specifications by single-stage epithets (properties like bodily
health, political justice, and, perhaps controversially, moral justice) may
also be specified by the use of second-mode specifications which will
incorporate references to seemingly multistage properties such as wellbeing and
existence. The property of bodily health, for example, may also be referred to
as the property of well-being as a physiological entity, the property of
political justice as the property of well-being as a political entity (or
state), and the property of moral justice (perhaps) as the property of
well-being as a psychological entity (or soul). (ii) The global
properties of well-being as this or that type of entity will depend on a
maximal (or optimal) degree of fulfillment, by the various parts of the
subjects of those global properties, of a sequence of meristic properties
associated with the jobs or functions of those (iii) The very same
meristic properties on which the various forms of well-being depend will also
determine, at a lower degree of realiza-tion, the difference between the
existence and the nonexistence of the entities which inhabit a particular
stage. (iv) It might be possible, by a move which would be akin to that
of "Ramsification," to redescribe the things which inhabit a
certain stage, their components or parts, the jobs or functions of such com-ponents,
the property of well-being and the property of existence as being just those
items which, in a certain realm, are analogical coun terparts to the prime
items, in the physiological realm, respectively, of bodies, organs, bodily
functions, health, and life (survival). (v) These proposals might achieve
a combination of generalizationand justification (validation) of the items to
which they relate, given the assumption that the proposed redescriptions are
semantically and alethically acceptable. Among the questions which most
immediately clamor for consideration will be the following: Question 1:
How are we to validate my intuitive judgment that second-mode specifications
which involve multistage epithets will always, or at least sometimes, be
analogical in character? Question 2 is: How are we to elucidate the
phrase used in (iv) "in a certain realm"? (Q3) How is it to be
shown that the proposed redescriptions are not merely semantically but also
alethically acceptable? I will take these questions in turn.
Question 1 calls for the justification of a thesis which, without offering
arguments in its support, I suggested as being correct, namely that if there
are multistage epithets, that is to say, epithets which apply sometimes to
objects belonging to one stage and also sometimes to objects belonging to
another stage, the application of such an epithet to one, and possibly to both,
of these segments of its extension must be analogical rather than literal. It
seems to me that, before such a thesis can be defended or justified, it needs
to be emended, since as it stands it seems most unlikely to be true. Consider
first the epithet "healthy"; there would, I think, be intuitive
support for the idea that when we talk, for example, of "a healthy mind in
a healthy body," at least one of these applications of the epithet
"healthy" must be analogical rather than literal, since only a body
can be said to be literally healthy. But if we turn to the epithets
"sound" and "in good order," though I think there will be
intuitive support for the idea that both bodies and minds may be said to be
sound or to be in good order, and indeed for the idea that bodies and minds can
truly be said to be sound or in good order just in case they can truly be said
to be healthy, there will not, I think, be intuitive support for the idea that
the application of the epithets "sound" and "in good
order" to either bodies or minds, or to both, is analogical rather than
literal. I would in fact be inclined to regard the application of each of these
epithets to both kinds of entity as being literal. I would suggest that the
needed emendation, while it allowed that the literal application of epithets
may straddle the division between its applicability to subjects that belong to
one stage and to subjects that belong to another, would insist that, when such
literal cross-stageapplications occur, they depend upon prior cross-stage
applications of some other epithet, where one or even both of the segments of
application are analogical rather than literal. How should the emended
thesis be supported? My idea would be that the barriers separating the
applications of an epithet to objects belonging to one stage from its
application to objects belonging to another will in fact be category-barriers,
and that there are good grounds for supposing that objects which differ from
one another in category cannot genuinely possess common properties, and so
cannot ultimately, at the most fundamental level, be items to which a single
epithet will literally and nonanalogically apply. If objects x and y are
categorically debarred from sharing a single property, then they are also
debarred from falling, literally and nonanalogically, within the range of
application of an epithet whose function is to signify just that property.
There is nothing to prevent a body and a mind from being, each of them,
literally in good order, provided that the condition needed for being literally
in good order is that of being either literally healthy (in the case of a body)
or (in the case of a mind) (analogically speaking) healthy. Perhaps the first
matter to which we should attend in an endeavor to form a clear conception of
(for ex-ample) the place of being (analogically speaking) healthy, a feature
which may attach to minds, within a generalized notion of being in good order,
or (perhaps) of being healthy, is the consideration that the question whether
the application of a certain epithet to certain things is literal or
analogical, is by no means the same question as the question whether its
application to those things is or is not to be taken seriously. It may, for
example, remain an importantly serious question whether John Stuart Mill is
properly to be regarded as a friend of the working classes long after it has
been decided that, if the epithet "friend of the working
classes" does apply to John Stuart Mill, it applies to him analogically
rather than literally; it does not apply to him in at all the same kind of way
as that in which the epithet "friend of Mr. Gladstone" may have applied
or, perhaps, failed to apply to him. The question whether a particular person
is in good shape may be a question an important aspect of which is expressed by
the question "Is his mind (analogically speaking) healthy?"; if so,
given that the first question is, as it may be, one to be taken seriously, the
same would be true of the second question. A second consideration, which
we should not allow ourselves to lose sight of, is one which has already been
briefly mentioned in thefirst part of this essay. We are operating in an area in
which, not infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle
would have called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of
seemingly distinct kinds of items, and by a number of features each of which is
special to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed
the way we talk —we shall be led to suppose that these features are all
specifications of some more general feature which is manifested, with specific
variations, throughout the range formed by the kinds in question, a putative
general feature for which ordinary language may even provide us with a
candidate's name. Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to
suppose that the members of this range of special features have a common explana-tion,
a further general feature which accounts for the first general feature, and
also, with the aid of specific variations, for the original range of special
features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures
which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which
the world lays before us. In the present case, the application of this method
would be to a range of items which includes bodies, states, and, perhaps, souls
and also to such special features of these items as (respectively) bodily
health, political justice, and (perhaps) moral justice. Unfortunately, at
this point, we encounter a major difficulty. The items which are the subjects
to which the members of the range of special features attach, namely bodies,
states, and souls, insofar as they are genuine objects at all, seem plainly to
belong to different categories from one another; and these categorial
differences would be such as to preclude, if widely received views about
categories are to be accepted, the possibility that there are any properties
which are shared by items which differ from one another with respect to the
kinds to which they belong. It looks, then, as if the possibility that there is
a generic property of which the special properties are differ-entiations, and
the possibility that there is a further generic property which serves to
account for the first generic property, have both been eliminated. I have in
fact not attempted to set out a theory of categories which would carry this
consequence, and it would certainly be necessary to attempt to fill this
lacuna. But the prospects that this undertaking would remove the difficulty do
not at first sight seem encouraging. If, then, we are not to abandon all hope
of rational so-lution, we shall be forced to do one of three things: (i)
Relinquish the idea of applying here procedures for descriptionand explanation
which are operative in examples which are not bedeviled by category
difference. (ii) Argue that the category differences which seem only too
prominent on the present occasion are only apparent and not real. (iii)
Devise a less restrictive theory of the effect of category differences on the
sharing of properties. In the light of these problems, we should
obviously be at pains to consider whether attention to the notion of analogical
application would have any chance of providing relief. I propose to leave
this problem on one side for a moment, returning to consideration of it at a
later point; immediately, I shall address myself to a possible response to the
suggestion that the question whether the possible application of a given
epithet to a certain subject is an issue which it is proper to take seriously,
is quite distinct from the question whether such application, if it existed,
would be analog-ical or literal. The response would be that the distinction
between the two questions does not have to be a simple black-or-white matter;
it might be that, while the fact that if such application existed at all it
would be an analogical application is not a universal obstacle to the idea that
the application is one which should be taken seriously, it is also not true
that there is no connection between the two questions; if the inquiry into the
application of the epithet is one of a certain sort or one which is conducted
with certain purposes in view, then the idea that such application would be
analogical stands in the way of the idea that the application is one to be
taken seriously; if, however, the character and purposes of the inquiry are of
some other sort, then the two questions may be treated as distinct. It
might, for example, be held that if the inquiry about the application of an
epithet is one which aims at reaching scientific truth, at laying bare the true
nature of reality, then the fact that the application of the epithet would be
analogical conflicts with the idea that it should be taken seriously; if,
however, the inquirer's concern is not with scientific truth but rather with
the acceptability, either in general or in a particular case, of some practical
principle (or principle of conduct), then the two questions may be treated as
distinct. Something like this "halfway" position is perhaps
discernible in Kant; in, for example, his claim that Ideas of Pure Reason, with
regard to which no transcendental proofs are available, admits of
"regulative" but not of "constitutive" employment, a
suggestion which is perhaps repeated in his demand for a nondogmatic kind of
teleology, a teleol-ogy which somehow guides our steps without adding to our
stock of beliefs. The situation, however, is vastly complicated by the fact
that the notion of what is "practical" is susceptible to more than
one in-terpretation; on a wider interpretation, any principles or precepts
would count as practical provided that they relate to questions about how one
should proceed. On a second interpretation of "practical," only those
examples of principles and precepts which are "practical" in the
first sense will count as "practical" which relate not just to some
form of procedure but to procedure in the world of action as distinct from
procedure in the world of thought. Imperatives which are practical in the
second and narrower sense will, as Kant himself seems to have thought, include
those which tell us how to act but will not include those which tell us how to
think; they will be concerned with the conduct of the business of life but not
with the conduct of the business of thought. This ambiguity leaves principles
and precepts which concern conduct of the business of thought in a somewhat
indeterminate position; they will be practical in the wider sense since they
are concerned with questions about how we should conduct our-selves; however,
what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other when we
observe that the conduct they prescribe is conduct which is specifically
involved in arriving at decisions about scientific truths and the nature of
reality. For me the issue is made even more complicated by the fact that I have
instinctive sympathy toward the idea that so-called transcendental proofs
should be thought of as really consisting in reasoned presentation of the
neces-sity, in inquiries about knowledge and the world, of thinking about the
world in certain very general ways. This viewpoint would introduce
interconnections between what we are to believe and how we are to proceed which
will be by no means easy to accommodate. I return now to discussion of
the quandary which I propounded a little while ago, and the severe limitations
on explanation seemingly imposed by category-differences between features which
need to be explained. As I see it, my task will be to provide a somewhat more
formalized characterization of the phenomenon of analogical application than
has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical char-acterization, which
will at the same time be one which both preserves those category-differences
and their consequential features, and at the same time avoids undue
restrictions on the application of standard procedures for the construction of
explanations. This may seem like a tall order, but I think it can be met.Let us
first look at the notion of instantiation and at one or two related notions. If
I am informed that x instantiates y (that x is an instance of y), and also that
y specifies z (that y is a specification of z, that being y is a way of being
z, that y is a form of z), then I am entitled to infer that x instantiates z.
If, however, instead of being informed that y specifies z, I am informed that y
instantiates z, the situation is different; I cannot infer from the information
that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z. The relation
of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue, and blue
specifies color, then it looks as if azure must specify color. Let us now
define a relation of "subinstantiation"; x will subinstantiate z just
in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y
instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque
representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y,
then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x
instantiates y, then x belongs to a level which is one step lower than that of
y, and that if x subinstantiates y, then x belongs to a level which is two
steps lower than that of y. Now it seems natural to suppose that when a number
of more specialized explanations are brought under a single more general and so
more comprehensive ex-planation, this is achieved through representing the
various features, which are separately accounted for in the original
specialized explanations, as being different specifications of a single more
general fea-ture. If, however, we were entitled to say that the crucial
relation connecting the more specialized explicanda with a generalized
expli-candum is not, or at least is not in those cases in which the specialized
explicanda are categorically different from one another, that of specification
but rather of subinstantiation, then we shall be able to avoid the
uncomfortable conclusion that the admissibility of generalized ex-plicanda
involves the admissibility of the idea that categorically different subject
items may be instances of common properties. An item need not, indeed perhaps cannot,
instantiate that which it subinstan-tiates. To conclude my treatment of
the quandary, I need to show, as best I can, that a systematic replacement of
references to the relation of specification by references to the relation of
instantiation would have no ill effect on the standard procedure for
generalizing a set of specialized explanations, with which we have provided
ourselves, of the presence of discriminated specialized properties. To fulfill
this under-taking, I must consider two cases, one involving the application of
aprocedure for generalization which is characterized in terms which involve
reference to the relation of specification, and the other in which all
references to specification are replaced by references to additional and
"higher-level" occurrences of the relation of instantia-tion.
Case I. (i) We start with a group of particulars (x, through x,), with regard
to each of which we are informed that it possesses property D; and with two
further groups of particulars (y, through Ym and z, through z,) instantiating,
respectively, properties E and F. The generalization procedure begins when we
find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and z,
through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or
legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. We next
find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way 1,
respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and C
and F, specify in way 3, respectively, P and Q (iv) We are now, it seems,
in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in a
corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for
example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to
say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing
as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am
consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has
in fact been achieved. Case I1. Case Il begins to differ from Case I only
when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and
D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect
that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q;
and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase
"first-group instance" either the phrase "second-group
instance" or "third-group instance" will be made in what we say
about properties B and E and properties C and F. Though I would not claim
to have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference
between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of
legitimacy of the procedure for generalization with which I am currently
concerned. The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be
quite un-affected. If I am right in this suggestion I shall, I think, have
succeeded in providing what was mentioned in Part I of this essay as a desider-atum,
namely a development of a concept of Affinity, which would be less impeded by
category-barriers than the more familiar notion of Similitude. (f) I now
turn briefly to question Q2. This is the question how to interpret the
expression "in respect to a certain realm" within such phrases as in
"an analogical extension, in a certain realm, of the property of health,
in the primary physiological realm to which animal and human bodies are
central." I should make clear the problem of ambiguity which prompts this
question; there is one way of looking at things, one conception, according to
which there is a certain realm, which is that to which souls are central, and
into which there is projected an analogical extension of the property of
health. In this conception the notion of souls is logically prior to the notion
of the psychological realm to which souls are central, and both are logically
prior to the property which is the analogical extension of the property of
health, which in the primary physiological realm is the property of bodies. But
there is another conception which might particularly appeal to those who regard
souls as being, initially at least, somewhat dubious entities, according to
which souls are introduced into the psychological realm to be the subjects or
bearers of a property in that realm which is an analogical extension of the
property of health, which in the physiological realm belongs to bodies.
According to this conception, fairly plainly, the conception of souls is
logically posterior both to the notion of the psychological realm and to the
analogical extension of the property of health which exists in that realm.
Question Q2 is in effect an accusation: it suggests that the two conceptions
are mutually inconsistent, since souls cannot be at one and the same time both
logically prior to and logically posterior to both the concept of the realm to
which they are supposedly central and to a certain property, analogous to
bodily health which exists in that world; it further suggests that Socrates (or
neo-Socrates) need both of these conceptions, but, of course, cannot have both
of them. To meet this objection, I would suggest that a promising line to
take would be to deny that we start with a certain realm, the psychological
realm, the nature of which is determined either by the subject-items, namely
souls, which are central to it, or by the properties, such as a certain
analogue of bodily health, which characterize things in it; and that we then
proceed at a later point to add to it the remaining members of these two
classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of the elements
in the primary physiological realm,souls which are analogues of bodies and a
class of properties one of which is an analogue of bodily health, and call the
realm to which these analogues belong the psychological realm. In this way the
incoherence covertly imputed by question Q2 will be dissolved, since neither of
these psychological elements (souls and properties like the analogue of bodily
health) will be logically prior to the other. What in fact has been done is to
introduce, first, a double analogical extension of two types of items which
belong to the primary physiological realm and, second, the notion of a
psychological realm for use in a convenient way of talking about what has
initially been done. No doubt more than this will need to be said in a
full treatment of the topic; but perhaps for present purposes, which are
primarily directed toward defusing a certain criticism, what has been said will
be sufficient. When it comes to the prospects for ethical theory -- Question
3 Question 3 might be expanded in the following way. we can imagine
ourselves encountering someone who addresses us in the following way: "You
have certainly achieved something. There is one class of philosophers who would
be inclined to deny that the notion of moral justice, δίκαιον, can be regarded as an acceptable and legitimate concept, because there
is no way in which the intuitive idea of moral justice, δίκαιον, can be coherently presented in a rigorous manner. What you have said
has shown that such a philosopher's position is untenable; for you have shown
that if we allow the possibility of representing moral justice, δίκαιον, as a certain sort of analogical extension of a basic
notion, namely health, which is a property of bodies, items which belong to a
basic or primary realm of objects, you have succeeded in characterizing in a
sufficiently articulated way the possession of moral justice, δίκαιον, to which the philosopher in question is opposed on
the grounds of its incoherence. That is no small achievement, but it is not,
nevertheless, from your point of view, good enough. For there will be another
class of philosophers who find no incoherence in the notion of moral justice, δίκαιον, but claim that lack of incoherence is a necessary
condition but not a sufficient condition for accepting moral justice, δίκαιον, as a genuine feature of anything in the world. The
uses that we make of our characterizations of moral justice, δίκαιον, and other such items must be as part of an as it
were encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents of the
rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one contains
everything which the other contains together with something which the other
does not contain, while the other account contains nothing beyond a certain
part of what the first account contains, it will be rational, in selecting the
optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger volume, unless
it can be shown that what is contained in the larger volume but omitted in the
smaller one is something which should be present in a comprehensive picture of
the rational world. To be fit for inclusion in an account of the rational
world, a contribution must be not only coherent but also something which is
needed. This demand you have not fulfilled." To this critic Grice should
be inclined to reply in the following manner. "I agree with you that more
is required to justify the incorporation of moral justice, δίκαιον, within the conceptual furniture of the world than a
demonstration that the notion of moral justice, δίκαιον, is one which is capable of being coherently and rigorously presented;
and I agree that I have not met this additional demand, in whatsoever it may
consist. But I think it can be met; and indeed I think I can not only say what
is required in order to meet it but also bring off the undertaking of actually
meeting it. The required supplementation will, I suggest, involve two elements.
First, a demonstration of the value, in some appropriate sense of
"value," of the presence in the world of moral justice, and second, a
demonstration that it is, again in the same ap. propriate sense, up to us
whether or not the notion of moral justice does have application in the
world." I shall now enlarge upon the two ingredients of this proposed
response. First Supplementation. A person who is concerned about the
realization in the world of moral or political justice, δίκαιον, will encounter at a number of points alternative options relating to
such realization which he may have to take into account. The number of such
options will vary according to whether a "two-concept" view or a
"one-concept" view is taken of justice, δίκαιον; the number will be larger if a two-concept view is taken, and I shall
begin with that possibility. On a two-concept view, there will be two
properties the realization of which has to be considered, moral justice δίκαιον and political justice δίκαιον. One who is concerned about the application of these properties,
and who is unhampered by any sceptical reservations, will have to consider the
application of each of these properties to a particular individual, standardly
himself, and also to a general subject-item, such as a particular totality of
individuals each of whom might consider the application to himself as an
individual of each of the initial properties. There will also be a variety of
distinct motivational appeals which the application of one of these forms of
justice, δίκαιον, has to a particular
subject-item, the consequential appeal of that realization (e.g. its payoff),
or both. If we go beyond Plato, we might have to add such forms of motivational
appeal as that which arises from subscriptions to some principle governing the
realization of the initial property. On a one-concept view the initial
array of options will be considerably reduced, though it is perhaps
questionable whether such reduction will correspond to any reduction in
genuinely distinct and authentic options. On the assumption that it would not, Grice
temporarily goes along with the idea that a one-concept view is the correct
one. On this view a distinction between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will reappear as the
difference between concern for the application of a single property, that of
justice, δίκαιον, when it is motivated by the
intrinsic appeal of its realization in a given subject-item (one might perhaps
say its moral appeal) or alternatively, when it is motivated by the idea of the
consequence of such a realization (one might say by its political appeal). One
should perhaps be careful to allow that the idea that a single concept or
property may exert different forms of motivational appeal does not carry with
it the idea that one and the same body of precepts will reflect that concern,
regardless of the question whether the motivational foundation is moral or
political. It is crucially important to recognize that situations which
are only subtly different from one another may exert quite different forms of
motivational appeal. Nothing has so far been said to rule out the possibility
that while Socrates and other such persons may each be concerned that people in
general should value the realization of justice, δίκαιον,in themselves because of its intrinsic appeal, that is to say, for
moral reasons, nevertheless their concern that people in general should value
for moral reasons the realization in themselves of justice, δίκαιον, is based at least in part on consequential or
political grounds rather than on any intrinsic or moral appeal. It is possible
to be concerned that people be sensitive to the moral appeal of being just, δίκαιον, and at the same time for that concern to be at least
partly founded on political rather than on moral considerations. If that is so,
then the concern for a widespread realization of moral justice, δίκαιον, might itself have a non-moral foundation, as
Prichard attempted at Oxford with his duty and interest, repr. by Urmson. Such
considerations as these might be sufficient to ensure that the realization of
moral justice in a community is of value to that community. This value might
consist in the fact that if themembers of a community are morally concerned for
the realization of justice, δίκαιον, in themselves, their
manifestation of socially acceptable behavior will not be dependent on the real
or threatened operations of law-enforcers, to the advantage of all.
Second Supplementation. If we were to leave things as they are at the end of the
first supplementation, though we should perhaps have shown that the realization
of moral justice in the world was of value to inhabitants of the world and
possibly also absolutely, we should not have escaped the suggestion that this
alone is not adequate to our needs; it would leave open the possibility that
all one could do would be to pray that moral justice, δίκαιον, is realized in the world, and then when we have found out whether this
is or is not the case, to jubilate or to wail as the case might be. To make
good our defense of moral justice, we should need to be able to show that in
some sense the realizability of moral justice in the world is up to us. At this
point it seems to me we move away from the territory of Socrates and Plato and
nearer to the territory of Kant; it also seems to me that at this point the
problems become immensely more difficult, and partly because of that, I shall
not attempt to devise here a solution to them, but only to provide a few hints
about how such a solution might be attained. As we have been interpreting the
notion of moral justice, δίκαιον, its realizability is an idea
which is very close to that of the validity of morality; and if we were to
follow Kant's lead, we should be on our way to a supposition which is close to
his idea that the validity of morality depends upon the self-imposition of law,
an idea which, though obscure, seems to suggest that what secures the validity
of Morality is something which, in some sense or other of the word
"do," is something that we ourselves do, and so perhaps in some sense
or other "could," we could avoid doing. What kind of
"doing" this might be, and how it might be expected to support
Morality, to my mind remain shrouded in darkness even after one has read what
Kant has to say; there seems little reason to expect that it would closely
resemble the kind of doing with which we are familiar in the ordinary conduct
of life. There is also important uncertainty about the proper interpretation of
the word "could"; it might refer to some kind of psychological or
natural possibility, something which some would be inclined to call a kind of
causal possibility; or it might refer to some kind of "rational"
possi-bility, the existence of which would require the availability of a reason
or possible reason for doing whatever is said to be rationally possible.
Not everything which is psychologically possible is also rationallypossible;
and I think it might be strategically advantageous if it could be held that the
Kantian view assigns psychological possibility but not rational possibility to
the avoidance of the institutive act which underlies morality; but whether this
is Kant's view, and how, if it is his view, it is to be made good, are problems
which I do not know how to solve. When it comes to The Republic and
Philosophical Eschatology, Grice presents what he sees as the background to the
reconstructed debate between Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps
between neo-Thrasymachus and neo-Socrates. Neo-Thrasymachus is a Minimalist and
a Naturalist who has affinities with Hume – and his name is Nozick; he rejects the
concept of moral justice, δίκαιον, on the grounds that it would
be at one and the same time a non-natural and psychologistic feature and also
an evaluative feature. At this point we may suppose that neo-Socrates, who is
not committed to any form of Naturalism, will have retorted to neo-Thrasymachus
that a blanket rejection of psychologistic and evaluative features will totally
undermine philosophy. This part of the debate is not recorded, but we may
imagine neo-Thrasymachus to have responded that neo-Socrates is in no better
shape; for he can make sense of the notion of moral justice, δίκαιον, only by representing it as a special case of a favourable
feature, namely well-being, which spans category-barriers between radically
different sorts of entities, such as a body, a political state, or a person.
But neo-Socrates himself will be committed to holding a view of universals
which will prohibit any such crossing of category-barriers by a single
universal. To this charge neo-Socrates may resort to two forms of defense, one
less radical than the other. The less radical form would involve the claim that
while there have to be category-barriers, these do not have to be as severe and
restrictive as the accusation suggests. The more radical form of defense
would refrain from relying on a more permissive account of category-barriers
even though it allowed that such increased permissiveness would be in order. It
would rely rather on a distinction between concepts which may span
category-barriers, whether these are more or less severe in nature, and universals
which may not span such barriers. A closely parallel distinction between an expression's having a single meaning and
its being used to ‘signify’ a single universal can, Grice thinks, be found in
Aristotle. Vide Grice, “Aristottle on the multiplicity of being” and the
three modes of unification of universalia via recursion – the logically
developing series, the focus, or the analogy or proportion. This distinction
would be made possible by making concepts rest ona foundation of affinities as
distinct from the foundation of similarities which underlies universals;
affinities may, while similarities may not, be characterizable purely in
analogical terms. The working out of such a distinction would be one of a
variety of concerns which would be the province of a special discipline of
philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance
of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion
would permit generalization and explanation to cross category-barriers and
would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against
neo-Socrates and his favored notion of moral justice, δίκαιον. At some level of reinterpretation, then, Socrates's appeal to an
analogy between the soul and Mussolini’s Italian state, say, would be at least
partly aimed at showing that the concept of Moral Justice, δίκαιον, which Thrasymachus would like to banish as
theoretically unintelligible, is analogically linked with the concept of bodily
health, admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate concept,
in such a way that, despite radical categorial differences between the two
concepts, if the concept of bodily health is intelligible, the concept of Moral
Justice, δίκαιον, is also intelligible.
However, to exhibit Moral Justice as a feature which is really applicable to
items in the world, such as persons and actions, more is needed than to show
that its ascription to such items is free from incoherence. It will be necessary
to show that such ascription, if it were allowed, would serve a point or
purpose, and also that it is in some important way up to us to ensure that such
ascription is admis sible. The fulfillment of the last undertaking might force
us to leav the territory of Socrates and Plato and to enter that of Kant, or
even worse, if we follow Gentile, Hegel! Samuele Renato Treves. Renato Treves. Treves. Keywords:
giudice, giustizia, giusto, ventennio fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Treves” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Tria: la ragione conversazionale da
Roma a Roma via Roma; o, l’implicatura conversazionale della terza Roma – la
scuola di Laterza -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Laterza). Abstract. Keywords: la terza Roma,
la prima Roma. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Laterza, Taranto, Puglia. Studia
filosofia a Napoli e Roma. Uditore di diritto
presso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni rimane al servizio
di questa abbazia anche quando e trasferito a Roma, è nominato vicario generale
di monsignor Gherardi, vescovo di Loreto e Recanati, e tale rimase. Più tardi,
con monsignor Firrao, ha l'incarico di nunzio straordinario alla Corte del
Portogallo. Quando monsignor Firrao, per
questione di salute, è trasferito in Svizzera, T. anda con lui a Lucerna.
Durante la sua permanenza in Svizzera intraprende un'importante missione in
Svezia e Germania. Eletto vescovo di Cariati e Cerenzia, entra in carica
presiedendo il sinodo. Trasferito poi a Larino, partecipa al concilio di
Benevento. Nominato consulente del Sacro Offizio e arcivescovo di Tiro. Divenne esaminatore di Vescovi ed è insignito
del titolo di cavaliere dell'ordine di S. Giacomo per i suoi meritori servigi
resi alla Corte di Lisbona. Il suoi eruditi saggi includeno: “Memorie storiche civili di Larino (Roma); “Accommodamento
tra il papato e la corte reale di Napoli” (Roma), “Benedetto XIII”. Memorie
storiche degli scrittori, regno di Napoli, Napoli, Tipografia dell'Aquila di
Puzziello, Diocesi di Larino, Pietro Pollidori Giovan Battista Pollidori.
Giovanni Andrea Tria. Tria. Keywords: la terza Roma. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Tria” – The Swimming-Pool Library. Tria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trincheri:
la ragione conversazionale secondo Andrea Speranza, e l’implicatura
conversazionale – la scuola di Pieve di Teco -- filosofia ligure -- la filosofia
italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Pieve
di Teco). Abstract.
Keywords. Andrea Speranza. The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An
Old-World philosopher such as Turoldo would never have imagined to be compared
to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is
meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been
educated in a tradition that would make little sense of Turoldo as a ‘Grice
italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers.
Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons
he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome
of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His
heritage remains. Turoldo’s place in the history of philosophy is other. But
there are connections, and here they are. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Pieve di Teco, Imperia,
Liguria. Nato da una famiglia benestante che ha in possesso alcuni ettari di
terreno. Appassionato alli romantici, e riconosciuto e si afferma all'interno
della cerchia dei letterati del suo tempo grazie alla brillante difesa in
favore di Manzoni, quando quest'ultimo pubblica la sua prima tragedia, “Il Conte di Carmagnola”.
E con il sostegno del suo maestro e amico Goethe, famoso filosofo e scrittore
romantico, che riusce a far valere la proprio opinione positiva nei confronti
dell'autore dei Promessi sposi. Poche altre notizie biografiche si conoscono a
proposito della sua vita che, a causa di un incidente in cui fere a morte il suo
amico, Andrea Speranza, crolle in una situazione estremamente travagliata. Grice: “”Andrea Speranza” may mean different things.” Trincheri.
Keywords: Andrea Speranza. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Trincheri” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Troilo:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della conflagrazione
– la scuola di Chieti -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Perano). Abstract. Keywords: conflagrazione. The phrase ‘Grice
italo’ is meant as provocative. An Old-World philosopher such as Turoldo would
never have imagined to be compared to a tutor at a varsity in one of the
British Isles, but there you are! It is meant as a geo-political reminder, too.
Many Italian philosophers have been educated in a tradition that would make
little sense of Turoldo as a ‘Grice italo,’ but there you are. My note is meant
as a tribute to both philosophers. Grice has been deemed an extremely original
philosopher, and by Oxford canons he certainly was. He was the primus inter
pares at the Play Group, the epitome of ordinary-language philosophy throughout
most of the twentieth century. His heritage remains. Turoldo’s place in the
history of philosophy is other. But there are connections, and here they are. Filosofo
abruzzese. Filosofo italiano. Perano,
Chieti, Abruzzo. Insegna a Palermo e Padova. Lincei. Partito dal positivismo
del suo tutore ARDIGÒ, pervenne a una sorta di meta-fisica, da lui chiamata
realismo assoluto, che richiama il panteismo di BRUNO (vedi). L'essere eterno
infinito, tutt'uno con lo spirito assoluto, è il presupposto e il principio
unificatore degl’esseri relativi. Trascendente e indeterminato, l'essere si
immanentizza e si determina nella realtà e negl’individui, oggettivandosi di
fronte ai soggetti come assolutamente altro da questi. Saggi: “Il misticismo”; Idee e ideali del
positivism, La filosofia di BRUNO”; “Il positivismo e i diritti dello spirito”;
“Figure e studi di storia della filosofia”; “Lo spirito della filosofia”; “Le
ragioni della trascendenza o del realismo assoluto”. Società Filosofica
Italiana Sezione di Sulmona, riferimenti in Garin, Cronache di filosofia
italiana, Laterza, Roma; Pra F. Minazzi, Ragione e storia nella filosofia
italiana (Rusconi, Milano); Cappelli, L'orizzonte filosofico: Idealismo e
Positivismo, Pra. Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, T., biografia e nel sito della
Società Filosofica Italiana, Sezione di Sulmona "Capograssi". CLASSICI
DEL RIDERE. BRUNO (vedasi), In tristitia hilaris, in hilaritale tristis Or
eccovi un convito sì grande, sì picciolo, sì maestrale, si disciplinale,
sì sacrilego, si religioso che certo credo che non v’è poca occasione da
divenir eroico, dismesso. Maestro, discepolo; credente, miscredente; gaio,
triste; sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora, ridente con Democrito,
piangente con Eraclito. Cena delle
Ceneri. Proemiale epistola
al signor di
Mauvissiero. sione democriteggiare,
che è nella
satanica Declamae che
zione della Cabala del
Cavallo Pegaseo, torna nel
dialogo della Causa Principio et Uno, dove il pensiero va con ala superba, per
altezze magnifiche. Ma è evidente dal testo dei passi stessi accennati che
BRUNO non intende affatto stabilire ne
una contrapposizione radicale di riso e di pianto, ne la sua posizione propria.
Mentre invece egli qui riguarda le cose dal semplice punto di vista esteriore e
comune; onde tutto si presta alla considerazione dell'uno o dell'altro di
questi, che si potrebbero chiamare anch'essi
A'jo lo^oi delle cose. Non senza piegare sotto questo
rispetto verso un impetuoso riso che circola e
guizza in tutte le sue opere e scoppia fin in mezzo agl’argomenti più
gravi, senza sottigliezza e senz’ambagi, aperto e rude, come un suggello di
giudizio e di sanzione. Ma se ben consideriamo la natura del suo riso, ci appare
come esso non ha mai nulla di esteriore o che puo farlo considerare quale fine
a se medesimo. Il comico, in quanto tale, veramente, non c'è in Bruno. In lui
non si aprono quelle brevi parentesi d’azzurro, che, per
esempio, tra- [Chi potrà donar freno alle lingue che non
mi mettano ne medesimo predicamento, come colui che corre appo h vestigi degl’altri,
che circa cotal soggetto, sia quando si
conclude la dedica dell'opera stessa, con austere parole in cui vibra il senso
profondo della nolana filosofia. Il tempo
tutto toglie e tutto dà. Ogni cosa si
muta, nulla s'annichila. È un solo che non può mutarsi, e può perseverare
eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi
s'aggrandisce e mi si magnifica l’intelletto. Suggestive parole, le quali, a
traverso la trama ridicola della favola, a traverso l'ingenuità e talora la
sconcezza degli svolgimenti e degl’episodi, costituiscono come un'atmosfera
di più profonda meditazione, entro cui s’accendono
d’opposto riflesso l'ilarità triste e la tristezza ilare dello psicologo, del
moralista, del filosofo. Cosi, il riso di BRUNO è veramente filosofico – cf.
Grice, LAUGH WITH PHILOSOPHY, NOT AT PHILOSOPHY --; e però esso non s'intende
nel suo significato e nel suo valore, non s'intende nel suo intimo segreto.
Spampanato. Alla Signora Morgana. SPAMP eccovi la candela che vi vien porgiuta
per questo Candelaio che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo,
puo chiarir alquanto certe Ombre dei- idee, le quali invero spaventano le
bestie, e come {ussero diavoli danteschi, fan rimaner gl’asini lungi a dietro;
ed in cotesta patria, ove voi siete, puo far contemplar l'animo mio a molti, e
fargli vedere che non è al tutto
smesso De V Infinito Universo e
Mondi. Wagner. Questa è quella filosofia
che apre gli sensi, contenta il spirto, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo
alla vera beatitudin se lo si considera diversamente e sotto gl’altri
particolari e più facili aspetti che può presentare, come il letterario, e
quello morale, nel senso più stretto e più pratico della parola. Non che ciò
sia trascurabile. Ma certo non è tutto,
e non è il più. Onde è avvenuto che anche qualche grande, come CARDUCCI
(vedasi), non intende in particolare il Candelaio e disconosce in generale, in
BRUNO (vedasi), il filosofo. E che quel riso, se pur s’esplica nella forma
della comedia e della satira; se nel gonfiarsi delle tendenze letterarie ha
spunti di violento anti-accademismo e di anti-petrarchismo. Se ritrae i
tipi classici del pedante, dell'avaro
libertino, del marito sciocco, dello scroccone, etc, non è un riso, per cosi
dire, letterario. E s’ancora vuole, secondo la massima tradizionale, castigare
ridendo mores, non è nel senso immediato e, diciamo, esclusivo della morale. A
chi studii a fondo l'etica di BRUNO, appare come il riso e la satira del Nolano
non solo sono profondamente inseriti in essa,
ma quasi ne seguano lo stesso schema di svolgimento. Sembrano veramente
corrispondere alle tre fasi o aspetti dell'etica, la psicologica e descrittiva,
la costruttiva e, in certo senso, dialettica, e la conclusiva o razionale e filosofica propriamente) la satira
in concreto e in particolare, di vizii e difetti e debolezze e sconcezze degl’uomini.
La satira in astratto di quegli stessi vizi e difetti e imbecillità, considerati possiamo pur dire ex
altiore causa, criticamentee simbolicamente, in correlazione colle virtù,
negli O Eccovi avanti gl’occhi ociosi
princinii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di
petto, scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazion di mente, poetici
furori, offuscamento uomini e negli dei. La satira, infine, che ha vera e
propria intenzione filosofica, nella
critica e nel sarcasmo di carattere eterodosso verso i tradizionali valori
scientifici, morali, politici e religiosi, e che comprendendo e riassumendo
anche l’altre due forme accennate, esplica appieno il significato, della
tristitia hilaris e della hilaritas tristis. E si ha qui una profonda espressione di quella
oppositorum coincidentia, che, formula ricorrente nella filosofia di BRUNO, assume forse la sua
maggiore consistenza e significazione precisamente sotto l'aspetto morale,
nella caratteristica compenetrazione di riso e pianto, e nella fase culminante
dell'etica propriamente, colla trattazione, per quanto frammentaria e
balenante, del problema dell’opposizioni e dell’armonie morali. Si possono
distinguere, appunto, questi tre aspetti o momenti del riso di BRUNO; ed approssimativamente e
quasi a mo'd’esemplificazione, si possono riferire al Candelaio il primo; allo Specchio della Bestia trionfante
ed al Cantus Circaeus il secondo; ed il terzo allo Spaccio stesso, alla Cabala
del cavallo Pegaseo ed all’asino
cillenico, con i richiami alle altre
opere veramente costruttive, quali sorxO la Cena delle Ceneri, De la Causa,
Principio et Uno, etc. di sensi,
turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede sfrenate, cure
insensate, studii incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.Vedrete,
etc. Candelaio. Proprologo. E di fronte a questa materia di morale miseria,
l'A., nell’evidente contrapposizione del urologo al Proprologo, delinea se
medesimo, a L’autore, si voi Io conosceste, direste, ch'ave una fisionomia smarrita, etc. per il più, lo
vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta di nulla, ritroso, fantastico
com un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Non sono
inutili la distinzione, necessariamente sommaria, ed il riferimento ai tre
gradi progressivi dell’etica; giacche questa nota di coincidenza e d’analogia
può far vedere come il riso di BRUNO non
è un episodio, ma ri-entri quasi nella linea della sua filosofia e, in
sostanza, tiene della stessa suggestiva profondità di tutta la sua etica.
Perciò la materia della satira, la quale non è leggiera, come potrebbe forse
apparire a taluno, ma più tosto grave e pensosa, pur nella facezia e nella
licenza, è disposta secondo quella triplice divisione che naturalmente segue la
partizione dell'etica di BRUNO. Comunque, è ben certo che il significato del
caratteristico riso di Bruno sta nel complesso dei suoi momenti e dei suoi
aspetti. Solo nell'insieme, e sopra tutto tenendo conto della sua formula
integrale che s’estende alle considerazioni estreme della filosofìa, ma costituisce
pure il solenne avvertimento ed il motto del Candelaio, si può intendere il suo
vero senso umano ed universale, il suo valore filosofico. Bisogna tener conto
della formula compiuta, ch’esplicitamente apposta alla prima opera italiana, a
quella che più s’avvicina nella forma e nel contenuto ai molti e tradizionali
componimenti morali del tempo, sta ad indicar quasi di questo l'avviamento
verso uno spirito nuovo; e, riprodotta più oggettivamente, in uno scritto, fra
altri, di prevalente sostanza etica, che è dei più personali ed importanti, il
De Vinculis, come a ragione giudica TOCCO (vedasi), sembra abbracciare l'intero
sistema morale e filosofico di BRUNO. A prescindere dagli strani richiami, i quali, pur facendo la necessaria
parte alla consueta fantastica associazione di BRUNO, prendono un significato
rilevantissimo allorché vediamo, e dobbiamo pur confessare senza intenderne a pieno il motivo e la
portata reale, ricongiunti in una relazione singolare la luce del Candelaio e l’ombre
dell’idee, la filosofia della comedia e la filosofia dell’Infinito Universo e
Mondi e molti altri accenni si potrebbero trovare ancora nell’altre opere; a
prescindere da ciò, e ben evidente che anche un sommario esame della formula
dell’ilarità di BRUNO ci riporta, per
cosi dire, nel cuore della sua fondamentale inspirazione filosofica. Certo essa
si presta ad un'analisi puramente e strettamente morale; a cui è connesso un
atteggiamento particolare psicologico, sentimentale del filosofo. Da tal punto
di vista potremo cogliere qualche lato del pensiero, qualche momento dello
spirito bizzarro e tempestoso di BRUNO. Ma se, arrestandoci a ciò, ritenessimo soli o ponessimo definitivi
questo lato e questo momento, noi non
avremmo e non intenderemmo affatto BRUNO nella sua interezza e nella sua
essenza, sotto questo rispetto. Il fastidito, il perseguitato, l'insonne,
l'errante, il misconosciuto, l'odiato può anche umanamente esprimere un senso
tragico, di riduzione e quasi di confusione, in un disprezzo ed in un'amarezza
superiori, della sua tristezza e del suo riso; può, sopra tutto, esprimere la
sua forza tremenda, ridendo nella tristezza ed essendo triste nell'ilarità; può
anche, mefistofelicamente, ridere laddove gl’altri piangono e piangere laddove
gl’altri ridono; può, infine, riportare tutto ciò ad un senso vago di
scetticismo e di Bruno, In
tristitìa hilaris, etc. 2. pessimismo,
che più d'una volta pur si accenna
nell'opera di BRUNO; ora in forma propria, come per esempio in quelle parole
del Candelaio dove si dice, m conclusione non esser cosa di sicuro, ma assai di
negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono, ora con qualche
formula usuale, come il biblico omnia vanitas. Massime l’ilarità triste, presa
separatamente, si presta ad una significazione più particolare, esprimendo quella che è l'essenza amara d’ogni
satira; la quale veste di riso ciò che in realtà è solo degno di compassione pella
sua debolezza, pella sua deficienza, pella sua bruttura, specialmente
nell'ordine umano. Ma questo, mentre non dà il lineamento vero ed intiero di
BRUNO, riferendosi solo al flusso delle
sue vicende personali, intellettuali e sociali, se ben si consideri presuppone, in fondo, una diversa e superiore
posizione della sua stessa personalità; e, ciò che più importa, ancora, un
diverso e superiore punto di vista della sua speculazione morale propriamente
detta e filosofica. Il che appare dalla prima parte della formula, e più
dall'insieme. L’ilarità che è triste e la tristezza che è ilare non indica un
bisticcio, si una intuizione profonda, morale e
filosofica; in quanto non si limita a considerazioni parziali d’umanità,
ma scende alla totale contemplazione umana, ed a questa aggiunge, anzi connette
in un inscindibile complesso, la considerazione della realtà universale. Sono l’ultime
parole che precedono l'entrata del Bidello. Naturalmente qui il senso è del
tutto particolare e riferito al mondo del Candelaio, che sta per entrare materialmente in iscena. A nessuno più che a
Bruno ripugna la concezione della realtà umana staccata ed avulsa dalla realtà
totale; e più a lui ripugna quella definizione dell'uomo, a cui accenna non
senza ironia Benedetto Spinoza, come l’animale capace di ridere. Qui siamo
fuori del campo morale, sia che questa capacità di ridere si prenda nella sua
espressione più semplice e primitiva, nella sua espressione inferiore e FISIOLOGICA
(BERGSON – risus significat naturaliter laetitiam animae -- dove, in sostanza,
non e che l'animalità. nel senso pre-umano, dunque; sia che si prenda nel senso
estremo opposto, nel senso cioè di NIETZSCHE, che nel Super-uomo travolge
l'Uomo. L'umanità vera ha il suo segno nel riso che si fa pensoso di tristezza
e nella tristezza che s'illumina in una
visione trascendente di gioia; SEGNO NATURALE vero d’umanità, che è morale ed estetico
insieme, e che ha in Bruno un assertore d'incomparabile energia. II quale trae
il motivo e la forza possente e luminosa dell'affermazione sua, in un certo
senso nuovissima, non già da fonti, che trascendono, in sostanza, l'uomo e la
realtà, come sono propriamente le fonti e gli
ideali religiosi, al di là, immortalità, ricompensa divina, etc, che
fanno piacente la tristezza, il dolore, la morte, bensì dalle stesse fonti
della vera umanità e della vera realtà, in una superba considerazione
filosofica. Cosi ritroviamo Bruno e cogliamo il vero suo spirito. Cosi, d’un
punto di vista più particolare ma non meno importante, possiamo intendere come
se la rozza asprezza dell'autore, e
circostanze speciali della sua vita e del suo tempo, lo conducono a parlar
volgare e sconcio, adoperare forme e figure licenziose e toccare talora
l'oscenità, tutto ciò è trasfigurato e purificato nell'intento profondo che lo
domina: qui veramente il riso, che sembra infettarsi d’elementi estremi, è triste.
Questa tristezza purifica e redime; ed accenna, appunto, a qualche cosa di più alto a CUI mira il filosofo, e che
trascende l’ilarità per se e la tristezza in se. Così, la considerazione dell’ilarità
di Bruno ci conduce a veder, sotto nuova luce e forse non meno profondamente
della pura indagine speculativa, una parte, da cui non si può prescindere, del
suo pensiero. Di là dalla hilaritas tristis, la tristitia hilaris può riferirsi
ad un altro importante aspetto dello spirito
di BRUNO: l'ottimismo. Il quale ha la sua vera significazione,che ri-appare
con altre forme, in altri sistemi, non tanto copie espressione morale per se, o
perchè conferisca una coloritura particolare alla visione di BRUNO del mondo;
ma in quanto esprime, in certo modo, l'aspetto intrinseco e la risoluzione
culminante della realtà stessa. L'ottimismo morale qui è coessenziale,
assolutamente, coll'essere e coll'immanente suo ordine ontologico: il nuovo
mondo della realtà infinita che, escludendo ogni trascendenza, è essere, potenza
e legge eterna a se, non può non essere, per ciò stesso, che uno ahsolutissimo
in cui Ente, Vero, Bene fanno la medesima cosa. Che significato possono avere
in questo universo il dolore, il brutto, il disordine, il male e la morte, il caso e la fortuna? ALLA BRUNO, tutto ciò
appartiene alla superficie, alla esteriorità, alla contingenza ed alla
transitorietà del mondo; tutto ciò che è pluralità e particolarità è la spuma
che si gonfia, scorre e si frange sulla realtà; non è la realtà; tutto ciò è di
ente, non ente. come dice con sottigliezza grammaticale, ma con pensiero
profondo Bruno. Il mondo si presenta, dunque, sotto questi due aspetti: quello della totalità,
dell'unità, dell'assoluto e dell'eterno; e quello del vario, molteplice,
fluente, disgregantesi nel tempo e nella particolarità. L'uomo sta di fronte a
questo mondo, spettatore e partecipe, ad un tempo, della sua realtà e della sua
transitorietà; di fronte a questo enorme ritmo, ond'esso quasi sgorga e si
discioglie fuori di se, nel molteplice, nel disgregato e nel relativo, e si rituffa in se nella
pienezza dell'essere ch’è assolutezza d'eternità. Allora l'uomo che riguarda e
ch’agisce in questo mondo, se si fermi a ciò che è particolare, scorre e cambia
volto, può e deve trovar motivo alla sua tristezza; ma s’approfondisca lo
sguardo e l'azione, allora il particolare transfluisce nell'universale, il
contingente nell'infinito, il relativo nell'assoluto: la visione e la consapevolezza di ciò può dare,
dà, filosoficamente, la tristezza gioconda. Questo e il segno del conseguimento
della più alta coscienza e della più profonda realtà; questa è la visione sub
specie aeterni, ed è quasi comunicazione coll'assoluto. Allora la tristezza
svanisce; alla realtà particolare e contingente subentra un'altra più profonda
realtà. Dileguano le nubi e brilla il
sole, o apparisce il cielo stellato. Il riso stesso s’è trasfigurato;
esso, ormai nel campo della contemplazione e dell'azione più alta, è divenuto
eroico furore e beatitudine. BRUNO vuol
accogliere quanto di più caratteristicamente espressivo dell’ilarità triste e
della tiistezza ilare circola, guizza o s'indugia nella vasta opera di BRUNO
(vedasi), e le dà un fascino strano ed acuto. Forniscono qui la materia solo gli scritti ITALIANI; che
sono più varii di contenuto e più vivi di forma e quasi più liberamente
riflettono l'anima del filosofo e dell'uomo. Laddove i latini sono o più
tecnici e scolastici, come quelli ch’appartengono ai gruppi dell’opere
Lulliane, Mnemoniche, Espositive e critiche; o più solenni come le brevi,
importantissime Orazioni; ovvero rielaborano più rigidamente, in gran parte con
veste poetica, come De minimo. De Monade e De Immenso, contenuto d’opere
italiane. Tuttavia, neppur l’opere latine mancano di qualche sprazzo del
pensoso suggestivo riso, come il Cantus
Circaeus; il quale, mentre riguarda l'arte della memoria, è di carattere
essenzialmente morale. Forse non appare chiaro
a prima vista il significato messo in rilievo
e che possiam dire ascendente, del riso di BRUNO, secondo lo schema
generale dell'etica. Ma se ben SI consideri, esso risulta, in sostanza, non
meno sicuro che l’intima compenetrazione di quel riso in tutte le parti
dell'opera del nolano, anche nelle più
astratte, speculative ed astruse; come là dove si tratta dell'eroico
slancio pella conoscenza e pell’ideale,
o della cosmologia, dei principii
dell'universo e della verità. La
Filosofia di Bruno, Le
opere di Bruno. Bruno, Coli. Profili,
Formi'gglni, Roma. La materia
morale agitata dal filosofo è una; massa viva e turbmosa su cui cadono il suo
ghigno e la sua tristezza, come gocce di fuoco. Ma non si può sconoscere la
differenza dell'atteggiamento spirituale, e, in un certo senso, del fine
medesimo, nel Candelaio, per esempio, ed
anche in pagihe affini d’altre opere, e nello Spaccio della Bestia trionfante.
Nell'uno v'è, sopra tutto, il quadro satirico, dipintura e constatazione dei
vizii e difetti e debolezze e sconcezze degl’uomini; nell'altro
l'approfondimento critico di tutto questo mondo, e la contrapposizione fra
simbolica e dialettica di corrispondenti pregi, virtù, valori, nel cielo e nella
terra, negl’uomini e negli dei.
Nell'uno è la materia fermentante ed oscura di Menandro e di Teofrasto, di
Plauto e di Terenzio, di Machiavelli e di Molière; nell'altro la materia di
Xenofane e d’Aristofane, ed è anche, come non a torto è stato da taluno notato,
lo spirito d’ALIGHIERI. Poiché la bestia
che si deve spacciare non è solo ciò che d'impuro e triste offende praticamente
l'uomo e il convitto umano, ma quello
altresì che contamina e sminuisce i diritti, la libertà, la santità della mente
nelle sue più alte funzioni contemplativa e speculativa. E, insomma, trattasi
dell'affrancazione totale dell'uomo e dello spirito, che fanno tutt'uno. E come
nel Candelaio medesimo c'è qualche oscuro accenno a più profondo intento ed a
relazioni speculative, cosi lo Spaccio della
Bestia trionfante segna la strada
La filosofia soggettiva,
l'Etica- Bruno. Profilo
cit. pella più completa conquista etica ed elevazione spirituale.
Purgare, liberare: questo è il motivo dell'opera strana e stupenda di fantasia
e di riso. Purificare ciò che è fuori dell'uomo, ma che cosa è fuori dell'uomo,
dal punto di vista morale?, e ciò che è
nell'uomo: il mondo superno e celeste, che la
scienza tiene incorruttibile, e che al filosofo appar pieno e guasto
d'infinita corruzione; e perfino il mondo infero, la sede stessa del peccato e
della bruttura, che la credenza a quello opponeva. Abbiam notizia d'un dialogodi BRUNO, Il Purgatorio dell’Inferno il quale nel
titolo d'apparente bisticcio ma di trasparente significato, completa
suggestivamente il disegno della totale purgazione. Occorre, finalmente, mondare e rinnovare la
scienza e la filosofia, la stessa mente umana; ed a questo mira, con passione
intensa, con forza eroica, il filosofo.
E se tale opera, che più propriamente riguarda lo spirito, appare nella
forma ridicola di quella vivacissima e scintillante trattazione che ha per Nella
Cena delle Ceneri, Teofilo, Bruno, dice:
Non dubitate, Prudenzio, perchè del buon
vecchio non ri si guasterà nulla. A voi, Smitho, manderò quel dialogo del nolano,
che si chiama Purgatorio dell'Inferno, e ivi vedrai il frutto della redenzione.
L'accenno al frutto della redenzione, che forse rende estremamente eterodosso
lo scritto, non toglie nulla all'idea dello spaccio dell'inferno; forse la
rende più forte. Cosi pure, per essa
nulla importa che, a quanto pare, il purgatorio
sia stato composto qualche anno avanti della Bestia trionfante. L'idea potrebbe
essere stata estesa dall'inferno al cielo. Ma
l'opinione di BERTI (vedasi), Vita di BRUNO, e di Frith, Life of Bruno, Londra, resta
anche da dimostrare. L’Asinità, ciò non
oscura affatto il pathos intenso e puro ch’agita ogni fibra dell'instauratore e
che sembra discendere in lui dall'ardore stesso
del divino Platone. Ne la frenesia da cui si lascia trasportare Bruno
impedisce di scorgere, d’ultimo, la sovrana bellezza della visione che s'apre
davanti al suo occhio profondo, ed
innanzi alla quale egli stesso rimane estatico e commosso. Così come per
Xenofane colofonio, del quale v'è qualche traccia nello spinto del Nolano e
Castrucci; che dopo aver spacciato, sia lecito adoperar questa espressione, gli Dei della superstizione,
dell'ignoranza e della corruzione, riguardando nel cielo, purificato, dice che
tutto è Dio. Culmina, dunque, la critica, la satira, la derisione e la
tristezza delle brutture e degl’errori umani, un mondo morale e spirituale di
bellezza, di bontà, di verità. All’instaurazione cosmologica, onde si rompevano
e disfacevano i palchi dipinti e i congegni
d’orbi e di cieli, si congiungono l’instaurazione morale, e l’intellettuale,
le quali finiscono per coincidere, sul principio dell'indissolubile ternano d’Ente,
Vero e Bene; che Bruno contempla, ragiona e
sente con impeto straordinario.
Candelaio e Canto di Circe, Spaccio della Bestia trionfante ed Eroici
furori. Cena delle Ceneri e Asino cillenico. Cabala del cavallo pegaseo e
Causa Principio et Uno esprimono e fondono
insieme, a traverso. Noti sono i
framm. di Xenofane circa la critica degli Dei. Quello citato è riferito d’Aristotele, Metafisica. Le diverse
interpretazioni del passo non disdicono al concetto fondamentale qui adombrato.
i momenti che singolarmente rappresentano i valori del mondo e dello
spirito. E però, non illegittimamente, si chiude questo libro dell’ilarità triste e dell’ilare tristezza di Bruno, che speriamo rechi
qualche vantaggio, illuminando la pur sempre scarsamente conosciuta opera del nolano,
con alcune fra le pagine più solenni della sua filosofia, fra le parole più
alte della sua anima. Erminio Troilo. Troilo. Keywords: conflagrazione. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Troilo” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tronti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degli spiriti liberi
– filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library (Roma).
Abstract. Keywords. democrazia -- Filosofo italiano. Considerato uno dei
principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico. Insegna a Siena,
vive a Roma. Fonda “Quaderni Rossi” e “Classe operaia”. Anima
l'esperienza radicale dell'operaismo. Tale esperienza, che va considerata per
molti versi la matrice della sinistra, si caratterizza per il fatto di mettere
in discussione le organizzazioni del movimento operaio -- partito e sindacato
-- e di collegarsi direttamente, senza intermediazioni, alla classe in sé e
alle lotte di fabbrica. Influenzato da VOLPE (vedi), s’allontana di GRMASCI,
o almeno dalla sua versione ufficiale promossa dal PCI togliattiano. Ri-apre la
strada rivoluzionaria. Di fronte all'irruzione dell'operaio-massa sulla scena
delle società, il suo operaismo propone un'analisi delle relazioni di classe. Mette
l'accento sul fattore inter-soggettivo. La sua filosofia, debitrice anche all’’Operaio”
di Jünger, trova una sistemazione con la pubblicazione di “Operai e capitale” (Einaudi,
Torino), un saggio di forte impatto letterario che esercita un'influenza
notevole sulla contestazione e più in generale sull'ondata di mobilitazione. È
proprio la sconfitta della spontaneità operaia e dell'ondata di mobilitazione,
colta anticipatamente da lui e non invece da altri operaisti come NEGRI (vedi)
-- di qui la rottura tra loro -- a indurlo a spostare la sua riflessione sul
problema del politico, ovvero della direzione e della mediazione politica. Pubblica
“L’autonomia del politico” (Feltrinelli, Milano), una teoria politica realista che, in
un'originale commistione di Marx e Schmitt, e capace di colmare i limiti della inter-soggettività
sociale. Si tratta di una fase più intellettuale che politica. Fonda l'influente
rivista Laboratorio politico. Riavvicinatosi al PCI di Berlinguer, e finalmente
riabilitato dal gruppo dirigente del partito, entrando a far parte più volte
del Comitato centrale. Eletto al Senato della Repubblica nelle liste del
Partito Democratico della Sinistra, membro della Commissione parlamentare per
le riforme istituzionali. Non avendo
condiviso le trasformazioni post-comuniste del partito, la sua filosofia assume
toni pessimistici, concentrandosi sulla fine della politica moderna e sulla
critica della democrazia. Presidente del Centro per la riforma dello stato. Eletto
al Senato nelle liste del Partito Democratico per la Lombardia. È tra i
parlamentari a firmare un emendamento contro l'articolo del disegno di legge
Cirinnà riguardante l'adozione del configlio. Altri saggi: “Hegel politico” (Istituto
dell'Enciclopedia italiana, Roma); ““Soggetti, crisi, potere” (Cappelli,
Bologna); “Il tempo della politica” (Riuniti, Roma); “Con le spalle al futuro:
per un altro dizionario politico” (Riuniti, Roma); “Berlinguer: il principe
disarmato” (Sisifo, Roma); “La politica al tramonto” (Einaudi, Torino); “Cenni
di Castella” (Cadmo, Fiesole); “Teologia e politica al croce-via della storia”
(Albo Versorio, Milano); Passaggio Obama. L'America, l'Europa, la Sinistra (Ediesse);
“La democrazia dei cittadini: dai cittadini per l'Ulivo al Partito Democratico”
(Ediesse); “Non si può accettare” (Ediesse); “Noi operaisti” (Derive Approdi);
“Dall'estremo possible” (Ediesse); “Per la critica del presente” (Ediesse); “Dello
spirito libero: frammenti di vita e di pensiero” (Saggiatore); “Il nano e il
manichino: la teologia come lingua della politica” (Castelvecchi); “Il demone
della politica” (Il Mulino); “Tra materialismo dialettico e filosofia della
prassi”; “La città futura” (Feltrinelli, Milano); ““Cromwell” (Saggiatore,
Milano); “Operaismo e centralità operaia” (Riuniti, Roma); “Il politico: da MACHIAVELLI
a Cromwell; da Hobbes a Smith” (Feltrinelli, Milano); “Il destino dei partiti”
(Ediesse); “Rileggendo "La libertà comunista", “Un altro marxismo” (Fahrenheit
451, Roma); “Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva” (Angeli, Milano);
Per la critica della democrazia politica” “Guerra e democrazia” (Manifesti,
Roma); “Politica e destino” (Sossella, Roma); “Finis Europae. Una catastrofe
teologico-politica” (Bibliopolis, Napoli). Ne “La politica al tramonto”, un
capitolo porta il titolo “Karl und Carl”, per sotto-lineare, anche qui
allusivamente, la necessità di completare Marx con Schmitt", Autobiografia
filosofica, in Storia della filosofia, Filosofi italiani contemporanei, Le
Grandi Opere del Corriere della Sera, Bompiani, Milano. Unioni civili: i numeri
che mettono a rischio le adozioni gay, su Termometro Politico; Unioni civili,
30 senatori Pd contro le adozioni. E Gay pubblica la lista: "Scrivi al
malpancista". Loro: "Squadristi", su Il Fatto Quotidiano. Le
piume, le fidanzate, lo zio comunista. I 60 anni di R. Zero, Altri Mondi, Alcaro,
Dellavolpismo (VOLPE) e nuova sinistra, Dedalo, Bari, Preve, La teoria in
pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (Dedalo); Gobbi,
Com'eri bella, classe operaia. Storia fatti e misfatti dell'operaismo italiano
(Longanesi, Milano); Leo, Per una storia di Classe Operaia, in Bailamme, Mezzadra,
Operaismo, in Esposito e Galli, Enciclopedia del pensiero politico. Autori,
concetti, dottrine, Laterza, Romai; Basso, Gozzini e Sguazzino, delle opere e degli
scritti. Dipartimento di Filosofia-Università degli Studi, Siena; Berardinelli, Stili dell'estremismo. Critica
del pensiero essenziale (Riuniti, Roma), Pozzi, Roggero, Borio, “Futuro
anteriore: dai Quaderni rossi ai movimenti globali. Ricchezze e limiti
dell'operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, Wright, L’assalto al cielo. Per
una storia dell’operaismo (Alegre, Roma); Corradi, Storia dei marxismi in Italia
(Manifesto, Roma); Pozzi, Roggero, Guido Borio, Gli operaisti, Derive Approdi,
Roma, Peduzzi, Lo spirito della politica e il suo destino. L'autonomia del
politico, il suo tempo, Ediesse-Crs, Roma, Trotta e Milana, L'operaismo degli
anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», cd con la raccolta
completa della rivista «classe operaia» (Derive Approdi, Roma); Peduzzi, A
Cartagine poscia io venni incubi sulla teoria marxista, Arduino Sacco editore,
Roma,; Filippini, T. e l'operaismo politico degli anni Sessanta, Euro Philosophie,
Milanesi, Nel Novecento, Storia, teoria, politica nel pensiero (Mimesis,
Milano); Abecedario (Formenti), Derive Approdi, Operaismo Quaderni Rossi Classe
operaia (rivista) Panzieri Negri Cacciari Ingrao Centro per la Riforma dello
Stato, TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere su
senato, Senato della Repubblica; T., su Openpolis, Associazione Openpolis. Registrazioni di T., Radio Radicale.. Centro
per la Riforma dello Stato, "Storia e critica del concetto di
democrazia" -- intervento di T., disponibile anche in file audio, su global
project Sitoitaliano per la filosofia: su
lgxserver uniba. Conricerca-Futuro Anteriore, su alpcub."Lotta contro gl’idoli"
(intervento di T. per Rai Educational, su emsf. rai. Intervista "La lotta
di classe c'è ancora", La Repubblica, "Sono uno sconfitto, non un vinto.
Abbiamo perso la guerra del '900", La Repubblica. Mario Tronti. Tronti.
Keywords: L’implicatura di Hobbes, libero spirito, democrazia --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Tronti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuberone: la ragione
conversazionale degl’accademici a Roma – filosofia italiana – By Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Keywords: Roma antica. Filosofo italiano.
Friend of CICERONE. Accademia. Enesidemo dedicates his discourses on Pirrone to
him. Lucio Elio Tuberone.
Keywords: Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuberone: la ragione
conversazionale della repubblica romana e l’implicatura conversazionale della
storia romana— Roma -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Keywords. Roma antica. Filosofo
italiano. Nipote di Lucio Emilio Paolo, tribuno della plebe, si oppone a
SCIPIANO (vedi) Africano Minore e a Caio Tiberio GRACCO (vedi). Pretore. Poco
lodato come oratore, si distinse per la cultura giuridica. La semplicità
della sua vita e la rigidezza di suo carattere lo portano verso il ortico, la
cui dottrina applica nella condotta. Conosce Panezio di Rodi e ne segue
l'insegnamento. Da T. e da ECATONE gli futtono i scritti. La cosa è dubbia per
l'influenza di Posidonio su T. Figlio di Emilia, sorella di SCIPIONE Emiliano.
Rigido seguace dello stoico Panezio, studioso di diritto e di astronomia. Uomo
rigoroso e severo oppositore di GRACCO, è bocciato all'elezione per la pretura.
Console, CICERONE lo considera giurista di vaglia con una solida scientia
iuris. Tutta la sua famiglia del resto gode fama di grande dottrina giuridica.
Nome d'una famiglia romana, alla quale appartengono varî giuristi. Il primo è console,
e di lui CICERONE loda la dottrina giuridica. Lucio Elio T. fu legato di Q. CICERONE,
proconsole d'Asia. Più noto è il figlio di lui, Quinto Elio T., che col padre
prende parte alla guerra fra GIULIO CESARE (vedi) e POMPEO (vedi), parteggiando
per quest'ultimo, ma fu perdonato dopo Farsalo. Console, propone un
senatoconsulto sul matrimonio confarreato. A parte un'opera ad Oppium, di cui
si ignora l'argomento, scrive alcuni libri de officio iudicis, destinati come
guida del giudice privato del processo formulare. Le sue opinioni sono citate
più volte con grande rispetto dalla dottrina posteriore. Scrive anche
Historiae, in XIV libri. Keywords: Cicero, iuris, portico, scessi, studied
under Panezio. Quinto Elio Tuberone. Keywords: Roma antica. Per H. P. Grice’s
Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Tulelli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’equilibrio conversazionale: per una metafisica dell’etica –
la scuola di Zagarise -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Zagarise). Abstract. Keywords: equilibrio. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Zagarise, Catanzaro, Calabria. A lui sono ad oggi intitolate una via a Zagarise
e una a S.Elia, e una sala della biblioteca di Catanzaro. Targa commemorativa
in suo onore, inoltre, posto davanti alla casa comunale di Zagarise un busto
che lo raffigura, realizzato da Calveri. Zagarise, busto creato da Calveri,
installato davanti al comune di Zagarise. Figlio dal marchese Gaetano T., studia
presso il convento del ritiro dei filippini a Zagarise e poi frequenta a
Catanzaro il real liceo ginnasio e il corso presso il pontificio seminario teologico
regionale S. Pio X. Vive a Napoli dove compì studi filosofici e apre una scuola
dove insegna filosofia morale ed estetica. La richiesta di poter istituire una
scuola e inviata alle autorità competenti, le quali, prima di concedere le
relative autorizzazioni, chiesero al vescovo di Catanzaro dettagliate notizie
in merito alla condotta morale e politica del richiedente, la risposta inviata
loro fu. Elemento di condotta soda, casta e onesta. Tra gl’allievi della sua
scuola molti sono appartenenti a famiglie di alto rango sociale, e tra questi, è
possibile annoverare i figli del re Borbone che, in segno di stima, gli fanno
dono di un orologio da camera di manifattura francese opera dei fratelli Japis.
Molto amico di SETTEMBRINI (vedi), il quale lo cita nelle sue "Lezioni di
letteratura italiana", gli trasmitte l’amore per la filosofia e gl’ideali
patriottici.Allievo di PUOTI e di GALLUPPI del quale studia e diffunde la
filosofia, evidenziando il parallelismo con Kant, così come divulga quello di
altri filosofi, tra cui CAPASSO, ROSSI, e MASCI. Insegna filosofia a Napoli
dietro l’impulso di SANCTIS, iniziando un periodo di vero splendore per
l’ateneo napoletano. Cadde il regno delle due Sicilie e, favorevole alla
formazione di uno stato unitario, porta avanti una battaglia a livello morale e
giuridico per l’abolizione della pena di morte che fino ad allora era in vigore
in tutti gli stati d’Europa tranne il gran ducato di Toscana. La stessa a abolita
con l'adozione del codice penale del regno d'Italia -- il cosiddetto Codice
ZANARDELLI. La fine della dominazione dei Borboni è colta come un’occasione di
rinnovamento sociale e morale ed egli instilla nei suoi insegnamenti la
consapevolezza che il rinnovamento politico dove essere accompagnato a quello
morale, egli riscontra nella popolazione un’evidente scarsità intellettuale e
un sentimento religioso che si manifesta mediante pratiche di culto sempre più lontane
dall’essere ricche di valori spirituali e una società sempre più formalista,
cerca di contrastare questa tendenza in affinità a GIOBERTI. E un
patriota e un liberale. La sua attività di filosofo fa si che la sua notorietà
e la sua reputazione cresceno, e inoltre un oppositore degli hegeliani
napoletani, e a capo degl’oppositori degli Spaventiani (SPAVENTA – vedi) e
rappresentante del movimento filosofico del quale fanno parte GALLUPI,
COLECCHI, CUSANI, e GRAZIA. Sul suo valore si sono pronunciati, fra gl’altri,
anche CROCE e RUSSO. Socio ordinario dell’accademia di scienze morali e politiche
di Napoli a l’accademia reale pontaniana. In relazione all'accademia di scienze
morali e politiche di Napoli, T. e PESSINA, in qualità di soci dell'accademia,
di collocare nell'atrio dell'Università degli Studi di Napoli un busto in marmo
raffigurante GALLUPPI, realizzato da Calì è inaugurato con una cerimonia a cui
prendeno parte il rettore Imbriani, dei rappresentanti e diversi studenti.
Della stessa accademia oltre ad esserne socio ne è anche tesoriere come si
evince dalla Gazzetta ufficiale del regno d'Italia n cui è contenuta la ri-elezione
alla suddetta carica (omissis) S.M., sulla proposta del ministro della pubblica
istruzione, ha, con RR. decreti fatte le nomine e disposizioni seguenti:
(omissis) T. Paolo Emilio, socio della società reale di Napoli, approvata
la sua ri-elezione a tesoriere dell'accademia di scienze morali e politiche
della predetta Società; (omissis), socio corrispondente dell’accademia cosentina
accademia di scienze, lettere e belle arti degli zelanti e dei dafnici. Vive a
Napoli. Nelle sue ultime volontà traspare chiaramente un radicato e forte
legame con la sua terra di origine, infatti i primi due punti del suo
testamento furono: volendo lasciare una prima testimonianza di affetto a Catanzaro,
col fine di promuovere e favorire nel mio nativo comune di Zagarise
l’educazione morale e l’istruzione letteraria e scientifica. Dispone inoltre
che è destinata una somma in dote ad una ragazza indigente di Zagarise e che il
resto del patrimonio del filosofo è suddiviso tra i suoi parenti. Il
documento, disponibile presso l’archivio notarile di Napoli, e depositato nel
capoluogo campano presso lo studio del notaio Mazzitelli sito in via S.
Giovanni numero 19. Dondazione di libri alla città di Catanzaro al fine di
fondare una biblioteca pubblica T. volle donare a Catanzaro alcuni libri
affinché potessero rappresentare una base di partenza per la costituzione di
una biblioteca auspicando che il suo gesto potesse rappresentare un’esortazione
a contribuire al suo ampliamento, una volta istituita, da parte di altr’uomini
generosi e amanti della filosofia. Catanzaro accetta il legato che, in caso
contrario, si sarebbe dovuto destinare ad ampliare il patrimonio della
biblioteca del real liceo di Catanzaro o ad un erede del de cuius nel caso in
cui il anche direttivo del liceo non avesse accettato la donazione. I libri
furono trasferiti da Napoli a Catanzaro a spese del comune, così come indicato
nelle ultime volontà del filosofo, e venne istituita la biblioteca comunale che
venne denominata Biblioteca Municipale di Catanzaro "Onestà e
lavoro", ma che oggi è conosciuta come Biblioteca comunale F. De
Nobili. Volendo lasciare una prima testimonianza di affetto a Catanzaro
ove ebbi i primi semi del mio sapere e le prime aspirazioni alla libertà della patria
italiana, lego al comune i miei pochi libri col fine espresso ed incondizionato
di formare il primo fondo ad una biblioteca pubblica da fondarsi in loco adatto
a vantaggio dei studiosi e dei cultori della filosfia. Istituzione di una
rendita per far studiare un uomo meritevole del comune di Zagarise Per quanto
concerne il comune natio, nell’intenzione di promuovere l’educazione morale,
l’istruzione filosofica nello stesso, istituì una rendita annuale, denominata
Monte o Istituto T. per far si che dei filosofi meritevoli del suddetto comune
potessero studiare. A perenne ricordo di ciò egli dispose nelle sue ultime
volontà che è realizzata una breve iscrizione su una lastra di marmo e che la
stessa fosse posta in un luogo pubblico del comune di Zagarise. Col fine
di promuovere e favorire nel mio nativo comune di Zagarise l'educazione morale
e l'istruzione letteraria e scientifica e così sospingere quei miei
concittadini sulla via della civiltà, istituisco un Monte o Istituto per
l'educazione ed istruzione dei studiosi di detto Comune da elevarsi dal real governo
in ente morale e giuridico con la dotazione di annue lire duemila di rendita al
5 per cento iscritto al gran libro dei regno d'Italia. All'uopo destino due
certificati di rendita a me intestati dell'annua rendita di L. millesettecento
con la data di Firenze e l'altro dell'annua rendita di L. trecento della stessa
data. Sì fatta annua rendita è unicamente ed esclusivamente impiegata per
l'educazione e istruzione nella filosofia di un filosofo fatto volta per volta
per modo che si dirà qui appresso nato a Zagarise da genitori ivi domiciliati
almeno da dieci anni compiti, dell'età non minore di anni sette, che sa almeno
leggere e scrivere e mostri in generale attitudine e buona disposizione agli
studi filosofici. Saggi: “I principi sostanziali ed informatori della scienza” (Napoli,
Regia Università); “Dei sistemi morali e della loro possibile riduzione” (Napoli,
Regia Università); “La moralità della scienza e della vita” (Napoli, Regia
Università); “Elogio di V. Buonsanto” (Napoli, Fibreno); “Filadelfos di G. Gemelli:
Accademia di scienze morali e politiche” (Napoli, Regia Università); “L’infallibilità
della ragione umana considerata nella triplice sfera della scienza, politica, e
della religione” (Napoli, Regia Università); “La morale indipendente” (Napoli,
Regia Università); “L’educazione popolare in Italia” (Napoli, Vaglio); La filosofia
morale (Napoli, Regia Università); “Metafisica dell’estetica” (Napoli, Regia
Università); “Una formula metafisica” (Napoli,
Regia Università); “GALLUPPI” (Napoli,
Regia Università); “Papasso e Rossi” (Napoli, Cutaneo); “Libero Stato” (Napoli,
Regia Università); “Estetica” (Napoli, Vaglio); “Capasso” (Napoli, Tramater); “La
rosa di Gerico” (Napoli, Poligama); “Metafisica dell'etica” (Napoli, Regia
Università); “Dei sistemi filosofici”; “L’equilibriio”; “La pena di morte” (Napoli,
Regia Università); “Baldacchini” (Regia Università, Napoli”, Elogio di Cilento.
Sulla Bella di Camarda, poema di Cappelli (Napoli); “Armonia della libertà
politica e della scienza morale”; “ Preso da immenso desiderio e ardente”; “Padre,
partisti, forse desolato”; “Aspirazione a Dio”. Il pensiero morale di T., C. Nardi.
Società Napoletana di Storia Patria, Lettere a Milli, F. Adamoli. Collana "Fondo
Milli" il Poeta.Via a Zagarise Via a
Catanzaro. La famiglia dona a Zagarise un'opera raffigurante il filosofo. Discorso
di Imbriani all'inaugurazione del busto di Galluppi posto nell'Accademia di
Scienze Morali e Politiche di Napoli
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Zagarise e dintorni, Faragò. Lira italiana. Marchese Cavaliere Paolo Emilio
Tulelli. Paolo Emilio Tulelli. Tulelli. Keywords: filosofia italiana,
l’equilibrio, metafisica dell’etica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tulelli” –
The Swimming-Pool Library. Tulelli.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Turco:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’agnella,
commedia nuova – la scuola di Mantova – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Asola).
Abstract. Keywords: commedia nuova, agnella. Flosofo lombardo. Filosofo italiano.
Asola, Mantova, Lombardia. Nasce da una anticha e nobile famiglie, allora
fiorente cittadina della Repubblica di Venezia, dove ricopre importanti cariche
politiche in qualità di deputato, oratore e avvocato della comunità. La sua prima opera, un dialogo, “Agnella”,
venne rappresentato ad Asola durante i festeggiamenti per la visita dei duchi
di Nemours e Beaulieu e altri illustri francesi al loro seguito. “Agnella”
venne in pubblicata in seguito prima a Treviso, poi a Venezia. Contemporaneo ed
amico di MANUZIO che in una lettera encomia la sua canzone in lode di Carlo V
scritta in occasione della morte di quest'ultimo. Scrive: Letta la vostra canzone
scritta in morte del Gran Carlo V, veramente Signor Carlo onorato, non troppo
benigna stella, essendo voi dotato di si pellegrino ingegno e di tante altre
lodevoli qualità, vi condanna a scrivere dove tra molte tenebre non può
risplendere la vostra virtù, con la quale potevate illustrare voi stesso ed il
secolo nostro eccitando in altri il desiderio di assomigliarvi. Laddove hora,
avendo voi il campo ristretto per esercitare le vostre più nobili parti, non
veggo come possano apparire effetti degni di voi ed alla vostra nobile
industria corrispondenti. Questa lettera è in seguito stampata in Venezia da
Gavardo che, sempre a Venezia, pubblica una tragedia in versi, intitolata “Calestri”.
Altre opere sono stampate anche in Il Sepolcro de la illustre signora Beatrice
di Dorimbergo, Brescia Fabbio, Mangini, Storie Asolane, Lettera di MANUZIO a
Turchi, Lett. Volg. Venezia. Carlo Turco. Turco. Keywords: commedia nuova,
agnella. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Turco” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Turoldo:
le XII fatiche della ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la
scuola di Coderno – filosofia friulana -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library
(Coderno). Abstract.
Keywords. la ragione. The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An
Old-World philosopher such as Turoldo would never have imagined to be compared
to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is
meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been
educated in a tradition that would make little sense of Turoldo as a ‘Grice
italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers.
Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons
he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome
of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His
heritage remains. Turoldo’s place in the history of philosophy is other. But
there are connections, and here they areFilosofo friulano -- Filosofo
italiano. Coderno, comune di
Sedegliano, Udine, Friuli-Venezia Giulia. Figura profetica, resistente
sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale, di ispirazione conciliare,
tenuto da alcuni uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento spirituale,
il che gli ha valso il titolo di coscienza inquieta. Riceve con intensità le
caratteristiche della semplice cultura umana del suo ambiente nativo e
prevalentemente contadino. Colse e fece propria la dignità delle condizioni
povere della sua terra, che costituirono una solida radice informante tutto lo
sviluppo della sua sensibilità e della sua attività futura. Accolto tra i servi
di Maria nel convento di S. Maria al Cengio a Isola Vicentina, sede triveneta
della casa di formazione dell'ordine servita, dove trascorse l’anno di
noviziato. Emise la professione religiosa. Pronuncia i voti solenni a Vicenza.
Incomincia gli studi filosofici a Venezia.
Nel santuario della Madonna di Monte Berico di Vicenza e ordinato presbitero
da Rodolfi, arcivescovo di Vicenza. Assegnato
al convento di S. Maria dei servi in S. Carlo al Corso in Milano. Su invito di Schuster,
arcivescovo della città, tenne la predicazione domenicale nel duomo milanese.
Insieme con il suo confratello, compagno di studi durante tutto l’iter
formativo nell’ordine dei servi e amico Piaz, si iscrive al corso a Milano e conseguì
la laurea con una tesi dal titolo, “La fatica della ragione: Contributo per
un'ontologia dell'uomo”, redatta sotto la guida di BONTADINI. Sia BONTADINI sia
BO gl’offriranno il ruolo d’assistente universitario, a Milano, il secondo a Urbino.
Durante l'occupazione nazista di Milano collabora attivamente con la resistenza
creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino l'Uomo. Il
titolo testimonia la sua scelta dell'umano contro il dis-umano, perché la
realizzazione della propria umanità. Questo è il solo scopo della vita. La sua
militanza dura tutta la vita, interpretando il comando evangelico essere nel
mondo senza essere del mondo come un essere nel sistema senza essere del
sistema. Rifiuta sempre di schierarsi con un partito. Il suo impegno nel
dialogo senza preconcetti e nel confronto di idee talvolta anche duro, si
tradusse in particolare nel far nascere, insieme con PIAZ, il centro culturale
la Corsia dei Servi -- il vecchio nome della strada che dal convento dei servi
conduceva al duomo. Uno dei principali sostenitori del progetto
Nomadelfia, il villaggio nato per accogliere gl’orfani di guerra con la
fraternità come unica legge, fondato da SALTINI nell'ex campo di concentramento
di Fossoli presso Carpi, raccogliendo fondi presso la ricca borghesia milanese. Si
rende noto al grande pubblico con due raccolte di liriche “Io non ho mani” -- che
gli valse il Premio letterario Saint Vincent -- e “Gl’occhi miei” lo vedranno,
presentato nella collana mondadoriana Lo Specchio d’Ungaretti. A seguito
di prese di posizione assunte da politici locali e da alcune autorità
ecclesiastiche, deve lasciare Milano e soggiornare in conventi dei servi
dell’Austria e della iera. Venne dai superiori dell’ordine assegnato al
convento della S. Annunziata di Firenze, e qui incontra personalità affini al
suo modo di sentire, quali fra VANNUCCI, BALDUCCI, PIRA, e molti altri che
nell’ambiente fiorentino animano un tempo in cui si accendono speranze di
rinnovamento a tutti i livelli. Ma anche da Firenze è costretto ad allontanarsi
e trascorre un periodo di peregrinazioni all’estero. Ri-entrato in
Italia, venne assegnato al convento di S. Maria delle Grazie, nella “sua”
Udine. Ma con il ri-entro in Italia porta con sé un progetto, nato a contatto
cogl’emigrati friuliani: realizzare un film che raccontasse la nobiltà della
povera vita rurale del suo Friuli. Il film con il titolo “Gl’ultimi” e ispirato
al racconto “Io non ero fanciullo” scritto da T. in precedenza, venne concluso con
la regia di Pandolfi. Presentato a Udine, “Gl’ultimi” tuttavia fu ben presto
rifiutato dall’opinione pubblica friulana, che lo ritenne addirittura
offensivo. Incomincia a cercare un sito dove dare avvio a una nuova
esperienza religiosa comunitaria, allargata alla partecipazione anche di laici.
Questo luogo, con le indicazioni ricevute d’amici, venne individuato
nell’antico Priorato cluniacense di S.Egidio in Fontanella. Ottenuto il
consenso del vescovo bergamasco GADDI, vi si insedia ufficialmente. Costruì
accanto allo storico edificio del Priorato una casa per l’ospitalità, la Casa
di Emmaus, titolo ispirato all’episodio in cui Gesù risorto si manifesta a
Emmaus alla cena nello spezzare il pane. La casa costituì un simbolico richiamo
alla semplice accoglienza, senza distinzioni di censo, di religione, o altro:
aspetti che caratterizzarono tutta la presenza e la sua multiforme opera.
Costituì inoltre un punto di riferimento per molti protagonisti della storia
culturale e civile italiana. Per molte personalità del mondo ecclesiale e d’altre
confessioni cristiane; un solido incentivo al rinnovamento di linguaggi e di
strutture; un laboratorio di creazioni liturgiche e celebrative, di cui
continuano a essere testimoni la versione metrica per il canto dei salmi e
migliaia di inni liturgici. Insieme con altri frati, impegnati particolarmente
in iniziative di rinnovamento spirituale e culturale, diede avvio alla
pubblicazione di una rivista, il cui titolo è ispirato all’ordine dei servi di
Maria, “Servitium”, e ad altre pubblicazioni che si ricollegavano
all’esperienza editoriale della Corsia dei Servi. La pubblicazione della
rivista continua tuttora con cadenza bimestrale, unitamente all’edizione di
altre proposte librarie edite sotto l’omonimo marchio Servitium. Molti
sono i suoi interventi sui media, dalla carta stampata alle trasmissioni radio
e televisive; molti i luoghi e le circostanze in cui è stato chiamato a
intervenire con la sua avvincente parola. Da ricordare in particolare i suoi
“viaggi della memoria” nei luoghi della Shoah, tra cui spicca quello a
Mauthausen. In quest’occasione compose una preghiera, poi recitata nella
cerimonia conclusiva, pubblicata successivamente nel saggio, “Ritorniamo ai
giorni del rischio”. Colpito da un tumore del pancreas, visse con lucida
consapevolezza e trasparente coraggio l’ultimo periodo della vita, dando una
incoraggiante testimonianza sul cammino verso “sorella morte”. Migliaia di
persone sfilarono accanto alla bara in cui era esposto il corpo di padre I
funerali a Milano videro la partecipazione di una numerosa folla nella chiesa
di S. Carlo al Corso, dove presiedette le esequie il cardinale MARTINI, che aveva
consegnato a T. il primo "Premio Lazzati", affermando la propria
opinione secondo la quale la chiesa riconosce la profezia troppo tardi. Un
secondo rito funebre venne celebrato nel pomeriggio a Fontanella di Sotto il
Monte, presente ancora una folla che copre tutta la collina circostante
l’antico priorato. Nel cimitero riposa ora sotto una semplice croce lignea, in
mezzo alla sua gente. Servitium dedica perciò alla sua figura un quaderno a
frate dei servi di S. Maria e ugualmente fa nel decennale. La grande passione. Saggi: Poesia e opere
letterarie «Lungo i fiumi..» I Salmi Milano, San Paolo, O sensi miei...: Poesie
(Milano, Rizzoli). Sul monte la morte, Servitium, La morte ha paura, Servitium,
poesie, Milano, Garzanti Teatro, Servitium,
I giorni del rischio con Salmodia della
speranza e rappresentazione in Duomo a Milano con Moni Ovadia, Servitium, Salmi
e cantici. Versione metrica per il canto di T., Servitium, La passione di S. Lorenzo, Servitium, La
terra non sarà distrutta, Servitium, Luminoso vuoto. Scritti, Servitium, David
M. T., Capovilla, Nel solco di Giovanni, lettere inedite, Servitium. Saggistica
e spiritualità. Lettere dalla Casa di Emmaus, Servitium, La parabola di Giobbe,
Servitium, Santa Maria. Servitium, Mia chiesa, una terra sola, Servitium, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia. Milano,
Rizzoli, Come i primi trovadori, Servitium, Colloqui con Giovanni, Servitium,
Profezia della povertà, Servitium, Chiamati ad essere, Servitium, È Natale,
Servitium, Mio amico don Milani, Servitium, Pregare, Servitium, Anche Dio è
infelice, S. Paolo, Amare Cinisello Balsamo, Edizioni S. Paolo, Padre del
mondo, Servitium, Povero sant’Antonio,
Il Messaggero, Padova. Narrativa Mia infanzia d’oro (con “Ritratto d’autore” Servitium,
e poi la morte dell'ultimo teologo Torino, Gribaudi. “Gli ultimi” Regia:
Pandolfi; soggetto: T.; sceneggiatura: Pandolfi e T.. Tra le tante, ci è un'iniziativa
che è tentata pochi giorni prima della morte di Moro e che è stata evocata da Craxi
nel corso della sua audizione nella prima Commissione d'inchiesta. In quella
circostanza, l'onorevole Craxi afferma che è chiamato da T., che gli chiedeva
sostanzialmente di domandare alla nunziatura apostolica di dichiararsi
disponibile come sede per far svolgere una trattativa. T. chiese II giorni di
silenzio stampa e insistette molto, con veemenza, affermando che era la sola
via possible. Legislatura, Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento
e sulla morte di Moro, Resoconto stenografico, “Tra i memoriali di Mauthausen”,
in “Ritorniamo ai giorni del rischio. Maledetto colui che non spera”, Milano,
Corriere "E T. nascose le armi dei partigiani" La vita, la testimonianza
Morcelliana. Piaz e la Corsia dei Servi di Milano, Morcelliana, T. e gl’organi
divini. Lettura concordanziale di “O sensi miei...”, Olschki, Una vita con gli
amici; Il mondo delle amicizie di T., documentario Salvi, Roma,
Rai-Educational, Elia, La peregrinatio poietica prefazione di Terza, Firenze, Olschki,
Cardinali, Il Dio Inseguito. Viaggio alla scoperta della poesia di T., Edizioni
Pro Sanctitate, Roma, Romero Balducci, Piaz, Fabbretti. Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. David Maria Turolo. David M. Turoldo. David
Turoldo. Giuseppe Turoldo. Turoldo. Keywords: gl’ultimi, le XII fatiche della
ragione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Turoldo” – The Swimming-Pool Library. Turoldo.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuveri:
FILOSOFIA SARDA, NON ITALIANA -- all’altra isola -- la ragione conversazionale
sarda e l’implicatura conversazionale sarda – la scuola di Collinas -- filosofia
sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Collinas). Abstract.
Keywords: la lingua sarda -- The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An
Old-World philosopher such as Tuveri would never have imagined to be compared
to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is
meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been
educated in a tradition that would make little sense of Tuveri as a ‘Grice
italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers.
Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons
he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome
of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His
heritage remains. Tuveri’s place in the history of philosophy is other. But
there are connections, and here they are.Filosofo sardo. Filosofo italiano. Collinas, Sardinia. Grice: “Or should we say,
‘filosofo sardo’?” -- Figlio un noto avvocato. Studia a Cagliari. Di idee
repubblicane comincia l'attività in polemica con molti intellettuali monarchici
e conservatori. Federalista, al parlamento sub-alpino si oppose alla fusione
della Sardegna col Piemonte, ed è in forte contrapposizione con GIOBERTI per le
posizioni anti-repubblicane e anti-mazziniane – vedi: MAZZINI. Fonda La
Gazzetta Popolare, collabora con numerosi giornali e assunse la direzione del
Corriere di Sardegna. Sindaco, propose il nome di Collinas. Lotta contro il
centralismo del regno di Sardegna chiedendo maggiore autonomia, soprattutto
fiscale, per i piccoli comuni. Amico di CATTANEO e MAZZINI, solleva la
questione sarda, promuovendo un riscatto della Sardegna e del popolo sardo
contro uno stato giudicato centralista e oppressivo. Scrive numerosi saggi
filosofici. Assessorato della pubblica istruzione della regione auto-noma della
Sardegna promouove la ristampa dei suoi saggi,
editore Delfino, con una introduzione di BOBBIO. Saggi: “Pintor” (Torino,
Cassone); “Specifici contro il codinismo, (Cagliari, Arcivescovile); “Del
diritto dell'uomo alla distruzione dei cattivi governi: trattato filosofico” (Cagliari,
Nazionale); “Il governo e i comuni” (Cagliari, Nazionale); “Esazione e
compulsione” (Cagliari, Timon); “La questione barracellare” (Cagliari, Timon);
“Della libertà e delle caste” (Cagliari, Corriere di Sardegna); “Sofismi
politici” (Napoli, Rinaldi); “Il veggente: Del dritto dell'uomo alla
distruzione dei cattivi governi”); Accardo, Carta, Mosso; introduzione di Bobbio;
Corrias e Orru, Opuscoli politici. Saggio delle opinioni politiche del signor
deputato sardo Pintor; Specifici contro il codinismo, Sotgiu, Piano e Contu, Scritti
giornalistici. Questione sarda, federalismo, politica internazionale, questione
religiosa, Piano, Contu e Carta, Per la vita e i tempi di T. e altre opere,
Delogu, Fonte: "Centro di studi
filologi sardi". Scheda sul sito della Camera Indipendentismo sardo. Google. Da T. all'intuizione
della concorrenza istituzionale, Bomboi. Venezia. lingua sarda
Disambiguazione – Se stai cercando la lingua prelatina, vedi Lingua protosarda.
Sardo Sardu Parlato in Italia Regioni Sardegna Parlanti Totale 1 000 000 (2010,
2016)[1][2] - 1 350 000 (2016)[3] Altre informazioni Tipo SVO[4][5][6] Tassonomia
Filogenesi Lingue indoeuropee Lingue italiche Lingue romanze Lingue
italo-occidentali Lingue romanze meridionali Sardo (Logudorese, Campidanese)
Statuto ufficiale Minoritaria riconosciuta in Italia (bandiera) Italia dalla
l.n. 482/1999[7] (in Sardegna (bandiera) Sardegna dalla l.r. n. 26/1997[8] e
l.r. n.22/2018[9]) Codici di classificazione ISO 639-1 sc ISO 639-2 srd ISO
639-3 srd (EN) Glottolog sard1257 (EN) Estratto in lingua Dichiarazione
universale dei diritti umani, art. 1 Totu sos èsseres umanos naschint lìberos e
eguales in dinnidade e in deretos. Issos tenent sa resone e sa cussèntzia e
depent operare s'unu cun s'àteru cun ispìritu de fraternidade.[10]
Distribuzione geografica della lingua sarda, coi suoi relativi dialetti in
dettaglio, nonché di quelle alloglotte in Sardegna Manuale Il sardo (nome
nativo sardu /ˈsaɾdu/, lìngua sarda /ˈliŋɡwa ˈzaɾda/ nelle varietà campidanesi
o limba sarda /ˈlimba ˈzaɾda/ nelle varietà logudoresi e in ortografia LSC[11])
è una lingua[12] parlata in Sardegna e appartenente alle lingue romanze del
ramo indoeuropeo. Per differenziazione evidente sia ai parlanti nativi, sia ai
non sardi, sia agli studiosi, è considerata autonoma dagli altri sistemi
dialettali di area italica, gallica e iberica: viene pertanto classificata come
idioma a sé stante nel panorama neolatino.[13][14][15][16][17] Dal 1997 la
legge regionale riconosce alla lingua sarda pari dignità rispetto
all'italiano.[8] Dal 1999, con la legge nazionale sulle minoranze
linguistiche,[7][18][19] la lingua sarda, risultandovi inclusa assieme a undici
altri gruppi, è de jure tutelata con diversi progetti finora sostenuti, per
quanto ancora non risulti integrata in ambito scolastico per il suo
apprendimento. Fra le dodici comunità di minoranza, quella sarda è la più robusta
in termini assoluti[20][21][22][23][24][25] benché in continua diminuzione nel
numero di locutori[20][26] e lingua minoritaria in pericolo di estinzione.
Situazione attuale[modifica | modifica wikitesto] Per quanto la comunità di
locutori possa definirsi come avente una "elevata coscienza
linguistica"[27], il sardo è attualmente classificato dall'UNESCO nei suoi
principali dialetti come una lingua in serio pericolo di estinzione (definitely
endangered), essendo gravemente minacciato dal processo di deriva linguistica
verso l'italiano, il cui tasso di assimilazione, ingenerato dal diciannovesimo
secolo in poi, presso la popolazione sarda è ormai alquanto avanzato in via
esclusiva e sottrattiva verso gli idiomi storici dell'isola. Lo stato alquanto
fragile e precario in cui ormai versa la lingua, in forte regresso finanche
nell'ambito familiare, è illustrato dal rapporto Euromosaic, in cui, come
riportato nel 2000 dal linguista Roberto Bolognesi, il sardo «è al 43º posto
nella graduatoria delle 50 lingue prese in considerazione e delle quali sono
stati analizzati (a) l’uso in famiglia, (b) la riproduzione culturale, (c)
l’uso nella comunità, (d) il prestigio, (e) l’uso nelle istituzioni, (f) l’uso
nell’istruzione».[28] I sociolinguisti hanno classificato il panorama
linguistico della Sardegna come diglossico a partire dall'unità d'Italia nel
1861 fino agli anni cinquanta del Novecento, in accordo con la politica
linguistica del paese che designava l'italiano come la sola lingua ufficiale da
promuovere in ambiti quali l'amministrazione e istruzione, relegando di
conseguenza il sardo e altre minoranze linguistiche a domini non ufficiali,[29]
quando non a un piano di disvalore. A partire dalla seconda metà del ventesimo
secolo, sarebbe subentrato un predominio totale dell'italiano finanche nei
domini informali, ingenerando timori sull'estinzione della lingua sarda,[30]
riconosciuta da tempo sotto il profilo linguistico ma solo allo scadere del
secolo come minoranza linguistica della Repubblica italiana. Le ricerche
effettuate negli ultimi anni sembrano indicare un declino dello stigma
associato alla sardofonia, anche per una maggiore consapevolezza e grazie agli
sforzi dei progetti istituzionali finora approntati, i quali non hanno tuttavia
significativamente inciso sulle pratiche odierne dei parlanti nell'isola, ormai
improntate sull'italofonia regionale.[31] La popolazione sarda in età adulta
non sarebbe a oggi più capace di portare avanti una singola conversazione nella
lingua etnica,[32] essendo questa ormai impiegata in via esclusiva solo dallo
0,6% del totale,[33] e meno del 15%, all'interno di quella giovanile, ne
avrebbe ereditato competenze, peraltro del tutto residuali[34][35] nella forma
deteriore descritta da Bolognesi come «un gergo sgrammaticato».[36] Per le
generazioni più giovani e, ad oggi, in predominanza monolingui in italiano, il
sardo parrebbe essere diventato un ricordo e «poco più che la lingua dei loro
nonni»,[37] essendone del tutto stata recisa la trasmissione intergenerazionale
almeno dagli anni Sessanta. Essendo il futuro prossimo della lingua sarda
tutt'altro che sicuro[38], Martin Harris asseriva già nel 2003 che, qualora non
si fosse riusciti a invertire la tendenza, essa si sarebbe del tutto estinta,
lasciando meramente le sue tracce nell'idioma ora prevalente in Sardegna,
ovvero l'italiano (specificamente nella sua giovane variante regionale), sotto
forma di sostrato.[39] La lingua sarda non è stata de facto ancora introdotta
nella scuola, benché sia riconosciuta dal 1999 come minoranza linguistica della
Repubblica, in contemporanea con le altre undici. Da qualche tempo sono
tuttavia in atto progetti di recupero volti a riguadagnare al sardo un ruolo di
lingua alta e riparare a detta interruzione di trasmissione intergenerazionale,
nell'esigenza, sentita anche e soprattutto presso le classi anagrafiche più
giovani e i ceti culturalmente più avveduti, di riappropriarsi di un patrimonio
che passate politiche linguistiche non avrebbero tutelato.[40] Quadro
generale[modifica | modifica wikitesto] (inglese) «Sardinian is an insular
language par excellence: it is at once the most archaic and the most individual
among the Romance group.» (italiano) «Il sardo è una lingua insulare per
eccellenza: è allo stesso tempo la più arcaica e la più distinta nel gruppo
delle lingue romanze.» (Rebecca Posner, John N. Green (1982). Language and Philology in
Romance. Mouton Publishers. L'Aja,
Parigi, New York. p. 171) Classificazione delle lingue neolatine (Koryakov
Y.B., 2001).[41] La lingua sarda è ascritta nel gruppo distinto del Romanzo
Insulare (Island Romance), assieme al còrso antico (quello moderno fa parte a
pieno titolo della compagine italoromanza, così come gli idiomi sardo-corsi).
Panorama linguistico dell'Europa sudoccidentale nei secoli fino a oggi. Il
sardo è classificato come lingua romanza, ovvero derivata dal latino volgare.
Celebre è il giudizio espresso dal Wagner nel 1950, per il quale il sardo
costituiva l'evidenza di un "parlare romanzo arcaico" non avente
stretta parentela con alcun dialetto italiano della terraferma, e solo per
questioni politiche, poi successivamente risolte col suo riconoscimento
definitivo e ufficiale a minoranza linguistica della Repubblica, "uno dei
tanti dialetti dell'Italia, come lo è anche il serbo-croato o
l'albanese".[42] Il sardo è considerato da molti studiosi come una delle
lingue più conservative derivanti dal latino, se non la più
conservativa;[43][44][45][46] a titolo di esempio, lo storico Manlio Brigaglia
rileva che la frase in latino pronunciata da un romano di stanza a Forum
Traiani Pone mihi tres panes in bertula ("Mettimi tre pani nella
bisaccia") corrisponderebbe alla sua traduzione in sardo corrente Ponemi
tres panes in sa bèrtula.[47] La relativa prossimità fonologica della lingua
sarda al latino volgare (in particolare per quanto riguarda le vocali
accentate) era stata analizzata anche dal linguista italo-americano Mario
Andrew Pei nel suo studio comparativo del 1949[48] e ancor prima notata, nel
1941, dal geografo francese Maurice Le Lannou nel corso del suo periodo di
ricerca in Sardegna.[49] Sebbene la base lessicale sia quindi in massima misura
di origine latina, il sardo conserva tuttavia diverse testimonianze del
sostrato linguistico degli antichi Sardi prima della conquista romana: si
evidenziano etimi protosardi[50] e, in misura minore, anche fenicio-punici[51]
in diversi vocaboli e soprattutto toponimi, che in Sardegna si sarebbero
preservati in percentuale maggiore rispetto al resto dell'Europa latina.[52]
Tali etimi riportano a un sostrato paleomediterraneo che rivelerebbe relazioni
strette con il basco.[53][54][55] In età medievale, moderna e contemporanea la
lingua sarda ha ricevuto influenze di superstrato dal greco-bizantino, ligure,
volgare toscano, catalano, castigliano e infine italiano. Caratterizzato da una
spiccata fisionomia che risalta dalle più antiche fonti disponibili,[56] il
sardo è ritenuto da vari autori come parte di un gruppo autonomo nell'ambito
delle lingue romanze.[16][17][40][57][58][59] La lingua sarda è stata
rapportata da Max Leopold Wagner e Benvenuto Aronne Terracini all'ormai estinto
latino d'Africa, con le cui varietà condivide diversi parallelismi e un qual
certo arcaismo linguistico, nonché un precoce distacco dal comune ceppo
latino;[60] il Wagner ascrive gli stretti rapporti tra l'ormai estinta latinità
africana e quella sarda, inter alia, anche alla comune esperienza
storico-istituzionale nell'Esarcato d'Africa.[61] A confortare tale teoria si
menzionano le testimonianze di alcuni autori, quali l'umanista Paolo
Pompilio[62] e il geografo Muhammad al-Idrisi, che visse a Palermo nella corte
del re Ruggero II.[63][64][65][66][67] La comunanza sarda e africana del
vocalismo,[40] nonché di diverse parole alquanto rare se non assenti nel resto
del panorama romanzo, come acina (uva), pala (spalla), o anche spanus nel
latino africano e il sardo spanu ("rossiccio"), costituirebbe la
prova, per J. N. Adams, del fatto che una discreta quantità di vocabolario
fosse un tempo condivisa tra Africa e Sardegna.[68] Sempre con riguardo al
lessico, Wagner osserva come la denominazione sarda per la Via Lattea (sa (b)ía
de sa báza o (b)ía de sa bálla, letteralmente "la via o il cammino della
paglia") si discosti dall'intero panorama romanzo e si ritrovi piuttosto
nelle lingue berbere.[69] Ciononostante, un'altra classificazione proposta da
Giovan Battista Pellegrini associa, comunque, il sardo al ramo italoromanzo
sulla base non tipologica, ma di valutazioni sociolinguistiche contemporanee a
suo dire espresse dalla popolazione sarda, pur rilevandone le peculiarità
nell'intero panorama latino (Romània).[70][71][72][73] Prima di lui, Bernardino
Biondelli, nei suoi Studi linguistici del 1856, pur ammettendo per la
"famiglia sarda" un'autonomia linguistica «in guisa da poter essere
considerata come una lingua distinta dall'italiana, del pari che la spagnuola»,
la aveva comunque accorpata ai vari "dialetti italici" della
penisola, stanti gli stretti rapporti della lingua con il progenitore latino e
la dipendenza politica dell'isola dall'Italia.[74] Discussa è l'assegnazione
tipologica delle varietà linguistiche sardo-corse, ovvero il gallurese e il
sassarese: per taluni andrebbero ricomprese nel sardoromanzo, per altri
sarebbero del tutto separate dal dominio linguistico sardo e invece incluse
nell'italoromanzo.[75] Il Wagner (1951[76]) annette il sardo alla Romània
occidentale, mentre Matteo Bartoli (1903[77]) e Pier Enea Guarnerio (1905[78])
lo ascrivono a una posizione autonoma tra la Romània occidentale e quella
orientale. Da altri autori ancora, il sardo è classificato come l'unico
esponente ancora in vita di una branca un tempo comprensiva finanche della
Corsica[79][80] e della summenzionata sponda meridionale del
Mediterraneo.[81][82] Thomas Krefeld descrive, in merito, la Sardegna
linguistica come «una Romània in nuce» contraddistinta dalla «combinazione di
tratti panromanzi, tratti macroregionali (iberoromanzi e italoromanzi) e
perfino tratti microregionali ed esclusivamente sardi», la cui distribuzione
spaziale varia in ragione della dialettica tra spinte innovatrici e altre
tendenti alla conservatività.[83] Secondo Brenda Man Qing Ong e Francesco
Perono Cacciafoco, la lingua sarda sarebbe un diasistema comprensivo di varietà
e sottovarietà che non hanno subìto l'unificazione linguistica o nazionale, ma
contengono comunque elementi linguistici, fonetici, grammaticali e lessicali
simili.[84] Varietà linguistiche di tipo sardo[modifica | modifica wikitesto]
Lo stesso argomento in dettaglio: Sardo logudorese e Sardo campidanese. «Due
dialetti principali si distinguono nella medesima lingua sarda; ciò sono il
campidanese, e ’l dialetto del capo di sopra.» (Francesco Cetti. Storia
naturale della Sardegna, I quadrupedi. G. Piattoli, 1774) I dialetti della
lingua sarda propriamente detta vengono convenzionalmente ricondotti a due
ortografie standardizzate e reciprocamente comprensibili, l'una riferita ai
dialetti centro-settentrionali (o "logudoresi") e l'altra a quelli
centro-meridionali (o "campidanesi").[85][86] Le caratteristiche che
vengono solitamente considerate dirimenti sono l'articolo determinativo plurale
(is ambigenere in campidanese, sos / sas in logudorese) e il trattamento delle
vocali etimologiche latine E e O, che rimangono tali nelle varietà
centro-settentrionali e sono mutate in I e U in quelle centro-meridionali;
esistono però numerosi dialetti detti di transizione, o Mesanía (es. arborense,
barbaricino meridionale, ogliastrino, ecc.), che presentano i caratteri tipici
ora dell'una, ora dell'altra varietà. Tale percezione dualistica dei dialetti
sardi, originariamente registrata in via esogena per la prima volta dal
naturalista Francesco Cetti (1774)[87][88] e riproposta in seguito da Matteo
Madao (1782), Vincenzo Raimondo Porru (1832), Giovanni Spano (1840) e Vittorio
Angius (1853),[89][90] piuttosto che segnalare la presenza di effettive
isoglosse, costituisce per Roberto Bolognesi la prova di un'adesione
psicologica dei Sardi alla suddivisione amministrativa dell'isola effettuata
nel 1355 da Pietro IV d'Aragona tra un Caput Logudori (cabu de susu, "capo
di sopra") e un Caput Calaris et Gallure (cabu de jossu, "capo di
sotto") ed estesa poi alla tradizione ortografica in una varietà
logudorese e campidanese illustre.[91][92] Il fatto che tali varietà illustri
astraggano dai dialetti effettivamente diffusi nel territorio,[93] che invece
si collocano lungo uno spettro interno o continuum di parlate reciprocamente
intellegibili,[94][95][96] fa sì che risulti difficile tracciare un confine
reale tra le varietà interne di tipo "logudorese" e di tipo
"campidanese", problematica comune nella distinzione dei dialetti
delle lingue romanze. Dal punto di vista propriamente scientifico, tale
classificazione binaria non è condivisa da alcuni autori,[91][97] coesistendo
proposte alternative di classificazione tripartita[98][99][100] e
quadripartita.[101] I vari dialetti sardi, pur accomunati da morfologia,
lessico e sintassi fondamentalmente omogenei, presentano rilevanti differenze
di carattere fonetico e talvolta anche lessicale, che non ne ostacolano
comunque la mutua comprensibilità.[85][97] Distribuzione geografica[modifica |
modifica wikitesto] Viene tuttora parlata in quasi tutta l'isola di Sardegna da
un numero di locutori variabile tra 1 000 000 e 1 350 000 unità, generalmente
bilingue (sardo/italiano) in situazione di diglossia (la lingua sarda è
utilizzata prevalentemente nell'ambito familiare e locale mentre quella
italiana viene usata nelle occasioni pubbliche e per la quasi totalità della
scrittura). Più precisamente, da uno studio commissionato dalla Regione
Sardegna nel 2006[102] risulta che ci siano 1 495 000 persone circa che
capiscono la lingua sarda e 1 000 000 di persone circa in grado di parlarla. In
modo approssimativo i locutori attivi del campidanese sarebbero 670 000 circa
(il 68,9% dei residenti a fronte di 942 000 persone in grado di capirlo),
mentre i parlanti delle varietà logudoresi-nuoresi sarebbero 330 000 circa
(compresi i locutori residenti ad Alghero, nel Turritano e in Gallura) e 553
000 circa i sardi in grado di capirlo. Nel complesso solo meno del 3% dei
residenti delle zone sardofone non avrebbe alcuna competenza della lingua
sarda. Il sardo è la lingua tradizionale nella maggior parte delle comunità
sarde nelle quali complessivamente vive l'82% dei sardi (il 58% in comunità
tradizionalmente campidanesi, il 23% in quelle logudoresi). Aree non sardofone
In virtù delle emigrazioni dai centri sardofoni, principalmente logudoresi e
nuoresi, verso le zone costiere e le città del nord Sardegna il sardo è,
peraltro, parlato anche in aree non sardofone: Nella città di Alghero, dove la
lingua più diffusa, assieme all'italiano, è un dialetto del catalano (lingua
che, oltre all'algherese, comprende tra le altre anche le parlate della
Catalogna, del Rossiglione, delle Isole Baleari e di Valencia), il sardo è
capito dal 49,8% degli abitanti e parlato dal 23,2%. Il mantenimento plurisecolare
del catalano in questa zona è dato da un particolare episodio storico: le
rivolte anticatalane da parte degli algheresi, con particolare riferimento a
quella del 1353,[103] furono infruttuose poiché la città fu alfine ceduta nel
1354 a Pietro IV il Cerimonioso. Questi, memore delle sollevazioni popolari,
espulse tutti gli abitanti originari della città, ripopolandola dapprima con
soli catalani di Tarragona, Valencia e delle Isole Baleari e, successivamente,
con indigeni sardi che avessero però dato prova di piena fedeltà alla Corona di
Aragona. A Isili il romaniska è invece in via d'estinzione, parlato solo da un
sempre più ristretto numero di individui. Tale idioma fu importato anch'esso in
Sardegna nel corso della dominazione iberico-spagnola, a seguito di un
massiccio afflusso di immigrati rom albanesi che, insediatisi nel suddetto
paese, diedero origine a una piccola colonia di ramai ambulanti. Nell'isola di
San Pietro e parte di quella di Sant'Antioco, dove persiste il tabarchino,
dialetto arcaizzante del ligure. Il tarbarchino fu importato dai discendenti di
quei liguri che, nel Cinquecento, si erano trasferiti nell'isolotto tunisino di
Tabarka e che, per via dell'esaurimento dei banchi corallini e del
deterioramento dei rapporti con le popolazioni arabe, ebbero da Carlo Emanuele
III di Savoia il permesso di colonizzare le due piccole e inabitate isole sarde
nel 1738: il nome del comune appena fondato, Carloforte, sarebbe stato scelto
dai coloni in onore del sovrano piemontese. La permanenza compatta in una sola
locazione, unita ai processi proiettivi di auto-identificazione dati dalla
percezione che i tabarchini avrebbero avuto di sé stessi in rapporto agli
indigeni sardi,[104] hanno comportato nella popolazione locale un alto tasso di
lealtà linguistica a tale dialetto ligure, ritenuto un fattore necessario per
l'integrazione sociale: difatti, la lingua sarda è compresa da solo il 15,6%
della popolazione e parlata da un ancor più esiguo 12,2%. Nel centro di Arborea
(Campidano di Oristano) il veneto, trapiantato negli anni trenta del Novecento
dagli immigrati veneti giunti a colonizzare il territorio ivi concesso dalle
politiche fasciste, è oggigiorno in regresso, soppiantato sia dal sardo sia
dall'italiano. Anche nella frazione algherese di Fertilia sono predominanti,
accanto all'italiano, dialetti di tale famiglia (anch'essi in netto regresso)
introdotti nell'immediato dopoguerra da gruppi di profughi istriani su un
preesistente sostrato ferrarese. Un discorso a parte va fatto per i due idiomi parlati
nell'estremo nord dell'isola, linguisticamente gravitanti sulla Corsica e
quindi la Toscana: l'uno a nord-est, sviluppatosi da una varietà del toscano
(il còrso meridionale) e l'altro a nord-ovest, influenzato dal toscano/corso e
genovese.[105] Francesco Cetti, che per primo, come si è detto, operò la
classificazione bipartita del sardo, aveva reputato l'idioma sardo-corso «che
si parla in Sassari, Castelsardo e Tempio» come «straniero» e «non nazionale»
(ovvero, "non sardo") al pari del dialetto catalano di Alghero,
giacché sarebbe a suo dire «un dialetto italiano, assai più toscano, che non la
maggior parte de’ medesimi dialetti d'Italia».[106] La maggior parte degli
studiosi li considera infatti come parlate geograficamente sarde ma
tipologicamente facenti parte, assieme al corso, del sistema linguistico
italiano per sintassi, grammatica e in buona parte anche lessico.[107] Secoli
di contiguità hanno fatto sì che tra gli idiomi sardo-corsi, afferenti all'area
italiana, e la lingua sarda vi fossero reciproche influenze sia
fonetico-sintattiche sia lessicali,[108] senza però comportarne l'annullamento
delle differenze fondamentali tra i due sistemi linguistici. Nello specifico, i
cosiddetti idiomi sardo-corsi sono: il gallurese, parlato nella parte nord-orientale
dell'isola, è di fatto una varietà del còrso meridionale. L'idioma sorse
verosimilmente a seguito dei notevoli flussi migratori che, procedenti dalla
Corsica, investirono la Gallura dalla seconda metà circa del XIV.[109] secolo
o, secondo altri, invece, a partire dal XVI secolo[110] La causa di tali flussi
andrebbe ricercata nello spopolamento della regione dovuto a pestilenze,
incursioni e incendi. il turritano o sassarese, parlato a Sassari, Porto
Torres, Sorso, Castelsardo e nei loro dintorni, ebbe invece origine più antica
(XII-XIII secolo). Esso conserva grammatica e struttura di base corso-toscana a
riprova della sua origine comunale e mercantile, ma presenta profonde influenze
del sardo logudorese in lessico e fonetica, oltre a quelle minori del ligure,
del catalano e dello spagnolo. Nelle zone di diffusione del gallurese e del
sassarese, la lingua sarda è capita dalla massima parte della popolazione (il
73,6% in Gallura e il 67,8% nel Turritano), anche se è parlata da una minoranza
di locutori: il 15,1% in Gallura (senza la città di Olbia, dove la sardofonia
ha un notevole rilievo, ma comprese le piccole enclavi linguistiche come Luras)
e il 40,5% nel Turritano, grazie alle numerose isole linguistiche in cui i due
idiomi convivono. Competenza del sardo all'interno delle diverse aree
linguistiche[modifica | modifica wikitesto] La presente tavola sinottica è
contenuta nel già citato rapporto di Anna Oppo (curatrice), Le Lingue dei
Sardi. Una Ricerca Sociolinguistica, commissionato dalla Regione Autonoma di
Sardegna alle Università di Cagliari e di Sassari.[111] Attiva Passiva Nessuna
Totale Interv. Area logudoresofona 76,0% 21,9% 2,1% 100% 425 Area
campidanesofona 68,9% 27,7% 3,4% 100% 919 Città di Alghero 23,2% 26,2% 50,6%
100% 168 Area sassaresofona 27,3% 40,5% 32,2% 100% 575 Città di Olbia 44,6%
38,9% 16,6% 100% 193 Area galluresofona 15,1% 58,5% 26,4% 100% 53 Carloforte e
Calasetta 12,2% 35,6% 52,2% 100% 90 Storia[modifica | modifica wikitesto]
Preistoria e storia antica[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento
in dettaglio: Lingua protosarda. Le origini e la classificazione della lingua
protosarda o paleosarda non sono al momento note con certezza. Alcuni studiosi,
tra cui il linguista svizzero esperto degli elementi di sostrato Johannes
Hubschmid, hanno creduto di potere riconoscere diverse stratificazioni
linguistiche nella Sardegna preistorica.[51] Queste stratificazioni,
cronologicamente collocabili in un periodo molto ampio che va dall'età della
pietra a quella dei metalli, mostrerebbero, a seconda delle ricostruzioni
proposte dai diversi autori, similitudini con le lingue paleoispaniche
(proto-basco, iberico), lingue tirseniche e l'antico ligure.[112][113] Anche se
la dominazione di Roma, iniziata nel 238 a.C., importò fin da subito
nell'amministrazione locale la lingua latina attraverso il ruolo dei
negotiatores di etnia strettamente italica, la romanizzazione dell'isola non
procedette in maniera affatto spedita:[114] si stima che i contatti linguistici
con la metropoli continentale fossero probabilmente già cessati a partire dal I
secolo a.C.,[115] e le lingue sarde, fra cui il punico, permasero nell'uso
ancora per diverso tempo. Si reputa che il punico continuò a essere usato fino
al IV secolo d.C.,[116] mentre il nuragico resistette fino al VII secolo d.C.
presso le popolazioni dell'interno che, guidate dal capo tribale Ospitone,
adottarono anch'esse il latino con la loro conversione al
cristianesimo.[117][Nota 1] La prossimità culturale della popolazione locale
rispetto a quella cartaginese risaltava nel giudizio degli autori romani,[118]
in particolare presso Cicerone le cui invettive, nello schernire i sardi
ribelli al potere romano, vertevano nel denunciarne la inaffidabilità per via
della loro supposta origine africana[Nota 2] avendone in odio i portamenti, la
loro disposizione verso Cartagine piuttosto che Roma, nonché una lingua
incomprensibile.[119] Diverse radici paleosarde rimasero invariate e in molti
casi furono incamerate nel latino locale (come Nur, che presumibilmente compare
anche in Norace, e che si ritrova in diversi toponimi quali Nurri, Nurra e
molti altri); la regione dell'isola che avrebbe derivato il suo nome dal latino
Barbaria (in italiano "paese dei Barbari",[120] lemma comune
all'ormai desueto "Barberia") si oppose all'assimilazione romana per
un lungo periodo: vedasi, a titolo di esempio, il caso di Olzai, in cui circa
il 50% dei toponimi è derivabile dal sostrato linguistico protosardo.[51] Oltre
ai nomi di luogo, sull'isola sono presenti diversi nomi di piante, animali e
terminologia geomorfica direttamente riconducibili agli antichi idiomi
indigeni.[121] Anche nel suo fondo latino il sardo presenta diverse
peculiarità, dovute all'adozione di vocaboli sconosciuti e/o da tempo caduti in
disuso nel resto della Romània linguistica.[122][123] Durata del dominio romano
e nascita delle lingue romanze.[124] Per quanto lentamente, il latino sarebbe
alla fine comunque diventato la lingua madre della maggior parte degli abitanti
dell'isola.[125] Come risultato di questo profondo processo di romanizzazione,
l'odierna lingua sarda è oggi classificata come lingua romanza o
neolatina,[121] presentante caratteristiche fonetiche e morfologiche simili al
latino classico. Alcuni linguisti sostengono che la lingua sarda moderna sia
stata la prima lingua a dividersi dalle altre lingue che si stavano evolvendo
dal latino.[126] Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente e una parentesi
vandalica di 80 anni, la Sardegna fu riconquistata da Bisanzio e inclusa
nell'Esarcato d'Africa.[127] Il Casula è convinto che la dominazione vandalica
procurò una «netta frattura con la tradizione redazionale romano-latina o,
quantomeno, una sensibile strozzatura» così che il successivo governo bizantino
poté impiantare «i propri istituti operativi» in un «territorio conteso tra la
"grecìa" e la "romània"».[128] Luigi Pinelli ritiene che la
presenza vandala avesse «estraniato la Sardegna dall'Europa legando il suo
destino al dominio africano» in un legame volto a rafforzarsi ulteriormente
«sotto la dominazione bizantina non solo per aver l'impero romaico compreso
l'isola all'Esarcato africano, ma per averne, sia pure indirettamente,
sviluppata la comunità etnica facendo ad essa acquistare molte delle
caratteristiche africane» che avrebbero permesso a etnologi e storici di
elaborare la teoria dell'origine africana dei paleosardi,[129] ormai deprecata.
Nonostante un periodo di quasi cinque secoli, la lingua greca dei bizantini non
diede in prestito al sardo che alcune espressioni rituali e formali;
significativo, d'altro canto, l'utilizzo dell'alfabeto greco per redigere testi
in primo volgare sardo, ovvero una lingua neolatina.[130][131] Periodo
giudicale[modifica | modifica wikitesto] Estratto del Privilegio Logudorese
(1080)[132] (sardo) «In nomine Domini amen. Ego iudice Mariano de Lacon fazo
ista carta ad onore de omnes homines de Pisas pro xu toloneu ci mi pecterunt: e
ego donolislu pro ca lis so ego amicu caru e itsos a mimi; ci nullu imperatore
ci lu aet potestare istu locu de non (n)apat comiatu de leuarelis toloneu in
placitu: de non occidere pisanu ingratis: e ccausa ipsoro ci lis aem leuare
ingratis, de facerlis iustitia inperatore ci nce aet exere intu locu […]»
(italiano) «In nome di Dio, amen. Io giudice Mariano de Lacon faccio questa carta
a onore di tutti gli uomini di Pisa, per il dazio che mi chiesero; e io la dono
loro perché sono a loro amico caro ed essi a me; che nessun imperatore che
abbia a potestare in questo luogo non possa togliere loro questo dazio concesso
con placito: di non uccidere arbitrariamente un pisano: e per i beni che
venissero arbitrariamente tolti, gli faccia giustizia l'imperatore che ci sarà
nel luogo […]» (Privilegio Logudorese 1080) Quando gli omayyadi si
impadronirono del Nordafrica, ai bizantini non rimasero dei precedenti
territori che le Baleari e la Sardegna; Luigi Pinelli ritiene che tale evento
abbia costituito uno spartiacque fondamentale nel percorso storico della
Sardegna, determinando la definitiva recisione di quei legami culturali in
precedenza assai stretti tra quest'ultima e la sponda meridionale del
Mediterraneo: «le comunanze con le terre d'Africa si dileguarono, come nebbia
al sole, per effetto della conquista islamita giacché questa, a causa
dell'accanita resistenza dei sardi, non riuscì, come avvenuto in Africa, ad
estendersi nell'isola».[129] Nonostante le numerose spedizioni intraprese verso
la Sardegna, infatti, gli arabi non sarebbero mai riusciti a conquistarla e a
stabilirvisi, a differenza della Sicilia.[133] Michele Amari, citato dal
Pinelli, scrive che «i tentativi dei musulmani di Africa di conquistare la
Sardegna e la Corsica furono frustrati per il valore inconcusso degli abitatori
di quelle isole poveri e valorosi che si salvarono per due secoli dal giogo
degli arabi».[134] Essendo Costantinopoli impegnata nella riconquista della
Sicilia e del Meridione italiano, caduti anch'essi nelle mani degli arabi,
questa distolse la propria attenzione dall'isola che, quindi, procedette a
dotarsi di competenze via via maggiori fino all'indipendenza.[135] Pinelli
reputa che «la conquista araba separò la Sardegna da quel continente senza che,
però, si verificasse una riunione all'Europa» e che detto evento «determina una
svolta capitale per la Sardegna dando vita al governo nazionale di fatto indipendente»,[129]
retto da una figura chiamata "giudice" (judike o juighe in sardo),
intesa come autentico sovrano a capo di una statualità (Logu) sovrana,
perfetta, non patrimoniale ma superindividuale (iudex sive rex, da cui il sardo
judicadu e la resa italiana in "giudicato"), piuttosto che nel suo
significato in italiano di comune "magistrato".[136] Il Casula
ritiene che, da un esame degli elementi diplomatistici e paleografici, l'isola
emerga dal «black-out documentario» anteriore al Mille con un'assunzione di
sovranità avvenuta, intorno al secolo IX, come «conseguenza marginale
dell'occupazione della Sicilia da parte degli Arabi e dalla disgregazione
dell'Impero carolingio»;[137] una lettera di Brancaleone Doria, marito di
Eleonora d'Arborea, recita che nell'ultimo decennio del secolo XIV il giudicato
arborense avrebbe avuto già "cinquecento anni di vita" e fosse,
perciò, nato verso la fine dell'800.[138] Il volgare sardo, sviluppando nel
tempo le due varianti ortografiche logudoresi e campidanesi, costituì durante
il periodo medioevale la lingua ufficiale e nazionale dei quattro Giudicati
isolani, anticipando in emancipazione le altre lingue
neolatine[139][140][141][142] tra cui il volgare toscano, come riportava in
guisa di esempio da seguire per gli italiani "sulla scorta dei vicini
Sardi" lo storico e diplomatista Ludovico Antonio Muratori.[Nota 3]
L'eccezionalità della situazione sarda, che costituisce in tal senso un caso
unico nell'intero panorama romanzo, consiste nel fatto che tali testi ufficiali
furono redatti fin dall'inizio in lingua sarda per comunicazioni interne ed
escludessero del tutto il latino, a differenza di quanto accadeva nel periodo
coevo nelle regioni geografico-culturali di Francia, Italia e Iberia; il latino
in Sardegna era infatti impiegato solo nei documenti concernenti rapporti
esterni con il continente europeo.[143] La coscienza linguistica sulla dignità
del sardo era tale da giungere, nelle parole di Livio Petrucci, a un suo
impiego «in epoca per la quale nulla di simile è verificabile nella penisola»
non solo «in campo giuridico» ma anche «in qualunque altro settore della
scrittura».[144] Il Casula riporta in merito che i «documenti "per
l'interno", cioè destinati ai Sardi» fossero già in volgare sardo, laddove
quelli «per l'esterno» fossero in «latino "quasi merovingico"».[145]
La lingua sarda presentava allora un numero ancor maggiore di arcaismi e
latinismi rispetto a quella attuale, l'utilizzo di caratteri oggi entrati in
disuso nonché in diversi documenti una grafia della lingua scritta che
risentiva degli influssi continentali degli scrivani, spesso toscani, genovesi
o catalani. Scarsa la presenza di lemmi germanici, giunti perlopiù attraverso
lo stesso latino, e degli arabismi, importati a loro volta dall'influsso iberico.[146]
Dante Alighieri nel suo De vulgari eloquentia (1303-1305) ne riferisce ed
espelle criticamente i sardi, a rigore "non italiani (Latii) per quanto a
questi superficialmente accomunabili",[147][148] in quanto agli occhi di
Dante parlerebbero non una lingua neolatina, bensì in latino schietto
imitandone la gramatica «come le scimmie imitano gli uomini: dicono infatti
domus nova e dominus meus».[147][148][149] Tale asserzione è in realtà prova di
quanto il sardo, ormai evolutosi autonomamente dal latino, fosse divenuto già
in quell'epoca, nelle parole del Wagner, un'autentica e impenetrabile
"sfinge"[146], ovvero una lingua pressoché incomprensibile a tutti
fuorché gli isolani. Famosi sono due versi del XII secolo attribuiti al
trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras, che nel suo poema Domna, tant vos
ai preiada equipara il sardo per intelligibilità a due lingue del tutto escluse
dallo spazio romanzo, quali il tedesco (un idioma germanico) e il berbero (un
idioma afroasiatico): «No t'entend plui d'un Todesco / Sardesco o Barbarì»
(lett. "Non ti capisco più di un tedesco / o sardo o
berbero")[150][151][152][153][154][155] e quelli del fiorentino Fazio
degli Uberti (XIV secolo) il quale nel Dittamondo scrive dei sardi: «una gente
che niuno non la intende / né essi sanno quel ch'altri pispiglia » (lett.
"una gente che nessuno capisce / né essi capiscono quel che gli altri
bisbigliano").[149][156] Il condaghe di San Pietro di Silki (1065-1180),
scritto in sardo Il primo documento scritto in cui compaiono elementi della
lingua sarda risale al 1065 e si tratta dell'atto di donazione da parte di
Barisone I di Torres indirizzato all'abate Desiderio a favore dell'abbazia di
Montecassino,[157] noto anche come Carta di Nicita.[158] Prima pagina della Carta
de Logu arborense (Biblioteca universitaria di Cagliari). Altri documenti di
grande rilevanza sono i Condaghi, la Carta di Orzocco (1066/1073),[159] il
Privilegio Logudorese (1080-1085) conservato presso l'Archivio di Stato di
Pisa, la Prima Carta cagliaritana (1089 o 1103) proveniente dalla chiesa di San
Saturnino nella diocesi di Cagliari e, assieme alla Seconda Carta Marsigliese,
conservata negli Archivi Dipartimentali delle Bouches-du Rhone a Marsiglia,
oltre a un particolare atto (1173) tra il Vescovo di Civita Bernardo e
Benedetto, allor amministratore dell'Opera del Duomo di Pisa. Statuti Sassaresi
Gli Statuti Sassaresi (1316)[160] e quelli di Castelgenovese (c. 1334), scritti
in logudorese, sono un altro importante esempio di documentazione linguistica
della Sardegna settentrionale e della Sassari comunale; è infine d'uopo
menzionare la Carta de Logu[161] del Regno di Arborea (1355-1376), che sarebbe
rimasta in vigore fino al 1827. Per quanto i testi a noi rimasti provenissero
da zone alquanto lontane l'una dall'altra, quali il nord e il sud dell'isola,
il sardo si presentava allora piuttosto omogeneo:[162] benché le differenze
ortografiche tra il logudorese e il campidanese cominciassero a intravedersi,
il Wagner rinveniva in tale periodo «l'originaria unità della lingua
sarda».[163] Paolo Merci vi riscontra una «larga uniformità», così come Antonio
Sanna e Ignazio Delogu, per il quale sarebbe stata la vita comunitaria a
sottrarre l'ortografia sarda ai localismi.[162] A detta di Carlo Tagliavini,
nell'isola si andava formando una koinè illustre basata piuttosto sul modello
ortografico logudorese.[164] In seguito alla scomparsa del giudicato di
Cagliari e di quello di Gallura nella seconda metà del XIII secolo, sarebbe
stato il dominio dei Gherardesca e della Repubblica di Pisa sugli ex-territori
giudicali a provocare, secondo Eduardo Blasco Ferrer, una prima frammentazione
del sardo, con un considerevole processo di toscanizzazione della lingua
locale.[165] Nel settentrione della Sardegna, invece, furono i genovesi a
imporre la propria sfera di influenza, sia mediante la nobiltà sardo-genovese
di Sassari, sia attraverso i membri della famiglia Doria che, anche dopo
l'annessione dell'isola da parte dei catalano-aragonesi, conservarono i propri
feudi di Castelsardo e Monteleone in qualità di vassalli dei sovrani della
Corona d'Aragona.[166] Alla seconda metà del XIII secolo risale la prima
cronaca redatta in lingua sive ydiomate sardo,[167] seguendo gli stilemi tipici
del periodo. Il manoscritto, redatto da un anonimo e oggi conservato presso
l'Archivio di Stato di Torino, reca il titolo di Condagues de Sardina e traccia
le vicende dei Giudici succedutisi nel Giudicato di Torres; l'ultima edizione
critica della cronaca sarebbe stata ripubblicata nel 1957 da Antonio Sanna. La
politica estera del giudicato di Arborea, indirizzata a unificare il resto
dell'isola sotto il suo regno[168][169] e a preservare la propria indipendenza
da ingerenze straniere, oscillò tra una posizione di alleanza con gli aragonesi
in funzione antipisana a una, di senso contrario, antiaragonese, instaurando
alcuni legami culturali con la tradizione italiana.[169][170][171] La
contrapposizione politica fra il giudicato di Arborea e i sovrani aragonesi si
manifestò anche con l'adozione di certe matrici culturali toscane, quali alcuni
moduli linguistici nell'Oristanese.[172] Ciononostante, in linea con la propria
politica estera, il giudicato arborense si contraddistinse per diverse
innovazioni, quali un proprio tipo di scrittura cancelleresca (la gotica
cancelleresca arborense, derivata dalla triangolare italiana) e per una qual
certa riluttanza a sottoporsi eccessivamente all'influsso di culture
forestiere, maturata sulla consapevolezza di una propria identità autoctona,
etnica, antropologica, culturale e linguistica.[173] In merito a detta
cancelleresca, sulla cui costituzione il Casula non ha dubbi, egli dice che
«non parrà arbitrario, quindi, se cercheremo di spiegare il modello attraverso
i campioni offertici dai documenti originali della curia giudicale
dell'Arborea, la quale ci sembra facesse qualcosa di più che abbandonarsi
all'esecuzione passiva e sciatta della grafia gotica appresa in Italia o
importata dagli italiani, verosimilmente dai Pisani: i Sardi oristanesi,
infatti, calligrafarono, caratterizzarono, collettivizzarono e conservarono
questa scrittura fino alla fine del giudicato. In poche parole: con essa
crearono la propria cancelleresca, che dopo il 1323 può essere contrapposta
alla cancelleresca catalana delle scrivanie regie dell'isola.[174]» In ogni
caso, una qual certa influenza italiana poté essere mantenuta nel giudicato
arborense grazie alla presenza in loco di alcuni notai, giuristi e medici
provenienti dalla suddetta penisola, nonché di alcuni uomini d'arme toscani a
capo di milizie locali, fra cui Cicarello di Montepulciano e Giuliano di Massa:
Mariano IV d'Arborea, che aveva trascorso parte della propria giovinezza in
Catalogna, avrebbe impartito ordini ai propri comandanti in italiano o in sardo
«secondo la loro nazionalità d'origine».[175] Periodo aragonese e
spagnolo[modifica | modifica wikitesto] L'infeudamento della Sardegna da parte
di papa Bonifacio VIII nel 1297, senza che questi avesse tenuto conto delle
realtà statuali già presenti al suo interno, portò alla fondazione nominale del
Regno di Sardegna: ovvero, di uno stato che, per quanto privo di summa
potestas, entrò di diritto quale membro in unione personale entro la compagine
mediterranea della Corona di Aragona. Ebbe così inizio, nel 1353, una lunga
guerra tra quest'ultima e, al grido di «Helis, Helis», il precedente alleato
Giudicato di Arborea, in cui la lingua sarda avrebbe rivestito un ruolo di
codice di contrassegno etnico.[176] La guerra aveva tra i suoi motivi un mai
sopito e antico disegno arborense di instaurare «un grande Stato-Nazione
isolano, tutto indigeno» assistito dalla partecipazione stavolta massiccia, per
la prima e ultima volta nella loro storia, finanche del resto dei Sardi, ovvero
non giudicali (Sardus de foras) e residenti nei possedimenti signorili o
regnicoli,[177] nonché una diffusa insofferenza per l'imposizione di un regime
feudale che minacciava la sopravvivenza di radicate istituzioni autoctone e,
lungi dall'assicurare la riconduzione dell'isola a un regime unitario, vi aveva
solo introdotto, a detta di Ugone d'Arborea in una lettera inviata al cardinale
Napoleone Orsini, "tot reges quot sunt ville" ("tanti re-padroni
quanti sono i paesi"),[178] laddove "Sardi unum regem se habuisse
credebant" ("i sardi credevano di avere un solo re"). Il conflitto
tra le due entità sovrane si concluse dopo sessantasette anni con la definitiva
vittoria della "confederazione" aragonese nella storica battaglia di
Sanluri nel 30 giugno 1409 e, infine, la rinuncia dei diritti di successione
arborensi da parte di Guglielmo III di Narbona nel 1420. Tale evento,
accompagnato alla scomparsa del re di Sicilia Martino il Giovane nel 1409,
segnò per Francesco Cesare Casula l'uccisione reciproca delle due
"nazioni", sarda e catalana, e per l'isola "l'inizio del vero
medioevo feudale",[179] terminato solo nel 1836: per il Casula, il
predetto avvenimento, paragonato per rilevanza storica alla «fine del Messico
azteco», dovrebbe ritenersi «né trionfo né sconfitta, ma la dolorosa nascita
della Sardegna di oggi».[180] Durante e dopo questo conflitto, sarebbe stato
sistematicamente neutralizzato ogni focolaio di ribellione antiaragonese, quali
la rivolta di Alghero nel 1353, quella di Uras del 1470 e infine quella di
Macomer nel 1478, richiamata nel De bello et interitu marchionis
Oristanei;[181] da quel momento, «quedó de todo punto Sardeña por el rey».[182]
Il Casula reputa che i vincitori emersi dal conflitto avessero poi proceduto a
distruggere la preesistente produzione documentaria dell'età giudicale, redatta
perlopiù in lingua sarda ma anche in altri idiomi che meglio si confacevano
alle relazioni della sofisticata cancelleria arborense, non lasciando dietro di
sé che «poche pietre» e, nel complesso, un «esiguo gruppo di documenti»,[183]
molti dei quali sono infatti tuttora conservati e/o rimandano ad archivi fuori
dell'isola.[184] Nello specifico, la documentazione giudicale e il suo palazzo
sarebbe stata data completamente alle fiamme il 21 maggio 1478, mentre il
viceré faceva trionfalmente il proprio ingresso ad Oristano dopo aver domato la
summenzionata ribellione marchionale, che minacciava la ripresa di una
soggettività arborense de jure abolita nel 1420 ma ancora ben viva nella
memoria popolare.[185] Il catalano, lingua della corte della Corona d'Aragona,
assunse anche nell'isola l'egemonia, in una condizione diglossica in cui il
sardo venne relegato a una posizione alternativa, quando non secondaria:
emblematica era la situazione delle città soggette al ripopolamento aragonese,
quali Cagliari[186] e in cui, nella testimonianze di Giovanni Francesco
Fara,[187] per un tempo il catalano subentrò interamente al sardo come ad
Alghero, tanto da generare espressioni idiomatiche quali no scit su catalanu
("non sa il catalano") per indicare una persona che non sapeva
esprimersi "correttamente".[188][189] Il Fara, nella medesima prima
monografia di età moderna dedicata ai Sardi e la Sardegna, riporta anche il
vivace plurilinguismo presso «un medesimo popolo», per via dei movimenti
migratori «di spagnoli (tarragonesi o catalani) e di italiani» nell'isola, ivi
giunti per praticarvi il commercio.[187] Ciononostante, la lingua sarda non
scomparve affatto dall'uso ufficiale: la tradizione giuridica nazionale dei
catalani nelle città convisse con quella preesistente dei sardi, contrassegnata
nel 1421 dalla conferma della stessa Carta de Logu arborense da parte del
Parlamento del sovrano di Aragona Alfonso il Magnanimo,[190][191] quale
intelaiatura fondamentale di una rete di rapporti localmente stratificata nei
vari capitoli di grazia. In ambito amministrativo ed ecclesiastico, si seguitò
a impiegare il sardo per usi normati dalla scrittura fino al Seicento
inoltrato.[192][193] Le corporazioni religiose fecero anch'esse uso della
lingua. Il regolamento del seminario di Alghero, emanato dal vescovo Andreas
Baccallar il 12 luglio 1586, era in sardo;[194] essendo diretti all'intera
diocesi di Alghero e Unioni, i provvedimenti destinati alla diretta conoscenza
del popolo erano redatti in sardo, oltre che in catalano.[195] Il primo
catechismo ad oggi rinvenuto in "lingua sardisca" di matrice
posttridentina è del 1695, in calce alle costituzioni sinodali
dell'arcivescovato di Cagliari.[196] L'avvocato Sigismondo Arquer, autore della
Sardiniae brevis historia et descriptio (il cui paragrafo relativo alla lingua
sarebbe stato grossomodo estrapolato anche da Conrad Gessner nel suo
"Sulle differenti lingue in uso presso le varie nazioni del
globo"[197]), riferisce che in Sardegna fossero parlate due lingue, ovvero
lo "spagnolo, tarragonese o catalano" appreso dagli elementi iberici
nelle città, e il sardo nel resto del Regno:[189] per quanto quest'ultimo fosse
ormai frazionato a causa delle dominazioni straniere (ovvero "latini,
pisani, genovesi, spagnoli e africani"), l'Arquer riporta come i sardi
nondimeno "fra loro si comprendessero perfettamente".[198] Il gesuita
portoghese Francisco Antonio, nel 1561, riportava che «la lingua ordinaria di
Sardegna è il sardo, come l'italiano lo è d'Italia. [...] Nelle città di
Cagliari e di Alghero la lingua ordinaria è il catalano, sebbene vi sia molta
gente che usa anche il sardo».[189][199] I Gesuiti, che fondarono dei collegi a
Sassari (1559), Cagliari (1564), Iglesias (1578) e Alghero (1588), inizialmente
promossero una politica linguistica a favore del sardo, usandolo nell'esercizio
del loro ministero con grande favore delle popolazioni che, per la prima volta,
si sentivano rivolgere nella loro lingua, piuttosto che in quella catalana,
spagnola o italiana; tuttavia, tale pratica fu ritenuta inopportuna dal nuovo
generale dell'Ordine, Francesco Borgia, che nel 1567 impose per tutte le
attività l'utilizzo esclusivo del castigliano.[200] L'influenza del toscano,
fra il XIV e il XV secolo, si manifestò nel Logudoro, sia in alcuni documenti
ufficiali, sia come lingua letteraria: l'internazionalizzazione del
Rinascimento italiano, a partire dal XVI secolo, avrebbe infatti ravvivato in
Europa l'interesse per la cultura italiana, manifestandosi anche in Sardegna
soprattutto nell'impiego aggiuntivo di suddetta lingua presso alcuni autori,
parallelamente al sardo e a quelle iberiche che, comunque, conservarono la loro
preminenza. In questi stessi secoli o in epoca immediatamente successiva, anche
a causa della progressiva diffusione del corso in Gallura nonché in ampie zone
della Sardegna nord-occidentale, cui si è fatto accenno in precedenza, il
logudorese settentrionale assunse talune caratteristiche fonetiche
(palatalizzazione e suoni fricativi-palatalizzati) dovute al contatto con
l'area linguistica toscana (sic)[201]. Come rileva Bruno Migliorini, la
Sardegna ebbe con la penisola italiana complessivamente «scarsi rapporti».[202]
Nel Parlamento del 1565, lo stamento militare richiese, nella forma di una
petizione da parte di Álvaro de Madrigal, che gli statuti di Iglesias, Bosa e
Sassari, fino ad allora redatti "in lingua genovese, pisana o
italiana", fossero tradotti "in lingua sarda o in quella
catalana", giacché «non è opportuno né è giusto che delle leggi del Regno
siano in lingua straniera».[203][204] In questo primo periodo iberico abbiamo
una qual certa documentazione scritta della lingua sarda tanto in letteratura
quanto in atti notarili, essendo l'idioma maggiormente diffuso e parlato, che
però ben esplica l'influenza iberica. Antonio Cano (1400-1476) compose, nel XV
secolo, il poema di carattere agiografico Sa Vitta et sa Morte, et Passione de
sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (pubbl. 1557);[205] è una delle opere
letterarie più antiche in lingua sarda, nonché più rilevanti sotto l'aspetto
filologico del periodo. Estratto de sa Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu
Gavinu, Prothu et Januariu (A. Cano, ~1400)[205] O Deu eternu, sempre
omnipotente, In s’aiudu meu ti piacat attender, Et dami gratia de poder acabare
Su sanctu martiriu, in rima vulgare, 5. De sos sanctos martires tantu gloriosos Et
cavaleris de Cristus victoriosos, Sanctu Gavinu, Prothu e Januariu, Contra su
demoniu, nostru adversariu, Fortes defensores et bonos advocados, 10. Qui in su Paradisu sunt glorificados De sa
corona de sanctu martiriu. Cussos sempre siant in nostru adiutoriu. Amen. Nel
1479 si ebbe l'unificazione fra il regno di Castiglia con quello di Aragona.
Tale unificazione, di carattere esclusivamente dinastico, non comportò, sotto
il profilo linguistico, cambiamenti di sorta. Il castigliano o spagnolo tardò
infatti a imporsi come lingua ufficiale dell'isola e non oltrepassò i domini
della letteratura e dell'istruzione:[2] fino al 1600 i pregones si pubblicarono
perlopiù in catalano e solo a partire dal 1602 si iniziò a utilizzare anche il
castigliano, che per Giovanni Siotto Pintor sarebbe stato usato nelle leggi e
decreti a partire dal 1643.[206][207][208] Nel XVI secolo, il sardo conobbe una
prima rinascita letteraria. L'opera Rimas Spirituales del letterato sassarese
Gerolamo Araolla, che scrisse in sardo, castigliano e italiano, si prefisse il
compito di "magnificare et arrichire sa limba nostra sarda", allo
stesso modo in cui i poeti spagnoli, francesi e italiani lo avevano fatto per
la loro rispettiva lingua,[209][Nota 4] seguendo schemi già collaudati (es. la
Deffense et illustration de la langue françoyse, il Dialogo delle lingue): per
la prima volta fu così posta la cosiddetta "questione della lingua
sarda", poi approfondita da vari altri autori. L'Araolla è anche il primo
autore sardo a stringere in nesso la parola "lingua" con
"nazione", il cui riconoscimento non è direttamente espresso a chiare
lettere ma dato per scontato, data la "naturalezza" con la quale gli
autori di diverse nazioni si cimentano in una propria letteratura
nazionale.[210] Antonio Lo Frasso, poeta nativo di Alghero (città che ricorda
con affetto in vari versi[Nota 5]) e vissuto a Barcellona, fu probabilmente il
primo intellettuale di cui abbiamo testimonianza a comporre in sardo liriche
amorose, benché abbia scritto maggiormente in un castigliano pregno di
catalanismi; si tratta in particolare di due sonetti (Cando si det finire custu
ardente fogu e Supremu gloriosu exelsadu) e di un poema in ottave reali,
facenti parte della sua opera principale Los diez libros de Fortuna de Amor
(1573).[Nota 6] Nel XVII secolo vi fu una produzione letteraria anche in
italiano, per quanto limitata (nel complesso, secondo le stime della scuola di
Bruno Anatra, circa l'87% dei libri stampati a Cagliari era in spagnolo[211]);
nello specifico si trattava di alcuni scrittori plurilingui, come Salvatore
Vitale, nato a Maracalagonis nel 1581, che accanto all'italiano utilizzò anche
lo spagnolo, il latino e il sardo, Efisio Soto-Real (il cui vero nome fu
Giuseppe Siotto), Eusebio Soggia, Prospero Merlo e Carlo Buragna, il quale
aveva vissuto lungamente nel Regno di Napoli[212]. Nel complesso, gli istruiti
e la classe dirigente sarda dell'epoca conoscevano assai bene lo spagnolo e
avrebbero scritto tanto in spagnolo quanto in sardo fino al XIX secolo; Vicente
Bacallar Sanna, per esempio, fu uno dei fondatori della Real Academia
Española.[213] Lo spagnolo si affermò, pertanto, tardivamente ma riuscì a
ritagliarsi, comunque, una posizione di eminente prestigio nei campi elitari
della letteratura e dell'erudizione, rispetto al catalano, la cui forza di
propagazione fu tale da entrare nella massima parte delle contrade della
Sardegna centrale e meridionale e in alcune aree di quella settentrionale (ma
non certamente nel capitolo di Sassari, dove i contratti d'appalto iniziarono a
privilegiare lo spagnolo dal 1610,[214] gli atti ufficiali vennero scritti in
sardo logudorese fino al 1649[215] e gli statuti di alcune prestigiose
confraternite sassaresi in italiano[216]; in aree quali Macomer, gli archivi
parrocchiali impiegarono il sardo fino al 1623[214]), resistendo tenacemente
negli atti pubblici e nei libri di battesimo. Il sardo resistette, inoltre,
nella drammatica religiosa, nella redazione di atti notarili nelle aree
interne[217] e negli atti e statuti delle confraternite, come quello dei
disciplinanti di Torralba[218]. Il sardo restò comunque l'unico e spontaneo
codice della popolazione sarda, rispettato e anche appreso dai
conquistatori.[219] Il sardo era, a pari merito rispetto al castigliano,
catalano e portoghese, una delle lingue la cui conoscenza era richiesta per
potere essere ufficiali dei tercios, nei cui ranghi i sardi erano considerati
"spanyols", come richiesto dagli Stamenti nel 1553;[220] dal momento
che potevano fare carriera e arrivare in posizione di comando solo coloro che
parlassero almeno una di queste quattro lingue, Vicente G. Olaya sostiene che
«gli italiani che parlavano male lo spagnolo cercavano di farsi passare per
valenciani per provare a essere promossi».[221] La situazione sociolinguistica
era caratterizzata da una competenza, sia attiva sia passiva, nelle città delle
due lingue iberiche e del sardo nel resto dell'isola, come riportato da varie
testimonianze coeve: Cristòfor Despuig, ne Los Colloquis de la Insigne Ciutat
de Tortosa, sosteneva nel 1557 che, per quanto la lingua catalana si fosse
ritagliata un posto di «cortesana», "non tutti la parlano, dal momento che
in molte parti dell'isola si conserva ancora l'antica lingua del Regno"
(«llengua antigua del Regne»),[204] tributando a quest'ultima un insigne
riconoscimento; l'ambasciatore e visitador reial Martin Carillo (supposto
autore dell'ironico giudizio sulla nobiltà sarda: pocos, locos y mal
unidos[211]) notò nel 1611 che le principali città parlavano il catalano e lo
spagnolo, ma al di fuori di queste non si capiva altra lingua che il sardo,
compresa da tutti nell'intero Regno;[204] Joan Gaspar Roig i Jalpí, autore del
Llibre dels feyts d'armes de Catalunya, riportava a metà del Seicento che in
Sardegna «parlen la llengua catalana molt polidament, axì com fos a
Catalunya»;[204] Anselm Adorno, originario di Genova ma residente a Bruges,
notò nei suoi pellegrinaggi come, nonostante una cospicua presenza di stranieri
residenti nell'isola, i nativi di questa parlassero comunque la loro lingua
(«linguam propriam sardiniscam loquentes»[222]); un'altra testimonianza è
offerta dal rettore del collegio gesuita sassarese Baldassarre Pinyes che, a
Roma, registrava la partizione etnica e linguistica del Regno, scrivendo: «per
ciò che concerne la lingua sarda, sappia vostra paternità che essa non è
parlata in questa città, né in Alghero, né a Cagliari: la parlano solo nelle
ville».[223] La consistente presenza, nel capo di sopra, di feudatari valenzani
e aragonesi, oltre che di soldati mercenari lì stanziati di guardia, rese i
dialetti logudoresi più esposti alle influenze castigliane; inoltre, altri
vettori di ingresso furono, per quanto concerne i prestiti linguistici, la
poesia orale, le opere teatrali e i già menzionati gocius o gosos (vocabolo
derivante da gozos, stante per "inni sacri"). La poesia popolare si
arricchì di altri generi, quali le anninnias (ninne nanne), gli attitos (lamenti
funebri), le batorinas (quartine narrative), i berbos e paraulas (malefici e
scongiuri) e i mutos e mutetos. Si annoti che diverse testimonianze scritte del
sardo permasero anche negli atti notarili, i quali pur subirono crudi
castiglianismi e italianismi nel lessico e nella forma, e nell'allestimento di
opere religiose a scopo di catechesi, quali Sa Dottrina et Declarassione pius
abundante e Sa Breve Suma de sa Doctrina in duas maneras. Frattanto il parroco
orgolese Ioan Mattheu Garipa, nell'opera Legendariu de Santas Virgines, et
Martires de Iesu Christu che provvedette a tradurre dall'italiano (il
Leggendario delle Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo), pose in evidenza la
nobiltà del sardo rapportandola al latino classico e attribuendole nel Prologo,
come Araolla prima di lui,[209] un'importante valenza etnico-nazionale.[Nota
7][224] Secondo il filologo Paolo Maninchedda, tali autori, a partire
dall'Araolla, «non scrivono di Sardegna o in sardo inserirsi in un sistema
isolano, ma per iscrivere la Sardegna e la sua lingua – e con esse, se stessi –
in un sistema europeo. Elevare la Sardegna ad una dignità culturale pari a
quella di altri paesi europei significava anche promuovere i sardi, e in
particolare i sardi colti, che si sentivano privi di radici e di appartenenza
nel sistema culturale continentale».[225] Nei primi anni del Settecento,
nell'isola si impiantò l'Arcadia e si assistette a una grande varietà di generi
poetici, che variavano dalla poesia epica di Raimondo Congiu a quella satirica
di Gian Pietro Cubeddu e quella sacra di Giovanni Delogu Ibba.[226] Periodo
sabaudo e italiano[modifica | modifica wikitesto] L'esito della guerra di
successione spagnola determinò la sovranità austriaca dell'isola, confermata
poi dai trattati di Utrecht e Rastadt (1713-1714); pur tuttavia durò appena
quattro anni giacché, nel 1717, una flotta spagnola rioccupò Cagliari e
nell'anno successivo, per mezzo di un trattato poi ratificato all'Aia nel 1720,
la Sardegna venne assegnata a Vittorio Amedeo II di Savoia in cambio della
Sicilia; il rappresentante di quest'ultimo, il conte di Lucerna di Campiglione,
ricevette infine, da parte del delegato austriaco don Giuseppe dei Medici,
l'atto definitivo di cessione, a condizione che i "diritti, statuti,
privilegi della nazione" oggetto della trattativa diplomatica fossero
conservati.[227] L'isola entrò così nell'orbita italiana dopo quella
iberica,[228] benché tale trasferimento di autorità, in un primo tempo, non
implicasse per i sudditi isolani alcun cambiamento in fatto di lingua e
costumi: i sardi seguitarono a usare il sardo e le lingue iberiche e persino i
simboli dinastici aragonesi e castigliani sarebbero stati sostituiti dalla
croce sabauda solo nel 1767.[229] Fino al 1848, la Sardegna sarebbe infatti
rimasta uno stato con le proprie tradizioni e istituzioni, per quanto senza
summa potestas e in unione personale entro i domini perlopiù alpini di Casa
Savoia.[227] La lingua sarda, benché praticata in condizione di diglossia, non
era mai stata ridotta al rango sociolinguistico di "dialetto",
essendone comunque universalmente percepita la indipendenza linguistica e
parlata da tutte le classi sociali;[230] lo spagnolo era invece il codice
linguistico di prestigio conosciuto e adoperato dagli strati sociali di almeno
media cultura, talché Joaquín Arce ne riferisce nei termini di un paradosso
storico: il castigliano era ormai diventato lingua comune degli isolani nel
secolo stesso in cui cessarono ufficialmente di essere spagnoli.[231][232]
Constatata la situazione corrente, la classe dirigente piemontese, in questo
primo periodo, si limitò a mantenere le istituzioni politico-sociali locali,
avendo però cura di svuotarle allo stesso tempo di significato,[233] nonché di
trattare «egualmente li seguaci dell'uno e dell'altro partito, con lasciarli
però divisi, ad evitare che si possino unire per ricavarne nell'occasione quel
buon uso che la Rivalità può produrre».[234] Tale approccio, improntato al
pragmatismo, era dovuto a tre motivi di ordine eminentemente politico: in primo
luogo la necessità, nei primi tempi, di rispettare alla lettera le disposizioni
del Trattato di Londra, firmato il 2 agosto 1718, il quale imponeva il rispetto
delle leggi fondamentali e dei privilegi del Regno appena ceduto; in secondo
luogo, l'esigenza di non generare attriti sul fronte interno dell'isola, in
larga parte filospagnolo; in terzo e ultimo luogo la speranza, covata dai
regnanti sabaudi per qualche tempo ancora, di potersi disfare della Sardegna e
riacquisire la Sicilia.[235] Dal momento che l'imposizione di una nuova lingua,
quale l'italiano, in Sardegna avrebbe infranto una delle leggi fondamentali del
Regno, Vittorio Amedeo II sottolineò nel 1721 come tale operazione dovesse
essere portata a termine "insensibilmente", ovvero in modo relativamente
furtivo.[236] Tale prudenza si riscontra ancora nel giugno del 1726 e nel
gennaio del 1728, allorquando il Re espresse l'intenzione non già di abolire il
sardo e lo spagnolo, ma solo di diffondere maggiormente la conoscenza
dell'italiano.[237] Lo smarrimento iniziale dei nuovi dominatori, subentrati ai
precedenti, rispetto all'alterità culturale che riconoscevano al possedimento
isolano[238] è evinto da un apposito studio, da loro commissionato e pubblicato
nel 1726 dal gesuita barolese Antonio Falletti, dal nome "Memoria dei
mezzi che si propongono per introdurre l'uso della lingua italiana in questo
Regno" in cui si raccomandava all'amministrazione sabauda di applicare il
metodo di apprendimento "ignotam linguam per notam expōnĕre"
("presentare una lingua sconosciuta [l'italiano] attraverso una conosciuta
[lo spagnolo]").[239] Nello stesso anno, Vittorio Amedeo II aveva
manifestato la volontà di non poter più tollerare la mancata conoscenza
dell'italiano presso gli isolani, dati i disagi che ciò stava comportando per i
funzionari giunti in Sardegna dalla terraferma.[240] Le restrizioni sui
matrimoni misti tra donne sarde e ufficiali piemontesi, fino ad allora proibiti
per legge,[241] sarebbero state revocate e questi anzi incoraggiati allo scopo
di meglio diffondere la lingua tra i nativi.[242] La relazione tra il nuovo
idioma e quello nativo, inserendosi entro un contesto storicamente
contrassegnato da una marcata percezione di alterità linguistica,[40][243] si
pose fin da subito nei termini di un rapporto (ancorché ineguale) tra lingue
fortemente distinte, piuttosto che tra una lingua e un suo dialetto come invece
avvenne poi in altre regioni italiane; gli stessi spagnoli, costituenti la
classe dirigente aragonese e castigliana, solevano inquadrare il sardo come una
lingua distinta sia rispetto alle proprie sia all'italiano.[244] La percezione
dell'alterità del sardo era, però, pienamente avvertita anche dagli italiani
che si recavano nell'isola e ne riportavano la loro esperienza con i
nativi.[245][246][247] L'italiano, nonostante venisse da taluni anche in
Sardegna settentrionale ritenuto "non nativo" o
"forestiero"[248], aveva svolto in quell'angolo di Sardegna fino ad
allora un proprio ruolo, provocando nelle parlate e nella tradizione scritta un
processo di toscanizzazione iniziato nel XII secolo e consolidatosi
successivamente;[249] nelle zone sardofone, corrispondenti all'area
centro-settentrionale e meridionale dell'isola, era invece pressoché
sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione, dotta e no. Purtuttavia,
la politica del governo sabaudo in Sardegna, allora diretta da Bogino, di
alienare l'isola dalla sfera culturale e politica spagnola in modo da
assimilarla a quella più italiana del Piemonte,[250][251] ebbe quale riflesso
l'introduzione diretta dell'italiano per legge nel 1760[252][253] sulla scorta
degli Stati di terraferma e in particolare del Piemonte,[254] nei quali
l'impiego dell'italiano era ufficialmente consolidato da secoli, nonché
ulteriormente rinforzato dall'editto di Rivoli[255]. Difatti, nel provvedimento
in questione venne, tra le altre cose, «vietato senza riserve nello scrivere e
nel dire l'uso della favella castigliana; il quale, a quarant'anni d'un dominio
italiano, era siffattamente abbarbicato nel cuore degli anziani maestri di
lettere».[256] Nel 1764 l'imposizione esclusiva della lingua italiana fu infine
estesa a tutti i settori della vita pubblica,[257][258] quali anche
l'istruzione[259][260] parallelamente alla riorganizzazione delle Università di
Cagliari e Sassari, le quali videro l'arrivo di personale continentale, e a
quella dell'istruzione inferiore, in cui si stabiliva l'invio di insegnanti
provenienti dal Piemonte per supplire all'assenza di insegnanti sardi
italofoni[261]: nello specifico, già nel 1763 si previde l'invio in Sardegna di
«alcuni abili professori italiani» per «stenebrare i maestri sardi dai loro
errori» e indirizzare «pel buon sentiero maestri e discepoli».[256] Tale
manovra ineriva soprattutto a un progetto di allacciamento della cultura sarda
a quella della penisola italiana[262] e di rafforzamento geopolitico del
dominio savoiardo sulla classe colta isolana, ancora molto legata alla penisola
iberica; il proposito non sfuggì alla classe dirigente sarda, la quale
deplorava il fatto che «i Vescovi piemontesi hanno introdotto el predicar in
italiano» e, in un documento anonimo attribuito agli Stamenti ed eloquentemente
chiamato Lamento del Regno, denunciò come «sonosi tolte le arme, i privilegi,
le leggi, la lingua, l'Università, e la moneta d'Aragona, con disonore de la
Spagna, con detrimento di tutti i particolari».[204][263] Ciò nonostante, Milà
i Fontanals scriveva nel 1863 che, ancora nel 1780, si continuava a impiegare
il catalano negli strumenti notarili,[204] così come in sardo, mentre in spagnolo
furono redatti, fino al 1828, i registri parrocchiali e atti ufficiali;[264]
nel 2017 è stato rinvenuto un libro di gosos, originario di Ozieri, redatto in
castigliano in onore di Sant'Efisio del 1850.[265] L'effetto più immediato fu,
così, l'emarginazione del sardo piuttosto che delle lingue iberiche, dal
momento che per la prima volta anche i ceti abbienti della Sardegna rurale (i
printzipales) cominciarono a percepire la sardofonia come un concreto
svantaggio.[257] Girolamo Sotgiu asserisce in merito che «la classe dirigente
sarda, così come si era spagnolizzata, ora si italianizzava senza mai essere
riuscita a sardizzarsi, a riuscire a trarre, cioè, dall'esperienza e dalla
cultura del popolo dal quale proveniva quegli elementi di concretezza senza i
quali una cultura e una classe dirigente sembrano sempre stranieri anche nella
loro patria. Questo d'altra parte era l'obiettivo che il governo sabaudo si era
proposto e che, nella sostanza, riusciva anche a perseguire».[256] Il sistema
amministrativo e penale di matrice francese introdotto dal governo sabaudo,
capace di estendersi in maniera quanto mai articolata presso ogni villaggio
della Sardegna, rappresentò per i sardi il principale canale di contatto
diretto con la nuova lingua egemone;[266] per le classi più elevate, la
soppressione dell'ordine dei Gesuiti nel 1774 e la loro sostituzione con i
filoitaliani Scolopi,[267] nonché le opere di matrice illuministica, stampate
nella terraferma in italiano, ricoprirono un ruolo considerevole nella loro
italianizzazione primaria. Nello stesso periodo di tempo, vari cartografi
piemontesi italianizzarono i toponimi dell'isola: benché qualcuno fosse rimasto
inalterato, la maggior parte subì un processo di adattamento alla pronuncia
italiana, se non di sostituzione con designazioni in italiano, che perdura
tutt'oggi, spesso artificioso e figlio di un'erronea interpretazione del
significato nell'idioma locale.[258] Francesco Gemelli, ne Il Rifiorimento
della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, così ritrae il
pluralismo linguistico dell'isola nel 1776, rinviando a I quadrupedi di
Sardegna un migliore esame «dell'indole della lingua sarda, e delle precipue
differenze tra 'l sassarese e 'l toscano»: «cinque linguaggi parlansi in
Sardegna, lo spagnuolo, l'italiano, il sardo, l'algarese, e 'l sassarese. I
primi due per ragione del passato e del presente dominio, e delle passate, e
presenti scuole intendonsi e parlansi da tutte le pulite persone nelle città, e
ancor ne' villaggi. Il sardo è comune a tutto il Regno, e dividesi in due
precipui dialetti, sardo campidanese e sardo del capo di sopra. L'algarese è un
dialetto del catalano, perché colonia di catalani è Algheri; e finalmente il
sassarese che si parla in Sassari, in Tempio e in Castel sardo, è un dialetto
del toscano, reliquia del dominio de' Pisani. Lo spagnuolo va perdendo terreno
a misura che prende piede l'italiano, il quale ha dispossessato il primo delle
scuole, e de' tribunali».[268] Il primo studio sistematico sulla lingua sarda
fu redatto nel 1782 dal filologo Matteo Madao, con il titolo de Il ripulimento
della lingua sarda lavorato sopra la sua antologia colle due matrici lingue, la
greca e la latina. Lamentando egli in premessa il generale declino della lingua
(«La lingua della Sarda nostra nazione, comecchè venerabile per la sua
antichità, pregevole per l'ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante per le
bellezze, che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia
colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla
privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in
somma dimenticanza in fino al dì d'oggi, dagli stessi abbandonata come incolta,
e dagli stranieri negletta come inutile»[269]), l'intenzione patriottica che
animava Madau era quella di accreditare il sardo come lingua nazionale
dell'isola,[270][271][272] seguendo l'esempio di autori quali il già citato
Araolla in periodo iberico; purtuttavia, il clima di repressione del governo
sabaudo sulla cultura sarda avrebbe indotto il Madau a velare i suoi
proponimenti con intenti letterari, rivelandosi alla fine incapace di tradurli
in realtà.[273] Il primo volume di dialettologia comparata fu realizzato nel
1786 dal gesuita catalano Andres Febres, noto in Italia con il falso nome di
Bonifacio d'Olmi, di ritorno da Lima in cui aveva pubblicato un libro di
grammatica mapuche nel 1764.[274] Trasferitosi a Cagliari, si appassionò al
sardo e condusse un lavoro di ricerca su tre specifici dialetti; scopo
dell'opera, intitolata Prima grammatica de' tre dialetti sardi,[275] era «dare
le regole della lingua sarda» e spronare i sardi a «cultivare ed avantaggiare
l'idioma loro patrio, con l'italiano insieme». Il governo di Torino, esaminata
l'opera, decise di non permetterne la pubblicazione: Vittorio Amedeo III
considerò un affronto il fatto che il libro contenesse una dedica bilingue
rivoltagli in italiano e sardo, un errore che i suoi successori, pur
richiamandosi a una "patria sarda", avrebbero poi evitato,
premurandosi di fare uso del solo italiano.[273] Sul finire del Settecento,
sulla scia della rivoluzione francese, si formò un gruppo di piccolo-borghesi,
chiamato "Partito Patriottico", che meditava l'instaurazione di una
Repubblica Sarda svincolata dal giogo feudale e sotto la protezione francese;
si diffusero così nell'isola numerosi pamphlet, stampati prevalentemente in
Corsica e scritti in lingua sarda, il cui contenuto, ispirato ai valori dei
Lumi e apostrofato dai vescovi sardi come "giacobino-massonico",
incitava il popolo alla ribellione contro il dominio piemontese e i soprusi
baronali nelle campagne. Il prodotto letterario più famoso di tale periodo di
tensioni, scoppiate il 28 aprile 1794, fu il poema antifeudale de Su patriotu
sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, quale testamento morale e
civile nutrito degli ideali democratici francesi e contrassegnato da un
rinnovato sentimento patriottico.[276][277] Nel clima di restaurazione
monarchica seguito alla rivoluzione angioiana, il cui sostanziale fallimento
segnò per la Sardegna uno storico spartiacque sul suo futuro,[278]
l'intellettualità sarda, caratterizzata tanto da un atteggiamento di devozione
nei confronti della propria isola quanto di comprovata fedeltà verso la Casa
Savoia, pose in maniera ancora più esplicita la "questione della lingua
sarda", usando però generalmente l'italiano quale lingua veicolare dei
testi. Nel diciannovesimo secolo, in particolare, all'interno
dell'intellettualità sarda si registrò una frattura tra l'aderenza a un sentimento
"nazionale" sardo e la dimostrazione di lealtà nei confronti della
loro nuova "nazionalità" italiana,[279] per la quale infine la classe
dirigente propendette come reazione alla minaccia rappresentata dalle forze
sociali rivoluzionarie[280]. Il richiamo alla "nazione sarda" di
medievale memoria, con le sue istituzioni, la sua propria storia e patrimonio
culturale è, anzi, in questo periodo più frequente che in quelli successivi,
scomparendo poi del tutto con l'affermazione dello stato unitario;[281] per Pasquale
Tola in un suo saggio, la lingua sarda, come lingua dei sardi, ne rappresenta
il segno inconfondibile del «carattere nazionale» e anch'essa è riscoperta nel
primo venticinquennio dell'Ottocento,[282] con strumenti approntati alla sua
conoscenza scientifica. A breve distanza dalla rivolta antifeudale, nel 1811,
si rileva la pubblicazione del sacerdote Vissentu Porru, la quale era però
riferita alla sola variante meridionale (da cui il titolo di Saggio di
grammatica del dialetto sardo meridionale) e, per prudenza nei confronti dei
regnanti, espressa soltanto in funzione dell'apprendimento dell'italiano,
anziché di tutela del sardo;[283] nel 1832-34 Porru pubblicò il Nou dizionariu
universali sardu-italianu[284]. Degno di nota è il lavoro del canonico, professore
e senatore Giovanni Spano, la Ortographia sarda nationale ("Ortografia
nazionale sarda") del 1840;[285] benché ufficialmente seguisse l'esempio
del Porru[Nota 8], cui pure rinviava, per Massimo Pittau egli elevò un dialetto
del sardo su base logudorese a koinè illustre in virtù dei suoi stretti
rapporti con il latino, in maniera analoga al modo in cui il dialetto
fiorentino si era culturalmente imposto a suo tempo in Italia quale
"lingua illustre".[286][287] Ciononostante, Giovanni Spano teneva in
considerazione nelle sue opere anche le altre varietà della lingua.[288] A
detta del giurista Carlo Baudi di Vesme, la proscrizione e lo sradicamento
della lingua sarda da ogni profilo privato e sociale dell'isola sarebbe stato
auspicabile nonché necessario, quale opera di "incivilimento"
dell'isola, perché fosse così integrata nell'orbita ormai spiccatamente
italiana del Regno;[289][290] dato che la Sardegna «non è Spagnuola, ma non è
Italiana: è e fu da secoli pretta Sarda»,[291] occorreva, a cavallo delle circostanze
che «l'accesero dell'ambizione, del desiderio, dell'amore delle cose
italiane»,[291] promuovere maggiormente tali tendenze per «trarne profitto nel
comune interesse»,[291] in ragione del quale si dimostrava «quasi
necessario[292]» diffondere in Sardegna la lingua italiana "presentemente
nell'interno sì poco conosciuta"[291] in prospettiva della Fusione
Perfetta: «la Sardegna sarà Piemonte, sarà Italia; ne riceverà e ci darà
lustro, ricchezza e potenza!».[293][294] L'istruzione primaria, offerta solo in
italiano, contribuì dunque a una pur lenta diffusione di tale lingua tra i
nativi, innescando per la prima volta un processo di erosione ed estinzione
linguistica; il sardo venne infatti presentato dal sistema educativo come la
lingua dei socialmente emarginati, nonché come sa limba de su famine o sa
lingua de su famini ("la lingua della fame"), corresponsabile
endogeno dell'isolamento e miseria secolare dell'isola, e per converso
l'italiano quale agente di emancipazione sociale attraverso l'integrazione
socioculturale con la terraferma continentale. Nel 1827 venne infine abrogata
per sempre la Carta de Logu, lo storico corpus giuridico tradizionalmente noto
come «consuetud de la nació sardesca», in favore delle più moderne "Leggi
civili e criminali del Regno di Sardegna", pubblicate in italiano per
espresso ordine del re Carlo Felice di Savoia.[295][296] Cimitero storico di
Ploaghe, nel quale si sono conservati 39 epitaffi scolpiti in sardo e 3 in
italiano.[297] Si noti, a sinistra, la presenza di una lapide in lingua sarda
con riferimento a prenomi storici del tutto assenti in quelle, più a destra,
scritte invece in lingua italiana. La fusione perfetta del 1847 con la
terraferma sabauda, auspicata da Baudi di Vesme come l'inizio della «gloriosa
rigenerazione della Sardegna»[298] e nata sotto gli auspici, espressi da Pietro
Martini, di un «trapiantamento in Sardegna, senza riserve e ostacoli, della
civiltà e cultura continentale»,[299] avrebbe determinato la perdita della
residuale autonomia politica sarda[58][295][300] nonché il definitivo
declassamento del sardo rispetto all'italiano, marcando così il momento storico
in cui, convenzionalmente, nelle parole di Antonietta Dettori «la 'lingua della
sarda nazione' perse il valore di strumento di identificazione etnica di un
popolo e della sua cultura, da codificare e valorizzare, per diventare uno dei
tanti dialetti regionali subordinati alla lingua nazionale».[301] Nonostante
queste politiche di acculturazione, l'inno del Regno di Sardegna sabaudo e del
Regno d'Italia (composto da Vittorio Angius e musicato da Giovanni Gonella nel
1843) sarebbe stato S'hymnu sardu nationale ("l'inno nazionale
sardo") finché nel 1861, anno della proclamazione del Regno d'Italia, non
venne anch'esso del tutto sostituito dalla Marcia reale.[302] Tra il 1848 e il
1861, l'isola sarebbe piombata in una crisi sociale ed economica destinata a
durare fino al primo dopoguerra.[58] Il canonico Salvatore Carboni pubblicò a
Bologna, nel 1881, un'opera polemica intitolata Sos discursos sacros in limba
sarda, nel quale egli lamentava che la Sardegna «hoe provinzia italiana non
podet tenner sas lezzes e sos attos pubblicos in sa propia limba» ("oggi,
da provincia italiana qual è, non può disporre di leggi e atti pubblici nella
propria lingua") e, sostenendo che «sa limba sarda, totu chi non
uffiziale, durat in su Populu Sardu cantu durat sa Sardigna» ("la lingua
sarda, benché non ufficiale, durerà nel popolo sardo quanto la Sardegna"),
si domandava alfine «Proite mai nos hamus a dispreziare cun d'unu totale
abbandonu sa limba sarda, antiga et nobile cantu s'italiana, sa franzesa et
s'ispagnola?» ("Perché mai dovremmo disprezzare con un totale abbandono la
lingua sarda, antica e nobile quanto l'italiana, la francese e la
spagnola?").[303] L'età contemporanea[modifica | modifica wikitesto]
(sardo) «A sos tempos de sa pitzinnìa, in bidda, totus chistionaiamus in limba
sarda. In domos nostras no si faeddaiat atera limba. E deo, in sa limba nadìa,
comintzei a connoscher totu sas cosas de su mundu. A sos ses annos, intrei in
prima elementare e su mastru de iscola proibeit, a mie e a sos fedales mios, de
faeddare in s'unica limba chi connoschiamus: depiamus chistionare in limba
italiana, «la lingua della Patria», nos nareit, seriu seriu, su mastru de iscola.
Gai, totus sos pitzinnos de 'idda, intraian in iscola abbistos e allirgos e nde
bessian tontos e cari-tristos.» (italiano) «Quando ero bambino in paese
parlavamo tutti in lingua sarda. Nelle nostre case non si parlava nessun'altra
lingua. E io cominciai a conoscere tutte le cose del mondo nella lingua nativa.
A sei anni andai in prima elementare e il maestro di scuola proibì, a me e ai
miei coetanei, di parlare nell'unica lingua che conoscevamo: dovevamo parlare
in lingua italiana, "la lingua della Patria", ci diceva serio. Fu
così che tutti i bambini del paese entravano a scuola svegli e allegri e ne
uscivano intontiti e tristi.» (Francesco Masala, Sa limba est s'istoria de su
mundu, Condaghes, p.4) All'alba del Novecento, il sardo era rimasto oggetto di
ricerca pressoché solo tra gli eruditi isolani, faticando a entrare nel
circuito d'interesse internazionale e ancor di più risentendo di una qual certa
marginalizzazione in ambito strettamente nazionale: si osserva infatti «la
prevalenza degli studiosi stranieri su quelli italiani e/o l'esistenza di
fondamentali e tuttora insostituiti contributi ad opera di linguisti non
italiani».[304] In precedenza, il sardo aveva trovato menzione in un libro di
August Fuchs sui verbi irregolari nelle lingue romanze (Über die sogennannten
unregelmässigen Zeitwörter in den romanischen Sprachen, Berlin, 1840) e, in
seguito, nella seconda edizione della Grammatik der romanischen Sprachen
(1856-1860) redatta da Friedrich Christian Diez, accreditato come uno dei
fondatori della filologia romanza;[304] alle pioneristiche ricerche degli
autori tedeschi seguì, nei confronti della lingua sarda, un qual certo
interesse anche da parte di alcuni italiani, quali Graziadio Isaia Ascoli e,
soprattutto, il suo discepolo Pier Enea Guarnerio, che per primo in Italia
classificò il sardo come un membro a sé della famiglia linguistica romanza
senza più, come si soleva in ambito nazionale, subordinarlo al gruppo dei
dialetti italiani.[305] Wilhelm Meyer-Lübke, autorità indiscussa in linguistica
romanza, pubblicò nel 1902 un saggio sul sardo logudorese dall'indagine del
condaghe di San Pietro di Silki (Zur Kenntnis des Altlogudoresischen, in
"Sitzungsberichte der kaiserliche Akademie der Wissenschaft Wien",
Phil. Hist. Kl., 145) dal cui studio avvenne la iniziazione alla linguistica
sarda dell'allora studente universitario Max Leopold Wagner: all'attività di
quest'ultimo si deve gran parte delle conoscenze novecentesche sul sardo in
campo fonetico, morfologico e in parte anche sintattico.[305] Durante la
mobilitazione per la prima guerra mondiale, l'esercito italiano arruolò la
popolazione «di stirpe sarda[306]» istituendo la Brigata di fanteria Sassari il
1º marzo 1915 a Tempio Pausania e a Sinnai. A differenza delle altre brigate di
fanteria italiane, i coscritti della Sassari erano solo sardi (compresi molti
ufficiali). Attualmente è l'unica unità in Italia avente un inno in una lingua
diversa dall'italiano, che sarebbe stato scritto quasi alla fine del secolo,
nel 1994, da Luciano Sechi: Dimonios ("diavoli"), derivando il suo
titolo dal soprannome Rote Teufel (in tedesco "diavoli rossi"). Il
servizio militare obbligatorio intorno a questo periodo ricoprì una qual certa
rilevanza nel processo di deriva linguistica all'italiano ed è indicato dallo storico
Manlio Brigaglia come «la prima grande "nazionalizzazione" di massa»
dei sardi, «più che per altri popoli regionali».[307] Tuttavia, analogamente ai
membri del servizio di leva che parlavano Navajo negli Stati Uniti durante la
seconda guerra mondiale, così come ai parlanti Quechua durante la guerra delle
Falkland,[308] ai nativi sardi madrelingua fu offerta la possibilità di essere
reclutati come code talker per trasmettere, attraverso le comunicazioni radio,
informazioni tattiche in sardo che altrimenti sarebbero state intercettate
dall'esercito austro-ungarico, dal momento che alcune delle sue truppe
provenivano da regioni di lingua italiana alle quali, perciò, quella sarda era
del tutto estranea:[309] Alfredo Graziani scrive nel suo diario di guerra che
«avendo saputo che molti nostri fonogrammi venivano intercettati, si era
adottato il sistema di comunicare al telefono soltanto in sardo, certi che a
quel modo non avrebbero potuto mai capire quanto si diceva».[310] Per evitare
tentativi di infiltrazione da parte di dette truppe italofone, nelle postazioni
presidiate da reclute sarde della Brigata Sassari si imponeva a chiunque si
presentasse da loro di identificarsi dimostrando di parlare sardo: «si ses
italianu, faedda in sardu!».[309][311][312] In coincidenza con l'anno
dell'indipendenza irlandese, l'autonomismo sardo riemerse come espressione del
movimento dei combattenti, coagulandosi nel Partito Sardo d'Azione (PsdAz) che,
entro breve tempo, sarebbe assurto ad attore fra i più rilevanti nella vita
politica isolana; ai primordi, il partito non avrebbe tuttavia avuto caratteri
di rivendicazione strettamente etnica, essendo la lingua e cultura sarda
ampiamente percepiti, nelle parole di Toso, come «simboli del sottosviluppo
della regione».[58] La politica di assimilazione forzosa culminò nel ventennio
del regime fascista[2], che avviò una campagna di compressione violenta delle
istanze autonomistiche e determinò, infine, il decisivo ingresso dell'isola nel
sistema culturale nazionale attraverso l'operato congiunto del sistema
educativo e di quello monopartitico,[313] in un crescendo di multe e divieti
che condussero a un ulteriore decadimento sociolinguistico del sardo;[314] fra
le varie espressioni culturali sottoposte a censura, il regime era anche
riuscito a bandire, dal 1932 al 1937 (1945 in alcuni casi[315]), il sardo dalla
chiesa e dalle manifestazioni del folklore isolano,[316] quali le gare poetiche
tenute nella suddetta lingua.[317][318][319] Paradigmatico fu l'alterco tra il
poeta sardo Antioco Casula (noto come Montanaru) e l'allora giornalista
fascista dell'Unione Sarda Gino Anchisi, durante il quale quest'ultimo,
riuscendo a fare bandire la presenza del sardo dai giornali isolani, affermò
che «morta o moribonda la regione», come d'altronde proclamava il regime,[Nota
9] «morto o moribondo il dialetto (sic)»[320] che della regione era d'altronde
«l'elemento spirituale rivelatore»;[321] le argomentazioni del Casula si
prestavano, in effetti, a possibili temi eversivi, dal momento che questi pose,
per la prima volta nel XX secolo, la questione della lingua come una pratica di
resistenza culturale endogena,[322] il cui repertorio linguistico nelle scuole
sarebbe stato necessario per mantenere una "personalità sarda" e allo
stesso tempo riconquistare una "dignità" percepita come perduta.[323]
Un altro poeta, Salvatore Poddighe, si sarebbe suicidato per depressione in
seguito al sequestro del suo magnum opus, Sa Mundana Cummedia.[324] Nel
complesso, a fronte di una parziale resistenza nelle zone interne, entro la
fine del ventennio il regime era riuscito con successo a sradicare nell'isola i
modelli culturali locali con altri impiantati per via esogena, provocando,
nelle parole di Guido Melis, «la compressione della cultura regionale, la
frattura sempre più netta tra il passato dei sardi e il loro futuro
"italiano", la riduzione di modi di vita e di pensiero molto radicati
a puro fatto di folclore», nonché uno strappo «non più rimarginabile tra le
generazioni».[325] Nel 1945, in seguito all'avvenuto ripristino delle libertà
politiche, il Partito Sardo d'Azione avrebbe richiesto per l'isola l'autonomia
come stato federale in seno alla nuova Italia sorta dalla Resistenza[58]: fu
nel contesto del secondo dopoguerra che, al crescere della sensibilità autonomista,
il partito principiò a contrassegnarsi per desiderata impostati sulla
specificità linguistica e culturale della Sardegna.[58] Manlio Brigaglia parla
del ventennio come di una seconda fase di "nazionalizzazione di
massa" dei sardi e della Sardegna, in quanto caratterizzata da «una
politica deliberatamente puntata alla sua "italianizzazione"» e da
una «guerra dichiarata» dal regime e dalla Chiesa all'uso della lingua
sarda.[326] Nel complesso, la consapevolezza del tema concernente l'erosione
linguistica entrò più tardi, nell'agenda politica sarda, rispetto a quanto
avvenuto in altre periferie europee contrassegnate da minoranze
etnolinguistiche:[327] al contrario, tale periodo fu contrassegnato dal rifiuto
del sardo da parte dei ceti medi,[314] essendo la lingua e cultura sarda ancora
largamente inquadrate come "simboli del sottosviluppo
regionale".[300] Buona parte della classe dirigente e intellettuale sarda,
particolarmente sensibile ai richiami egemonici di quelle continentali,
reputava infatti che la "modernizzazione" dell'isola fosse attuabile
solo in alternativa ai suoi contesti socioculturali di tipo
"tradizionale", quando non attraverso il loro «seppellimento
totale».[328][329] Si è osservato, a livello istituzionale, un forte
osteggiamento del sardo e nel circuito intellettuale italiano, concezione poi
interiorizzata nell'immaginario comune nazionale, esso era (il più delle volte
per ragioni ideologiche o come residuo, adottato per inerzia, di vecchie[Nota
10] consuetudini date dalle prime) spesso ritenuto come una variante degenerata
dell'italiano,[330] contrariamente all'opinione degli studiosi e persino di
alcuni nazionalisti italiani come Carlo Salvioni,[331][Nota 11] subendo tutte
le discriminazioni e i pregiudizi legati a una tale associazione, soprattutto
l'essere ritenuto una forma bassa di espressione[332][333][334] ed essere
ricondotta a un certo "tradizionalismo".[335][336] I sardi furono
così indotti, come del resto avvenuto presso altre comunità di minoranza, a
sbarazzarsi di quanto percepivano recasse il timbro di un'identità
stigmatizzata.[337] Al momento della stesura dello statuto autonomistico, il
legislatore decise di eludere a fondamento della "specialità" sarda
riferimenti alla sua identità geografica e culturale[338][339][340][341] che,
pur facendo da colonna portante delle originarie argomentazioni giustificative
a fondamento dell'autonomia, erano considerati pericolosi prodromi a
rivendicazioni più estreme quando non di ordine indipendentista; Antonello
Mattone sostiene al riguardo che in tale progetto erano rimasti
«inspiegabilmente in ombra i problemi legati agli aspetti etnici e culturali
della questione autonomistica, per i quali i consultori non mostrano alcuna
sensibilità, a differenza di tutti quei teorici (da Angioy a Tuveri, da Asproni
a Bellieni) che invece proprio in questo patrimonio avevano individuato il
titolo primario per un reggimento autonomo».[342] Il disegno dello Statuto,
emerso in un quadro nazionale ormai mutato dalla rottura dell'unità
antifascista, nonché in un contesto contrassegnato dalle croniche debolezze
della classe dirigente sarda e dalla radicalizzazione tra le istanze
federalistiche locali e quelle, per converso, più apertamente ostili all'idea
di autonomia per l'isola,[343] emerse infine come il risultato di un
compromesso, limitandosi piuttosto al riconoscimento di alcune istanze
socioeconomiche nei confronti della terraferma,[344][345] quali la
sollecitazione allo sviluppo industriale della Sardegna con uno specifico
"piano di rinascita" approntato dal centro.[Nota 12][346][347] Lo
statuto, infine redatto dalla Commissione dei 75 a Roma, trovava così per il
legislatore una ragione giustificativa non tanto in circostanze geografiche e
culturali, quanto nella cosiddetta "arretratezza" economica della
regione, alla cui luce si auspicava il suddetto piano di industrializzazione
per l'isola in tempi brevi: diversamente da altri statuti speciali, quello
sardo non vi richiama la effettiva comunità destinataria nei suoi ambiti
sociali e culturali, i quali erano piuttosto inquadrati, dall'anzidetta
Commissione dei 75, all'interno di una sola collettività, ovvero quella
nazionale italiana.[348][Nota 13] Lungi dall'affermazione di un'autonomia sarda
fondata sul riconoscimento di una specifica identità culturale, come avvenuto
in Valle d'Aosta o Alto Adige, il risultato di tale stagione fu quindi «un
autonomismo nettamente economicistico, perché non si volle o non si poté
disegnare un’autonomia forte, culturalmente motivata, una specificità sarda che
non si esaurisse nell’arretratezza e nella povertà economica»[349] Emilio
Lussu, che a Pietro Mastino confidò di aver votato a favore della bozza finale
solamente «per evitare che per un solo voto lo Statuto non venisse approvato
neppure così ridotto», fu l'unico esponente, nella seduta del 30 dicembre 1946,
a rivendicare invano l'obbligo dell'insegnamento della lingua sarda, sostenendo
che essa fosse «un patrimonio millenario che occorre conservare».[350] Nel
mentre, ulteriori politiche di stampo assimilatore sarebbero state applicate
anche nel secondo dopoguerra,[2] con un'italianizzazione progressiva di siti
storici e oggetti appartenenti alla vita quotidiana e un'istruzione
obbligatoria che ha insegnato l'uso della lingua italiana, non prevedendo un
parallelo insegnamento di quella sarda e, anzi, attivamente scoraggiandolo
attraverso divieti e sorveglianza diffusa di chi lo promuovesse:[351] i maestri
disprezzavano infatti la lingua, ritenendola un rude dialetto e contribuendo a
un ulteriore abbassamento del suo prestigio presso la comunità sardofona
stessa. Secondo alcuni studiosi, i metodi adottati per promuovere l'uso
dell'italiano, improntati a un'italofonia esclusiva e sottrattiva,[352]
avrebbero inciso negativamente sulle performance scolastiche degli studenti
sardi.[353][354][355] Fenomeni riscontrabili in maggiore concentrazione in
Sardegna, quali i tassi di abbandono scolastico e delle ripetenze, analoghi a
quelli di altre minoranze linguistiche,[353] avrebbero solo negli anni Novanta
messo in discussione la effettiva efficacia di un'istruzione strettamente
monolingue, con nuove proposte volte a un approccio comparativo.[356] Le norme
statutarie così delineate si rivelarono, nel complesso, uno strumento
inadeguato per rispondere ai problemi dell'isola;[300][357] a cavallo degli
anni Cinquanta e Sessanta, inoltre, prese avvio il vero processo di
sostituzione radicale e definitiva della lingua sarda con quella italiana,[358]
a causa della diffusione, sia sul territorio isolano sia nel resto del
territorio italiano, dei mezzi di comunicazione di massa che trasmettevano
nella sola lingua italiana.[359] Soprattutto la televisione ha diffuso l'uso
dell'italiano e ne ha facilitato la comprensione e l'utilizzo anche tra le
persone che, fino a quel momento, si esprimevano esclusivamente in sardo. A
partire dalla fine degli anni Sessanta,[300][357][360] in coincidenza con la
rinascita di un sardismo declinato sotto il segno di un "revivalismo
linguistico e culturale",[361] cominciarono a essere avviate numerose
campagne a favore di un bilinguismo effettivamente paritario quale elemento di
salvaguardia dell'identità isolana: per quanto già nel 1955 fossero state
stabilite cinque cattedre di linguistica sarda[362], una prima richiesta
effettiva venne sporta per mezzo di una delibera adottata all'unanimità
dall'Università di Cagliari nel 1971, in cui si richiedeva all'autorità
politica regionale e nazionale il riconoscimento dei sardi come minoranza
etnica e linguistica e del sardo come idioma coufficiale dell'isola.[363][364][Nota
14] Una prima bozza di legge sul bilinguismo fu redatta dal Partito Sardo
d'Azione nel 1975[365]. Famoso il richiamo patriottico espresso qualche mese
prima di morire, nel 1977, da parte del poeta Raimondo Piras, che in No sias
isciau[Nota 15] invitava al recupero della lingua per opporsi alla
dissardizzazione culturale delle generazioni successive[315]. Nel 1978 una
legge di iniziativa popolare per il bilinguismo raccolse migliaia di firme, ma
non fu mai implementata in quanto incontrò la ferma opposizione della sinistra
e in particolare del Partito Comunista Italiano,[366] che a sua volta
procedette a proporre un proprio progetto di legge "per la tutela della
lingua e della cultura del popolo sardo" due anni più tardi[367]. Un
rapporto della commissione parlamentare d'inchiesta sul banditismo avrebbe
messo in guardia da «tendenze isolazioniste particolarmente dannose per lo
sviluppo della società sarda, che di recente si sono manifestate con la
proposta di considerare il sardo come una lingua di una minoranza etnica».[368]
Negli anni Ottanta, all'attenzione del Consiglio regionale furono presentati
così tre progetti di legge aventi contenuto simile alla delibera adottata
dall'Università di Cagliari.[358] Nel corso degli anni Settanta, si registrò
nelle aree rurali un significativo processo di deriva linguistica verso
l'italiano non solo nel Campidano, ma anche in aree geografiche un tempo
reputate linguisticamente conservatrici, quali Macomer nella provincia di Nuoro
(1979), ove si era costituita una classe operaia e una imprenditoriale di
origine prevalentemente esogena;[369] alla ridefinizione della struttura
economico-sociale ancora in atto corrispose, infatti, un'accentuata mutazione
del repertorio linguistico, che determinò a sua volta uno slittamento dei
valori su cui si basavano l'identità etnica e culturale delle comunità
sarde.[370][Nota 16] Tale questione è stata oggetto di analisi sociologiche sui
mutamenti occorsi nell'identità della comunità sarda, i cui atteggiamenti
sfavorevoli nei confronti della sardofonia sarebbero significativamente
influenzati da uno stigma di presunta "primitività" e
"arretratezza" a lungo impressole dalle istituzioni, di ordine
politico e sociale, favorevoli all'italianità linguistica.[371] Il sardo
avrebbe subito un arretramento senza sosta rispetto all'italiano, per via di un
"complesso della minoranza" che spinse la comunità sarda a un
atteggiamento fortemente svalutavivo nei confronti della propria lingua e
cultura.[372][373] Negli anni successivi, tuttavia, si sarebbe registrato un
parziale cambio di atteggiamento: non solo la lingua sarebbe stata inquadrata
come un positivo marcatore etnico/identitario,[374] sarebbe anche stata il
canale attraverso il quale avrebbe trovato espressione l'insoddisfazione
sociale a fronte delle misure approntate a livello centrale, reputate incapaci
di provvedere alla soddisfazione dei bisogni sociali ed economici
dell'isola.[375] Allo stesso tempo, però, si osservò come tale sentimento
positivo nei confronti della lingua contrastasse con il suo uso effettivo, che
procedette a calare sensibilmente.[376] Nel gennaio del 1981 il giornale
bilingue "Nazione Sarda" pubblicò un'inchiesta la quale riportava
che, nel 1976, il Ministero dell'Istruzione aveva pubblicato una nota per
richiedere informazioni sugli insegnanti che utilizzavano la lingua sarda nelle
scuole, e che il Provveditorato di Sassari aveva pubblicato una circolare con
oggetto "Scuole della Sardegna - Introduzione della lingua sarda"
nella quale chiedeva ai presidi e ai direttori scolastici di astenersi da
iniziative di quel tipo e di informare il provveditorato a riguardo di
qualunque attività legata all'introduzione del sardo nei loro
istituti.[377][378][379] Nel 1981 il Consiglio Regionale dibatté e votò per l'introduzione
del bilinguismo per la prima volta.[380][381] In risposta alle pressioni
esercitate da una risoluzione del Consiglio d'Europa sulla tutela delle
minoranze nazionali, nel 1982 fu creata dal governo italiano un'apposita
commissione per meglio indagare la questione;[382] l'anno successivo fu
presentato un disegno di legge al Parlamento, ma senza successo. Una delle
prime leggi definitivamente approvate dal legislatore regionale, la "Legge
Quadro per la Tutela e Valorizzazione della Lingua e della Cultura della
Sardegna" del 3 agosto 1993, fu subito bocciata dalla Corte costituzionale
a seguito di un ricorso del governo centrale, che la riteneva "esorbitante
per molteplici aspetti dalla competenza integrativa e attuativa posseduta dalla
Regione in materia di istruzione".[383][384] Come è noto, si sarebbero
dovuti aspettare altri quattro anni perché la normativa regionale non fosse
sottoposta a giudizio di costituzionalità, e altri due perché il sardo potesse
trovare riconoscimento in Italia contemporaneamente ad altre undici minoranze
etnolinguistiche. Infatti, la legge nazionale n.482/1999 sulle minoranze
linguistiche storiche fu approvata solo in seguito alla ratifica, da parte
italiana, della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali
del Consiglio d'Europa nel 1998.[382] Una ricerca promossa da MAKNO nel 1984
rivelò che tre quarti dei sardi erano a favore tanto dell'educazione bilingue
nelle scuole (il 22% del campione auspicava un'introduzione obbligatoria e il
54,7% una facoltativa) quanto di uno status di bilinguismo ufficiale come la
Valle d'Aosta e l'Alto Adige (62,7% del campione a favore, 25,9% contrario e
11,4% incerto).[385] Tali dati sono stati parzialmente corroborati da un'altra
indagine demoscopica svolta nel 2008, in cui il 57,3% mostrava un atteggiamento
favorevole verso la presenza del sardo in orario scolastico assieme
all'italiano.[386] Un'altra ricerca, condotta nel 2010, segnala un parere
decisamente favorevole da parte della stragrande maggioranza dei genitori verso
l'insegnamento della lingua a scuola, ma non il suo impiego come idioma
veicolare.[387] Chiesa del Pater Noster, Gerusalemme. Iscrizione del Padre
Nostro (Babbu Nostru) in sardo Alcune personalità ritengono che il processo di
assimilazione possa portare alla morte del popolo sardo[388][389][390]
diversamente da quanto avvenuto, per esempio, in Irlanda (isola in gran parte
linguisticamente anglicizzata). Benché risultino in ordine alla lingua e
cultura sarda profondi fermenti di matrice identitaria,[358][391] ciò che si
riscontra attraverso analisi pare sia una lenta ma costante regressione nella
competenza sia attiva sia passiva di tale lingua, per motivi di natura
principalmente politica e socioeconomica (l'uso dell'italiano presentato come
una chiave di avanzamento e promozione sociale,[392] stigma associato
all'impiego del sardo, il progressivo spopolamento delle zone interne verso
quelle costiere, l'afflusso di genti dalla penisola e i potenziali problemi di
mutua comprensibilità fra le varie lingue parlate,[Nota 17] ecc.): il numero di
bambini che userebbe attivamente il sardo crolla a un dato inferiore al 13%,
peraltro concentrato nelle zone interne[393] quali il Goceano, l'alta Barbagia
e le Baronie.[34][394][395] Prendendo in esame la situazione di taluni centri
logudoresi a economia tradizionale (come Laerru, Chiaramonti e Ploaghe) in cui
il tasso di sardofonia dei bambini è comunque pari allo 0%, Mauro Maxia parla
in merito di un autentico caso di "suicidio linguistico" in capo a
ormai poche decine di anni.[396] Purtuttavia, secondo le suddette analisi
sociolinguistiche, tale processo non risulta affatto omogeneo,[397][398]
presentandosi in maniera ben più evidente nelle città che non nei paesi. Al
giorno d'oggi, il sardo è una lingua la cui vitalità è riconoscibile in
un'instabile[358] condizione di diglossia e commutazione di codice, e che non
entra, o non vi ha ampia diffusione, nell'amministrazione, nel commercio, nella
Chiesa (in cui si registra una qual certa attività per introdurvi la
lingua[399][400]), nella scuola,[396] nelle università locali di
Sassari[401][402] e di Cagliari e nei mass media.[403][404][405][406] Seguendo
la scala di vitalità linguistica proposta da un apposito pannello dell'UNESCO
nel 2003,[407] il sardo fluttuerebbe tra una condizione di "sicuramente in
pericolo di estinzione" (definitely endangered: i bambini non apprendono
più la lingua), attribuitogli anche nel Libro Rosso, e una di "serio
pericolo di estinzione" (severely endangered: la lingua è perlopiù usata
dalla generazione dei nonni in su); secondo il criterio EGIDS (Expanded Graded
Intergenerational Disruption Scale) proposto da Lewis e Simons, il sardo
sarebbe in bilico tra il livello 7 (Instabile: la lingua non è più trasmessa
alla generazione successiva[408]) e il livello 8 (Moribonda: gli unici parlanti
attivi della lingua appartengono alla generazione dei nonni[408]),
corrispondenti rispettivamente ai due gradi della scala UNESCO sopramenzionati.
Il grado di progressiva assimilazione e penetrazione dell'italiano tra i sardofoni
è confermato dalle ricerche dell'ISTAT,[409] secondo le quali il 52,1% della
popolazione sarda impiega ormai esclusivamente l'italiano in ambito familiare,
mentre il 31,5% pratica alternanza linguistica e solo il 15,6% riporta di usare
il sardo o altre lingue non italiane; al di fuori dell'ambiente privato e
amicale, le percentuali sanciscono in maniera ancora più schiacciante
l'esclusiva predominanza raggiunta dall'italiano nell'isola (87,2%) alle spese
del sardo e altre lingue, tutte ferme al 2,8%. Gli anni '90 hanno conosciuto un
rinnovamento delle forme espressive nel panorama musicale sardo: molti artisti,
spaziando dai generi più tradizionali quali il canto (cantu a tenore, cantu a
chiterra, gosos, ecc.) e il teatro (Mario Deiana) a quelli più moderni quale il
rock (Kenze Neke, Askra e KNA, Tzoku, Tazenda, ecc.) e addirittura rap e hip
hop (Dr. Drer & CRC posse, Quilo, Sa Razza, etc.) utilizzano infatti la
lingua per promuovere l'isola e riconoscere i suoi vecchi problemi e le nuove
sfide.[410][411][412][413] Vi sono anche dei film (come Su Re, parzialmente
Bellas mariposas, Treulababbu, Sonetàula, etc.) realizzati in sardo con i
sottotitoli in italiano,[414] e altri ancora con i sottotitoli in sardo.[415] A
partire dalle sessioni d'esame tenute nel 2013, hanno suscitato sorpresa, data
la mancata istituzionalizzazione de facto della lingua, dei tentativi da parte
di alcuni allievi di presentare l'esame o parte di esso in lingua
sarda.[416][417][418][419][420][421][422][423][424][425][426][427] Sono inoltre
sempre più frequenti anche le dichiarazioni di matrimonio in tale lingua su
richiesta dei coniugi[428][429][430][431][432] Ha suscitato particolare
scalpore l'iniziativa virtuale di alcuni sardi su Google Maps, in risposta a
un'ordinanza del Ministero delle Infrastrutture che ordinava a tutti i sindaci
della regione di eliminare i cartelli in sardo piazzati all'ingresso dei centri
abitati: tutti i comuni avevano infatti ripreso il loro nome originario per
circa un mese, finché lo staff di Google non decise di riportare la
toponomastica nel solo italiano.[433][434][435] Di rilevanza è l'impiego, da
parte di alcune società sportive quali la Dinamo Basket Sassari[436] e il
Cagliari Calcio, della lingua nelle sue campagne promozionali.[437][438] In
seguito a una campagna di adesioni,[439] è stata resa possibile l'inclusione
del sardo fra le lingue selezionabili su Facebook. L'opzione di scelta è ora a
tutti gli effetti attiva ed è possibile avere la pagina in lingua
sarda.[440][441][442]; è anche possibile selezionare la lingua sarda su
Telegram[443][444] Il sardo è presente quale lingua configurabile anche in
altre applicazioni, quali F-Droid, Diaspora, OsmAnd, Notepad++, QGIS,
Stellarium,[445] Skype,[446] ecc. Nel 2016 è stato inaugurato il primo traduttore
automatico dall'italiano al sardo,[447] VLC media player per Android, Linux
Mint Debina Edition 2 "Betsy", Firefox,[448][449] ecc. Anche il
motore di ricerca DuckDuckGo è stato interamente tradotto in lingua sarda. La
comunità sardofona costituirebbe ancora, con circa 1,7 milioni di parlanti
autodichiaratisi nativi (di cui 1.291.000 presenti in Sardegna), la più
consistente minoranza linguistica riconosciuta in Italia[23] benché sia
paradossalmente, allo stesso tempo, quella cui è garantita meno tutela. Al di
fuori dell'Italia, in cui al momento non è prevista pressoché alcuna
possibilità di insegnamento strutturato della suddetta lingua minoritaria
(l'Università di Cagliari si distingue per avere aperto per la prima volta un
corso specifico nel 2017;[450] quella di Sassari, di rimando, nel 2021 ha
annunciato l'apertura di un curriculum parzialmente dedicato alla lingua sarda
in filologia moderna[451]), si tengono talvolta corsi specifici in paesi quali
Germania (università di Stoccarda, Monaco, Tubinga, Mannheim,[452] ecc.),
Spagna (università di Gerona),[453] Islanda[454] e Repubblica Ceca (università
di Brno)[455][456]; per un qual certo periodo di tempo, il prof. Sugeta ne
teneva alcuni anche in Giappone all'università di Waseda (Tokyo).[457][458][459]
La estrema fragilità sociolinguistica del sardo è stata valutata dal gruppo di
ricerca Euromosaic, commissionato dalla Commissione europea con l'intenzione di
tracciare un quadro delle minoranze etnolinguistiche nei territori europei;
questi, posizionando il sardo al quarantunesimo posto su un totale di
quarantotto lingue di minoranza europee, rilevando un punteggio pari al greco
del sud Italia,[460] conclude così il suo rapporto: (inglese) «This would
appear to be yet another minority language group under threat. The agencies of production and
reproduction are not serving the role they did a generation ago. The education
system plays no role whatsoever in supporting the language and its production
and reproduction. The language has no prestige and is used in work only as a
natural as opposed to a systematic process. It seems to be a language relegated
to a highly localised function of interaction between friends and relatives.
Its institutional base is extremely weak and declining. Yet there is concern
among its speakers who have an emotive link to the language and its
relationship to Sardinian identity.» (italiano) «Sembra si tratti di ancora un'altra lingua di minoranza in
pericolo. Le agenzie deputate alla produzione e riproduzione della lingua non
adempiono più al ruolo che svolgevano la scorsa generazione. Il sistema
educativo non sostiene in alcun modo la lingua e la sua produzione e
riproduzione. La lingua non gode di alcun prestigio e in contesti lavorativi il
suo impiego non promana da alcun processo sistematico, ma è meramente
spontaneo. Pare sia una lingua relegata a interazioni tra amici e parenti
altamente localizzate. La sua base istituzionale è estremamente debole e in
continuo declino. Ciononostante, si riscontra una qual certa preoccupazione
presso i suoi locutori, i quali hanno un legame emotivo con la lingua e la sua
relazione con l'identità sarda.» ( Relazione Euromosaic "Sardinian
language use survey". URL consultato l'11 giugno 2019 (archiviato dall'url
originale il 18 maggio 2018)., Euromosaic, 1995) Frequenza d'uso delle lingue
regionali in Italia (ISTAT, 2015) Come spiega Matteo Valdes, «la popolazione
dell’isola constata, giorno dopo giorno, il declino delle proprie parlate
originarie, si fa complice di questo declino trasmettendo ai figli la lingua
del prestigio e del potere ma, contemporaneamente, sente che la perdita delle
lingue locali è anche perdita di se stessi, della propria storia, della propria
specifica identità o diversità».[461] Roberto Bolognesi ritiene che la
perdurante stigmatizzazione del sardo come la lingua dei ceti "socialmente
e culturalmente svantaggiati" comporti l'alimentazione di un circolo
vizioso che ulteriormente promuove il regresso della lingua, irrobustendone il
giudizio negativo presso quelli che più si percepiscono come competitivi:
difatti, «è chiaro come questa identificazione sia da sempre una self-fulfilling
prophecy, una profezia che si conferma da sé: un meccanismo perverso che ha
condannato e ancora condanna alla marginalità sociale i sardoparlanti,
escludendoli sistematicamente da quelle interazioni linguistiche e culturali in
cui si sviluppano i registri prestigiosi e lo stile alto della lingua,
innanzitutto nella scuola».[462] Essendo il processo di assimilazione ormai
giunto a compimento,[463] il bilinguismo in gran parte sulla carta[464] e
mancando ancora misure concrete per un uso ufficiale anche solo all'interno
della Sardegna, la lingua sarda continua dunque la sua agonia, seppur con
minore velocità rispetto a qualche tempo fa, soprattutto grazie all'impegno di
coloro che nei vari contesti ne promuovono la rivalutazione in un processo che,
da alcuni studiosi, è stato definito come "risardizzazione
linguistica".[465] Nel mentre, l'italiano continua a erodere,[461] nel
tempo, sempre più spazi associati al sardo, ormai in stato di generale
deperimento con la già menzionata eccezione di alcune "sacche
linguistiche". In merito alla predominanza ormai completamente raggiunta
dall'italiano, Telmon registra «l'atteggiamento fortemente utilitaristico che i
sardi hanno assunto nei suoi confronti. Pur essendo sentito infatti come fondamentalmente
estraneo alle tradizioni più autenticamente popolari, il suo possesso viene
considerato necessario e, in ogni caso, simbolo potente di avanzamento sociale,
anche nel caso di diglossia senza bilinguismo».[466] Laddove la pratica
linguistica del sardo è ora per tutta l'isola in netto declino, è invece comune
nelle nuove generazioni di qualunque estrazione sociale,[467] ormai monolingui
e monoculturali italiane, quella dell'italiano regionale di Sardegna o IrS
(spesso chiamato dai sardofoni, in segno di ironico spregio, italiànu
porcheddìnu,[468] letteralmente "italiano maialesco"): si tratta di
una parlata dialettale dell'italiano che, nelle sue espressioni
diastratiche,[469] risente grandemente degli influssi fonologici, morfologici e
sintattici del sardo anche in quei parlanti che non hanno alcuna conoscenza di
tale lingua.[470] Roberto Bolognesi sostiene che, a fronte della persistente
negazione e rifiuto della lingua sarda, è come se questa si sia vendicata
sull'originaria comunità di parlanti «e continui a vendicarsi
"inquinando" il sistema linguistico egemone»,[36] rievocando
l'avvertimento gramsciano profferito all'alba del secolo precedente. Infatti, a
fronte di un italiano regionale ormai prevalente che, per Bolognesi, «si tratta
in effetti di una lingua ibrida sorta dal contatto fra due sistemi linguistici
diversi»,[471] «il (poco) sardo usato dai giovani costituisce spesso un gergo
sgrammaticato infarcito di oscenità e di costruzioni appartenenti
all'italiano»:[36] la popolazione padroneggerebbe dunque solo "due lingue
zoppe" le cui manifestazioni non scaturirebbero da una norma
riconoscibile, né costituirebbero una fonte di sicurezza linguistica
chiara:[36] Bolognesi ritiene che «per i parlanti sardi, quindi, il rifiuto
della propria identità linguistica originaria non ha comportato la sperata e
automatica omologazione ad un’identità socialmente più prestigiosa, ma
l’acquisizione di un’identità di serie B (né veramente sarda, né veramente
italiana), non più autocentrata ma bensì periferica rispetto alle fonti di
norma linguistica e culturale, le quali rimangono ancora al di fuori della loro
portata: sull’altra riva del Tirreno».[471] D'altra parte, Eduardo Blasco
Ferrer riscontra una propensione dei sardofoni esclusivamente per la pratica di
commutazione di codice, piuttosto che per quella di commistione o commutazione
intrafrasale (code-mixing) tra le due diverse lingue.[472] Nel complesso,
dinamiche quali il tardivo riconoscimento come minoranza linguistica,
accompagnato da un'opera di graduale ma plurisecolare e pervasiva
italianizzazione promossa dal sistema educativo e da quello amministrativo, cui
seguì la recisione della trasmissione intergenerazionale, hanno fatto sì che la
vitalità odierna del sardo possa definirsi come gravemente compromessa.[473] Vi
è una sostanziale divisione tra chi crede che l'attuale normativa in tutela
della lingua sia ormai giunta troppo tardi,[474][475] ritenendo che il suo
impiego sia stato oramai interamente sostituito dall'italiano, e chi invece
asserisce che sia fondamentale per rafforzare l'uso corrente, per quanto
debole, di questa lingua. Le considerazioni sulla frammentazione dialettale
della lingua sono portate da alcuni come argomento contrario a un intervento
istituzionale per il suo mantenimento e valorizzazione: altri rilevano che
questo problema sia già stato affrontato in diversi altri casi, come per
esempio il catalano, la cui piena introduzione nella vita pubblica dopo la
repressione franchista è stata possibile solo grazie a un processo di
standardizzazione dei suoi eterogenei dialetti. In generale, la
standardizzazione della lingua sarda è argomento controverso.[476][477]
Fiorenzo Toso rileva, a paragone con l'attuale forza del catalano garantita
dalla elaborazione di uno standard scritto a fronte di «sottovarietà dialettali
anche molto differenziate tra loro», che «la debolezza del sardo risiede
invece, tra gli altri elementi, nell'assenza di un tale standard, poiché i
parlanti logudorese o campidanese non si riconoscono in una varietà
sopradialettale comune».[478] A oggi si ritiene improbabile il rinvenimento di
una soluzione normativa alla questione linguistica sarda.[358] In conclusione,
fattori fondamentali per la riproduzione nel tempo del gruppo etnolinguistico,
quali la trasmissione intergenerazionale della lingua, rimangono ad oggi
estremamente compromessi senza che se ne possa apparentemente frenare la
progressiva perdita,[479] in stadio ormai avanzato. Al di là dello strato
sociale già interessato dal suddetto processo e che risulta quindi italofono
monolingue, persino tra molti sardofoni si riscontra ora una "limitata
padronanza attiva o anche solo esclusivamente passiva della loro lingua":
l'attuale competenza comunicativa tra le coorti anagrafiche più giovani non
andrebbe oltre la conoscenza di qualche formula stereotipata e neanche gli
adulti sarebbero più in grado di portare avanti una conversazione nella lingua
etnica,[32][480]. Le indagini demoscopiche finora effettuate sembrano indicare
che il sardo venga ormai considerato dalla comunità come uno strumento di
riappropriazione del proprio passato, piuttosto che di effettiva comunicazione
per il presente e il futuro[481] Il sardo tra le comunità linguistiche di
minoranza riconosciute ufficialmente in Italia[482][483] Riconoscimento
istituzionale[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio:
Legislazione italiana a tutela delle minoranze linguistiche e Toponimi della
Sardegna. Segnaletica locale bilingue italiano/sardo Segnale di inizio centro
abitato in sardo a Siniscola/Thiniscole Il sardo è riconosciuto come lingua
dalla norma ISO 639 che le attribuisce i codici sc (ISO 639-1: Alpha-2 code) e
srd (ISO 639-2: Alpha-3 code). I codici previsti per la norma ISO 639-3
ricalcano quelli utilizzati dal SIL per il progetto Ethnologue e sono: sardo
campidanese: "sro" sardo logudorese: "src" gallurese:
"sdn" sassarese: "sdc" La lingua sarda è stata riconosciuta
con legge regionale n. 26 del 15 ottobre 1997 "Promozione e valorizzazione
della cultura e della lingua della Sardegna" come lingua della Regione
autonoma della Sardegna dopo l'italiano (la legge regionale prevede la tutela e
valorizzazione della lingua e della cultura, pari dignità rispetto alla lingua
italiana con riferimento anche al catalano di Alghero, al tabarchino dell'isola
di San Pietro, al sassarese e gallurese, la conservazione del patrimonio
culturale/bibliotecario/museale, la creazione di Consulte Locali sulla lingua e
la cultura, la catalogazione e il censimento del patrimonio culturale,
concessione di contributi regionali ad attività culturali, programmazioni
radiotelevisive e testate giornalistiche in lingua, uso della lingua sarda in
fase di discussione negli organi degli enti locali e regionali con
verbalizzazione degli interventi accompagnata dalla traduzione in italiano, uso
nella corrispondenza e nelle comunicazioni orali, ripristino dei toponimi in
lingua sarda e installazione di cartelli segnaletici stradali e urbani con la
denominazione bilingue). La legge regionale applica e regolamenta alcune norme
dello Stato a tutela delle minoranze linguistiche. Nessun riconoscimento è
stato invece attribuito, nel 1948, alla lingua sarda dallo Statuto della
Regione Autonoma, che è legge costituzionale: l'assenza di norme statutarie di
tutela, a differenza degli storici Statuti della Valle d'Aosta e del
Trentino-Alto Adige, fa sì che per la comunità sarda, nonostante rappresenti ex
lege n. 482/1999 la più robusta minoranza linguistica in Italia, non si
applichino le leggi elettorali per la rappresentanza politica delle liste in
Parlamento, che pur tengono conto della specificità delle suddette
minoranze.[484][485] Si applicano invece al sardo (come al catalano di Alghero)
l'art. 6 della Costituzione (La Repubblica tutela con apposite norme le
minoranze linguistiche) e la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 "Norme in
materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche"[486] che prevede
misure di tutela e valorizzazione (uso della lingua minoritaria nelle scuole
materne, primarie e secondarie accanto alla lingua italiana,[487] uso da parte
degli organi di Comuni, Comunità Montane, Province e Regione, pubblicazione di
atti nella lingua minoritaria fermo restando l'esclusivo valore legale della
versione italiana, uso orale e scritto nelle pubbliche amministrazioni escluse
forze armate e di polizia, adozione di toponimi aggiuntivi nella lingua
minoritaria, ripristino su richiesta di nomi e cognomi nella forma originaria,
convenzioni per il servizio pubblico radiotelevisivo) in ambiti definiti dai
Consigli Provinciali su richiesta del 15% dei cittadini dei comuni interessati
o di un terzo dei consiglieri comunali. Ai fini applicativi tale
riconoscimento, che si applica alle "…popolazioni…parlanti…sardo", il
che escluderebbe a rigore gallurese e sassarese in quanto geograficamente sardi
ma linguisticamente di tipo còrso, e sicuramente il ligure-tabarchino
dell'isola di San Pietro. Cartello bilingue nel municipio di Villasor Il
relativo Regolamento attuativo D.P.R. n. 345 del 2 maggio 2001 (Regolamento di
attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle
minoranze linguistiche storiche) detta regole sulla delimitazione degli ambiti
territoriali delle minoranze linguistiche, sull'uso nelle scuole e nelle
università, sull'uso nella pubblica amministrazione (da parte della Regione,
delle Province, delle Comunità Montane e dei membri dei Consigli Comunali,
sulla pubblicazione di atti ufficiali dello Stato, sull'uso orale e scritto
delle lingue minoritarie negli uffici delle pubbliche amministrazioni con
istituzione di uno sportello apposito e sull'utilizzo di indicazioni scritte
bilingui …con pari dignità grafica, e sulla facoltà di pubblicazione bilingue
degli atti previsti dalle leggi, ferma restando l'efficacia giuridica del solo
testo in lingua italiana), sul ripristino dei nomi e dei cognomi originari,
sulla toponomastica (… disciplinata dagli statuti e dai regolamenti degli enti
locali interessati) e la segnaletica stradale (nel caso siano previsti segnali
indicatori di località anche nella lingua ammessa a tutela, si applicano le
normative del Codice della Strada, con pari dignità grafica delle due lingue),
nonché sul servizio radiotelevisivo. La bozza di atto di ratifica della Carta
europea delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d'Europa[488] del 5
novembre 1992 (già sottoscritta, ma mai ratificata,[489][490] dalla Repubblica
Italiana il 27 giugno 2000) all'esame del Senato prevede, senza escludere l'uso
della lingua italiana, misure aggiuntive per la tutela della lingua sarda e per
il catalano (istruzione prescolare in sardo, educazione primaria e secondaria
agli allievi che lo richiedano, insegnamento della storia e della cultura,
formazione degli insegnanti, diritto di esprimersi in lingua nelle procedure
penali e civili senza spese aggiuntive, consentire l'esibizione di documenti e
prove in lingua nelle procedure civili, uso negli uffici statali da parte dei
funzionari in contatto con il pubblico e possibilità di presentare domande in
lingua, uso nell'amministrazione locale e regionale con possibilità di presentare
domande orali e scritte in lingua, pubblicazione di documenti ufficiali in
lingua, formazione dei funzionari pubblici, uso congiunto della toponomastica
nella lingua minoritaria e adozione dei cognomi in lingua, programmazioni
radiotelevisive regolari nella lingua minoritaria, segnalazioni di sicurezza
anche in lingua, promozione della cooperazione transfrontaliera tra
amministrazioni in cui si parli la stessa lingua). Si noti che l'Italia,
assieme alla Francia e a Malta,[491] non ha ratificato il suddetto trattato
internazionale.[492][493] In un caso presentato alla Commissione europea dal
deputato Renato Soru in sede di parlamento europeo nel 2017, nel quale si
denunciava la negligenza nazionale con riguardo alla sua stessa normativa
rispetto alle altre minoranze linguistiche, la risposta della Commissione
faceva presente all'Onorevole che le questioni di politica linguistica
perseguita dai singoli stati membri non rientrano nelle sue competenze.[494] Le
forme di tutela previste per la lingua sarda sono pressoché assimilabili a
quelle riconosciute per quasi tutte le altre storiche minoranze
etnico-linguistiche d'Italia (friulani, albanesi, catalane, greche, croate,
franco-provenzali e occitane, etc.), ma di gran lunga inferiori a quelle
assicurate, mediante specifici trattati internazionali, per le comunità
francofone in Valle d'Aosta, a quelle slovene in Friuli-Venezia Giulia e,
infine, a quelle ladine e germanofone in Alto-Adige. Segnaletica locale
bilingue a Pula Inoltre, le poche disposizioni legislative a tutela del
bilinguismo sin qui menzionate non sono de facto ancora applicate o lo sono
state solo parzialmente. In tal senso il Consiglio d'Europa nel 2015 aveva
aperto un'indagine sull'Italia per la situazione delle sue minoranze
etnico-linguistiche, considerate nell'ambito della Convenzione-quadro come
"minoranze nazionali".[495][496][497] Il sardo non è stato, infatti,
ancora oggi introdotto nei programmi ufficiali, rientrando perlopiù in alcuni
progetti scolastici (moduli di ventiquattr'ore) senza garanzie di
continuità.[498] La revisione della spesa pubblica del governo Monti avrebbe
abbassato ulteriormente il livello di tutela della lingua, attuando una
distinzione fra le lingue soggette a tutela in base ad accordi internazionali e
considerate minoranze nazionali perché "di lingua madre straniera"
(tedesco, sloveno e francese[Nota 18]) e quelle afferenti a comunità che non
hanno una struttura statale straniera alle spalle, riconosciute semplicemente
come "minoranze linguistiche". Tale disegno di legge, nonostante
abbia destato una certa reazione da più parti del mondo politico e
intellettuale isolano,[499][500][501] è stato impugnato dal Friuli-Venezia
Giulia, ma non dalla Sardegna, una volta tradotto in legge, la quale non
riconosceva alle minoranze linguistiche "senza Stato" i benefici
previsti in tema di assegnazione degli organici per le scuole:[502] con la
sentenza numero 215, depositata il 18 luglio 2013, la Corte costituzionale ha
però successivamente dichiarato incostituzionale tale trattamento
differenziato.[503] La delibera della Giunta regionale del 26 giugno 2012[504]
ha introdotto l'uso delle diciture ufficiali bilingui nello stemma della
Regione Autonoma della Sardegna e in tutte le produzioni grafiche che
contraddistinguono le sue attività di comunicazione istituzionale. Quindi, con
la stessa evidenza grafica dell'italiano, viene riportata l'iscrizione
equivalente a Regione Autonoma della Sardegna in sardo ovvero «Regione Autònoma
de Sardigna».[505] Il 5 agosto 2015 la Commissione Paritetica Stato-Regione ha
approvato una proposta, inoltrata dall'Assessorato della Pubblica Istruzione,
che trasferirebbe alla Regione Sarda alcune competenze amministrative in
materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, quali sardo e catalano
algherese.[506] Il 27 giugno 2018, il Consiglio Regionale ha infine varato il
TU sulla disciplina della politica linguistica regionale. La Sardegna si
sarebbe, in teoria, così dotata per la prima volta nella sua storia regionale
di uno strumento regolatore in materia linguistica, con l'intento di sopperire
all'originale lacuna del testo statutario:[9][507][508] tuttavia, il fatto che
la giunta regionale non abbia tuttora provveduto a emanare i necessari decreti
attuativi fa sì che quanto è contenuto nella legge approvata non abbia ancora
trovato alcuna applicazione reale.[509][510][511] Il 2021 vede l'apertura di
uno sportello in lingua sarda per la Procura di Oristano, qualificandosi come
la prima volta in Italia in cui tale servizio sia offerto a una lingua
minoritaria.[512] Per l'elenco dei comuni riconosciuti ufficialmente minoritari
ai sensi dell'art. 3 della legge n. 482/1999 e per i relativi toponimi
ufficiali in lingua sarda ai sensi dell'art. 10 vedi Toponimi della Sardegna.
Fonetica, morfologia e sintassi[modifica | modifica wikitesto]
Fonetica[modifica | modifica wikitesto] Vocali: /ĭ/ e /ŭ/ (brevi) latine hanno
conservato i loro timbri originali [i] e [u]; per esempio il latino siccus
diventa siccu (e non come italiano secco, francese sec). Un'altra
caratteristica è l'assenza della dittongazione delle vocali medie (/e/ e /o/).
Per esempio il latino potest diventa podet (pron. [ˈpoðete]), senza dittongo a
differenza dell'italiano può, spagnolo puede, francese peut. Le vocali Sarde
sono soggette al processo di metafonesi dove [ɛ ɔ] sono alzate a [e o] se la
sillaba seguente contiene vocali /i/ o /u/. Inoltre /fɛˈnɔmɛnu/, ad esempio, è
realizzato come [feˈnoːmenu]. Nel gruppo di dialetti solitamente ricondotti
alla grafia campidanese /ɛ ɔ/ sono state alzate a /i u/ nelle sillabe finali.
Le nuove /i u/ non producono la metafonesi. In questi dialetti quindi [e o]
possono contrastare con [ɛ ɔ]. Per esempio i vecchi [ˈbɛːnɛ] 'bene' e [ˈbeːni]
'vieni' diventano [ˈbɛːni] e [ˈbeːni] come coppie minime distinte solo dalla
vocale tonica. Il campidanese contiene quindi sette diverse vocali. Esclusivi —
per l'area romanza attuale — dei dialetti centro-settentrionali del sardo sono
inoltre il mantenimento della [k] e della [g] velari davanti alle vocali
palatali /e/ e /i/ (es.: [kentu] per l'italiano cento e il francese cent). Una
delle caratteristiche del sardo è l'evoluzione di [ll] nel fonema cacuminale
[ɖ] (es. cuaddu o caddu per cavallo, anche se questo non avviene nel caso dei
prestiti successivi alla latinizzazione dell'isola - cfr. bellu per bello - ).
Questo fenomeno è presente anche nella Corsica del sud, in Sicilia, in
Calabria, nella penisola Salentina e in alcune zone delle Alpi Apuane.
Fonosintassi[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio:
Sardo logudorese § Alcune regole di fonosintassi e Sardo campidanese § Alcune
regole di fonosintassi. Una delle principali complicanze, sia per chi si
approcci alla lingua sia per chi, pur sapendola parlare, non la sa scrivere, è
la differenza fra scritto (qualora si voglia seguire un'unica forma grafica) e
parlato data da specifiche regole, fra le quali è importante menzionare almeno
qualcuna nei due diasistemi e in questa voce nella generalità dei casi. Sistema
vocalico[modifica | modifica wikitesto] Vocale paragogica[modifica | modifica
wikitesto] Nel parlato generalmente non è tollerata la consonante finale di un
vocabolo, quando però lasciata isolata in pausa o in chiusura di frase,
altrimenti sì può essere presente anche nella pronuncia. La lingua sarda si
caratterizza pertanto per la cosiddetta vocale paragogica o epitetica, cui si
appoggia la suddetta consonante; questa vocale è generalmente la stessa che
precede la consonante finale, ma in campidanese non mancano esempi discostanti
da questa norma, dove la vocale paragogica è la "i" pur non essendo
quella che precede l'ultima consonante, come il caso di cras (crasi, domani),
tres (tresi, tre), ecc. In questi casi la vocale finale può anche essere
riportata nella lingua scritta, essendo appunto diversa dall'ultima della
parola. Quando invece è uguale a quella precedente di norma non va mai scritta;
eccezioni possono essere rappresentate da alcuni termini di origine latina
rimasti inalterati rispetto all'originale, eccettuando appunto la vocale
paragogica, che però si sono diffusi nell'uso popolare anche nella loro
variante sardizzata (sèmper o sèmpere, lùmen o lùmene) e, nel diasistema
logudorese, dalle terminazioni dell'infinito presente della 2ª coniugazione
(tènner o tènnere, pònner o pònnere). Per quanto riguarda i latinismi, nell'uso
attuale si preferisce non scrivere la vocale paragogica, quindi sèmper, mentre
nei verbi della seconda coniugazione è forse maggioritaria la grafia con la
"e", seppur molto diffusa anche quella senza, perciò iscrìere
piuttosto che iscrìer (scrivere), che peraltro è altresì corretto. I termini
campidanesi vengono generalmente scritti con la "i" dai parlanti di
questa variante, dunque crasi, mentre in logudorese avremo sempre e comunque
cras, anche qualora nella pronuncia dovesse risultare crasa. Così per esempio:
Si scrive semper ma si pronuncia generalmente sempere (LSC/log./nuo., in
italiano "sempre") Si scrive lùmen ma si pronuncia generalmente
lumene (nuo., in LSC nùmene o nòmene, in italiano "nome") Si scrive
però e si pronuncia generalmente però o peroe (LSC/log./nug. /camp., in
italiano "però") Si scrive istèrrere (LSC e log.) o istèrrer (log.) e
si pronuncia generalmente isterrere (in italiano "stendere") Si
scrive funt ma si pronuncia generalmente funti (LSC e camp., in italiano
"essi sono") Si scrive andant ma si pronuncia generalmente andanta
(LSC, camp. e log. meridionale, in italiano "vanno"). In
nuores/baroniese la consonante finale della terza plurale solitamente cade e si
pronuncia la vocale paragogica: andan(t)a, cheren(t)e e ischin(t)i. Vocale
pretonica[modifica | modifica wikitesto] Le vocali e e o stanti in posizione
pretonica rispetto alla vocale i, diventano mobili potendosi trasformare in
quest'ultima. Così, per esempio, sarà corretto scrivere e dire: erìtu o irìtu
(log., in italiano "riccio"; in LSC, log. meridionale e camp. eritzu)
essìre (LSC), issìre (log. ), bessire (log. meridionale) o bessiri (camp.) (in
italiano "uscire") drumìre o dromìre (log., in italiano "dormire";
in LSC dormire; camp. dromìri) godìre (LSC) o gudìre (log., in LSC e log. anche
gosare, camp. gosai, in italiano "godere") Vi sono delle rare
eccezioni a questa regola, come dimostra l'esempio seguente: buddìre vuol dire
"bollire", mentre boddìre vuol dire "raccogliere (frutti e
fiori)". Sistema consonantico[modifica | modifica wikitesto] Posizione
mediana intervocalica[modifica | modifica wikitesto] Quando si trovano in
posizione mediana intervocalica, o per effetto di particolari combinazioni
sintattiche, le consonanti b, d, g diventano fricative; sono tali anche se si
presenta, fra vocale e consonante, un'interposizione della r. In questo caso,
la pronuncia della b è perfettamente uguale a quella della b/v spagnola in
cabo, la d è uguale alla d spagnola in codo. Fra vocali, il dileguo della g è
la norma. Così per esempio: baba si pronuncia ba[β]a (in italiano
"bava") sa baba si pronuncia sa [β]a[β]a (in italiano "la
bava") lardu si pronuncia lar[ð]u (in italiano "lardo") gatu: in
singolare la g cade (su gatu diventa su atu), mentre in plurale quando precede
/s/, si mantiene come fricativa (sos gatos = so'/sor/sol [ɣ]àtoso)
Lenizione[modifica | modifica wikitesto] Comune ai due diasistemi, cui fa
eccezione la sottovarietà nuorese, è il fenomeno di sonorizzazione delle consonanti
sorde c, p, t, f, qualora precedute da vocale o seguite da r; le prime tre
diventano anche fricative. /k/ → [ɣ] /p/ → [β] /t/ → [ð] /f/ → [v] Così per
esempio: Si scrive su cane (LSC e log.) o su cani (camp.) ma si pronuncia su
[ɣ]ane / su [ɣ]ani (in italiano, "il cane"). Si scrive su frade (LSC
e log.) o su fradi (camp.) ma si pronuncia su[v]rade/su [v]rari (in italiano,
"il fratello"). Si scrive sa terra, ma si pronuncia sa [ð]erra
(LSC/log./camp., in italiano, "la terra"). Si scrive su pane (LSC e
log.) o su pani (camp.) ma si pronuncia su [β]ane / su [β]ani (in italiano,
"il pane"). Incontro di consonanti fra due parole (sandhi)[modifica |
modifica wikitesto] Reindirizziamo alle voci cui pertengono le differenti
ortografie. Pronuncia rafforzata di consonanti iniziali[modifica | modifica
wikitesto] Sette particelle, aventi vario valore, provocano un rafforzamento
della consonante che a esse segue: ciò accade per effetto di una sparizione,
solamente virtuale, delle consonanti che tali monosillabi avevano per finale
nel latino (una di esse è italianismo di recente acquisizione). NE ← (lat.) NEC
= né (congiunzione) CHE ← (lat.) QUO+ET = come (comparativo) TRA ← (it.) TRA =
tra (preposizione) A ← (lat.) AC = (comparativo) A ← (lat.) AD = a
(preposizione) A ← (lat.) AUT = (interrogativo) E ← (lat.) ET = e
(congiunzione) Perciò per esempio: Nos ch'andamus a Nùgoro / nosi ch'andaus a
Nùoro (pron. "noch'andammus a Nnugoro / nosi ch'andaus a Nnuoro") =
Ce ne andiamo a Nuoro Che a cussu maccu (pron. "che mmaccu") = Come
quel matto Intra Nugoro e S'Alighera (pron. "intra Nnugoro e
Ss'Alighera") = Tra Nuoro e Alghero A ti nde pesas? (pron. "a tti nde
pesasa?") = Ti alzi? (esortativo) Morfologia e sintassi[modifica | modifica
wikitesto] Nel suo insieme la morfosintassi del sardo si discosta dal sistema
sintetico del latino classico e mostra un uso maggiore delle costruzioni
analitiche rispetto ad altre lingue neolatine.[513] L'articolo determinativo
caratteristico della lingua sarda è derivato dal latino ipse / ipsu(m) (mentre
nelle altre lingue neolatine l'articolo è originato da ille / illu(m)) e si
presenta nella forma su/sa al singolare e sos/sas al plurale (is nel
campidanese e sia sos / sas sia is nella LSC). Forme di articolo con la
medesima etimologia si ritrovano nel balearico (dialetto catalano delle Isole
Baleari) e nel dialetto provenzale dell'occitano delle Alpi Marittime francesi
(eccettuando il dialetto di Nizza): es/so/sa e es/sos/ses. Il plurale è
caratterizzato dal finale in -s, come in tutta la Romània occidentale ((FR, OC,
CA, ES, PT) ). Es.: sardu{sing.}-sardos/sardus{pl.}(sardo-sardi),
puddu{sing.}/puddos/puddus{pl.}, pudda{sing.}/puddas{pl.} (pollo/polli,
gallina/galline). Il futuro viene costruito con la forma latina habeo ad. Es:
apo a istàre, apu a abarrai o apu a atturai (io resterò). Il condizionale si
forma in modo analogo: nei dialetti centro-meridionali usando il passato del
verbo avere (ai) o una forma alternativa sempre di tale verbo (apia); nei
dialetti centro-settentrionali usando il passato del verbo dovere (dia). Il
"perché" interrogativo è diverso dal "perché" responsivo:
poita? o proite/poite? ca…, così come avviene in altre lingue romanze
(francese: pourquoi? parce que…, portoghese: por quê/porquê? porque…; spagnolo
¿por qué? porque…; catalano per què? perquè… Ma anche in Italiano
perché/poiché). Il pronome personale tonico di prima e seconda persona
singolare, se preceduto dalla preposizione cun/chin (con), assume le forme cun
megus (LSC, log.)/chin mecus (nug.) e cun tegus (LSC, log.)/chin tecus (nug.)
(cfr. lo spagnolo conmigo e contigo e anche il portoghese comigo e contigo e il
napoletano cu mmico e cu ttico), e questi dal latino cum e mecum/tecum.
Ortografia e pronuncia[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in
dettaglio: Limba Sarda Unificada e Limba Sarda Comuna. Fino al 2001 non si
disponeva di una standardizzazione ufficiale né scritta, né orale (quest'ultima
non esiste ancor oggi) della lingua sarda. Dopo l'epoca medievale, nei
documenti della quale si può osservare una certa uniformità nella scrittura,
l'unica standardizzazione grafica, dovuta agli esperimenti dei letterati e dei
poeti, era stata quella del cosiddetto "sardo illustre", sviluppato
ispirandosi ai documenti protocollari medievali sardi, alle opere di Gerolamo
Araolla, Giovanni Matteo Garipa e Matteo Madau e a quelle di una ricca serie di
poeti.[514][515] I tentativi di ufficializzare e diffondere tale norma erano
però stati ostacolati dalle autorità iberiche e in seguito sabaude.[516] Da
questi trascorsi deriva l'attuale adesione di una parte della popolazione
all'idea che, per ragioni eminentemente storiche e
politiche[517][518][519][520] ma non
linguistiche,[518][521][522][523][524][525] la lingua sarda sia divisa in due
gruppi dialettali distinti ("logudorese" e "campidanese" o
"logudorese", "campidanese" e "nuorese", con chi
cerca pure di includere nella categorizzazione lingue legate a quella sarda ma
differenti, quali il gallurese o il sassarese), per scrivere le quali sono
state sviluppate una serie di grafie tradizionali, anche se con molti
cambiamenti lungo il passare del tempo. Oltre a quelle comunemente definite
"logudorese" e "campidanese", come già detto, sono state
sviluppate anche la grafia nuorese, la grafia arborense e quelle dei singoli paesi,
a volte normata con regole generali e comuni a tutti, quali quelle richieste
dal Premio Ozieri.[526] Spesso, però, il sardo viene scritto dai parlanti
cercando di trascriverne la pronuncia e seguendo le abitudini legate alla
lingua italiana.[518] Per risolvere tale problema, e ai fini di consentire una
effettiva applicazione di quanto previsto dalla Legge Regionale n. 26/1997 e
dalla Legge n. 482/1999, nel 2001 la Regione Sardegna ha incaricato una
commissione di esperti di elaborare una ipotesi di Norma di unificazione
linguistica sovradialettale (la LSU: Limba Sarda Unificada, pubblicata il 28
febbraio 2001), che identificasse una lingua-modello di riferimento (basata
sulla analisi delle varietà locali del sardo e sulla selezione dei modelli più
rappresentativi e compatibili) al fine di garantire all'uso ufficiale del sardo
le necessarie caratteristiche di certezza, coerenza, univocità, e diffusione
sovralocale. Questo studio, pur scientificamente valido, non è mai stato
adottato a livello istituzionale per vari contrasti locali (accusata di essere
una lingua "imposta" e "artificiale" e di non avere risolto
il problema del rapporto tra le varietà trattandosi di una mediazione tra le
varietà scritte comunemente con una grafia logudorese, pertanto privilegiate, e
non avendo proposto una valida grafia per le varietà solitamente scritte con la
grafia campidanese) ma ha comunque, a distanza di anni, costituito la base di
partenza per la redazione della proposta della LSC: Limba Sarda Comuna,
pubblicata nel 2006, che partendo da una base di mesania, accoglie elementi
propri delle parlate (e quindi "naturali" e non
"artificiali") di quella zona, ovvero l'area grigia di transizione
della Sardegna centrale tra le varietà scritte solitamente con la grafia
logudorese e quelle scritte con la grafia campidanese, al fine di assicurare
alla grafia comune il carattere di sovradialettalità e sovramunicipalità, pur
lasciando la possibilità di rappresentare le particolarità di pronuncia delle
varietà locali.[527] Purtuttavia, anche a questo standard non sono mancate
critiche, sia da chi ha proposto degli emendamenti per migliorarlo,[528][529]
sia da chi ha preferito insistere con l'idea di suddividere il sardo in
macrovarianti da regolare con norme separate.[530] La Regione Sardegna, con
delibera di Giunta regionale n. 16/14 del 18 aprile 2006 Limba Sarda Comuna.
Adozione delle norme di riferimento a carattere sperimentale per la lingua
scritta in uscita dell'Amministrazione regionale[531] ha adottato
sperimentalmente la LSC come lingua ufficiale per gli atti e i documenti emessi
dalla Regione Sardegna (fermo restando che ai sensi dell'art. 8 della Legge n.
482/99 ha valore legale il solo testo redatto in lingua italiana), dando
facoltà ai cittadini di scrivere all'Ente nella propria varietà e istituendo lo
sportello linguistico regionale Ufitziu de sa limba sarda. Successivamente ha
seguito la norma LSC nella traduzione di diversi documenti e delibere, dei nomi
dei propri uffici ed assessorati, oltre al proprio stesso nome "Regione
Autònoma de Sardigna", che figura oggi nello stemma ufficiale insieme alla
dicitura in italiano. Oltre a tale ente, lo standard sperimentale LSC è stato
utilizzato come scelta volontaria da diversi altri, dalle scuole e da organi di
stampa nella comunicazione scritta, spesso in maniera complementare con grafie
più vicine alla pronuncia locale. Per quanto riguarda tale utilizzo è stata
fatta una stima percentuale, legata ai soli progetti finanziati o cofinanziati
dalla Regione per l'utilizzo della lingua sarda negli sportelli linguistici
comunali e sovracomunali, nella didattica nelle scuole e nei media dal 2007 al
2013. Il Monitoraggio sull'utilizzo sperimentale della Limba Sarda Comuna
2007-2013 è stato pubblicato sul sito della Regione Sardegna nell'aprile 2014 a
cura del Servizio Lingua e Cultura Sarda dell'Assessorato della Pubblica
Istruzione.[532] Da tale ricerca risulta ad esempio, riguardo ai progetti
scolastici finanziati nell'anno 2013, una netta preferenza delle scuole
nell'utilizzo della ortografia LSC insieme ad una grafia locale (51%) rispetto
all'utilizzo esclusivo della LSC (11%) o all'utilizzo esclusivo di una grafia
locale (33%) Riguardo invece ai progetti finanziati nel 2012 dalla Regione, per
la realizzazione di progetti editoriali in lingua sarda nei media regionali, si
riscontra una presenza più ampia dell'utilizzo della LSC (probabilmente dovuto
anche ad una premialità di 2 punti nella formazione delle graduatorie per
accedere ai finanziamenti, assente invece dal bando per le scuole). Secondo
tali dati risulta che la produzione testuale nei progetti dei media è stata per
il 35% in LSC, per il 35% in LSC e in una grafia locale e per il 25%
esclusivamente in una grafia locale. Infine gli sportelli linguistici
cofinanziati dalla Regione nel 2012 hanno utilizzato nella scrittura per il 50%
la LSC, per il 9% la LSC insieme ad una grafia locale e per il 41%
esclusivamente una grafia locale.[532] Una ricerca recente sull'utilizzo della
LSC in ambito scolastico, svolta nel comune di Orosei, ha mostrato come gli
studenti della scuola media locale non avessero alcun problema a utilizzare
quella norma nonostante il fatto che il sardo da loro parlato fosse in parte
differente. Nessun alunno ha rifiutato la norma o l'ha ritenuta
"artificiale", il che ha dimostrato la sua validità come strumento
didattico. I risultati sono stati presentati nel 2016 e pubblicati
integralmente nel 2021.[533][534] Si indicano di seguito alcune delle
differenze più rilevanti per la lingua scritta rispetto all'italiano: [a],
[ɛ/e], [i], [ɔ/o], [u], come -a-, -e-, -i-, -o-, -u-, come in italiano e
spagnolo, senza segnare la differenza tra vocali aperte e chiuse; le vocali
paragogiche o epitetica (che in pausa chiudono un vocabolo terminante in
consonante e corrispondono alla vocale che precede la consonante finale) non si
scrivono mai (feminasa>feminas, animasa>animas, bolede>bolet,
cantanta>cantant, vrorese>frores) [j] semiconsonante come -j- all'interno
di parola (maju, raju, ruju) o di un nome geografico (Jugoslavia); nella sola
variante nuorese come -j- (corju, frearju) corrispondente al logudorese/LSU -z-
(corzu, frearzu) e all'LSC -gi- (corgiu, freargiu); nelle varianti logudorese e
nuorese in posizione iniziale (jughere, jana, janna) che nella LSC viene
sostituita dal gruppo [ʤ] (giughere, giana, gianna) [r], come -r- (caru, carru)
[p], come -p- (apo, troppu, pane, petza) [β], come -b- in posizione iniziale
(bentu, binu, boe) e intervocalica (abile); quando p>b si trascrive come p-
a inizio parola (pane, petza) e -b- all'interno (abe, cabu, saba) [b], come
-bb- in posizione intervocalica (abba, ebba) [t], come -t- (gattu, fattu,
narat, tempus); quando th>t nella sola variante logudorese come -t- o -tt-
(tiu, petta, puttu); Nella LSC e nella LSU viene sostituita dal gruppo [ʦ]
(tziu, petza, putzu) [d], come -d- in posizione iniziale (dente, die, domo) e
intervocalica (ladu, meda, seda); quando t>d si trascrive come t- a inizio
parola (tempus) e -d- all'interno (roda, bidru, pedra, pradu); la finale t
della flessione del verbo può, a seconda della varietà, essere pronunciata d ma
si trascrive t (narada>narat) [ɖɖ] cacuminale, come -dd- (sedda); La d può
avere suono cacuminale anche nel gruppo [nɖ] (cando) [k] velare, come -ca-
(cane), -co- (coa), -cu- (coddu, cuadru), -che- (chessa), -chi- (chida), -c-
(cresia); non si usa mai la -q-, sostituita dalla -c- (cuadru, camp.acua) [g]
velare, come -ga- (gana), -go- (gosu), -gu- (agu, largu, longu, angulu,
argumentu), -ghe- (lughe, aghedu, arghentu, pranghende), -ghi- (àghina, inghiriare),
-g- (gloria, ingresu) [f], come -f- (femina, unfrare) [v], come -f- in
posizione iniziale (femina) e come -v- intervocalica (avvisu) e nei cultismi
(violentzia, violinu) [ʦ] sorda o aspra (ital. pezzo), come -tz- (tziu, petza,
putzu). Nella LSC e nella LSU sostituisce il gruppo nuorese [θ] e il
corrispondente logudorese [t] (thiu/tiu>tziu, petha/petta>petza,
puthu/puttu>putzu); nella scrittura tradizionale il digramma tz- non
compariva mai a inizio parola. Compare inoltre nei termini di influenza e
derivazione italiana (per esempio tzitade da cittade) di cui sostituisce la c
/ʧ/ sonora (suono non presente nel sardo originario, ma già da tempo proprio di
alcune varietà centrali e campidanesi) al posto del suono velare nativo /k/
ormai scomparso (ant.kitade). Anche il suono tz è proprio delle varietà
centrali e campidanesi. [ʣ], come -z- (zeru, ordiminzare). Nella variante
logudorese/nuorese e nella LSU come -z- (fizu, azu, zogu, binza, frearzu);
nella LSC viene sostituita dal gruppo [ʤ] (figiu, agiu, giogu, bingia,
freargiu), come nelle varietà centro-meridionali. [θ], nella sola variante
nuorese come -th- (thiu, petha, puthu). Nella LSC e nella LSU viene sostituita
dal gruppo [ʦ] (tziu, petza, putzu) [s] e [ss], come -s- e -ss- (essire) [z],
come -s- (rosa, pesare) [ʧ], nella sola varietà campidanese come -ce- (celu,
centu), -ci- (becciu, aici) [ʤ], come -gia-, -gio-, -giu-. Nella LSC
sostituisce il gruppo logudorese-nuorese [ʣ] della LSU e il [ɣ] del nuorese
(fizu>figiu, azu>agiu, zogu/jogu>giogu, zaganu/jaganu>giaganu,
binza>bingia, anzone>angione, còrzu/còrju>còrgiu,
frearzu/frearju>freargiu). Il suono [ʤ] come in bingia è proprio delle
varietà centrali e campidanesi. [ʒ] (franc. jour), nella sola variante
campidanese, sempre come c- a inizio parola (celu, centu, cidru) e come -x-
all'interno (luxi, nuraxi, Biddexidru). LSC LSU Lugodorese Nuorese Campidanese
LSC LSU Lugodorese Nuorese Campidanese Simbolo AFI Sempre ch / c ch / c ch / c
ch / c c k k k k tʃ/k t t t t t t t t t t th θ f f f f p p p p p p p p p p gh /
g gh / g gh / g g ɣ / g g g dʒ/g g / gi g / gi dʒ dʒ gi z z j ? dʒ dz dz j ? r
r r r r ɾ ɾ ɾ ɾ ɾ v v v v Ad inizio di parola gh / g g c / ci ʒ, tʃ d d t (d) t
(d) t (d) d ? d d d f f f v v v b b p (b) p (b) p (b) β / b b β β β s s s s s s
s s s s Intervocalica gh / g ɣ j j j j j j j j j j x ʒ s s s s s z z z / s z /
s z / s d d d d d ð ð ð ð ð v v v v v v b b b b b β b β β β c / ci tʃ Doppie o
combinazioni ll ll ll ll ll l l l l l rr rr rr rr rr r r r r r dd dd dd dd dd ɖ
ɖ ɖɖ ɖɖ ɖɖ nn nn nn nn nn n n n n n bb bb bb bb bb b b b b b mm mm mm mm mm m m
m m m nd ɳɖ ss ss ss ss ss s s ss ss ss tt t Finale t t t t t d d d d
Grammatica[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio:
Grammatica sarda. La grammatica della lingua sarda si differenzia notevolmente
da quella italiana e delle altre lingue neolatine, particolarmente nelle forme
verbali. Plurale[modifica | modifica wikitesto] ll plurale viene ottenuto, come
nelle lingue romanze occidentali, aggiungendo -s alla forma singolare Nel caso
di parole terminanti in -u, il plurale viene formato nel logudorese in -os e
nel camp. in -us. Articoli[modifica | modifica wikitesto]
Determinativi[modifica | modifica wikitesto] LSC Log. Camp. Sing. su / sa su /
sa su / sa Plur. sos / sas / is sos / sas is Indeterminativi[modifica |
modifica wikitesto] Masch. Femm. sing. unu una pl. unos unas Pronomi[modifica |
modifica wikitesto] Pronomi personali soggetto (nominativo)[modifica | modifica
wikitesto] Singolare Plurale (d)eo/jeo/deu LSC deo nuor. (d)ego = io
nois/nos/nosu = noi tue/tui = tu vosté/fostei o fusteti (uso formale, richiede
la 3ª persona sing., derivato dal vosté catalano, cfr. usted spagnolo, da
vuestra merced) = lei bois/bosàteros/bosatrus - bosàteras/bosatras = voi (nelle
varianti centrali e meridionali si hanno in sardo due forme, maschile e
femminile, per il voi plurale, come nello spagnolo peninsulare vosotros /
vosotras) bos (uso formale, persona grammaticale singolare ma da coniugare con
un verbo nella 2ª persona plurale, come il vous francese; cfr. antico vos
spagnolo, ancora in uso in Sudamerica per tú) = voi (come tuttora in uso
nell'italiano meridionale) issu (isse) - issa = lui/lei issos/issus - issas =
loro (essi/esse) dopo le preposizioni pro/po, dae/de, intra/tra, segundu, ecc.
dopo la preposizione a dopo la preposizione con/chin (la variante chin è
propria del nuorese) mene (a mie)/mei mie/mimi (nuor. mime) cunmegus (nuor.
chinmecus) tene (a tie)/tei tie/tui (nuor. tibe) cuntegus (nuor. chintecus)
issu (isse) - issa nois/nos/nosu bois/bosàteros/bosatrus - bosàteras/bosatras
issos/issus - issas Relativi (forma valida in LSC in grassetto
corsivo)[modifica | modifica wikitesto] chi (che) chie/chini (chi, colui che)
Interrogativi[modifica | modifica wikitesto] cale?/cali? (quale?) cantu?
(quanto?) ite?/ita? (che?, che cosa?) chie?/chini? (chi?) Pronomi e aggettivi
possessivi[modifica | modifica wikitesto] meu/miu - mea o mia/mia tuo o tou/tuu
- tua suo o sou/suu - sua; de vosté/fostei; bostru/bostu (de bos) nostru/nostu
bostru (nuor. brostu)/de boisàteros/bosàteros/bosatrus - de
boisàteras/bosàteras/bosatras, issoro/insoru Pronomi e aggettivi
dimostrativi[modifica | modifica wikitesto] custu,custos/custus - custa,custas
(questo, questi - questa, queste) cussu, cussos/cussus - cussa, cussas
(codesto, codesti - codesta, codeste) cuddu, cuddos/cuddus - cudda, cuddas
(quello, quelli - quella,quelle) Avverbi interrogativi[modifica | modifica
wikitesto] cando/candu? (quando?) comente/comenti? (come?) ue? o ube? in ue? o
in ube?; a in ue o a in ube? (direzione)/aundi?, innui? (dove?; la forma sarda
varia se si tratta di una direzione, cfr. lo spagnolo ¿adónde?)
Preposizioni[modifica | modifica wikitesto] Semplici[modifica | modifica
wikitesto] a (a,in; direzione) cun o chin (con) dae/de (da) de (di) in (in,a;
situazione) pro/po (per) intra o tra (tra) segundu (secondo) de in
antis/denanti (de) (davanti (a)) dae segus/de fatu (de) (dietro (a)) in antis
(de) (prima (di)) a pustis (de), a coa (dopo (di)) Il sardo, come lo spagnolo e
il portoghese, distingue tra moto a luogo e stato in luogo: so'andande a
Casteddu / a Ispagna; soe in Bartzelona / in Sardigna Articolate[modifica |
modifica wikitesto] Sing. Plur. a su (al) - a sa (alla) a sos/a is (ai) - a
sas/a is (alle) cun o chin su (con il) - cun o chin sa (con la) cun o chin
sos/cun is (con i) - cun o chin sas/cun is (con le) de su (del) - de sa (della)
de sos/de is (dei) - de sas/de is (delle) in su (nel) - in sa (nella) in sos/in
is (nei) - in sas/in is (nelle) pro/po su (per il) - pro/po sa (per la) pro
sos/pro is/po is (per i) - pro sas/pro is/ po is (per le) Verbi[modifica |
modifica wikitesto] I verbi hanno tre coniugazioni (-are, -ere / -i(ri), -ire /
-i(ri)). La morfologia verbale differisce notevolmente da quella italiana e
conserva caratteristiche del tardo latino o delle lingue neolatine occidentali.
I verbi sardi nel presente indicativo hanno le seguenti peculiarità: la prima
persona singolare termina in -o nel logudorese (terminazione comune
nell'italiano, nello spagnolo e nel portoghese; entrambe queste ultime due
lingue hanno ciascuna quattro soli verbi con un'altra terminazione alla 1ª
persona sing.) e in -u nel campidanese; la seconda persona sing. termina sempre
in -s, come in spagnolo, catalano e portoghese, terminazione derivata dal
latino; la terza persona singolare e plurale ha le caratteristiche terminazioni
in -t, proprie del sardo tra le lingue romanze e provenienti direttamente dal
latino; la prima persona plurale ha nel logudorese le terminazioni -amus,
-imus, -imus, simili a quelle dello spagnolo e del portoghese -amos, -emos,
-imos, che a loro volta sono uguali a quelle del latino; per quanto riguarda la
seconda persona plurale, la variante logudorese ha nella seconda e terza
declinazione la terminazione -ides (latino -itis), mentre le varianti centrali
e meridionali hanno nelle tre declinazioni rispettivamente -àis, -èis, -is,
terminazioni del tutto uguali a quelle spagnole -áis, -éis, -ís e a quelle
portoghesi, lingua in cui la 2ª persona pl. è però ormai in disuso. L'interrogativa
si forma generalmente in due modi: con l'inversione dell'ausiliare: Juanni
tzucadu/tucau est? (è partito Giovanni?), papadu/papau as? (hai mangiato?) con
l'inversione del verbo: un'arantzu/ aranzu lu cheres o un'arangiu ddu bolis?
oppure con la particella interrogativa a: per esempio a lu cheres un'aranzu?
(un arancio, lo vuoi?). La forma con la particella interrogativa è tipica dei
dialetti centro-settentrionali. Prendendo in considerazione i diversi tempi e
modi, l'indicativo passato remoto è quasi del tutto scomparso dall'uso comune
(come nelle lingue romanze settentrionali della Gallia e del Nord Italia)
sostituito dal passato prossimo, ma risulta attestato nei documenti medioevali
e ancor'oggi nelle forme colte e letterarie in alternanza con l'imperfetto.
Parimenti scomparso è l'indicativo piuccheperfetto, attestato in sardo antico
(sc. derat dal lat. dederat, fekerat da fecerat, furarat dal lat. volgare
*furaverat, etc.).[535] L'indicativo futuro semplice si forma mediante il verbo
àere/ài(ri) (avere) al presente più la preposizione a e l'infinito del verbo in
questione: es. deo apo a nàrrere/deu apu a na(rr)i(ri) (io dirò), tui as a
na(rr)i(ri) (tu dirai) (cfr. tardo latino habere ad + infinito), ecc. Nella
lingua parlata la prima persona apo/apu può essere apostrofata: "ap'a
nàrrere". L'imperativo negativo si forma usando la negazione no/non e il
congiuntivo: per esempio no andes/no andis (non andare), non còmpores (non
comprare), analogamente alle lingue romanze iberiche. Verbo èssere/èssi(ri)
(essere)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu
so(e)/seo/seu ; tue/tui ses/sesi; issu/isse est/esti ; nos/nois/nosu semus/seus
; bois o bosàteros/bosàtrus sezis/seis ; issos/issus sunt o funt . Verbo
àere/ài(ri) (avere).[modifica | modifica wikitesto] Il verbo àere/ài(ri) viene
usato da solo unicamente nelle varianti centro-settentrionali; nelle varianti
centro-meridionali è usato esclusivamente come ausiliare per formare i tempi
composti, mentre con il significato dell'italiano avere viene sempre sostituito
dal verbo tènnere/tènni(ri), esattamente come accade in spagnolo, catalano,
portoghese (dove il verbo haver è quasi del tutto scomparso) e napoletano. Per
questo motivo in questo schema vengono indicate unicamente le forme del
presente e dell'imperfetto dei dialetti centro-meridionali, che sono le sole
dove nei tempi composti appare il verbo àere/ài(ri). Indicativo presente:
deo/deu apo/apu ; tue/tui as ; issu/isse at ; nos/nois/nosu a(m)us/eus ; bois o
bosàteros/bosàtrus a(z)is ; issos/issus ant ; In LSC: deo apo; tue as;
issu/isse at; nois amus; bois ais; issos ant. Coniugazione in -are/-a(r)i :
Verbo cantare/canta(r)i (cantare)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo
presente: deo/deu canto/cantu; tue/tui cantas; issu/isse cantat; nos/nois/nosu
canta(m)us; bois o bosàteros/bosàtrus canta(z)is; issos/issus cantant ; In LSC:
deo canto; tue cantas; issu/isse cantat; nois cantamus; bois cantades; issos
cantant. Coniugazione in -ere/-i(ri) : Verbo tìmere/tìmi(ri) (temere)[modifica
| modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu timo/timu ; tue/tui
times/timis ; issu/isse timet/timit ; nos/nois/nosu timimus o timèus ; bois o
bosàteros/bosàtrus timideso timèis ; issos/issus timent/timint ; In LSC: deo
timo; tue times; issu/isse timet; nois timimus; bois timides; issos timent.
Coniugazione in -ire/-i(ri) : Verbo finire/fini(ri) (finire)[modifica |
modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu fino/finu ; tue/tui finis ;
issu/isse finit ; nos/nois/nosu fini(m)us ; bois o bosàteros/bosàtrus finides o
fineis ; issos/issus finint ; In LSC: deo fino; tue finis; issu/isse finit;
nois finimus; bois finides; issos finint. Lessico[modifica | modifica
wikitesto] Tabella di comparazione delle lingue neolatine[modifica | modifica
wikitesto] Latino Francese Italiano Spagnolo Occitano Catalano Aragonese
Portoghese Romeno Sardo Sassarese Gallurese Còrso Friulano clave(m) clé chiave
llave clau clau clau chave cheie crae/-i ciabi chiaj/ciai chjave/chjavi clâf
nocte(m) nuit notte noche nuèit/nuèch nit nueit noite noapte note/-i notti
notti notte/notti gnot cantare chanter cantare cantar cantar cantar cantar
cantar cânta cantare/-ai cantà cantà cantà cjantâ capra(m) chèvre capra cabra
cabra cabra craba cabra capră càbra/craba crabba capra/crabba(castellanese)
capra cjavre lingua(m) langue lingua lengua lenga llengua luenga língua limbă
limba/lìngua linga linga lingua lenghe platea(m) place piazza plaza plaça plaça
plaza praça piață pratza piazza piazza piazza place ponte(m) pont ponte puente
pònt pont puent ponte punte (pod) ponte/-i ponti ponti ponte/ponti puint
ecclesia(m) église chiesa iglesia glèisa església ilesia igreja biserică
crèsia/eccresia gesgia ghjesgia ghjesgia glesie hospitale(m) hôpital ospedale
hospital espital hospital hespital hospital spital ispidale/spidali ippidari
spidali/uspidali spedale/uspidali ospedâl caseu(m) lat.volg.formaticu(m)
fromage formaggio/cacio queso formatge formatge formache/queso queijo
brânză/caș casu casgiu casgiu casgiu formadi Alcuni vocaboli nella lingua sarda
e in quelle alloglotte di Sardegna[modifica | modifica wikitesto] Italiano
Sardo[536] Gallurese Sassarese Algherese Tabarchino la terra sa terra la tarra
la terra la terra a têra il cielo su chelu/célu lu celu lu tzelu lu zeru lo cel
l'acqua s'abba/àcua l'ea l'eba l'aigua l'aegua il fuoco su fogu lu focu lu
foggu lo foc u fogu l'uomo s'òmine/ómini l'omu l'ommu l'home l'omu la donna sa
fèmina la fèmina la fémmina la dona a dona mangiare mandigare o papare/papai
manghjà magnà menjar mangiâ bere bufare/bufai o bìbere bì bì beure beive grande
mannu mannu/grandi mannu gran grande piccolo minore o piticu minori/picculu
minori petit piccin il burro su botirru lu butirru lu butirru la mantega buru
il mare su mare/mari lu mari lu mari lo mar u mô il giorno sa die/dii la dì la
dì lo dia u giurnu la notte su note/noti la notti la notti la nit a néùtte la
scimmia sa moninca/martinica la scìmia la muninca N.D a scimia il cavallo su
caddu/càdhu/cuàdhu lu cabaddu lu cabaddu lo cavall u cavallu la pecora sa
berbeghe/brebèi la pècura la péggura l'ovella a pëgua il fiore su frore/frori
lu fiori lu fiori la flor a sciùa la macchia sa màcula o sa mantza/mancia la
tacca la mancia/maccia la taca a maccia la testa sa conca lu capu lu cabbu lo
cap a tésta la finestra sa bentana o su balcone lu balconi lu balchoni/vintana
la finestra u barcùn la porta sa janna/ghenna/genna la ghjanna/gianna la gianna
(pron. janna) la porta a porta il tavolo sa mesa o tàula la banca la banca/mesa
la mesa/taula a tòa il piatto su pratu lu piattu lu piattu lo plat u tundu lo
stagno s'istànniu/stàngiu o staini lu stagnu l'isthagnu l'estany u stagnu il
lago su lagu lu lagu lu lagu lo llac u lagu/lògu un arancio un'arantzu/aràngiu
un aranciu un aranzu, cast. aranciu una taronja un çetrùn la scarpa sa bota o
su botinu o sa crapita la botta la botta la bota a scarpa/scòrpa la zanzara sa
t(h)íntula/tzìntzula la zinzula la zinzura la tíntula a sinsòa la mosca sa
musca la musca la moscha, cast. muscha la mosca a musca la luce sa lughe/luxi
la luci la luzi, cast. lugi la llumera a lüxe il buio s'iscuridade/iscuridadi o
su buju o s'iscurigore lu bughju lu buggiu, cast. lu bughju la obscuritat scuur
un'unghia un'ungra/unga un'ugna un'ugna una ungla un'ùngia la lepre su
lèpere/lèpori lu lèparu lu lèpparu la llebre a léve la volpe su matzone o su
mariane/margiàni o su grodde/gròdhe/gròdhi lu maccioni lu mazzoni, cast.
maccioni lo guineot/matxoni a vurpe il ghiaccio s'astragu o sa titia o su
ghiàciu lu ghjacciu lu ghiacciu lo gel u ghiacciu il cioccolato su tziculate/ciculati
lu cioccolatu lu ciucculaddu la xocolata a ciculata la valle sa
badde/badhe/badhi la vaddi la baddi la vall a valle il monte su monte/monti lu
monti lu monti lo mont u munte il fiume su riu o frùmene/frùmini lu riu lu riu
lo riu u riu il bambino su pitzinnu/picínnu o piseddu/pisedhu o pipíu lu steddu
la criaddura/lu pizzinnu lo minyó u figgeu il neonato sa criadura la
criatura/stiducciu la criaddura/lu piccinneddu la criatura u piccin il sindaco
su sìndigu[537] lu sindacu lu sindagu lo síndic u scindegu l'auto sa màchina o
sa vetura la vittura/la macchina la macchina/la vettura la màquina/l'automòbil
a vétüa/a machina la nave sa nae o navi/su vapore la nai lu vapori/la nabi la
nau a nòve/vapùre la casa sa domo/domu la casa la casa la casa a câ il palazzo
su palàt(h)u/palatzu lu palazzu lu parazzu lo palau u palàssiu lo spavento
s'assustu o assùconu o atzìchidu l'assustu/scalmentu
l'assusthu/assucconu/ippasimu, cast. assucunadda l'assusto u resôtu il lamento
sa mìmula o sa chèscia lu lamentu/tunchju lu lamentu/mimmura, cast. mimula la
llamenta u lamentu ragionare arresonare/arrexonai rasghjunà rasgiunà arraonar
rajiunò parlare faeddare/fa(v)edhare/fuedhai faiddà fabiddà parlar parlà
correre cùrrere/curri currì currì corrir caminò a gambe il cinghiale su
sirbone/sirboni o su porcrabu lu polcarvu lu purchabru lo porc-crabo u
cinghiole il serpente sa terpe/terpente o sa colovra/colora/su coloru su
tzerpenti/colovru la salpi lu saipenti lo serpent adesso/ora como o imoe/imoi
abà abà ara aùa io deo/(d)e(g)o/deu eu eu/eiu jo mì camminare ambulare o
caminare/caminai caminà caminà caminar camminò la nostalgia sa
nostalghía/nostalgia o sa saudade/saudadi la nostalghja la nostalgia la
nostàlgia a nustalgia I numeri - Sos nùmeros / Is nùmerus[modifica | modifica wikitesto]
Tra i numeri sardi troviamo due forme, maschile e femminile, per tutti i numeri
che terminano con il numero uno, escludendo l'undici, il centoundici e così
via, per il numero due e per tutte le centinaia escludendo i numeri cento,
millecento, ecc. Questa caratteristica è presente tale quale sia nello spagnolo
sia nel portoghese. Abbiamo quindi in sardo per esempio (gli esempi sono nel
sardo centrale o di mesania) unu pipiu / una pipia (un bambino/una bambina),
duos pitzinnos / duas pitzinnas (due bambini, ragazzini/due bambine,
ragazzine), bintunu caddos/cuaddos (ventuno cavalli) / bintuna crabas (ventuno
capre), barantunu libros (quarantuno libri) / barantuna cadiras (quarantuno
sedie), chentu e unu rios (centouno fiumi), chentu e una biddas (centouno
paesi), dughentos òmines (duecento uomini) / dughentas domos (duecento case).
In sardo abbiamo, come in italiano, due diverse forme per mille, milli, e
duemila, duamiza/duamìgia/duamilla. Tabella dei numeri basata sulle varianti
logudoresi del Marghine e del Guilcer e del nuorese[538], su quelle di
transizione del Barigadu e su quelle campidanesi della Marmilla I numeri
duecento, trecento e, unicamente in campidanese, seicento hanno una forma
propria, dughentos e treghentos in LSC e in grafia logudorese, duxentus,
trexentus e sexentus in campidanese, dove il due, il tre e il numero cento sono
modificati; questo fenomeno è presente anche in portoghese (duzentos,
trezentos); le altre centinaia invece vengono scritte senza modificare né il
numero di base né chentu/centu, perciò bator(o) chentos/cuatrucentus,
otochentos/otucentus, ecc. Il fonema "ch" di chentos in logudorese
viene comunque sempre pronunciato g, a eccezione del numero seschentos, e la
"c" del campidanese centus sempre come x (j francese di journal). In
nuorese "ch" viene invece pronunciato sempre k, perciò tutti i numeri
sono scritti con "ch" in questa variante. I numeri 101, 102, così
come 1001, 1002, ecc., vanno scritti separatamente chentu e unu, chentu e duos,
milli e unu, milli e duos, ecc. Anche in questo caso, questa caratteristica è
condivisa con il portoghese. Chentu viene spesso apostrofato, chent'e unu,
chent'e duos, più raramente anche milli, mill'e unu, mill'e duos, ecc. I numeri
che terminano con uno, a eccezione di undici, centoundici, ecc., vengono spesso
anch'essi apostrofati, sia nella loro forma maschile sia in quella femminile,
se la parola seguente inizia per vocale o per h: bintun'òmines (ventuno
uomini), bintun'amigas (ventuno amiche), ecc. Grafia LSC Grafia logudorese Grafia
campidanese 1 unu, -a unu, -a unu, -a 2 duos/duas duos/duas duus/duas 3 tres
tres tres 4 bator bàtor(o) cuatru 5 chimbe chimbe cincu 6 ses ses ses 7 sete
sete seti 8 oto oto otu 9 noe noe/nuor. nobe noi 10 deghe deghe/nuor. deche
dexi 11 ùndighi ùndighi/nuor.ùndichi ùndixi 12 dòighi doighi/nuor. doichi doixi
13 trèighi treighi/nuor. treichi treixi 14 batòrdighi batòrdighi/nuor.
batòrdichi catòrdixi 15 bìndighi bìndighi/nuor. bìndichi cuìndixi 16 sèighi
seighi/nuor. seichi seixi 17 deghessete deghessete/nuor. dechessete dexasseti
18 degheoto degheoto/nuor. decheoto dexiotu 19 deghenoe deghenoe/nuor.
dechenobe dexanoi 20 binti binti/vinti binti 21 bintunu bintunu, -a bintunu, -a
30 trinta trinta trinta 40 baranta baranta coranta 50 chimbanta chimbanta cincuanta
60 sessanta sessanta sessanta 70 setanta setanta setanta 80 otanta otanta
otanta 90 noranta noranta/nuor. nobanta noranta 100 chentu chentu centu 101
chentu e unu, -a chentu e unu, -a centu e unu, -a 200 dughentos, -as dughentos,
-as/nuor. duchentos, -as duxentus, -as 300 treghentos, -as treghentos,
-as/nuor. trechentos, -as trexentus, -as 400 batorghentos, -as bator(o)chentos,
-as/nuor. batochentos, -as cuatruxentus, -as 500 chimbighentos, -as
chimbichentos, -as, chimbechentos, -as/ cincuxentus, -as 600 seschentos, -as
seschentos, -as sescentus, -as 700 setighentos, -as setichentos, -as,
setechentos, -as setixentus, -as 800 otighentos, -as otichentos, -as,
otochentos, -as otuxentus, -as 900 noighentos, -as noichentos, -as, noechentos,
-as/nuor. nobichentos, -as noixentus, -as 1000 milli milli milli 1001 milli e
unu, -a milli e unu, -a milli e unu, -a 2000 duamìgia duamiza duamilla 3000
tremìgia tremiza tremilla 4000 batormìgia bator(o)miza/nuor. batomiza
cuatrumilla 5000 chimbemìgia chimbemiza cincumilla 6000 semìgia semiza semilla
7000 setemìgia setemiza setemilla 8000 otomìgia otomiza otumilla 9000 noemìgia
noemiza/nuor. nobemiza noimilla 10000 deghemìgia deghemiza/nuor. dechemiza
deximilla 100000 chentumìgia chentumiza centumilla 1000000 unu millione unu
milione unu milioni Le stagioni - Sas istajones / Is istajonis[modifica |
modifica wikitesto] Grafia LSC Grafia logudorese Grafia campidanese la
primavera su beranu su beranu su beranu l'estate s'istiu s'istiu/ nuor.
s'estiu, s'istadiale (s.m.) s'istadiali (s.m.), s'istadi (s.f.) l'autunno
s'atòngiu s'atunzu/s'atonzu s'atongiu l'inverno s'ierru s'ierru/nuor. s'iberru
s'ierru I mesi - Sos meses / Is mesis[modifica | modifica wikitesto] Italiano
Grafia LSC Grafia logudorese Grafia campidanese Gallurese Sassarese Algherese
Tabarchino Gennaio Ghennàrgiu Bennarzu/Bennalzu/Jannarzu/Jannarju
Ghennarzu/Ghennargiu Gennaxu/Gennargiu Ghjnnagghju Ginnaggiu Gener
("giané") Zenò Febbraio Freàrgiu Frearzu/Frealzu/Frearju
Friarxu/Freargiu Friagghju Fribaggiu Febrer ("frabé") Frevò Marzo
Martzu Marthu/Malthu/Martzu Martzu/Mratzu Malzu Mazzu Març ("malts")
Mòrsu/Marsu Aprile Abrile Abrile/Aprile Abrili Abrili Abriri Abril Arvì Maggio
Maju Màju Màju Magghju Maggiu Maig ("mač") Mazu Giugno Làmpadas
Làmpadas Làmpadas Làmpata/Ghjugnu Lampada Juny ("jun") Zugnu Luglio
Trìulas/Argiolas Trìulas/Trìbulas Argiolas Agliola/Trìula/Luddu Triura Juliol
("juriòl") Luggiu Agosto Austu Austu/Agustu Austu Austu Aosthu Agost
Austu Settembre Cabudanni Cabidanni/Cabidanne/Capidanne Cabudanni Capidannu/Sittembri
Cabidannu Cavidani ("cavirani)/ Setembre ("setembra") Settembre
Ottobre Santugaine/Ladàmene Santu 'Aìne/Santu Gabine/Santu Gabinu Ledàmini
Santu Aìni/Uttobri Santu Aìni Santuaìni/ Octubre ("utobra") Ottobri
Novembre Santandria/Onniasantu Sant'Andria Donniasantu Sant'Andrìa/Nùembri
Sant'Andrìa Santandria/ Novembre ("nuvembra") Nuvembre Dicembre
Nadale/Mese de Idas (Mese de) Nadale (Mesi de) Idas/(Mesi de) Paschixedda
Natali/Dicembri Naddari Nadal ("naràl")/ Desembre
("desémbra") Dejèmbre I giorni - Sas dies / Is diis[modifica |
modifica wikitesto] Grafia logudorese Grafia campidanese Sassarese Gallurese
lunedì lunis lunis luni luni martedì martis martis marthi malti mercoledì
mércuris/mérculis mércuris/mrécuris marchuri malculi giovedì jòbia/zòbia jòbia
giobi ghjovi venerdì chenàbara/chenàpura cenàbara/cenàpura vennari vennari
sabato sàbadu/sàpadu sàbudu sabaddu sabatu domenica dumìniga/domìniga/domìnica
domìniga/domìnigu dumenigga dumenica I colori - Sos colores / Is
coloris[modifica | modifica wikitesto] biancu/ant. arbu [bianco], nieddu
[nero], ruju/arrùbiu [rosso], grogu [giallo], biaitu/asulu [blu],
birde/birdi/bildi [verde], arantzu/aranzu/colori de aranju [arancione],
tanadu/viola/biola [Viola], castàngiu/castanzu/baju [marrone]. Etimologia[modifica
| modifica wikitesto] Nel presente paragrafo si elenca, senza alcuna pretesa di
esaustività in merito, parte di quella mèsse lessicale facente parte sia del
substrato, che dei vari superstrati. Nei nomi con due o più varianti viene
prima riportato il logudorese, quindi il campidanese. Varie ricerche hanno
messo in luce il fatto che la competenza dei parlanti adulti del sardo non
ammette un numero di prestiti, provenienti dalle varie lingue dominanti nei
secoli, superiore al 15,5% del lessico posseduto.[539] Substrato paleosardo o
nuragico[modifica | modifica wikitesto] CUC → cùcuru, cucurinu (cima di un
monte, cocuzzolo; punta sporgente, come Cùcuru 'e Portu a Oristano; cfr. basco
kukurr, cresta del gallo)[540] GON- → Gonone, Gologone, Goni, Gonnesa, Gonnosnò
(altura, collina, montagna, cfr. greco eolico gonnos, colle) NUR-/'UR- → ant.
nurake → nuraghe/nuraxi, Nurra, Nora (mucchio cavo, ammasso), Noragugume NUG:
Nug-or; Nug-ulvi (cfr. slavo noga, piede o gamba; sia Nuoro sia Nulvi sono
località ai piedi di un monte) ASU-, BON-, GAL → Gallura ant. Gallula, Garteddì
(Galtellì), Galilenses, Galile GEN-, GES- → Gesturi GOL-/'OL → Gollei,
Ollollai, Parti Olla (Parteolla), golostri/golostru/golóstiche/
golóstise/golóstiu/golosti/'olosti (agrifoglio, si confronti lo slavo ostrь,
"spinoso"; il basco gorosti, a cui si associa, è d'origine oscura e
probabilmente paleoeuropea, cfr. infatti greco kélastros, agrifoglio) EKA-,
KI-, KUR-, KAL/KAR- → Karalis → ant. Calaris (Cagliari), Carale, Calallai ENI →
ogl. eni (albero del tasso, cfr. albanese enjë, albero del tasso); MAS-, TUR-,
MERRE (luogo sacro) → Macumere (Macomer); GUS → Gusana, Guspini (cfr. serbo
guša, gola); ALTRI TERMINI → toneri (tacco, torrione), garroppu (canyon),
chessa (lentischio) THA-/THE-/THI-/TZI- (articolo) → thilipirche (cavalletta),
thilicugu (geco), thiligherta (lucertola), tzinibiri (ginepro), Tamara (monte
nel territorio del comune di Nuxis) thinniga/tzinniga[541](stipa tenacissima),
thirulia (nibbio); Origine punica[modifica | modifica wikitesto] CHOURMÁ →
kurma ‘ruta di Aleppo’[542] CUSMIN → guspinu, óspinu ‘nasturzio’[542] MS' →
mitza/mintza ‘sorgente’[543] SIKKÍRIA → camp. tsikkirìa ‘aneto’[543] YAʿAR
‘bosca’ → camp. giara ‘altopiano’[542] ZERAʿ ‘seme’ → *zerula → camp. tseúrra
‘germoglio, piumetta embrionale del seme del grano’[542] ZIBBIR → camp.
tsíppiri ‘rosmarino’[543] ZUNZUR ‘corregiola’ → camp. síntsiri ‘coda
cavallina’[542] MAQOM-HADAS → Magomadas ‘luogo nuovo’ MAQOM-EL? ("luogo di
dio")/MERRE? → Macumere (Macomer) TAM-EL → Tumoele, Tamuli (luogo sacro);
Origine latina[modifica | modifica wikitesto] ACCITUS → ant.kita → chida/cida
(settimana, derivata dai turni settimanali delle guardie giudicali) ACETU(M) →
ant. aketu>aghedu/achetu/axedu (aceto) ACIARIU(M) → atharzu/atzarzu/atzargiu/atzarju
(acciaio) ACINA → ant. àkina, àghina/àxina (uva) ACRU(M) → agru, argu (aspro,
acido) ACUS → agu (ago) AERA → aèra/àiri AGNONE → anzone/angioni (agnello)
AGRESTIS → areste/aresti (selvatico) ALBU(M) → ant. albu>arbu (bianco) ALGA
→ arga/àliga (spazzatura; alga) ALTU(M) → artu (alto) AMICU(M) → ant.amicu →
amigu (amico) ANGELU(M) → anghelu/ànjulu (angelo) AQUA(M) → abba/àcua (acqua)
AQUILA(M) → ave/àbbile/àchili (aquila) ARBORE(M) → arbore/arvore/àrburi
(albero) ASINUS → àinu (asino) ASPARAGUS → camp. sparau (asparago) AUGUSTUS →
austu (agosto) BABBUS → babbu (padre, babbo) BASIUM → basu, bàsidu (bacio)
BERBECE → berbeke/berbeghe/prebeghe/brebei (pecora) BONUS → bonu (buono)
BOVE(M) → boe/boi (bue) BUCCA → buca (bocca) BURRICUS → burricu (asino)
CABALLUS → ant. cavallu/caballu → caddu/cuaddu/nuor. cabaddu (cavallo) CANE(M)
→ cane/cani (cane) CAPPELLUS → cappeddu, capeddu (cappello) CAPRA(M) →
cabra/craba (capra) CARNE → carre/carri (carne umana, viva) CARNEM SECARE →
carrasegare/ nuor. carrasecare (carnevale; "tagliare la carne" nel
senso di buttarla via, in quanto ormai prossimo l'inizio della Quaresima;
l'etimologia del termine italiano carnevale ha lo stesso significato di
origine, seppur una forma differente (da carnem levare); la forma latina è a
sua volta un calco del greco apokreos)[544][545] CARRU(M) → carru (carro)
CASEUS → casu (formaggio) CASTANEA → castanza/castanja (castagna) CATTU(M) →
gattu (gatto) CENA PURA → chenàbura/chenàbara/cenàbara/nuor. chenàpura
(venerdì; questo nome era originariamente una definizione diffusa tra gli ebrei
dell'Africa settentrionale per indicare il venerdì sera, momento in cui veniva
preparato il cibo per il sabato. Numerosi giudei nordafricani si insediarono in
Sardegna dopo essere stati espulsi dalle loro terre da parte dei Romani. A loro
si deve probabilmente la parola sarda per venerdì)[546] CENTUM → chentu/centu
(cento) CIBARIUS → civràxiu, civraxu (tipico pane sardo) CINQUE → chimbe/cincu
(cinque) CIPULLA → chibudda/cibudda (cipolla) CIRCARE → chircare/circai
(cercare) CLARU(M) → craru (chiaro) COCINA → ant.cokina → coghina/coxina
(cucina) COELU(M) → chelu/celu (cielo) COLUBER → colovra/colora/coloru (biscia)
CONCHA → conca (testa) CONIUGARE → cojuare/coyai (sposare) CONSILIU(M) →
ant.consiliu → cunsizzucunsigiu/cunsillu (consiglio) COOPERCULU(M) →
cropettore/cobercu (coperchio) CORIU(M) → corzu/corju/corgiu (cuoio) CORTEX →
ant. gortike/borticlu → ortighe/ortiju/ortigu (corteccia del sughero) COXA(M) →
cossa/cosça (coscia) CRAS → cras/crasi (domani) CREATIONE(M) →
criatura/criathone/criadura (creatura) CRUCE(M) → ant. cruke/ruke →
rughe/(g)ruxi (croce) CULPA(M) → curpa (colpa) DECE → ant.deke → deghe/dexi
(dieci) DEORSUM → josso/jossu (giù) DIANA → jana (fata) DIE → die/dii (giorno)
DOMO/DOMUS → domo/domu (casa) ECCLESIA → ant. clesia → cheja/crèsia (chiesa)
ECCU MODO/QUOMO(DO) → còmo/imoi (adesso) ECCU MENTE/QUOMO(DO) MENTE →
comente/comenti (come) EGO → ant.ego → deo/eo/jeo/deu (io) EPISCOPUS → ant.
piscopu → pìscamu (vescovo) EQUA(M) → ebba/ègua (giumenta) ERICIUS → eritu
(riccio) ETIAM → eja (sì) EX-CITARE → ischidare/scidai (svegliare) FABA(M) →
ava/faa (fava) FABULARI → faeddare/foeddare/fueddai (parlare) FACERE → ant.
fakere → fàghere/fai (fare) FALCE(M) → ant.falke → farche/farci (falce) FEBRUARIU(M)
→ ant. frearju → frearzu/frearju/friarju (febbraio) FEMINA → fèmina (donna)
FILIU(M) → ant. filiu/fiju/figiu → fizu/figiu/fillu (figlio) FLORE(M) →
frore/frori (fiore) FLUMEN → ant.flume → frùmene/frùmini (fiume) FOCU(M) → ant.
focu → fogu (fuoco) FOENICULU(M) → ant.fenuclu → fenugru/fenugu (finocchio)
FOLIA → fozza/folla (foglia) FRATER → frade/fradi (fratello) FUNE(M) →
fune/funi GELICIDIU(M) → ghilighia/chilighia/cilixia (gelo, brina) GENERU(M)→
ghèneru/ènneru/gèneru (genero) GENUCULUM → inucru/benugu/genugu (ginocchio)
GLAREA → giarra (ghiaia) GRAVIS → grae/grai (pesante) GUADU → ant.badu/vadu →
badu/bau (guado) HABERE → àere/ai (avere) HOC ANNO → ocannu (quest'anno) HODIE
→ oe/oje/oi (oggi) HOMINE(M) → òmine/òmini (uomo) HORTU(M) → ortu (orto) IANUARIUS,
IENARIU(M) → ant. jannarju> bennarzu/ghennarzu/jennarju/ghennargiu/gennarju
(gennaio) IANUA → janna/genna (porta) ILEX → ant.elike → elighe/ìlixi (leccio)
IMMO → emmo (sì) IN HOC → ant. inòke → inoghe/innoi (qui) INFERNU(M) →
inferru/ifferru (inferno) I(N)SULA → ìsula/iscra (isola) INIBI → inie/innia
(là) IOHANNES → Juanne/Zuanne/Juanni (Giovanni) IOVIA → jòvia/jòbia (giovedì)
IPSU(M) → su (il) IUDICE(M) → ant. iudike → juighe/zuighe (giudice) IUNCU(M) →
ant. juncu → zuncu/juncu (giunco) IUNIPERUS → ghinìperu/inìbaru/tzinnìbiri
(ginepro) IUSTITIA → ant. justithia/justizia → justìtzia/zustìssia (giustizia)
LABRA → lavra/lara (labbra) LACERTA → thiligherta/calixerta/caluxèrtula
(lucertola) LARGU(M) → largu (largo) LATER → camp. làdiri (mattone crudo) LIGNA
→ linna (legna) LINGERE → lìnghere/lingi (leccare) LINGUA(M) → limba/lìngua
(lingua) LOCU(M) → ant. locu → logu (luogo) LUTU(M) → ludu (fango) LUX →
lughe/luxi (luce) MACCUS → macu (matto) MAGISTRU(M) → maìstu (maestro) MAGNUS →
mannu (grande) MALUS → malu (cattivo) MANUS → manu (mano) MARTELLUS →
martheddu/mateddu/martzeddu (martello) MERIDIES → merie/merì (pomeriggio) META
→ meda (molto) MULIER → muzere/cmulleri (moglie) NARRARE → nàrrere/nai (dire)
NEMO → nemos (nessuno) NIX → nie/nii/nuor. nibe (neve) NUBE(M) → nue/nui
(nuvola) NUCE → ant. nuke → nughe/nuxi (noce) OCCIDERE → ochidere, occhire,
bochire/bociri (uccidere) OC(U)LU(M) → ogru/oju/ogu/nuor. ocru (occhio)
OLEASTER → ozzastru/ogiastru/ollastu (olivastro) OLEUM → oliu → ozu/ogiu/ollu
(olio) OLIVA → olia (oliva) ORIC(U)LA(M) → ant.oricla →
origra/orija/origa/nuor. oricra (orecchio) OVU(M) → ou(uovo) PACE → ant.pake
→paghe/paxi/nuor. pake (pace) PALATIUM → palathu/palàtziu/palatzu (palazzo)
PALEA → paza/pagia/palla (paglia) PANE(M) → pane/pani PAPPARE → log. papare,
camp. papai (mangiare) PARABOLA → paraula, nuor. paragula (parola) PAUCUS →
pagu (poco) PECUS → pegus (capo di bestiame) PEDIS → pe/pei/nuor. pede (piede)
PEIUS → pejus/peus (peggio) PELLE(M) → pedde/peddi (pelle) PERSICUS → pèrsighe/pèssighe
(pesca) PETRA(M) → pedra/perda/nuor. preda (pietra) PETTIA(M) → petha/petza
(carne) PILUS → pilu (pelo), pilos/pius (capelli) PIPER → pìbere/pìbiri (pepe)
PISCARE → piscare/piscai (pescare) PISCE(M) → pische/pisci (pesce) PISINNUS →
pitzinnu (bambino, giovane, ragazzo) PISUS → pisu (seme) PLATEA → pratha/pratza
(piazza) PLACERE → piàghere/pràghere/praxi (piacere) PLANGERE →
prànghere/prangi (piangere) PLENU(M) → prenu (pieno) PLUS → prus (più) POLYPUS
→ purpu/prupu (polpo) POPULUS → pòpulu/pòbulu (popolo) PORCU(M) → porcu/procu
(maiale) POST → pustis (dopo) PULLUS → puddu (pollo) PUPILLA → pobidda/pubidda
(moglie) PUTEUS → puthu/putzu (pozzo) QUANDO → cando/candu (quando) QUATTUOR →
battor(o)/cuatru (quattro) QUERCUS → chercu (quercia) QUID DEUS? → ite/ita?
(che/che cosa?) RADIUS → raju (raggio) RAMU(M) → ramu/arramu (ramo) REGNU →
rennu/urrennu (regno) RIVUS → ant. ribu → riu/erriu/arriu (fiume) ROSMARINUS →
ramasinu/arromasinu (rosmarino) RUBEU(M) → ant. rubiu → ruju/arrùbiu (rosso)
SALIX → salighe/sàlixi (salice) SANGUEN → sàmbene/sànguni (sangue) SAPA(M) →
saba (sapa, vino cotto) SCALA → iscala/scala (scala) SCHOLA(M) → iscola/scola
(scuola) SCIRE → ischire/sciri (sapere) SCRIBERE → iscrìere/scriri (scrivere)
SECARE → segare/segai (tagliare) SECUS → dae segus/a-i segus (dopo) SERO →
sero/ant.camp. seru (sera) SINE CUM → kene/kena/kentza/sena/setza (senza)
SOLE(M) → sole/soli (sole) SOROR → sorre/sorri (sorella) SPICA(M) →
ispiga/spiga (spiga) STARE → istare/stai (stare) STRINCTU(M) → strintu (stretto)
SUBERU → suerzu/suerju (quercia da sughero) SULPHUR → tùrfuru/tzùrfuru/tzrùfuru
(zolfo) SURDU(M) → surdu (sordo) TEGULA → teula (tegola) TEMPUS → tempus
(tempo) THIUS → thiu/tziu (zio) TRITICUM → trigu/nuor. trìdicu (grano) UMBRA →
umbra (ombra) UNDA → unda (onda) UNG(U)LA(M) → unja/ungra/unga (unghia) VACCA →
baca (vacca) VALLIS → badde/baddi (valle) VENTU(M) → bentu (vento) VERBU(M) →
berbu (verbo, parola) VESPA(M) → ghespe/bespe/ghespu/espi (vespa) VECLUS(AGG.)
→ betzu/becciu (vecchio) VECLUS(S) → ant. veclu → begru/begu (legno vecchio)
VIA → bia (via) VICINUS → ant. ikinu → bighinu/bixinu (vicino) VIDERE →
bìdere/bìere/biri (vedere) VILLA → ant. villa → billa → bidda (paese) VINEA(M)
→ binza/bingia (vigna) VINU(M) → binu (vino) VOCE → ant. voke/boke → boghe/boxi
(voce) ZINZALA → thìnthula/tzìntzula/sìntzulu (zanzara); Origine greca
bizantina[modifica | modifica wikitesto] AGROIKÓS → gr. biz. agrikó → gregori
‘terreno incolto’[547] FLASTIMAO → frastimare/frastimai ‘bestemmiare’ KAVURAS
‘granchio’ → camp. kavuru KASKO → cascare ‘sbadigliare’ *KEROPÓLIDA → kera/cera
óbida ‘cera che sigilla il favo’[547] KHÓNDROS ‘fiocchi d’avena; cartilagine’ →
gr. biz. kontra → log. iskontryare[547] KLEISOÛRA ‘chiusa’ → krisura (krisayu,
krisayone) ‘chiusa di un podere’[547] KONTAKION → ant. condake →
condaghe/cundaxi ‘raccolta di atti’ KYÁNE(OS) ‘blu scuro’ → camp. ghyani ‘manto
morello di cavallo (o di bue)’[547] LEPÍDA ‘lama di coltello’ → leppa
‘coltello’[547] Λουχὶα → ant. Lukìa → Lughìa/Luxia (Lucia) MERDOUKOÚS, MERDEKOÚSE
‘maggiorana’ → centr. mathrikúsya, camp. martsigusa ‘ginestra’[547] NAKE →
annaccare (cullare) PSARÓS ‘grigio’ → *zaru → log. medioevale arzu[547]
σαραχηνός → theraccu/tzeracu ‘servo’ Στέφανε → Istevane/Stèvini ‘Stefano’
Origine catalana[modifica | modifica wikitesto] ACABAR → acabare/acabai
(finire, smettere; cf. spa. acabar)[548] AIXÌ → camp.aici (così) AIXETA → log.
isceta (cannella della botte; rubinetto)[548] ALÈ → alenu (alito)[548] ARRACADA
→ arrecada (orecchino) ARREU → arreu (di continuo) AVALOT → avollotu
(trambusto; cf. spa. alboroto (ant. alborote))[548] BANDA → banda (lato)[548]
BANDOLER → banduleri (vagabondo; originariamente bandito; cf. spa. bandolero)
BARBER → barberi (barbiere; cf. spa. barbero) BARRA → barra (mandibola;
insolenza, testardaggine) BARRAR → abbarrare (nell'odierno catalano significa
però sbarrare, in sardo camp. rimanere) BELLESA → bellesa (bellezza) (AL)BERCOC
→ luog. barracoca (albicocca; da una termine balearico passato poi anche
all'algherese barracoc)[548] BLAU → camp.brau (blu) BRUT, -A → brutu, -a
(sporco) BURRO → burricu (asino; cf, spa. burro e borrico)[548] BURUMBALLA →
burrumballa (segatura, truciolame, per est. cianfrusaglia) BUTXACA →
busciaca/buciaca (tasca, borsa)[548] CADIRA / CARIA (vocabolo ancor presente in
algherese) → camp. cadira (sedia); Caría (cognome sardo) CALAIX → camp.
calaxu/calasciu (cassetto) CALENT → caente/callenti (caldo; cf. spa.
caliente)[548] CARRER → carrera/carrela (via)[548] CULLERA → cullera
(cucchiaio) CUITAR → coitare/coitai (sbrigarsi)[548] DESCLAVAMENT →
iscravamentu (deposizione di Cristo dalla croce) DESITJAR → disigiare/disigiai
(desiderare)[548] ESTIU → istiu (estate; cf. spa. estío, lat. aestivum
(tempus)) FALDILLA → faldeta (gonna)[548] FERRER → ferreri (fabbro) GARRÓ → garrone,
-i (garretto)[548] GOIGS → camp. gocius (composizioni poetiche sacre; cf.
gosos) GRIFÓ → grifone, -i (rubinetto)[548] GROC → grogo, -u (giallo)[548]
ENHORABONA! → innorabona! (in buon'ora!; cf. spa. enhorabuena) ENHORAMALA! →
innoramala! (in mal'ora!) ESMORZAR → ismurzare/ismurgiare/irmugiare/imrugiare
(fare colazione)[548] ESTIMAR → istimare/stimai (amare, stimare) FEINA → faina
(lavoro, occupazione, daffare; già da una forma catalana medievale, da cui si è
poi anche originato lo spagnolo faena)[548] FLASSADA → frassada (coperta; cf.
spa. frazada)[548] GÍNJOL → gínjalu (giuggiola, giuggiolo) IAIO, -A → jaju, -a
(nonno, -a; cf. spa. yayo, -a) JUTGE → camp. jugi/log. zuzze (giudice) LLEIG →
camp. léggiu/log. lezzu (brutto) MANDRÓ → mandrone, -i (pigro, nullafacente)[548]
MATEIX → matessi (stesso) MITJA → mìgia, log. miza (calza) MOCADOR → mucadore,
-i (fazzoletto) ORELLETA → orilletas (dolci fritti) PAPER → paperi (carta)[548]
PARAULA → paraula (parola) PLANXA → prància (ferro da stiro; prestito di origine
francese, anteriore allo spagnolo plancha)[548] PREMSA → prentza (torchio)[549]
PRESÓ → presone, -i (prigione) PRESSA → presse, -i (fretta)[548] PRÉSSEC →
prèssiu (pesca)[548] PUNXA → camp. punça/log. puntza (chiodo) QUIN, -A → camp.
chini (in catalano significa "quale", in sardo "chi")
QUEIXAL → sardo centrale e camp. caxale/casciale, -i (dente molare) RATAPINYADA
→ camp. ratapignata (pipistrello) RETAULE → arretàulu (retablo, tavola dipinta)
ROMÀS → nuor. arrumasu (magro; originariamente in catalano "rimasto"
→ rimasto a letto → indebolito→ dimagrito, magro)[548] SABATA → camp.sabata
(scarpa) SABATER → sabateri (calzolaio) SAFATA → safata (vassoio)[165] SEU →
camp. seu (cattedrale, "sede del vescovo") SÍNDIC → sìndigu
(sindaco)[548] SíNDRIA → sìndria (anguria) TANCAR → tancare/tancai (chiudere)
TINTER → tinteri (calamaio) ULLERES → camp. ulleras (occhiali) VOSTÈ → log.
bostè/camp .fostei o fustei (lei, pronome di cortesia; da vostra merced, vostra
mercede; cf. spa. usted)[550] Origine spagnola[modifica | modifica wikitesto]
Le voci di cui non viene indicata l'etimologia sono voci di origine latina di
cui lo spagnolo ha modificato il significato originario che avevano in latino e
il sardo ha preso il loro significato spagnolo; per le voci che lo spagnolo ha
preso da altre lingue viene indicata la loro etimologia come riportata dalla
Real Academia Española. ADIÓS → adiosu (addio, arrivederci)[548] ANCHOA →
ancioa (alice)[548] APOSENTO → aposentu (camera da letto) APRETAR, APRIETO →
apretare, apretu (mettere in difficoltà, costringere, opprimere; difficoltà,
problema) ARENA → arena (sabbia; cf. cat. arena)[548] ARRIENDO → arrendu
(affitto)[548] ASCO → ascu (schifo)[548] ASUSTAR → assustare/assustai
(spaventare; in camp. è più diffuso atziccai, che a sua volta viene dallo
spagnolo ACHICAR)[548] ATOLONDRADO, TOLONDRO → istolondrau (stordito, confuso,
sconcertato) AZUL → camp. asulu (azzurro; parola arrivata allo spagnolo
dall'arabo)[551] BARATO → baratu (economico) BARRACHEL → barratzellu/barracellu
(guardia campestre; parola questa che anche passata all'italiano regionale
della Sardegna, dove la parola barracello indica appunto una guardia campestre
facente parte della compagnia barracellare) BÓVEDA → bòveda, bòvida (volta
(nell'ambito della costruzione) )[552] BRAGUETA → bragheta (cerniera dei
pantaloni; il termine "braghetta" o "brachetta" è presente
anche in italiano, ma con altri significati; con questo significato è diffuso
anche nell'italiano regionale della Sardegna: cf. cat. bragueta) BRINCAR,
BRINCO → brincare, brincu (saltare, salto; termine arrivato in spagnolo dal
latino vinculum,[553] legame, parola che è poi stata modificata e ha assunto un
significato completamente differente in castigliano e che poi con questo è
passata al sardo, fenomeno condiviso da molti altri spagnolismi) BUSCAR →
buscare/buscai (cercare, prendere; cf. cat. buscar) CACHORRO → caciorru
(cucciolo)[548] CALENTURA → calentura, callentura (febbre) CALLAR →
cagliare/chelare (tacere; cf. cat. callar)[548] CARA → cara (faccia; cf. cat.
cara)[548] CARIÑO → carignu (manifestazione di affetto, carezza; affetto)[548]
CERRAR → serrare/serrai (chiudere) CHASCO → ciascu (burla)[548] CHE
(esclamazione di sorpresa di origine onomatopeica usata in Argentina, Uruguay,
Paraguay, Bolivia e in Spagna nella zona di Valencia)[554] → cé (esclamazione
di sorpresa usata in tutta la Sardegna) CONTAR → contare/contai (raccontare;
cf. cat. contar)[548] CUCHARA → log. cocciari (cucchiaio) / camp. coccerinu
(cucchiaino), cocciaroni (cucchiaio grande)[548] DE BALDE → de badas
(inutilmente; cf. cat. debades) DÉBIL → dèbile, -i (debole; cf. cat.
dèbil)[548] DENGOSO, -A, DENGUE → dengosu, -a, dengu (persona che si lamenta
eccessivamente senza necessità, lamento esagerato e fittizio; voce di origine
onomatopeica)[555] DESCANSAR, DESCANSO → discansare/discantzare,
discansu/discantzu (riposare, riposo; cf. cat. descansar)[548] DESDICHA →
disdìcia (sfortuna)[548] DESPEDIR → dispidire/dispidì (accomiatare,
congedare)[548] DICHOSO, -A → diciosu, -a (felice, beato)[548] HERMOSO, -A →
ermosu, -a / elmosu, -a (bello)[548] EMPLEO → impleu (carica, impiego)[548]
ENFADAR, ENFADO → infadare/irfadare/iffadare, infadu/irfadu/iffadu (molestia,
fastidio, rabbia; cf. cat. enfadar)[556] ENTERRAR, ENTIERRO → interrare,
interru (seppellire, seppellimento; cf. cat. enterrar)[548] ESCARMENTAR →
iscalmentare/iscrammentare/scramentai (apprendere dall'esperienza propria o
altrui per evitare di commettere gli stessi errori; parola di etimologia
originaria sconosciuta)[557] ESPANTAR → ispantare/spantai (spaventare; in
campidanese, e in algherese, significa meravigliare; cf. cat. espantar) FEO →
log. feu (brutto)[548] GANA → gana (voglia; cf. cat. gana; parola di etimologia
originaria incerta)[558] GARAPIÑA → carapigna (bibita rinfrescante)[559] GASTO
→ gastu (spesa, consumo)[548] GOZOS → log. gosos/gotzos (composizioni poetiche
sacre; cf. gocius) GREMIO → grèmiu (corporazione di diversi mestieri; anche
questa parola fa parte dell'italiano parlato in Sardegna, dove i gremi sono per
esempio le corporazioni di mestieri dei Candelieri di Sassari o della Sartiglia
di Oristano; oltre che in Sardegna e in spagnolo, la parola si usa anche in
portoghese, gremio, catalano, gremi, tedesco, Gremium, e nell'italiano parlato
in Svizzera, nel Canton Ticino) GUISAR → ghisare (cucinare; cf.cat.
guisar)[548] HACIENDA → sienda (proprietà)[544] HÓRREO → òrreu (granaio) JÍCARA
→ cìchera, cìcara (tazza; parola originariamente proveniente dal náhuatl)[560]
LÁSTIMA → làstima (peccato, danno, pena; qué lástima → ite làstima (che
peccato), me da lástima → mi faet làstima (mi fa pena) )[548] LUEGO → luegus
(subito, fra poco) MANCHA → log. e camp. mància, nuor. mantza (macchia) MANTA →
manta (coperta; cf. cat. manta) MARIPOSA → mariposa (farfalla)[548] MESA → mesa
(tavolo) MIENTRAS → camp. mentras (cf. cat. mentres) MONTÓN → muntone (mucchio;
cf. cat. munt)[561] OLVIDAR → olvidare (dimenticare)[548] PEDIR → pedire
(chiedere, richiedere) PELEA → pelea (lotta, lite)[548] PLATA → prata (argento)
PORFÍA → porfia (ostinazione, caparbietà, insistenza)[562] POSADA → posada
(locanda, luogo di ristoro) PREGUNTAR, PREGUNTA → preguntare/pregontare,
pregunta/pregonta (domandare, domanda; cf. cat. preguntar, pregunta) PUNTAPIÉ
(s.m.) → puntepé/puntepei (s.f.) (calcio, colpo dato con la punta del piede)
PUNTERA → puntera (parte della calza o della scarpa che copre la punta del
piede; colpo dato con la punta del piede) QUERER → chèrrer(e) (volere) RECREO →
recreu (pausa, ricreazione; divertimento)[548] RESFRIARSE, RESFRÍO →
s'arrefriare, arrefriu (raffreddarsi, raffreddore)[548] SEGUIR → sighire
(continuare; seguire; cf. cat. seguir)[544] TAJA → tacca (pezzo) TIRRIA,
TIRRIOSO → tirria, tirriosu (cattivo sentimento; cf. cat. tírria)[563] TOMATE
(s.m.) → nuor. e centrale tamata/camp. e gall. tumata (s.f.) (pomodoro; parola
originariamente proveniente dal náhuatl)[564] TOPAR → atopare/atopai
(incontrare, anche per caso, qualcuno; imbattersi in qualcosa; voce
onomatopeica; cf. cat. topar)[565] VENTANA → log. e camp. ventana/log. bentana
(finestra) VERANO → log. beranu (sp. estate, srd. primavera) Origine
toscana/italiana[modifica | modifica wikitesto] ARANCIO → aranzu/arangiu
AUTUNNO → atonzu/atongiu BELLO/-A → bellu/-a BIANCO → biancu CERTO/-A →
tzertu/-a CINTA → tzinta CITTADE → ant. kittade → tzitade/citade/tzitadi/citadi
(città) GENTE → zente/genti INVECE → imbètzes/imbecis MILLE → milli OCCHIALI →
otzales SBAGLIO → irballu/isbàlliu/sbàlliu VERUNO/-A → perunu/-a (alcuno/-a)
ZUCCHERO → thùccaru/tzùccaru/tzùcuru Prenomi, cognomi e toponimi[modifica | modifica
wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Prenomi sardi e Cognomi sardi.
Dalla lingua sarda derivano tanto i nomi storici di persona (nùmene / nomen /
nomini-e / lumene o lomini) e i soprannomi (nomìngiu / nominzu / o paranùmene /
paralumene / paranomen / paranomine-i), che i sardi avrebbero conferito l'un
l'altro fino all'epoca contemporanea per poi cadere nell'attuale disuso,[566]
quanto buona parte dei cognomi tradizionali (sambenadu / sangunau), tuttora i
più diffusi nell'isola. I toponimi della Sardegna possono vantare una storia
antica,[567] sorgendo in alcuni casi un significativo dibattito inerente alle
loro origini.[568] Note[modifica | modifica wikitesto] Esplicative[modifica |
modifica wikitesto] ^ Con riguardo alla cristianizzazione dell'isola, Papa
Simmaco fu battezzato a Roma e si diceva fosse «ex paganitate veniens»; la
conversione degli ultimi pagani sardi, guidati da Ospitone, fu descritta da
Tertulliano come il seguente evento: «Sardorum inaccessa Romanis loca, Christo
vero subdita». Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997,
p. 73. ^ «Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque
omnes historiae nobis prodiderunt. ab his orti Poeni multis Carthaginiensium
rebellionibus, multis violatis fractisque foederibus nihil se degenerasse
docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque
ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. [...] Africa ipsa parens illa
Sardiniae, quae plurima et acerbissima cum maioribus nostris bella gessit.»
Cicero: Pro Scauro, su thelatinlibrary.com. URL consultato il 28 novembre 2015.
^ «Potissimum vero ad usurpandum in scriptis Italicum idioma gentem nostram
fuisse adductam puto finitimarum exemplo, Provincialium, Corsorum atque Sardorum»
("In verità ritengo anzitutto che la nostra gente [italiana] sia stata
indotta a usare nello scritto l'idioma italico, seguendo l'esempio dei vicini
Provenzali, Corsi e Sardi") e, più in là, «Sardorum quoque et Corsorum
exemplum memoravi Vulgari sua Lingua utentium, utpote qui Italis preivisse in
hoc eodem studio videntur» ("Ho ricordato, fra l'altro, l'esempio dei
Sardi e dei Corsi, che hanno impiegato la propria lingua volgare, come quelli
che in ciò hanno preceduto gli Italiani"). Antonio, Ludovico Antonio
(1739). Antiquitates Italicae Moedii Evi, Mediolani, t. 2, col. 1049 ^ Incipit
di Ines Loi Corvetto, La Sardegna e la Corsica, Torino, UTET, 1993. Hieronimu
Araolla, edited by Max Leopold Wagner, Die Rimas Spirituales Von Girolamo
Araolla. Nach Dem Einzigen Erhaltenen Exemplar Der Universitätsbibliothek in
Cagliari, Princeton University, 1915, p. 76. Semper happisi desiggiu,
Illustrissimu Segnore, de magnificare, & arrichire sa limba nostra Sarda;
dessa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones dessu mundu hant
magnificadu & arrichidu; comente est de vider per isos curiosos de cuddas.
("Sempre abbia il desiderio, Illustrissimo Signore, di magnificare e
arricchire la nostra lingua sarda; nel medesimo modo in cui tutte le nazioni del
mondo hanno magnificato e arricchito [la propria]; come si può vedere per
coloro che ne sono incuriositi.") ^ …L'Alguer castillo fuerte bien murado / con
frutales por tierra muy divinos / y por la mar coral fino eltremado / es ciudad
de mas de mil vezinos… Joaquín Arce, España en Cerdeña, 1960, p. 359. ^ E.g.:
«…Non podende sufrire su tormentu / de su fogu ardente innamorosu. / Videndemi
foras de sentimentu / et sensa una hora de riposu, / pensende istare liberu e
contentu / m'agato pius aflitu e congoixosu, / in essermi de te senora
apartadu, / mudende ateru quelu, ateru istadu…» Antonio de Lo Frasso, Los Cinco
Ultimos Libros de Fortuna de Amor, vol. 2, Londra, Henrique Chapel, 1573-1740,
pp. 141-144. ^ «Sendemi vennidu à manos in custa Corte Romana unu Libru in
limba Italiana, nouamente istampadu, […] lu voltao in limba Sarda pro dare
noticia de cuddas assos deuotos dessa patria mia disijosos de tales legendas. Las apo voltadas in sardu menjus qui non in
atera limba pro amore de su vulgu […] qui non tenjan bisonju de interprete pro
bi-las decrarare, & tambene pro esser sa limba sarda tantu bona, quanta
participat de sa latina, qui nexuna de quantas limbas si plàtican est tantu
parente assa latina formale quantu sa sarda. […] Pro su quale si sa limba
Italiana si preciat tantu de bona, & tenet su primu logu inter totas sas
limbas vulgares pro esser meda imitadore dessa Latina, non si diat preciare
minus sa limba Sarda pusti non solu est parente dessa Latina, pero ancora sa
majore parte est latina vera. […] Et quando cussu non esseret, est suficiente
motiuu pro iscrier in Sardu, vider, qui totas sas nationes iscriven, &
istampan libros in sas proprias limbas naturales in soro, preciandosi de tenner
istoria, & materias morales iscritas in limba vulgare, pro qui totus si
potan de cuddas aprofetare. Et pusti sa limba latina Sarda est clara &
intelligibile (iscrita, & pronunciada comente conuenit) tantu & plus
qui non quale si querjat dessas vulgares, pusti sos Italianos, &
Ispagnolos, & totu cuddos qui tenen platica de latinu la intenden
medianamente.» ("Essendo entrato in possesso, presso questa Corte Romana,
di un libro in lingua italiana di nuova ristampa, […] l'ho tradotto in lingua
sarda per darne notizia ai devoti della mia patria desiderosi di tali leggende.
Le ho tradotte in sardo, anziché in un'altra lingua, per amore del popolo […] i
quali [popolani] non necessitavano di alcun interprete per potergliele
enunciare, anche per via del fatto che la lingua sarda è nobile in virtù della
sua partecipazione alla latinità, giacché nessuna lingua parlata è tanto
prossima al latino classico quanto quella sarda. […] Giacché, se la lingua
italiana si apprezza molto, e se tra tutte le lingue volgari si trova al primo
posto per aver molto replicato quella latina, non meno si dovrebbe apprezzare
la lingua sarda dal momento che non solo è parente di quella latina, ma è in
gran parte latino schietto. […] E quandanche non fosse così, è un motivo
sufficiente per scrivere in sardo vedere che tutte le nazioni scrivono e
stampano libri nella loro lingua naturale, fregiandosi di avere storia e
materie morali scritte in lingua volgare, affinché tutti possano recare
giovamento da esse. E dal momento che la lingua latina sarda è, quando scritta
e pronunciata come si conviene, chiara e comprensibile in misura uguale, se non
superiore rispetto a quelle volgari, dal momento che gli Italiani, e gli
Spagnoli, e tutti coloro che praticano il latino in generale la
capiscono"). Ioan Matheu Garipa, Legendariu de santas virgines, et martires de Iesu
Crhistu, Per Lodouicu Grignanu, Roma, 1627. ^ Nella Dedica alla moglie di Carlo Alberto si possono
scorgere diversi passaggi in cui egli omaggiava le politiche culturali
perseguite in Sardegna, quali "Era destino che la dolcissima Italiana
favella, sebbene nata sulle amene sponde dell'Arno, divenuta sarebbe un dì
anche ricco patrimonio degli Abitanti del Tirso" (p. 5) e, formulando un
voto di fedeltà alla nuova dinastia di reggenti in luogo della spagnola,
"Di tanto bene la Sardegna è debitrice alla Augustissima CASA SABAUDA, la
quale, cessata l'ispanica dominazione, con tante savie istituzioni promosse in
ogni tempo le scienze, statuendo fin dalla metà del secolo trascorso, che nei
Dicasteri e nel pubblico insegnamento delle Scuole Inferiori si facesse uso di
quel Toscano che fu poscia la lingua di quante persone ebbero voce di bennate e
di colte." (p. 6). Nella Prefazione, più specificamente intitolata Al
giovanetto alunno, si dichiara l'intenzione, comune al Porru, di pubblicare un
lavoro dedicato alla didattica dell'italiano, partendo dalle differenze e
similitudini fornite dalla grammatica di un'altra lingua più familiare, il
sardo. ^ Al fine di meglio comprendere tale dichiarazione, occorre infatti
osservare che, secondo le disposizioni del governo, «in nessun modo e per
nessun motivo esiste la regione» (Casula, Francesco. Sa chistione de sa limba
in Montanaru e oe (PDF)., p. 66). ^ In realtà, databili intorno alla seconda
metà dell'Ottocento, in seguito alla già menzionata Perfetta Fusione (cfr.
Dettori 2001); difatti, neanche nella trattazione settecentesca di autori quali
il Cetti si rinvengono giudizi di valore circa la dignità del sardo, sulla cui
indipendenza linguistica convenivano generalmente anche gli autori italiani
(cfr. Ferrer 2017). ^ Il Wagner cita al riguardo Giacomo Tauro che, a dispetto
della vulgata fascista sull'assimilazione del sardo al sistema linguistico
italiano, già osservava in una conferenza tenuta a Nuoro nel 1937 che «[La
Sardegna] ha una sua propria lingua, che è qualcosa di più e di diverso dai
dialetti delle altre regioni d’Italia… Se i diversi dialetti d’Italia hanno
tutti qualcosa d’interferente, per cui non è difficile a chi attentamente ne
ascolti qualcuno e di essi abbia una certa pratica, d’intuirne e comprenderne,
almeno superficialmente, il significato, i dialetti sardi invece non solo
riescono quasi del tutto incomprensibili a chi non è dell’isola, ma anche con
la pratica difficilmente possono essere acquisiti.» ( Max Leopold Wagner, La
lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951-1997, p. 82.) ^ Tali istanze eminentemente
industrialistiche e produttivistiche sono finanche attestate nelle norme di cui
all'art. 13 del progetto finale, che recita «lo Stato con il concorso della
Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale
dell'Isola.» Cfr. Testo storico dello Statuto (PDF). ^ Alla base del cosiddetto
"autonomismo abortivo", secondo i primi critici dello statuto quali
Eliseo Spiga, vi era la mancata assunzione di un'identità sarda dotata di
soggettività distinta, nelle sue specificità etnonazionali, linguistiche e
culturali rispetto alla comunità statale nel suo insieme; in mancanza della
quale, a loro avviso si sarebbe approdati a un modello amministrativo che
omologava l'isola a "una qualsiasi provincia dello Stivale".
Francesco Casula, Gianfranco Contu, Storia dell'autonomia in Sardegna,
dall'Ottocento allo Statuto Sardo (PDF), Dolianova, Stampa Grafica del
Parteolla, 2008, p. 116. URL consultato il 25 agosto 2019 (archiviato dall'url
originale il 20 ottobre 2020). ^ Istanza del Prof. A. Sanna sulla pronuncia
della Facoltà di Lettere in relazione alla difesa del patrimonio
etnico-linguistico sardo. Il prof. Antonio Sanna fa a questo proposito una
dichiarazione: «Gli indifferenti problemi della scuola, sempre affrontati in
Sardegna in torma empirica, appaiono oggi assai particolari e non risolvibili
in un generico quadro nazionale; il tatto stesso che la scuola sia diventata
scuola di massa comporta il rifiuto di una didattica inadeguata, in quanto
basata sull'apprendimento concettuale attraverso una lingua, per molti aspetti
estranea al tessuto culturale sardo. Poiché esiste un popolo sardo con una
propria lingua dai caratteri diversi e distinti dall'italiano, ne discende che
la lingua ufficiale dello Stato, risulta in effetti una lingua straniera, per
di più insegnata con metodi didatticamente errati, che non tengono in alcun
conto la lingua materna dei Sardi: e ciò con grave pregiudizio per un'efficace
trasmissione della cultura sarda, considerata come sub-cultura. Va dunque
respinto il tentativo di considerare come unica soluzione valida per questi
problemi una forzata e artificiale forma di acculturazione dall'esterno, la
quale ha dimostrato (e continua a dimostrare tutti) suoi gravi limiti, in
quanto incapace di risolvere i problemi dell'isola. È perciò necessario
promuovere dall'interno i valori autentici della cultura isolana, primo fra
tutti quello dell'autonomia, e "provocare un salto di qualità senza
un'acculturazione di tipo colonialistico, e il superamento cosciente del dislivello
di cultura" (Lilliu). La Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di
Cagliari, coerentemente con queste premesse con l'istituzione di una Scuola
Superiore di Studi Sardi, è pertanto invitata ad assumere l'iniziativa di
proporre alle autorità politiche della Regione Autonoma e dello Stato il
riconoscimento della condizione di minoranza etnico-linguistica per la Sardegna
e della lingua sarda come lingua «nazionale» della minoranza. È di conseguenza
opportuno che si predispongano tutti i provvedimenti a livello scolastico per
la difesa e conservazione dei valori tradizionali della lingua e della cultura
sarda e, in questo contesto, di tutti i dialetti e le tradizioni culturali
presenti in Sardegna (ci si intende riferire al Gallurese, al Sassarese,
all'Algherese e al Ligure-Carlofortino). In ogni caso tali provvedimenti
dovranno comprendere necessariamente, ai livelli minimi dell'istruzione, la
partenza dell'insegnamento del sardo e dei vari dialetti parlati in Sardegna,
l'insegnamento nella scuola dell'obbligo riservato ai Sardi o coloro che
dimostrino un'adeguata conoscenza del sardo, o tutti quegli altri provvedimenti
atti a garantire la conservazione dei valori tradizionali della cultura sarda.
È bene osservare come, nel quadro della diffusa tendenza a livello
internazionale per la difesa delle lingue delle minoranze minacciate,
provvedimenti simili a quelli proposti sono presi in Svizzera per la minoranza
ladina fin dal 1938 (48 000 persone), in Inghilterra per il Galles, in Italia
per le minoranze valdostana, slovena e ultimamente ladina (15 000 persone),
oltre che per quella tedesca; a proposito di queste ultime e specificamente in
relazione al nuovo ordinamento scolastico alto-atesino. Il presidente del
Consiglio on. Colombo, nel raccomandare ala Camera le modifiche da apportare
allo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige (il cosiddetto
"pacchetto"), «modifiche che non escono dal concetto di autonomia
indicato dalla Costituzione», ha ritenuto di dovere sottolineare l'opportunità
"che i giovani siano istruiti nella propria lingua materna da insegnanti
appartenenti allo stesso gruppo linguistico"; egli inoltre aggiungeva che
"solo eliminando ogni motivo di rivendicazione si crea il necessario
presupposto per consentire alla scuola di svolgere la sua funzione fondamentale
in un clima propizio per la migliore formazione degli allievi". Queste
chiare parole del presidente del Consiglio ci consentono di credere che non si
voglia compiere una discriminazione nei confronti della minoranza sarda, ma
anche per essa valga il principio enunciato dall'opportunità dell'insegnamento
della lingua materna a opera di insegnanti appartenenti allo stesso gruppo
linguistico, onde consentire alla scuola di svolgere anche in Sardegna la sua
funzione fondamentale in un clima propizio alla migliore formazione per gli
allievi. Si chiarisce che tutto ciò non è sciovinismo né rinuncia a una cultura
irrinunciabile, ma una civile e motivata iniziativa per realizzare in Sardegna
una vera scuola, una vera rinascita, "in un rapporto di competizione
culturale con lo stato (…) che arricchisce la Nazione" (Lilliu)». Il
Consiglio unanime approva le istanze proposte dal prof. Sanna e invita le
competenti autorità politiche a promuovere tutte le iniziative necessarie, sul
piano sia scolastico che politico-economico, a sviluppare coerentemente tali
principi, nel contempo acquisendo dati atti a mettere in luce il suesposto
stato. Cagliari, 19 febbraio 1971. [Farris, Priamo (2016). Problemas e
aficàntzias de sa pianificatzioni linguistica in Sardigna. Limba, Istòria,
Sotziedadi / Problemi e prospettive della pianificazione linguistica in
Sardegna. Lingua, Storia, Società, Youcanprint] ^ "O sardu, si ses sardu e
si ses bonu, / Semper sa limba tua apas presente: / No sias che isciau
ubbidiente / Faeddende sa limba 'e su padronu. / Sa nassione chi peldet su donu
/ De sa limba iscumparit lentamente, / Massimu si che l'essit dae mente / In
iscritura che in arrejonu. / Sa limba 'e babbos e de jajos nostros / No
l'usades pius nemmancu in domo / Prite pobera e ruza la creides. / Si a iscola
no che la jughides / Po la difunder menzus, dae como / Sezis dissardizende a
fizos bostros." ("O sardo, se sei sardo e sei bravo / abbi sempre
presente la tua lingua: / non essere come uno schiavo ubbidiente / che parla la
lingua del padrone. / La nazione che perde il dono / della lingua scompare
lentamente, / soprattutto se le esce dalla mente / scrivendo e discorrendo. /
La lingua dei nostri padri e dei nostri nonni / non la usate più neanche a casa
/ dal momento che la ritenete povera e rozza. / Se non la portate a scuola /
ora, per diffonderla meglio, / starete de-sardizzando i vostri figli.") in
Piras, Raimondo. No sias isciau (RTF), su poesias.it. ^ L'italianizzazione
culturale della popolazione sarda aveva allora assunto proporzioni tanto
considerevoli da indurre il Pellegrini, nella Introduzione all'Atlante
storico-linguistico-etnografico friulano, a tessere le lodi dei sardi giacché
questi ultimi si dicevano disposti ad accettare che il loro idioma, pur costituendo
«un mezzo espressivo assai meno subordinato all'italiano» fosse considerato un
semplice "dialetto" dell'italiano, in netto contrasto all'orgoglio e
lealtà linguistica dei friulani (Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate,
Rizzoli, p. 195 ; Pellegrini, Giovan Battista (1972). Introduzione all'Atlante
storico-linguistico-etnografico friulano (ASLEF), Vol. I, p. 17).
Considerazioni analoghe a quelle del Pellegrini erano state avanzate qualche
anno prima, nel 1967, dal linguista tedesco Heinz Kloss in riferimento al
concetto da lui coniato di Dachsprache ("lingua tetto"); nel suo
studio pioneristico, egli osservava come idiomi di comunità quali i sardi,
occitani e haitiani, fossero da esse stesse ora percepiti meramente come
«dialetti di lingue vittoriose piuttosto che sistemi linguistici autonomi»,
diversamente dalla profonda lealtà linguistica dei catalani che, nonostante il
proibizionismo franchista, non avrebbero mai accettato una siffatta
degradazione del loro idioma rispetto all'unica lingua allora ufficiale, lo
spagnolo (Kloss, Heinz (1967). "Abstand Languages" and "Ausbau
Languages". Anthropological Linguistics, 9 (7), p. 36). ^ È interessante
notare come nella questione linguistica sarda possa, per certi versi,
sussistere un parallelismo con l'Irlanda, in cui un similare fenomeno ha
assunto il nome di circolo vizioso dell'Irish Gaeltacht (Cfr. Edwards 1985).
Difatti in Irlanda, all'abbassamento di prestigio del gaelico verificatosi
quando esso risultò parlato in aree socialmente ed economicamente depresse, si
aggiunse l'emigrazione da tali aree verso quelle urbane e ritenute
economicamente più avanzate, nelle quali l'idioma maggioritario (l'inglese)
sarebbe stato destinato a sopraffare e prevalere su quello minoritario degli
emigranti. ^ Non è un caso che queste tre lingue, protette da accordi
internazionali, siano le uniche minoranze linguistiche ritenute da Gaetano
Berruto (Lingue minoritarie, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 335-346, 2009) come non minacciate.
Bibliografiche e sitografiche[modifica | modifica wikitesto] ^ Ti Alkire; Carol
Rosen, Romance languages : a Historical Introduction, New York, Cambridge
University Press, 2010, p. 3. ^ Salta a:a b c d Lubello, Sergio (2016). Manuale
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Agostini, 2016, p. 230 ^ The World Atlas of Language Structures Online,
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Soggetto), su Academia, Rivista de filologia romanica, 2000. URL consultato il
4 maggio 2024. ^ Salta a:a b Legge 482, su camera.it. URL consultato il 25
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Regione Autònoma de Sardigna, su regione.sardegna.it. URL consultato il 25
novembre 2015 (archiviato dall'url originale il 26 febbraio 2021). ^ Salta a:a
b Legge Regionale 3 luglio 2018, n. 22-Regione autonoma della Sardegna –
Regione Autònoma de Sardigna, su regione.sardegna.it. URL consultato il 25
novembre 2015. ^
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language.. ^ Regione Autonoma
della Sardegna, LIMBA SARDA COMUNA - Norme linguistiche di riferimento a
carattere sperimentale per la lingua scritta dell’Amministrazione regionale
(PDF), pp. 6, 7, 55. «in altri casi, per salvaguardare la distintività del
sardo, si è preferita la soluzione centro-settentrionale, come nel caso di
limba, chena, iscola, ecc..» ^ Riconoscendo l'arbitrarietà delle definizioni,
nella nomenclatura delle voci viene usato il termine "lingua" in
accordo alle norme ISO 639-1, 639-2 o 639-3. Negli altri casi, viene usato il
termine "dialetto". ^ «Da G. I. Ascoli in poi, tutti i linguisti sono
concordi nell'assegnare al sardo un posto particolare fra gl'idiomi neolatini
per i varî caratteri che lo distinguono non solo dai dialetti italiani, ma
anche dalle altre lingue della famiglia romanza, e che appaiono tanto nella
fonetica, quanto nella morfologia e nel lessico.» R. Almagia et al., Sardegna
in "Enciclopedia Italiana" (1936)., Treccani, "Parlari". ^
Leopold Wagner, Max. La lingua sarda, a cura di Giulio Paulis (archiviato
dall'url originale il 26 gennaio 2016). - Ilisso ^ Manuale di linguistica
sarda., 2017, A cura di Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo.
Manuals of Romance Linguistics, De Gruyter Mouton, p. 209. ^ Salta a:a b «Il
sardo rappresenta un insieme dialettale fortemente originale nel contesto delle
varietà neolatine e nettamente differenziato rispetto alla tipologia
italoromanza, e la sua originalità come gruppo a sé stante nell’ambito romanzo
è fuori discussione.» Toso, Fiorenzo. Lingue sotto il tetto d'Italia. Le
minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 8. Il sardo, su treccani.it. ^
Salta a:a b «La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche
al sistema dei dialetti sardi, che si considerano come un gruppo romanzo
autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani.» Fiorenzo Toso, Minoranze
linguistiche, su treccani.it, Treccani, 2011. ^ L. 15 dicembre 1999, n. 482 -
Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche ^ L'UNESCO e
la diversità linguistica. Il caso dell'Italia ^ Salta a:a b «With some 1,6 million speakers,
Sardinia is the largest minority language in Italy. Sardinians form an ethnic
minority since they show a strong awareness of being an indigenous group with a
language and a culture of their own. Although Sardinian appears to be recessive
in use, it is still spoken and understood by a majority of the population on
the island». Kurt Braunmüller, Gisella Ferraresi (2003). Aspects of
multilingualism in European language history. Amsterdam/Philadelphia: University of Hamburg. John
Benjamins Publishing Company. p. 238 ^ «Nel 1948 la Sardegna diventa, anche per
le sue peculiarità linguistiche, Regione Autonoma a statuto speciale. Tuttavia
a livello politico, ufficiale, non cambia molto per la minoranza linguistica
sarda, che, con circa 1,2 milioni di parlanti, è la più numerosa tra tutte le
comunità alloglotte esistenti sul territorio italiano». De Concini, Wolftraud
(2003). Gli altri d'Italia : minoranze linguistiche allo specchio, Pergine
Valsugana: Comune, p. 196. ^ Lingue di Minoranza e Scuola, Sardo, su
minoranze-linguistiche-scuola.it. URL consultato il 15 aprile 2019 (archiviato
dall'url originale il 16 ottobre 2018). ^ Salta a:a b Inchiesta ISTAT 2000
(PDF), su portal-lem.com, pp. 105-107. ^ What Languages are Spoken in Italy?,
su worldatlas.com. ^ Andrea Corsale e Giovanni Sistu, Sardegna: geografie di
un'isola, Milano, Franco Angeli, 2019, p. 188. ^ «Sebbene in continua
diminuzione, i sardi costituiscono tuttora la più grossa minoranza linguistica
dello stato italiano con ca. 1 000 000 di parlanti stimati (erano 1 269 000
secondo le stime basate sul censimento del 2001)». Lubello, Sergio (2016).
Manuale Di Linguistica Italiana, De Gruyter, Manuals of Romance linguistics, p.
499 ^ Durk Gorter et al., Minority Languages in the Linguistic Landscape,
Palgrave Macmillan, 2012, p. 112. ^ Roberto Bolognesi, Un programma
sperimentale di educazione linguistica in Sardegna (PDF), su comune.lode.nu.it,
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il 26 marzo 2023). ^ Cfr. Leonardo Sole, Lingua e cultura in Sardegna. La
situazione sociolinguistica, 1988 ^ Stefania Tufi, Language Ideology and
Language Maintenance: The Case of Sardinia. International Journal of the
Sociology of Language 2013, pp. 145–60 ^ cfr. Atteggiamenti linguistici degli
studenti sardi nei confronti della lingua sarda e della lingua italiana,
Piergiorgio Mura, Università Ca' Foscari Venezia ^ Salta a:a b Andrea Costale,
Giovanni Sistu, Surrounded by Water: Landscapes, Seascapes and Cityscapes of
Sardinia, Cambridge Scholars Publishing, 2016, p. 123. ^ ISTAT, lingue e
dialetti, tavole (XLSX). ^ Salta a:a b La Nuova Sardegna, 04/11/10, Per salvare
i segni dell'identità - di Paolo Coretti ^ Giuseppe Corongiu, La politica
linguistica per la lingua sarda, in Maccani, Lucia; Viola, Marco. Il valore
delle minoranze. La leva ordinamentale per la promozione delle comunità di
lingua minoritaria, Trento, Provincia Autonoma di Trento, 2010, p. 122. ^ Salta
a:a b c d Roberto Bolognesi, Un programma sperimentale di educazione
linguistica in Sardegna (PDF), su comune.lode.nu.it, 2000, p. 126. URL
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1569-9889 DOI: https://doi.org/10.1075/lplp.00012.lai, p. 73 ^ Martin Harris,
Nigel Vincent, The Romance languages, London, New York, 2003, p. 21. ^ «If
present trends continue, it is possible that within a few generations the
regional variety of Italian will supplant Sardinian as the popular idiom and
that linguists of the future will be obliged to refer to Sardinian only as a
substratal influence which has shaped a regional dialect of Italian rather than
as a living language descended directly from Latin.» Martin Harris, Nigel
Vincent, The Romance languages, London, New York, 2003, p. 349. ^ Salta a:a b c d Il sardo, così vicino, così
lontano. Treccani ^ Koryakov Y.B. Atlas of Romance languages. Mosca, 2001 ^
«Sorge ora la questione se il sardo si deve considerare come un dialetto o come
una lingua. È evidente che esso è, politicamente, uno dei tanti dialetti
dell'Italia, come lo è anche, p. es., il serbo-croato o l'albanese parlato in
vari paesi della Calabria e della Sicilia. Ma dal punto di vista linguistico la
questione assume un altro aspetto. Non si può dire che il sardo abbia una stretta
parentela con alcun dialetto dell'italiano continentale; è un parlare romanzo
arcaico e con proprie spiccate caratteristiche, che si rivelano in un
vocabolario molto originale e in una morfologia e sintassi assai differenti da
quelle dei dialetti italiani». Max Leopold Wagner (1950-1997). La lingua sarda.
Storia, spirito e forma. Ilisso. Nuoro, pp. 90-91. ^ Carlo Tagliavini (1982).
Le origini delle lingue neolatine. Bologna: Patron. p. 122. ^ Rebecca Posner, John N.
Green (1982). Language and Philology in Romance. Mouton Publishers. L'Aja,
Parigi, New York. pp. 171 ss. ^ cfr. Ti Alkire, Carol Rosen, Romance Languages:
A Historical Introduction, Cambridge University Press, 2010. ^ «L'aspetto che più risulta evidente è la
grande conservatività, il mantenimento di suoni che altrove hanno subito
notevoli modificazioni, per cui si può dire che anche foneticamente il sardo è
fra tutti i parlari romanzi quello che è rimasto più vicino al latino, ne è il
continuatore più genuino.» Francesco Mameli, Il logudorese e il gallurese,
Soter, 1998, p. 11. ^ Sardegna, isola del silenzio, Manlio Brigaglia, su
mclink.it. URL consultato il 24 maggio 2016 (archiviato dall'url originale il
10 maggio 2017). ^
Mario Pei, A New Methodology for Romance Classification, in WORD, vol. 5, n. 2,
1949, pp. 135-146, DOI:10.1080/00437956.1949.11659494, ISSN 0043-7956 (WC ·
ACNP). ^ «Il fondo della lingua
sarda di oggi è il latino. La Sardegna è il solo paese del mondo in cui la
lingua dei Romani si sia conservata come lingua viva. Questa circostanza ha
molto facilitato le mie ricerche nell’isola, perché almeno la metà dei pastori
e dei contadini non conoscono l’italiano.» Maurice Le Lannou, a cura di Manlio
Brigaglia, Pastori e contadini in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre,
1941-1979, p. 279. ^ «Prima di tutto, la neonata lingua sarda ingloba un
consistente numero di termini e di cadenze provenienti da una lingua originaria
preromana, che potremmo chiamare "nuragica".» Salvatore Tola, La
Letteratura in Lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p.
9. ^ Salta a:a b c Heinz Jürgen Wolf, p. 20. ^ Archivio glottologico italiano,
vol. 53-54, 1968, p. 209. ^ A.A., Atti del VI [i.e. Sesto] Congresso
internazionale di studi sardi, 1962, p. 5 ^ Giovanni Lilliu, La civiltà dei
Sardi. Dal Paleolitico all'età dei nuraghi, Nuova ERI, 1988, p. 269. ^ Yakov
Malkiel (1947). Romance Philology, v.1, p. 199 ^ «Il Sardo ha una sua speciale
fisionomia ed individualità che lo rende, in certo qual modo, il più
caratteristico degli idiomi neolatini; e questa speciale individualità del
Sardo, come lingua di tipo arcaico e con una fisionomia inconfondibile,
traspare già fin dai più antichi testi.» Carlo Tagliavini (1982). Le origini
delle lingue neolatine. Bologna: Patron. p. 388. ^ «Fortemente isolati rispetto
ai tre gruppi maggiori stanno il sardo e, nel settentrione, il ladino, entrambi
considerati come formazioni autonome rispetto al complesso dei dialetti
italoromanzi.» Tullio de Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Editori
Laterza, 1991, p. 21. ^ Salta a:a b c d e f Fiorenzo Toso, 2.3, in Le minoranze
linguistiche in Italia, Bologna, Società editrice Il Mulino, 2008, ISBN
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Cristopher Moseley, Atlas of the World's languages in Danger, 3rd edition,
Paris, UNESCO Publishing, p. 39 ^ Max Leopold Wagner (1952). Il Nome Sardo del Mese di Giugno (Lámpadas) e i
Rapporti del Latino d'Africa con quello della Sardegna. Italica, 29 (3),
151-157. doi:10.2307/477388 ^ «Non vi è dubbio che vi erano rapporti più
stretti tra la latinità dell'Africa settentrionale e quella della Sardegna.
Senza parlare della affinità della razza e degli elementi libici che possano
ancora esistere in sardo, non bisogna dimenticare che la Sardegna rimase,
durante vari secoli, alle dipendenze dell'esarcato africano». Wagner, M.
(1952). Il Nome Sardo del Mese di Giugno (Lámpadas) e i Rapporti del Latino
d'Africa con quello della Sardegna. Italica, 29 (3), 152. doi:10.2307/477388 ^
Paolo Pompilio (1455-91): «ubi pagani integra pene latinitate loquuntur et, ubi
uoces latinae franguntur, tum in sonum tractusque transeunt sardinensis
sermonis, qui, ut ipse noui, etiam ex latino est» ("ove gli abitanti
parlano un latino quasi intatto e, quando le parole latine si corrompono,
passano allora ai suoni e tratti della lingua sarda, che, da quanto ne so,
deriva anch'essa dal latino")». Citato in Michele Loporcaro, Vowel Length from Latin
to Romance, Oxford University Press, 2015, p. 48. ^ Traduzione offerta da Michele Amari: «I sardi sono di
schiatta RUM AFARIQAH (latina d'Africa), berberizzanti. Rifuggono (dal
consorzio) di ogni altra nazione di RUM: sono gente di proposito e valorosa,
che non lascia mai l'arme.» Nota di Mohamed Mustafa Bazama: «Questo passo, nel
testo arabo, è un poco differente, traduco qui testualmente: "gli abitanti
della Sardegna, in origine sono dei Rum Afariqah, berberizzanti, indomabili.
Sono una (razza a sé) delle razze dei Rum. [...] Sono pronti al richiamo d'aiuto,
combattenti, decisivi e mai si separano dalle loro armi (intende guerrieri
nati).» Mohamed Mustafa Bazama, Arabi e sardi nel Medioevo, Cagliari, Editrice
democratica sarda, 1988, pp. 17, 162. ^ «Wa ahl Ğazīrat Sardāniya fī aṣl Rūm
Afāriqa mutabarbirūn mutawaḥḥišūn min ağnās ar-Rūm wa hum ahl nağida wa hazm lā
yufariqūn as-silāḥ». Contu, Giuseppe. Sardinia in Arabic sources (PDF), su
eprints.uniss.it. URL consultato il 23 aprile 2022 (archiviato dall'url
originale il 25 febbraio 2021). Annali della Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere dell'Università di Sassari, Vol. 3 (2003 pubbl. 2005), p. 287-297.
ISSN 1828-5384 ^ Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, Edizioni Il
Maestrale, 2005, p. 83. ^ «I sardi, popolo di razza latina africana piuttosto
barbaro, che vive appartato dal consorzio delle altre genti latine, sono
intrepidi e risoluti; essi non abbandonano mai le armi.» Al Idrisi, traduzione
e note di Umberto Rizzitano, Il Libro di Ruggero. Il diletto di chi è
appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, Palermo, Flaccovio
Editore, 2008. ^ Luigi Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna : le invasioni arabe in
Sardegna dal 704 al 1016, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 30, 42. ^ J.N. Adams, The Regional
Diversification of Latin 200 BC - AD 600, Cambridge University Press, 2007, p.
576, ISBN 978-1-139-46881-7. ^
«Wagner prospetta l’ipotesi che la denominazione sarda, identica a quella
berbera, sia una reminiscenza atavica di lontane tradizioni comuni e così
commenta (p. 277): "Parlando delle sopravvivenze celtiche, dice il
Bertoldi: «Come nell’Irlanda odierna, anche nella Gallia antica una maggiore
cedevolezza della “materia” linguistica, suoni e forme, rispetto allo “spirito”
che resiste più tenace». Questo vale forse anche per la Sardegna; antichissime
usanze, superstizioni, leggende si mantengono più saldamente che non i fugaci
fenomeni linguistici".» Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro,
Ilisso, 1951–1997, p. 10. ^ Giovanni Battista Pellegrini, Carta dei dialetti
d'Italia, Pisa, Pacini, 1977, p. 17, 34. ^ Pellegrini, Giovanni Battista
(1970). La classificazione delle lingue romanze e i dialetti italiani, in Forum
Italicum, IV, pp.211-237 ^ Pellegrini, Giovanni Battista (1972). Saggi sul
ladino dolomitico e sul friulano, Bari, pp.239-268 ^ Pellegrini, Giovanni
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italiana. Storia, struttura, società, Torino, Boringhieri. ^ Bernardino
Biondelli, Studi linguistici, Milano, Giuseppe Bernardoni, 1856, p. 189.) ^
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in Archeografo triestino XXIX, pp. 129-151 ^ Pier Enea Guarnerio (1905). Il
sardo e il corso in una nuova classificazione delle lingue romanze, in Archivio
Glottologico Italiano, 16, pp. 491-516 ^ «In earlier times Sardinian probably
was spoken in Corsica, where Corsican (Corsu), a Tuscan dialect of Italian, is
now used (although French has been Corsica’s official language for two
centuries).» Sardinian
language, Encyclopedia Britannica. ^ «Evidence from early manuscripts suggests
that the language spoken throughout Sardinia, and indeed Corsica, at the end of
the Dark Ages was fairly uniform and not very different from the dialects
spoken today in the central (Nuorese) areas.» Martin Harris, Nigel Vincent
(2000). The Romance languages. London and New York: Routledge. p. 315. ^
«Sardinian is the only surviving Southern Romance language which was also
spoken in former times on the island of Corsica and the Roman province of North
Africa.» Georgina
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Del Mar Vanrell, Francesc Ballone, Carlo Schirru, Pilar Prieto (PDF). ^ Massimo Pittau, Sardo, Grafia, su pittau.it.
^ «Nel caso del sardo, essa ha prodotto la esistenza non di una, ma di due
lingue sarde, il "logudorese" e il "campidanese". La sua
costruzione storica ha origini ben precise e ricostruibili. Nel periodo di
esistenza del Regno di Sardegna, l'Isola era suddivisa in due Governatorati, il
Capo di Sopra e il Capo di Sotto. Nel XVIII secolo, il naturalista Francesco
Cetti, mandato da Torino a studiare la fauna e la natura della Sardegna, e quindi
a mappare anche i Sardi, riprese la partizione amministrativa da un celebre
commentario cinquecentesco della Carta de Logu utilizzato in ambienti
governativi, e la traslò in ambito linguistico. Se esisteva il Capo di Su e il
Capo di Sotto, doveva pur esistere un sardo di Su e un sardo di Sotto. Il primo
lo denominò logudorese, e il secondo campidanese.» Paolo Caretti et al.,
Regioni a statuto speciale e tutela della lingua, G. Giappichelli Editore,
2017, p. 79. ^ Marinella Lőrinczi, Confini e confini. Il valore delle isoglosse
(a proposito del sardo) (PDF), su people.unica.it, p. 9. ^ Eduardo Blasco
Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of
Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 16. ^ Roberto Bolognesi, Le
identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 137. ^ Salta a:a
b «In altre parole, queste divisioni del sardo in logudorese e campidanese sono
basate unicamente sulla necessità - chiarissima nel Cetti - di arrivare
comunque a una divisione della Sardegna in due "capi". […] La grande
omogeneità grammaticale del sardo viene ignorata, per quanto riguarda gli
autori tradizionali, in parte per mancanza di cultura linguistica, ma
soprattutto per la volontà, riscontrata esplicitamente in Spano e Wagner, di
dividere il sardo e i sardi in varietà "pure" e "spurie".
In altri termini, la divisione del sardo in due varietà nettamente distinte è
frutto di un approccio ideologico alla variazione dialettale in Sardegna».
Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes,
2013, p. 141. ^ Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi,
Cagliari, Condaghes, 2013, p. 138. ^ Roberto Bolognesi, Le identità
linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 93. ^ Una lingua unitaria
che non ha bisogno di standardizzazioni, Roberto Bolognesi. ^ Contini, Michel
(1987). Ètude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde,
Edizioni dell'Orso, Cagliari ^ Bolognesi R. & Heeringa W., 2005, Sardegna
fra tante lingue. Il contatto linguistico in Sardegna dal Medioevo a oggi,
Condaghes, Cagliari ^ Salta a:a b «Queste pretese barriere sono costituite da
una manciata di fenomeni lessicali e fonetico-morfologici che, comunque, non
impediscono la mutua comprensibilità tra parlanti di diverse varietà del sardo.
Detto questo, bisogna ripetere che le varie operazioni di divisione del sardo
in due varietà sono tutte basate quasi esclusivamente sull'esistenza di
pronunce diverse di lessemi (parole e morfemi) per il resto uguali. […] Come si
è visto, non solo la sintassi di tutte le varietà del sardo è praticamente
identica, ma la quasi totalità delle differenze morfologiche è costituita da
differenze, in effetti, lessicali e la percentuale di parole realmente
differenti si aggira intorno al 10% del totale.» Roberto Bolognesi, Le identità
linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 141. ^ Cf. Karl Jaberg,
Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, vol. 8, Zofingen,
Ringier, 1928. ^ «Noi ci atterremo alla partizione ormai classica che divide il
Sardo in tre principali dialetti: il Campidanese, il Nuorese, il Logudorese».
Maurizio Virdis, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Cagliari, Edizioni
Della Torre, 1978, p. 9. ^ Cf. Maria Teresa Atzori, Sardegna, Pisa, Pacini,
1982. ^ Günter Holtus, Michael Metzeltin, Christian Scmitt, Lexicon der
romanistischen Linguistik, vol. 4, Tübingen, Niemeyer, pp. 897-913. ^ Stima su
un campione di 2715 interviste: Anna Oppo, Le lingue dei sardi (PDF). URL
consultato il 15 ottobre 2009 (archiviato dall'url originale il 7 gennaio
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minoranza negata: i Tabarchini, Fiorenzo Toso - Treccani. ^ Meyer Lübke,
Grammatica storica della lingua italiana e dei dialetti toscani, 1927, riduzione
e traduzione di M. Bartoli, Torino, Loesher, 1972, p. 216. Sta in Francesco
Bruni, op. cit., 1992 e 1996, p. 562. ^ «Le lingue che si parlano in Sardegna
si possono dividere in istraniere, e nazionali. Straniera totalmente è la
lingua d'Algher, la quale è la catalana, a motivo che Algher medesimo è una
colonia di Catalani. Straniera pure si deve avere la lingua che si parla in
Sassari, Castelsardo e Tempio; è un dialetto italiano, assai più toscano, che
non la maggior parte de’ medesimi dialetti d'Italia.» Francesco Cetti, Storia
naturale della Sardegna. I quadrupedi, Sassari, 1774. ^ Giovanni Floris, L'uomo
in Sardegna: aspetti di antropobiologia ed ecologia umana, Sestu, Zonza, 1998,
p. 207. ^ Cfr. Francesco Mameli, Il logudorese e il gallurese, Villanova
Monteleone, Soter editrice, 1998. ^ Mauro Maxia, Studi sardo-corsi, 2010, p.69
^ Francesco Bruni, op. cit., 1992 e 1996. p. 562. ^ Le lingue dei Sardi (PDF).,
Sito della Regione Autonoma della Sardegna, Anna Oppo (curatrice del rapporto
finale) e AA. Vari (Giovanni Lupinu, Alessandro Mongili, Anna Oppo, Riccardo
Spiga, Sabrina Perra, Matteo Valdes), Cagliari, 2007, p. 69. ^ Eduardo Blasco Ferrer
(2010), pp. 137-152. ^ Mary Carmen Iribarren Argaiz, Los vocablos en -rr- de la
lengua sarda, su dialnet.unirioja.es, 16 aprile 2017. ^ «Sardinia was under the
control of Carthage from around 500BC. It was conquered by Rome in 238/7 BC,
but was isolated and apparently despised by the Romans, and Romanisation was
not rapid.» James Noel Adams (9 January 2003). Bilingualism and the Latin Language.
Cambridge University Press. p. 209. ISBN 9780521817714 ^ «Although it is an
established historical fact that Roman dominion over Sardinia lasted until the
fifth century, it has been argued, on purely linguistic grounds, that
linguistic contact with Rome ceased much earlier than this, possibly as early
as the first century BC.» Martin Harris, Nigel Vincent (2000). The Romance
languages. London and New York: Routledge. p. 315 ^ Ignazio Putzu, "La
posizione linguistica del sardo nel contesto mediterraneo", in Neues aus
der Bremer Linguistikwerkstatt: aktuelle Themen und Projekte, ed. Cornelia
Stroh (Bochum: Universitätsverlag Dr. N. Brockmeyer, 2012), 183. ^ «The last to
use that idiom, the inhabitants of the Barbagia, renounced it in the 7th
century together with paganism in favor of Latin, still an archaic substratum
in the Sardinian language.» Proceedings, VII Congress, Boulder-Denver,
Colorado, August 14-September 19, 1965, International Association for
Quaternary Research, Indiana University Press, p. 28. ^ «E viceversa gli scrittori romani giudicavano la
Sardegna una terra malsana, dove dominava la pestilentia (la malaria), abitata
da popoli di origine africana ribelli e resistenti, impegnati in latrocinia ed
in azioni di pirateria che si spingevano fino al litorale etrusco; un luogo
terribile, scarsamente urbanizzato, destinato a diventare nei secoli la terra
d’esilio per i condannati ad metalla». Attilio Mastino, Storia della Sardegna
antica, 2ª ed., Il Maestrale, 2009, pp. 15-16. ^ «Cicerone in particolare
odiava i Sardi per il loro colorito terreo, per la loro lingua incomprensibile,
per l’antiestetica mastruca, per le loro origini africane e per l’estesa
condizione servile, per l’assenza di città alleate dei Romani, per il rapporto
privilegiato dei Sardi con l’antica Cartagine e per la resistenza contro il
dominio di Roma.» Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, 2ª ed., Il
Maestrale, 2009, p. 16. ^ Heinz Jürgen Wolf, pp. 19-20. ^ Salta a:a b Giovanni
Lupinu, Storia della lingua sarda (PDF), su vatrarberesh.it, 19 aprile 2017. ^
Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Editori Laterza,
2009, p. 170. ^ Per una lista di vocaboli considerati ormai già desueti
all'epoca di Varrone, cf. Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo,
Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter
Mouton, 2017, pp. 89-90. ^ (HU) András Bereznay, Erdély történetének atlasza,
Méry Ratio, 2011, p. 63, ISBN 978-80-89286-45-4. ^ F.C.Casùla(1994), p. 110. ^ Huiying Zhang,
From Latin to the Romance languages: A normal evolution to what extent? (PDF),
in Quarterly Journal of Chinese Studies, vol. 3, n. 4, 2015, pp. 105-111. URL consultato il 1º febbraio 2019 (archiviato
dall'url originale il 19 gennaio 2018). ^ «Dopo la dominazione vandalica,
durata ottanta anni, la Sardegna ritornava di nuovo all’impero, questa volta a
quello d’Oriente. Anche sotto i Bizantini la Sardegna rimase alle dipendenze
dell’esarcato africano, ma l’amministrazione civile fu separata da quella
militare; alla prima fu preposto un praeses, alla seconda un dux; tutti e due
erano alle dipendenze del praefectus praetorii e del magister militum africani.»
Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997, p. 64. ^
Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La
"documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda,
1978, p. 46, 48. ^ Salta a:a b c Luigi Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna : le
invasioni arabe in Sardegna dal 704 al 1016, Cagliari, Edizioni della Torre,
1977, p. 16. ^ M. Wescher e M. Blancard, Charte sarde de l’abbaye de Saint-Victor de
Marseille écrite en caractères grecs, in "Bibliothèque de l’ École des
chartes", 35 (1874), pp. 255–265. ^ Alessandro Soddu, Paola Crasta, Giovanni Strinna, Un’inedita carta
sardo-greca del XII secolo nell’Archivio Capitolare di Pisa (PDF). ^ Privilegio
Logudorese, su it.wikisource.org. URL consultato il 1º ottobre 2017. ^ Max
Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997, p. 180. ^ Luigi
Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna : le invasioni arabe in Sardegna dal 704 al
1016, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 30. ^ Max Leopold Wagner, La
lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997, p. 65. ^ Cfr. Francesco Cesare Casula,
Glossario di autonomia Sardo-Italiana. Presentazione del 2007 di Francesco
Cossiga, Logus, 2013, ISBN 9788898062140. ^ Francesco Cesare Casula, Breve
storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca
aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 49. ^ Francesco Cesare Casula,
Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria"
nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 49, 64. ^ «La lingua
sarda acquisì dignità di lingua nazionale già dall'ultimo scorcio del secolo XI
quando, grazie a favorevoli circostanze storico-politiche e sociali, sfuggì
alla limitazione dell'uso orale per giungere alla forma scritta, trasformandosi
in volgare sardo». Cecilia Tasca, Manoscritti e lingua sarda, Cagliari, La memoria
storica, 2003, p. 15. ^ «I Sardi inoltre sono i primi fra tutti i popoli di
lingua romanza a fare della lingua comune della gente, la lingua ufficiale
dello Stato, del Governo…» Mario Puddu, Istoria de sa limba sarda, Selargius,
Ed. Domus de Janas, 2002, p. 14. ^ Gian Giacomo Ortu, La Sardegna dei Giudici,
Il Maestrale, 2005, p. 264. ^ Maurizio Virdis, Le prime manifestazioni della
scrittura nel cagliaritano, in Judicalia, Atti del Seminario di Studi Cagliari
14 dicembre 2003, a cura di B. Fois, Cagliari, Cuec, 2004, pp. 45-54. ^ «Un
caso unico - e a parte - nel dominio romanzo è costituito dalla Sardegna, in
cui i documenti giuridici incominciano ad essere redatti interamente in volgare
già alla fine dell'XI secolo e si fanno più frequenti nei secoli successivi.
[...] L'eccezionalità della situazione sarda nel panorama romanzo consiste -
come si diceva - nel fatto che tali testi sono stati scritti sin dall'inizio
interamente in volgare. Diversamente da quanto succede a questa altezza
cronologica (e anche dopo) in Francia, in Provenza, in Italia e nella Penisola
iberica, il documento sardo esclude del tutto la compresenza di volgare e
latino. (...) il sardo era usato prevalentemente in documenti a circolazione
interna, il latino in documenti che concernevano il rapporto con il
continente.» Lorenzo Renzi, Alvise Andreose, Manuale di linguistica e filologia
romanza, Il Mulino, 2009, pp. 256-257. ^ Livio Petrucci, Il problema delle
Origini e i più antichi testi italiani, in Storia della lingua italiana, vol.
3, Torino, Einaudi, p. 58. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della
scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese,
Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 50. ^ Salta a:a b Salvatore Tola, La
Letteratura in Lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p.
11. ^ Salta a:a b «Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi
videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam
tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur.»
Dantis Alagherii De Vulgari Eloquentia., Liber Primus, The Latin Library (Lib.
I, XI, 7) ^ Salta a:a b «Eliminiamo anche i Sardi (che non sono Italiani, ma
sembrano accomunabili agli Italiani) perché essi soli appaiono privi di un
volgare loro proprio e imitano la "gramatica" come le scimmie imitano
gli uomini: dicono infatti "domus nova" e "dominus meus".»
De Vulgari Eloquentia. URL consultato il 9 giugno 2019 (archiviato dall'url
originale l'11 aprile 2018)., parafrasi e note a cura di Sergio Cecchin.
Edizione di riferimento: Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino
1986 ^ Salta a:a b Marinella Lőrinczi, La casa del signore. La lingua sarda nel
De vulgari eloquentia (PDF). ^ Domna, tant vos ai preiada (BdT 392.7), vv.
74-75. ^ Leopold Wagner, Max. La lingua sarda, a cura di Giulio Paulis
(archiviato dall'url originale il 26 gennaio 2016). - Ilisso, pp.78 ^ Salvi,
Sergio. Le lingue tagliate: storia delle minoranze linguistiche in Italia,
Rizzoli, 1975, p. 195 ^ Rebecca Posner, John N. Green (1982). Language and
Philology in Romance. Mouton Publishers. p. 178 ^ Alberto Varvaro, Identità
linguistiche e letterarie nell'Europa romanza, Roma, Salerno Editrice, p. 231,
ISBN 8884024463. ^ Le sarde, una langue normale - Jean-Pierre Cavaillé. ^ Dittamondo
III XII 56 ss. ^ Archivio Cassinense Perg. Caps. XI, n. 11 " e "TOLA
P., Codice Diplomatico della Sardegna, I, Sassari, 1984, p. 153 ^ Giovanni
Strinna, La carta di Nicita e la clausula defensionis (PDF). ^ Corrado Zedda,
Raimondo Pinna, (2009) La Carta del giudice cagliaritano Orzocco Torchitorio,
prova dell'attuazione del progetto gregoriano di riorganizzazione della
giurisdizione ecclesiastica della Sardegna. Collana dell'Archivio storico e
giuridico sardo di Sassari. Nuova serie, 10 Todini, Sassari. (PDF), su
archiviogiuridico.it. URL consultato il 2 ottobre 2017 (archiviato dall'url
originale il 4 marzo 2016). ^ Il primo testo legislativo in lingua sarda ^
Testo completo, su nuraghe.eu. ^ Salta a:a b Salvatore Tola, La Letteratura in
Lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p. 17. ^ «Ma,
prescindendo dalle divergenze stilistiche e da altri particolari minori, si può
dire che la lingua dei documenti antichi è assai omogenea e che, ad ogni modo,
l’originaria unità della lingua sarda vi si intravede facilmente.» Max Leopold
Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951-1997, p. 84. ^ Carlo Tagliavini,
Le origini delle lingue neolatine, Bologna, Patron, 1964, p. 450. ^ Salta a:a b
Eduardo Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Walter de Gruyter, 1º
gennaio 1984, p. 133, ISBN 978-3-11-132911-6. URL consultato il 6 marzo 2016. ^
Francesco Bruni, Storia della lingua italiana, Dall'Umbria alle Isole, vol. 2,
Torino, Utet, p. 582, ISBN 88-11-20472-0.. ^ Antonietta Orunesu, Valentino
Pusceddu (a cura di). Cronaca medioevale sarda: i sovrani di Torres, 1993,
Astra, Quartu S. Elena, p. 11. ^ Tale indirizzo politico, poi palesatosi con la
lunga guerra sardo-catalana, era già manifesto nel 1164 sotto la reggenza di
Barisone I de Lacon-Serra, il cui sigillo recava le iscrizioni, di tipo
decisamente "sardista" (Casula, Francesco Cesare. La scrittura in
Sardegna dal nuragico ad oggi, Carlo Delfino Editore, p.91) Baresonus Dei
Gratia Rei Sardiniee ("Barisone, per grazia di Dio Re di Sardegna") e
Est vis Sardorum pariter regnum Populorum ("È la forza dei Sardi pari al
regno dei Popoli"). ^ Salta a:a b «I sardi di Arborea si allearono ai
catalani per cacciare gli italiani. I pisani, battuti, lasciarono l'isola nel
1326. I genovesi seguirono la stessa sorte nel 1348. La nuova dominazione
innesca però una sorta di rudimentale sentimento nazionale isolano. I sardi,
cacciati finalmente i vecchi dominatori (gli italiani) intendono cacciare anche
i catalani. Mariano IV di Arborea vuole infatti unificare l'isola sotto il suo
scettro e impegna a tal punto le forze catalane che Pietro IV di Aragona è
costretto a venire di persona nell'isola al comando di un nuovo esercito per
consolidare la sua conquista.» Sergio Salvi, Le lingue tagliate, Rizzoli, 1974,
p. 179. ^ «È evidente», scrive Francesco Cesare Casula, «che la diversità di
lingua e forse un atteggiamento di superiorità nei confronti dei Sardi da parte
degli Aragonesi mal accetto in generale e in particolare in un Paese che si
considerava sovrano fece sì che l'Arborea si mantenesse fedele alla tradizione
italiana ormai recepita da secoli e adattata alle esigenze locali.» Francesco
Cesare Casula, Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu,
sta in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari, 1979, 3 tomi, p. 71-109. La
citazione si trova in: Francesco Bruni (direttore), AA.VV. Storia della lingua
italiana, vol. II, Dall'Umbria alle Isole, Utet, Torino, 1992 e 1996, Garzanti,
Milano, 1996, p. 581, ISBN 88-11-20472-0. ^ Lo studio delle fonti documentarie
di Arborea effettuato da Francesco Cesare Casula rileverebbe, a detta
dell'autore, non solo una qual certa influenza toscana, ma persino
«un'affermazione di italianità». Francesco Cesare Casula, op. cit., 1979, p.
87; sta in Francesco Bruni (direttore), op. cit., vol II 1992 e 1996, p. 584. ^
Francesco Bruni (direttore), op. cit., vol. II, 1992 e 1996, p. 584-585. ^
Eduardo Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Tübingen, Niemeyer,
1984, p. 132. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in
Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice
Democratica Sarda, 1978, p. 83. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della
scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese,
Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 57. ^ Francesco Cesare Casula sostiene che
«chi non parlava o non capiva il sardo, per timore che fosse aragonese, veniva
ucciso», riportando il caso di due giocolieri siciliani che, trovandosi a Bosa
in quel periodo, furono aggrediti perché «creduti iberici per la loro lingua
incomprensibile». Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in
Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice
Democratica Sarda, 1978, pp. 56-57. ^ Cfr. Francesco Cesare Casula, Le rivolte
antiaragonesi nella Sardegna regnicola, 5, in Il Regno di Sardegna, vol. 1,
Logus, ISBN 9788898062102. ^ Ibidem ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia
della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese,
Editrice Democratica Sarda, 1978, pp. 38-39. ^ Francesco Cesare Casula, Profilo
storico della Sardegna catalano-aragonese, Cagliari, Edizioni della Torre,
1982, p. 128. ^ Proto Arca Sardo; Maria Teresa Laneri, De bello et interitu
marchionis Oristanei, Cagliari, CUEC, 2003. URL consultato il 17 marzo 2022 (archiviato
dall'url originale il 4 agosto 2020). ^ Max Leopold Wagner, La lingua sarda.
Storia, spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, pp. 68-69. ^ Francesco Cesare
Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria"
nell'epoca aragonese, Cagliari, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 29. ^
Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La
"documentaria" nell'epoca aragonese, Cagliari, Editrice Democratica
Sarda, 1978, p. 28. ^ Francesco Cesare Casula, La Sardegna catalano-aragonese,
6, in Il Regno di Sardegna, vol. 2, Logus, ISBN 9788898062102. ^ Francesco C.
Casula, La storia di Sardegna, 1994, p. 424. ^ Salta a:a b «[I Sardi] parlano
una loro lingua peculiare, il sardo, sia in versi che in prosa, e questo in particolare
nel Capo del Logudoro ove è più pura, più ricca ed elegante. E giacché sono
immigrati qui, e ogni giorno ve ne giungono altri per praticarvi il commercio,
molti spagnoli (tarragonesi o catalani) e italiani, si parlano anche le lingue
spagnola (tarragonese o catalana) e quella italiana, sicché in un medesimo
popolo si dialoga in tutti questi idiomi. I Cagliaritani e gli Algheresi si
esprimono però, in genere, nella lingua dei loro maggiori, cioè il catalano,
mentre gli altri conservano quella autentica dei Sardi.» Testo originale:
«[Sardi] Loquuntur lingua propria sardoa, tum ritmice, tum soluta oratione,
praesertim in Capite Logudorii, ubi purior copiosior, et splendidior est. Et
quia Hispani plures Aragonenses et Cathalani et Itali migrarunt in eam, et commerciorum
caussa quotidie adventant, loquuntur etiam lingua hispanica et cathalana et
italica; hisque omnibus linguis concionatur in uno eodemque populo. Caralitani
tamen et Algharenses utuntur suorum maiorum lingua cathalana; alii vero
genuinam retinent Sardorum linguam.» Ioannes Franciscus Fara, De Chorographia
Sardiniæ Libri duo. De Rebus Sardois Libri quatuor, Torino, Typographia regia,
1835-1580, p. 51. Traduzione di Giovanni Lupinu, da Ioannis Francisci Farae
(1992-1580), In Sardiniae Chorographiam, v.1, "Sulla natura e usi dei
Sardi", Gallizzi, Sassari. ^ Max Leopold Wagner, La lingua sarda. Storia,
spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 185. ^ Salta a:a b c Francesco
Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo (secoli XVI-XVII), Il Maestrale,
2010, p. 24. ^ Cfr. J. Dexart, Capitula sive acta curiarum Regni Sardiniae,
Calari, 1645. lib. I, tit. 4, cap. 1 ^ «Tutta la popolazione sarda che non
abitava le città e che era vassalla nei feudi era retta dalla Carta de Logu,
promulgata da Eleonora d’Arborea verso il 1395 e dichiarata legge nazionale dei
Sardi da Alfonso V nel parlamento tenuto in Cagliari nel 1421.» Max Leopold
Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 69. ^
Max Leopold Wagner, La lingua sarda: storia, spirito e forma, Bern, Francke,
1951, p. 186. ^ Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di
linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p.
33. ^ Antonio Nughes, Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, Edizioni del Sole,
1990, pp. 417-423 ^ Antonio Nughes, Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo,
Edizioni del Sole, 1990, p. 236 ^ Paolo Maninchedda, Il più antico catechismo
in sardo. Bollettino di studi sardi, anno XV n. 15/2022. ^ Gessner, Conrad
(1555). De differentiis linguarum tum veterum tum quae hodie apud diversas
nationes in toto orbe terraru in usu sunt., Sardorum lingua: pp. 66-67. ^
Sigismondo Arquer; Maria Teresa Laneri, Sardiniae brevis historia et descriptio
(PDF), CUEC, 2008, pp. 30-31. URL consultato il 19 marzo 2022 (archiviato
dall'url originale il 29 dicembre 2020)... «certamente i sardi ebbero un tempo
una lingua propria, ma poiché diversi popoli immigrarono nell'isola e il suo
governo fu assunto da sovrani stranieri (vale a dire da Latini, Pisani, Genovesi,
Spagnoli e Africani), la loro lingua fu pesantemente corrotta, pur rimanendo un
gran numero di vocaboli che non si ritrovano in alcun idioma. Ancor oggi essa
conserva molti vocaboli della parlata latina. […] È per questo che i sardi, a
seconda delle zone, parlano in maniera tanto diversa: appunto perché ebbero una
dominazione così varia; ciò nonostante, fra loro si comprendono perfettamente.
In questa isola vi sono comunque due lingue principali, una che si usa nelle
città e un'altra che si usa al di fuori delle città: i cittadini parlano
comunemente la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che appresero dagli
ispanici, i quali ricoprono in quelle città la gran parte delle magistrature;
gli altri, invece, conservano la lingua genuina dei sardi.» Testo originale:
«Habuerunt quidem Sardi linguam propriam, sed quum diversi populi immigraverint
in eam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe
Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua
eorum, relictis tamen plurimis vocabulis, quae in nullo inveniuntur idiomate.
[…] Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur, iuxta quod tam
varium habuerunt imperium, etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt
autem duae praecipuae in ea insula linguae, una qua utuntur in civitatibus, et
altera qua extra civitates. Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica,
Tarraconensi seu Catalana, quam didicerunt ab Hispanis, qui plerumque
magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum
Linguam.» Sigismondo Arquer; Maria Teresa Laneri, Sardiniae brevis historia et
descriptio (PDF), CUEC, 2008, pp. 30-31. ^ Turtas, Raimondo (1981). La
questione linguistica nei collegi gesuitici in Sardegna nella seconda metà del
Cinquecento, in "Quaderni sardi di storia" 2, p. 60. ^ Giancarlo
Sorgia, Storia della Sardegna spagnola, Sassari, Chiarella, 1987, p. 37. ^ Max
Leopold Wagner, op. cit., 1951, p. 391 e Antonio Sanna, Il dialetto di Sassari,
Cagliari, Trois, 1975, p. 18 e seg. Entrambi sono in Francesco Bruni, op. cit.,
1992 e 1996, p. 562 ^ Bruno Migliorini, Breve storia della lingua italiana,
Firenze, Sansoni, 1969, p. 138. ^ «Per quant en lo present regne hi ha algunes citats,
com es la vila de Iglesias y Bosa, que tenen capitol de breu, ab lo qual se
regexen, y son en llengua pisana o italiana; y por lo semblant la ciutat de
Sasser té alguns capitols en llengua genovese o italiana; y per quant se veu no
convé ni es just que lleys del regne stiguen en llengua strana, que sia
provehit y decretat que dits capitols sien traduhits en llengua sardesca o
catalana, y que los de llengua italiana sien abolits, talment que no reste memoria
de aquells». E. Bottini-Massa, La
Sardegna sotto il dominio spagnolo, Torino, 1902, p. 51. ^ Salta a:a b c d e f
Jordi Carbonell i de Ballester, 5.2, in Elements d'història de la llengua
catalana, Publicacions de la Universitat de València, 2018. ^ Salta a:a b Sa
Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (PDF), su
filologiasarda.eu. URL consultato il 30 giugno 2018. ^ G. Siotto-Pintor, Storia
letteraria di Sardegna, I, Torino, 1843, p. 108. ^ Max Leopold Wagner, La
lingua sarda. Storia, spirito e forma, Berna, Francke, Verlag, 1951, p. 185 ^
Francesco Bruni, op. cit.. 1992 e 1996. p. 584. ^ Salta a:a b «First attempts at national
self-assertion through language date back to the 16th century, when G. Araolla,
a speaker of Sassarese, wrote a poem intended to enrich and honour the
Sardinian language.» Rebecca Posner, John N. Green, Bilingualism and Linguistic
Conflict in Romance, De Gruyter Mouton, 1993, p. 286. ^ «Intendendo esservi una "naturalità" della
lingua propria delle diverse "nazioni", così come v'è la lingua
naturale della "nazione sarda", espressione, quest'ultima, non usata
ma ben sottintesa.» Ignazio Putzu, Gabriella Mazzon, Lingue, letterature,
nazioni. Centri e periferie tra Europa e Mediterraneo, Franco Angeli Edizioni,
2013, p. 597. ^ Salta a:a b Eduardo Blasco Ferrer, Giorgia Ingrassia (a cura
di). Storia della lingua sarda: dal paleosardo alla musica rap, evoluzione
storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di brani esemplari
commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 92. ^ Francesco Bruni, op. cit., 1992
e 1996, p. 591 ^ Vicenç Bacallar, el sard botifler als orígens de la Real
Academia Española - VilaWeb. ^
Salta a:a b Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani,
Editori Laterza, 2009, p. 9. ^ Francesco Bruni, op. cit., 1992 e 1996, p. 584.
^ Ci si riferisce allo statuto della Confraternita del SS. Sacramento, fondata
nel 1639 e della costituzione di quella dei Servi di Maria. Francesco Bruni,
op. cit., 1882 e 1996, p. 591. ^ Giancarlo Sorgia, Storia della Sardegna
spagnola, Sassari, Chiarella, 1987, p. 168. ^ Antonio Virdis, Sos battudos.
Movimenti religiosi penitenziali in Logudoro, L'Asfodelo Editore, 1987 ^ «Il
brano qui riportato non è soltanto illustrativo di una chiara evoluzione di
diglossia con bilinguismo dei ceti medio-alti (il cavaliere sa lo spagnolo e il
sardo), ma anche di un rapporto gerarchico, tra lingua dominante (o "egèmone",
come direbbe Gramsci) e subordinata, che tuttavia concede spazio al codice
etnico, rispettato e persino appreso dai conquistatori.» Eduardo Blasco Ferrer,
Giorgia Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal paleosardo alla
musica rap, evoluzione storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di
brani esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 99. ^ Francesco
Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo (secoli XVI-XVII), Il Maestrale,
2010, p. 35. ^ «Los tercios españoles solo podían ser comandados por soldados que
hablasen castellano, catalán, portugués o sardo. Cualquier otro tenía vedado su
ascenso, por eso los italianos que chapurreaban español se hacían pasar por
valencianos para intentar su promoción.» (ES) Vicente G. Olaya, La segunda vida
de los tercios, in El País, 6 gennaio 2019. URL consultato il 4 giugno 2019. ^ Michelle Hobart, A
Companion to Sardinian History, 500–1500, Leiden, Boston, Brill, 2017, pp.
111-112. ^ Raimondo Turtas, Studiare, istruire, governare. La formazione dei
letrados nella Sardegna spagnola, EDES, 2001, p. 236. ^ «Totu sas naziones
iscrient e imprentant sos libros in sas propias limbas nadias e duncas peri sa
Sardigna – sigomente est una natzione – depet iscriere e imprentare sos libros
in limba sarda. Una limba chi de seguru bisongiat de irrichimentos e de afinicamentos,
ma non est de contu prus pagu de sas ateras limbas neolatinas.» ("Tutte le
nazioni scrivono e stampano libri nella propria lingua natale, e dunque anche
la Sardegna - dal momento che è una nazione - deve scrivere e stampare libri in
lingua sarda. Una lingua - segue il Garipa - che senza dubbio necessita di
arricchimenti e limature, ma non è meno importante rispetto alle altre lingue
neolatine."). Casula, Francesco. Sa chistione de sa limba in Montanaru e
oe (PDF). ^ Paolo Maninchedda (2000): Nazionalismo, cosmopolitismo e
provincialismo nella tradizione letteraria della Sardegna (secc. XV–XVIII), in:
Revista de filología Románica, 17, p. 178. ^ Salvi, Sergio (1974). Le lingue
tagliate, Rizzoli, pg. 180. ^ Salta a:a b Manlio Brigaglia, La Sardegna, 1. La
geografia, la storia, l'arte e la letteratura, Cagliari, Edizioni Della Torre,
1982, p. 65. ^ «I territori della casa di Savoia si allargano fino al Ticino;
importante è l'annessione della Sardegna (1718), perché la vita amministrativa
e culturale dell'isola, che prima si svolgeva in spagnolo, si viene orientando,
seppur molto lentamente, verso la lingua italiana». Bruno Migliorini, Breve
storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1969, p. 214. ^ M. Lepori,
Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona della Sardegna del Settecento (Roma,
2003) ^ Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di
linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 169. ^ Joaquín
Arce (1960), España en Cerdeña. Aportación cultural y testimonios de su
influjo, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Instituto
«Jerónimo Zurita», p. 128. ^
Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda.
Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, pp. 168-169. ^ Eduardo
Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals
of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 201. ^ Manlio Brigaglia, La
Sardegna, 1. La geografia, la storia, l'arte e la letteratura, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 1982, p. 64. ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in
Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in
Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 86-87. ^ Roberto Palmarocchi
(1936). Sardegna sabauda. Il regime di Vittorio Amedeo II. Cagliari: Tip.
Mercantile G. Doglio. p. 95. ^ Palmarocchi, Roberto (1936). Sardegna sabauda,
v. I, Tip. Mercantile G. Doglio, Cagliari, p. 87. ^ Cardia, Amos (2006).
S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi
e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, p. 86 ^ Eduardo
Blasco Ferrer, Giorgia Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal
paleosardo alla musica rap, evoluzione storico-culturale, letteraria,
linguistica. Scelta di brani esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec,
Cagliari, p. 110 ^ Rossana Poddine Rattu. Biografia dei viceré sabaudi del
Regno di Sardegna (1720-1848). Cagliari: Della Torre. p. 31. ^ Luigi La Rocca,
La cessione del Regno di Sardegna alla Casa Sabauda. Gli atti diplomatici e di
possesso con documenti inediti, in "Miscellanea di Storia Italiana. Terza
Serie", v.10, Torino, Fratelli Bocca, 1905, pp. 180-188. ^ Eduardo Blasco
Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo (2017). Manuale di linguistica sarda. Manuals
of Romance linguistics. De Gruyter Mouton. p. 210. ^ «… La più diffusa, e
storicamente precocissima, consapevolezza dell'isola circa lo statuto di
"lingua a sé" del sardo, ragion per cui il rapporto tra il sardo e
l'italiano ha teso a porsi fin dall'inizio nei termini di quello tra due lingue
diverse (benché con potere e prestigio evidentemente diversi), a differenza di
quanto normalmente avvenuto in altre regioni italiane, dove, tranne forse nel
caso di altre minoranze storiche, la percezione dei propri "dialetti"
come "lingue" diverse dall'italiano sembrerebbe essere un fatto
relativamente più recente e, almeno apparentemente, meno profondamente e
drammaticamente avvertito.» Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo,
Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter
Mouton, 2017, p. 209. ^ «La consapevolezza di alterità rispetto all'italiano si
spiega facilmente non solo per i quasi 400 anni di fila sotto il dominio
ispanico, che hanno agevolato nei sardi, rispetto a quanto avvenuto in altre
regioni italiane, una prospettiva globalmente più distaccata nei confronti
della lingua italiana, ma anche per il fatto tutt'altro che banale che già i
catalani e i castigliani consideravano il sardo una lingua a sé stante, non
solo rispetto alla propria ma anche rispetto all'italiano.» Eduardo Blasco
Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of
Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 210. ^ Eduardo Blasco Ferrer,
Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance
linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 209. ^ L'ufficiale Giulio Bechi ebbe a
dire dei sardi che parlavano «un terribile idioma, intricato come il saraceno,
sonante come lo spagnolo. [...] immagina del latino pestato nel mortaio con del
greco e dello spagnolo, con un pizzico di saraceno, masticato fitto fitto in
una barba con delle finali in os e as; sbatti tutto questo in faccia a un
mortale e poi dimmi se non val lo stesso esser sordomuti!» Giulio Bechi, Caccia
grossa. Scene e figure del banditismo sardo, Nuoro, Ilisso, 1997, 1900, p. 43,
64. ^ «Lingue fuori dell'Italiano e del Sardo nessuno ne impara, e pochi uomini
capiscono il francese; piuttosto lo spagnuolo. La lingua spagnuola s'accosta
molto anche alla Sarda, e poi con altri paesi poco sono in relazione. [...] La
popolazione della Sardegna pare dalli suoi costumi, indole, etc., un misto di
popoli di Spagna, e del Levante conservano vari usi, che hanno molta analogia
con quelli dei Turchi, e dei popoli del Levante; e poi vi è mescolato molto
dello Spagnuolo, e dirò così, che pare una originaria popolazione del Levante
civilizzata alla Spagnuola, che poi coll'andare del tempo divenne più
originale, e formò la Nazione Sarda, che ora distinguesi non solo dai popoli
del Levante, ma anche da quelli della Spagna.» Francesco D'Austria-Este,
Descrizione della Sardegna (1812), ed. Giorgio Bardanzellu, Cagliari, Della
Torre, 1993, 1812, p. 43, 64. ^ […]«È tanto nativa per me la lingua italiana,
come la latina, francese o altre forestiere che solo s'imparano in parte colla
grammatica, uso e frequente lezione de' libri, ma non si possiede appieno»
diceva infatti Andrea Manca Dell'Arca, agronomo sassarese della fine del
Settecento ('Ricordi di Santu Lussurgiu di Francesco Maria Porcu In Santu
Lussurgiu dalle Origini alla "Grande Guerra" - Grafiche editoriali
Solinas - Nuoro, 2005) ^ Francesco Sabatini, Minoranze e culture regionali
nella storiografia linguistica italiana, in I dialetti e le lingue delle
minoranze di fronte all'italiano (Atti dell'XI Congresso internazionale di
studi della SLI, Società di linguistica italiana, a cura di Federico Albano
Leoni, Cagliari, 27-30 maggio 1977 e pubblicati da Bulzoni, Roma, 1979, p. 14.)
^ «L'italianizzazione dell'isola fu un obiettivo fondamentale della politica
sabauda, strumentale a un più ampio progetto di assimilazione della Sardegna al
Piemonte.» Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita
d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola,
Iskra, Ghilarza, p. 92 ^ «En aquest sentit, la italianització definitiva de
l'illa representava per a ell l'objectiu més urgent, i va decidir de
contribuir-hi tot reformant les Universitats de Càller i de Sàsser,
bandejant-ne alhora els jesuïtes de la direcció per tal com mantenien encara
una relació massa estreta amb la cultura espanyola. El ministre Bogino havia entès que
només dins d'una Universitat reformada podia crear-se una nova generació de
joves que contribuïssin a homogeneïtzar de manera absoluta Sardenya amb el
Piemont.» Joan Armangué i Herrero (2006). Represa i exercici de la consciència
lingüística a l'Alguer (ss. XVIII-XX), Arxiu de Tradicions de l'Alguer,
Cagliari, I.1 ^ The phonology of Campidanian Sardinian : a unitary account of a
self-organizing structure, Roberto Bolognesi, The Hague: Holland Academic
Graphics, p. 3 ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848;
poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 88, 91. ^
«Ai funzionari sabaudi, inseriti negli ingranaggi dell'assolutismo burocratico
ed educati al culto della regolarità e della precisione, l'isola appariva come
qualcosa di estraneo e di bizzarro, come un Paese in preda alla barbarie e
all'anarchia, popolato di selvaggi tutt'altro che buoni. Era difficile che quei
funzionari potessero considerare il diverso altrimenti che come puro negativo.
E infatti essi presero ad applicare alla Sardegna le stesse ricette applicate
al Piemonte. Dirigeva la politica per la Sardegna il ministro Bogino, ruvido e
inflessibile.». Guerci, Luciano (2006). L'Europa del Settecento : permanenze e
mutamenti , UTET, p. 576 ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu,
cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi
spanniola, Iskra, Ghilarza, p.80 ^ Salta a:a b c Manlio Brigaglia, La Sardegna,
1. La geografia, la storia, l'arte e la letteratura, Cagliari, Edizioni Della
Torre, 1982, p. 77. ^ Salta a:a b Bolognesi, Roberto; Heeringa, Wilbert.
Sardegna fra tante lingue, pp.25, 2005, Condaghes ^ Salta a:a b Salvi, Sergio
(1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, pg. 181 ^ «In Sardegna, dopo il passaggio
alla casa di Savoia, lo spagnolo perde terreno, ma lentissimamente: solo nel
1764 l'italiano diventa lingua ufficiale nei tribunali e nell'insegnamento».
Bruno Migliorini, La Rassegna della letteratura italiana, vol. 61, Firenze, Le
Lettere, 1957, p. 398. ^ «Anche la sostituzione dell'italiano allo spagnolo non
avvenne istantaneamente: quest'ultimo restò lingua ufficiale nelle scuole e nei
tribunali fino al 1764, anno in cui da Torino fu disposta una riforma delle
università di Cagliari e Sassari e si stabilì che l'insegnamento scolastico
dovesse essere solamente in italiano.» Michele Loporcaro, Profilo linguistico
dei dialetti italiani, Editori Laterza, 2009, p. 9. ^ Cardia, Amos (2006).
S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi
e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, p. 89 ^ «L'attività
riformatrice si allargò anche ad altri campi: scuole in lingua italiana per
riallacciare la cultura isolana a quella del continente, lotta contro il
banditismo, ripopolamento di terre e ville deserte con Liguri, Piemontesi,
Còrsi.» Roberto Almagia et al., Sardegna, Enciclopedia Italiana (1936).,
Treccani, "Storia". ^ Rivista storica italiana, vol. 104, Edizioni
scientifiche italiane, 1992, p. 55. ^ Clemente Caria, Canto sacro-popolare in
Sardegna, Oristano, S'Alvure, 1981, p. 45. ^ Sant'Efisio cantato in
castigliano: rinvenuti gosos dell'800, su unionesarda.it, 2017. ^ «Il sistema
di controllo capillare, in ambito amministrativo e penale, che introduce il
Governo sabaudo, rappresenterà, fino all'Unità, uno dei canali più diretti di
contatto con la nuova lingua "egemone" (o lingua-tetto) per la
stragrande maggioranza della popolazione sarda.» Eduardo Blasco Ferrer, Giorgia
Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal paleosardo alla musica
rap, evoluzione storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di brani
esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 111. ^ Cardia, Amos
(2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu:
1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza,
pp. 89, 92. ^ Francesco Gemelli, Luigi Valenti Gonzaga, Rifiorimento della
Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, vol. 2, Torino,
Giammichele Briolo, 1776. ^ Matteo Madao, Saggio d'un'opera intitolata Il
ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici
lingue, la greca e la latina, Cagliari, Bernardo Titard, 1782. ^ Matteo Madau,
Dizionario Biografico Treccani, su treccani.it. ^ Marcel Farinelli, Un
arxipèlag invisible: la relació impossible de Sardenya i Còrsega sota
nacionalismes, segles XVIII-XX, su tdx.cat, Universitat Pompeu Fabra. Institut Universitari
d'Història Jaume Vicens i Vives, p. 285. ^ Matteo Madau, Ichnussa. ^ Salta a:a b Cardia, Amos (2006). S'italianu
in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua
in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 111-112. ^ Febrés, la
prima grammatica sul sardo. A lezione di limba dal gesuita catalano, su
sardiniapost.it. ^ Febres, Andres (1786). Prima grammatica de' tre dialetti
sardi , Cagliari [consultabile nella Biblioteca Universitaria di Cagliari,
Collezione Baille, ms. 11.2.K., n.18] ^ Eduardo Blasco Ferrer, Giorgia
Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal paleosardo alla musica
rap, evoluzione storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di brani
esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 127. ^ Salvi, Sergio
(1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, pg. 182-183. ^ Manlio Brigaglia, La
Sardegna, 1. La geografia, la storia, l'arte e la letteratura, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 1982, p. 95. ^ «Costoro erano spartiti fra il desiderio
di un nazionalismo sardo quale eredità recente degli eventi di fine Settecento,
da un lato, e la costruzione della nuova nazione italiana di cui volevano
essere parte attiva, dall’altro, pur senza che nulla venisse loro sottratto
delle idealità del nazionalismo sardo del secolo precedente.» Maurizio Virdis,
Geostorica sarda. Produzione letteraria nella e nelle lingue di Sardegna,
Rhesis UniCa, p. 21. ^ «Nel caso della Sardegna, la scelta della patria
italiana è avvenuta da parte delle élite legate al dominio sabaudo sin dal
1799, in modo esplicito, più che altro come strategia di un ceto che andava
formandosi attraverso la fusione fra aristocrazia, nobiltà di funzione e
borghesia, in reazione al progetto antifeudale, democratico e repubblicano
della Sarda rivoluzione.» Alessandro Mongili (2015). "1". Topologie
postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Condaghes. ^ Manlio
Brigaglia, Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal
Settecento a oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 84. ^ Manlio Brigaglia, Attilio
Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi,
v. 2, Editori Laterza, p. 92. ^ «[Il Porru] In generale considera la lingua un
patrimonio che deve essere tutelato e migliorato con sollecitudine. In
definitiva, per il Porru possiamo ipotizzare una probabilmente sincera volontà
di salvaguardia della lingua sarda che però, dato il clima di severa censura e
repressione creato dal dominio sabaudo, dovette esprimersi tutta in funzione di
un miglior apprendimento dell'italiano. Siamo nel 1811, ancora a breve distanza
dalla stagione calda della rivolta antifeudale e repubblicana, dentro il
periodo delle congiure e della repressione.» Cardia, Amos (2006). S'italianu in
Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in
Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 112-113. ^ Manlio Brigaglia,
Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a
oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 93 ^ Johanne Ispanu, Ortographia Sarda
Nationale o siat Grammatica de sa limba logudoresa cumparada cum s'italiana
(PDF), su sardegnadigitallibrary.it, Kalaris, Reale Stamperia, 1840. URL
consultato il 26 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 26 giugno 2019).
^ […]Ciononostante le due opere dello Spano sono di straordinaria importanza,
in quanto aprirono in Sardegna la discussione sul "problema della lingua
sarda", quella che sarebbe dovuta essere la lingua unificata e unificante,
che si sarebbe dovuta imporre in tutta l'isola sulle particolarità dei singoli
dialetti e suddialetti, la lingua della nazione sarda, con la quale la Sardegna
intendeva inserirsi tra le altre nazioni europee, quelle che nell'Ottocento
avevano già raggiunto o stavano per raggiungere la loro attuazione politica e
culturale, compresa la nazione italiana. E proprio sulla falsariga di quanto
era stato teorizzato e anche attuato a favore della nazione italiana, che
nell'Ottocento stava per portare a termine il processo di unificazione
linguistica, elevando il dialetto fiorentino e toscano al ruolo di "lingua
nazionale", chiamandolo "italiano illustre", anche in Sardegna
l'auspicata "lingua nazionale sarda" fu denominata "sardo
illustre". Massimo Pittau, Grammatica del sardo illustre, Nuoro, pp.
11-12, Premessa. ^ «Il presente lavoro però restringesi propriamente al solo
Logudorese ossia Centrale, che questo forma la vera lingua nazionale, la più
antica e armoniosa e che soffrì alterazioni meno delle altre». Ispanu, Johanne
(1840). Ortographia sarda nationale o siat grammatica de sa limba logudoresa
cumparada cum s'italiana, pg. 12 ^ Manlio Brigaglia, Attilio Mastino,
Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi, v. 2,
Editori Laterza, p. 94. ^ "Una innovazione in materia di incivilimento
della Sardegna e d'istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe
importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico
civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l'uso
dei dialetti sardi, prescrivendo l'esclusivo impiego della lingua italiana. In
sardo si gettano i cosiddetti pregoni o bandi; in sardo si cantano gl'inni dei
Santi (Goccius), alcuni dei quali privi di dignità… È necessario inoltre
scemare l'uso del dialetto sardo [sic] e introdurre quello della lingua
italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto
quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni
e gli ordini del Governo… sì finalmente per togliere una delle maggiori
divisioni, che sono fra la Sardegna e i Regi stati di terraferma." Carlo Baudi
di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla
Stamperia Reale, 1848, pp. 49-51. ^ «In una sua opera del 1848 egli mostra di
considerare la situazione isolana come carica di pericoli e di minacce per il
Piemonte e propone di procedere colpendo innanzitutto con decisione la lingua
sarda, proibendola cioè "severamente in ogni atto pubblico civile non meno
che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche". Baudi di Vesme non
si fa illusioni: l'antipiemontesismo non è mai venuto meno nonostante le
proteste e le riaffermazioni di fratellanza con i popoli di terraferma; si è
vissuti anzi fino a quel momento - aggiunge - non in attesa di una completa
unificazione della Sardegna al resto dello Stato ma addirittura di un
"rinnovamento del novantaquattro", cioè della storica "emozione
popolare" che aveva portato alla cacciata dei Piemontesi. Ma, rimossi gli
ostacoli che sul piano politico-istituzionale e soprattutto su quello etnico e
linguistico differenziano la Sardegna dal Piemonte, nulla potrà più impedire
che l'isola diventi un tutt'uno con gli altri Stati del re e si italianizzi
davvero». Federico Francioni, Storia dell'idea di "nazione sarda", in
Manlio Brigaglia, La Sardegna, 2. La cultura popolare, l'economia, l'autonomia,
Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, pp. 173-174. ^ Salta a:a b c d Carlo
Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla
Stamperia Reale, 1848, p. 306. ^ Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche
ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 305. ^ Carlo
Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla
Stamperia Reale, 1848, p. 313. ^ Sebastiano Ghisu, 3, 8, in Filosofia de logu,
Milano, Meltemi, 2021. ^ Salta a:a b Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate,
Rizzoli, pg.184 ^ «Des del seu càrrec de capità general, Carles Fèlix havia
lluitat amb mà rígida contra les darreres actituds antipiemonteses que encara
dificultaven l'activitat del govern. Ara promulgava el Codi felicià (1827), amb el qual
totes les lleis sardes eren recollides i, sovint, modificades. Pel que ara ens
interessa, cal assenyalar que el nou codi abolia la Carta de Logu – la
«consuetud de la nació sardesca», vigent des de l'any 1421 – i allò que restava
de l'antic dret municipalista basat en el privilegi.» Joan Armangué i Herrero (2006). Represa i exercici de
la consciència lingüística a l'Alguer (ss. XVIII-XX), Arxiu de Tradicions de
l'Alguer, Cagliari, I.1 ^ Cimitero antico, su Sito ufficiale del comune di
Ploaghe. ^ Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla
Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 167. ^ Pietro Martini, Sull’unione
civile della Sardegna colla Liguria, con il Piemonte e colla Savoia, Cagliari,
Timon, 1847, p. 4. ^ Salta a:a b c d Toso, Fiorenzo. Lingue sotto il tetto
d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 8. Il sardo, su
treccani.it. ^ Dettori, Antonietta, 2001. Sardo e italiano: tappe fondamentali
di un complesso rapporto, in Argiolas, Mario; Serra, Roberto. Limba lingua
language: lingue locali, standardizzazione e identità in Sardegna nell’era
della globalizzazione, Cagliari, CUEC, p. 88. ^ Gian Nicola Spanu, Il primo
inno d'Italia è sardo (PDF). URL consultato il 23 dicembre 2018 (archiviato
dall'url originale l'11 ottobre 2017). ^ Carboni, Salvatore (1881). Sos
discursos sacros in limba sarda, Bologna, cit. in Salvi, Sergio (1974). Le
lingue tagliate, Rizzoli, pp. 186-187. ^ Salta a:a b Manlio Brigaglia, La
Sardegna. La cultura popolare, l'economia, l'autonomia, vol. 2, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 1982, p. 114. ^ Salta a:a b Manlio Brigaglia, La
Sardegna. La cultura popolare, l'economia, l'autonomia, vol. 2, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 1982, p. 115. ^ Manlio Brigaglia, La Sardegna, 2. La
cultura popolare, l'economia, l'autonomia, Cagliari, Edizioni Della Torre,
1982, p. 175. ^ Manlio Brigaglia, Un'idea della Sardegna, in Storia della
Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 2017. ^ Marita Kaiser, Federico
Masini, Agnieszka Stryjecka (a cura di), Competenza comunicativa: insegnare e
valutare, Rome, Sapienza Università Editrice, 2021, p. 49. ^ Salta a:a b
Fiorenzo Toso, Moschetto e dialetto, su treccani.it, 2014. ^ Alfredo Graziani,
Fanterie sarde all'ombra del Tricolore, Sassari, La Nuova Sardegna, 2003, p.
257. ^ Storia della Brigata Sassari, Sassari, Gallizzi, 1981, p. 10. ^
L'amarezza leggiadra della lingua. Atti del Convegno "Tonino Ledda e il
movimento felibristico del Premio di letteratura 'Città di Ozieri'. Percorsi e
prospettive della lingua materna nella poesia contemporanea di Sardegna" :
giornate di studio, Ozieri, 4-5-6 maggio 1995, Centro di documentazione e
studio della letteratura regionale, 1997, p. 346. ^ «Il ventennio fascista
segnò per la Sardegna l'ingresso nel sistema nazionale. Il centralismo
esasperato del governo fascista riuscì, seppure - come si dirà - con qualche
contraddizione, a tacitare le istanze regionalistiche, comprimendole
violentemente. La Sardegna fu colonialisticamente integrata nella cultura
nazionale: modi di vita, costumi, visioni generali, parole d'ordine politiche
furono imposte sia attraverso la scuola (dalla quale partì un'azione repressiva
nei confronti della lingua sarda), sia attraverso l'organizzazione del partito
(che accompagnò, come in ogni altra regione d'Italia, i sardi dalla prima infanzia
alla maturità, oltre tutto coinvolgendo per la prima volta - almeno nelle città
- anche le donne). La trasformazione che ne seguì fu vasta e profonda.» Guido
Melis, La Sardegna contemporanea, in Manlio Brigaglia, La Sardegna. La
geografia, la storia, l'arte e la letteratura, vol. 1, Cagliari, Edizioni Della
Torre, 1982, p. 132. ^ Salta a:a b Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela
Marzo, Manuale di linguistica sarda, De Gruyter Mouton, 2017, p. 36. ^ Salta
a:a b Remundu Piras, su sardegnacultura.it. URL consultato il 17 febbraio 2018
(archiviato dall'url originale il 30 ottobre 2020). Sardegna Cultura. ^ «Dopo
pisani e genovesi si erano susseguiti aragonesi di lingua catalana, spagnoli di
lingua castigliana, austriaci, piemontesi ed, infine, italiani […] Nonostante
questi impatti linguistici, la "limba sarda" si mantiene
relativamente intatta attraverso i secoli. […] Fino al fascismo: che vietò
l'uso del sardo non solo in chiesa, ma anche in tutte le manifestazioni
folkloristiche». Wolftraud De Concini, Gli altri d'Italia : minoranze
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rivista fascista, Cagliari, AM & D, 2005, p. 106. ^ Montanaru e la lingua
sarda, su Il Manifesto Sardo, 2019. ^ «Il diffondere l’uso della lingua sarda
in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli educatori sardi
soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il
solo modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per
conservare e difendere la personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in
questa disposizione di idee e di propositi ci faremmo rispettare più di quanto
non ci rispettino.» Antioco Casula, Poesie scelte, Cagliari, Edizioni 3T, 1982,
p. 35. ^ Poddighe, Salvatore. Sa Mundana Cummédia, Editore Domus de Janas,
2009, ISBN 88-88569-89-8, p. 32. ^ «Il prezzo che si pagò fu altissimo: la
compressione della cultura regionale, la frattura sempre più netta tra il
passato dei sardi e il loro futuro italiano, la riduzione di modi di vita e di
pensiero molto radicati a puro fatto di folclore. I codici di comportamento
tradizionali delle zone interne resistettero, seppure insidiati e spesso posti
in crisi dalla invasione di nuovi valori estranei alla tradizione della
comunità; in altre zone della Sardegna, invece, i modelli culturali nazionali
prevalsero facilmente sull'eredità del passato e ciò, oltre a provocare una
crisi d'identità con preoccupanti riflessi sociali, segnò una frattura non più
rimarginabile tra le generazioni.» Guido Melis, La Sardegna contemporanea, in
Manlio Brigaglia, La Sardegna. La geografia, la storia, l'arte e la
letteratura, vol. 1, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, p. 132. ^ Manlio
Brigaglia et al., Un'idea della Sardegna, in Storia della Sardegna, Cagliari,
Edizioni della Torre, 2017. ^ Carlo Pala, Idee di Sardegna, Carocci Editore,
2016, p. 121. ^ Cit. Manlio Brigaglia, in Fiorenzo Caterini, La mano destra
della storia. La demolizione della memoria e il problema storiografico in
Sardegna, Carlo Delfino Editore, p. 99. ^ «Le argomentazioni sono sempre le
stesse, e sostanzialmente possono essere riassunte con il legame a loro avviso
naturale tra la lingua sarda, intesa come la lingua delle società tradizionali,
e la lingua italiana, connessa ai cosiddetti processi di modernizzazione. Essi
hanno interiorizzato l'idea, molto rozza e intellettualmente grossolana, che
essere italofoni è essere "moderni". La differenza tra modernità e
tradizione è ai loro occhi di sostanza, si tratta di due tipi di società
opposti per natura, in cui non esiste continuità di pratiche, di attori, né
esistono forme miste.» Alessandro Mongili (2015). "9". Topologie
postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Condaghes. ^ Martin Harris, Nigel Vincent,
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oscura il cielo: da "Lettera a un giovane sardo" dell'antropologo
Bachisio Bandinu. URL consultato il 9 febbraio 2014 (archiviato dall'url
originale il 24 ottobre 2021). ^ «La tendenza che caratterizza invece molti
gruppi dominati è quella di gettare a mare i segni che indicano la propria
appartenenza a un'identità stigmatizzata. È quello che accade in Sardegna con
la sua lingua (capp. 8-9, in questo volume).» Alessandro Mongili (2015).
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istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in Manlio Brigaglia,
La Sardegna. La cultura popolare, l'economia, l'autonomia, vol. 2, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 1982, p. 33. ^ «Come dimostra l'iter dell'approvazione
dello Statuto sardo, il braccio di ferro tra le classi dirigenti nazionali,
rappresentate dal potere centrale, e la classe dirigente locale si risolse a
tutto svantaggio di quest'ultima. Paradossalmente, come nel 1668, nel 1793-96,
nel 1847 le classi dirigenti locali venivano sconfitte proprio per lo scarso
peso contrattuale che avevano a livello nazionale quando si trattava di far
valere le proprie rivendicazioni. La vicenda dello Statuto regionale pone
quindi in piena luce le radici profonde del fallimento della borghesia sarda,
la sua organica debolezza, le preoccupazioni e la riserva che hanno sempre
accompagnato le sue aspirazioni liberiste e sardistiche. Ma bisogna anche
ricordare che lo Statuto sardo è stato approvato nel contesto di un clima politico
nazionale completamente mutato.» Manlio Brigaglia, La Sardegna. La cultura
popolare, l'economia, l'autonomia, vol. 2, Cagliari, Edizioni Della Torre,
1982, p. 34. ^ Carlo Pala, Idee di Sardegna, Carocci Editore, 2016, p. 118. ^
Pintore, Gianfranco (1996). La sovrana e la cameriera: La Sardegna tra
sovranità e dipendenza. Nuoro: Insula, p. 13. ^ Francesco Casula, Gianfranco
Contu, Storia dell'autonomia in Sardegna, dall'Ottocento allo Statuto Sardo
(PDF), Dolianova, Stampa Grafica del Parteolla, 2008, p. 118. URL consultato il
25 agosto 2019 (archiviato dall'url originale il 20 ottobre 2020). ^ «Nel 1948
servì per il Piano di rinascita, oggi bisogna puntare sulle vere peculiarità»,
in La Nuova Sardegna, 20 novembre 2022. ^ «se i poteri della Carta sarda
apparivano estesi sul piano economico (pur con limiti in sede di applicazione
concreta), lo statuto lasciava scoperto totalmente l’ambito sociale e
culturale. L'art. 1 dello statuto, infatti, non fa alcun riferimento né alla
nozione di “popolo sardo” né di “lingua sarda” […]. Manca il fondamento della
soggettività di popolo che invece è previsto in altri statuti speciali. Per
esempio, mancano i riconoscimenti di tipo etnolinguistico e culturale.» Pala,
Carlo. La Sardegna. Dalla “vertenza entrate” al federalismo fiscale?, in
Istituzioni del Federalismo. Rivista di studi giuridici e politici, 2012, 1, p.
215. ^ Cardia, Mariarosa (1998). La conquista dell’autonomia (1943-49), in
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vol. 2, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, p. 34-35, 177. ^ Lingua sarda:
dall'interramento alla resurrezione? - Il Manifesto Sardo. ^ Eduardo Blasco
Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda, De Gruyter
Mouton, 2017, p. 208. ^ Salta a:a b «Anche qui, per quanto riguarda le
percentuali di posticipatari [ripetenti] presenti nel campione, viene rilevata
una loro maggiore presenza nelle regioni settentrionali e una diminuzione
costante nel passaggio dal Centro al Sud. In Val d'Aosta sono il 31% e nelle
scuole italiane della Provincia di Bolzano il 38%. Scendendo al sud, la
tendenza alla diminuzione è la stessa della scuola media, fino ad arrivare al
13% in Calabria. Unica eccezione la Sardegna che arriva al 30%. Le cause
ipotizzate sono sempre le stesse. La Sardegna, in controtendenza con le regioni
dell'Italia meridionale, a cui quest'autore vorrebbe associarla, mostra
percentuali di ripetenze del tutto analoghe a quelle di regioni abitate da
altre minoranze linguistiche.» Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei
Sardi, Condaghes, 2013, p. 66. ^ Mongili, Alessandro, in Corongiu, Giuseppe, Il
sardo: una lingua normale, Condaghes, 2013, Introduzione ^ «Ancora oggi,
nonostante l'eradicazione e la stigmatizzazione della sardofonia nelle
generazioni più giovani, il "parlare sbagliato" dei sardi
contribuisce con molta probabilità all'espulsione dalla scuola del 23% degli
studenti sardi (contro il 13% del Lazio e il 16% della Toscana), e lo
giustifica in larga misura anche di fronte alle sue stesse vittime (ISTAT
2010).» Alessandro Mongili (2015). "9". Topologie postcoloniali.
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dibattiti in Consiglio Regionale (PDF), Rende, Edizioni Fondazione Sardinia,
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state authorities the recognition of the Sardinians as an ethnic and linguistic
minority and of Sardinian as their national language.» Rebecca Posner, John N.
Green (1993). Bilingualism and Linguistic Conflict in Romance. De Gruyter
Mouton. p. 272. ^ Rebecca Posner, John N. Green (1993). Bilingualism and
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Angeli, 2019, p. 193. ^ Nel Mura, tali trasformazioni socioeconomiche sono
state considerate come generative di un cambiamento pari a «una vera e propria
mutazione antropologica della realtà isolana». Mura, Giovanni (1999). Fuéddus e
chistiònis in sárdu e italiánu, Istituto Superiore Regionale Etnografico,
Nuoro, p. 3 ^ «Nella coscienza dei sardi, in analogia con i processi che
caratterizzano la subalternità ovunque, si è costituita un'identità fondata su
alcune regole che distinguono il dicibile (autonomia in politica, italianità
linguistica, criteri di gusto musicali convenzionali non sardi, mode,
gastronomie, uso del tempo libero, orientamenti politici) come campo che può
comprendere quasi tutto ma non l'indicibile, cioè ciò che viene stigmatizzato
come "arretrato", "barbaro", "primitivo", cioè
sardo de souche, "autentico". Questa esclusione del sardo de souche,
originario, si è costituita lentamente attraverso una serie di atti repressivi
(Butler 2006, 89), dalle punizioni scolastiche alla repressione fascista del
sardismo, ma anche grazie alla pratica quotidiana del passing e al diffondersi
della cultura di massa in epoca recente (in realtà molto più porosa della
cultura promossa dall'istruzione centralizzata).» Alessandro Mongili (2015).
"1". Topologie postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in
Sardegna. Condaghes. ^ Mura, Giovanni (1999). Fuéddus e chistiònis in sárdu e
italiánu, Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro, p. 3. ^ «It also triggered a negative
attitude on the part of the Sardinians, if not a pervasive sense of inferiority
of the Sardinian ethnic and cultural identity.» Andrea Costale, Giovanni Sistu
(2016). Surrounded by Water: Landscapes, Seascapes and Cityscapes of Sardinia.
Cambridge Scholars Publishing. p. 123. ^ «It also became obvious that the
polarization of the language controversy had brought about a change in the
attitude towards Sardinian and its use. Sardinian had become a symbol of ethnic
identity: one could be proud of it and it served as a marker to distance
oneself from the 'continentali' [Italians on the continent].» Rebecca Posner,
John N. Green, Bilingualism and Linguistic Conflict in Romance, De Gruyter
Mouton, 1993, p. 279. ^ «It also turned out that this segregation from Italian
became proportionately stronger as speakers felt that they had been let down by
the 'continentali' in their aspirations towards better socio-economic
integration and greater social mobility.» Rebecca Posner, John N. Green,
Bilingualism and Linguistic Conflict in Romance, De Gruyter Mouton, 1993, p.
279. ^ «The data in Sole 1988 point to the existence of two opposing
tendencies: Sardophone speakers hold their language in higher esteem these days
than before but they still use it less and less.» Rebecca Posner, John N.
Green, Bilingualism and Linguistic Conflict in Romance, De Gruyter Mouton,
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insegnanti che vogliono portare la lingua sarda nelle scuole, in Nazione Sarda,
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2020, p. 9. ^ Gavino Pau, in un suo intervento ne La Nuova Sardegna (18 aprile
1978, Una lingua defunta da studiare a scuola), sosteneva che "per tutti
l'italiano era un'altra lingua nella quale traducevamo i nostri pensieri che,
irrefrenabili, sgorgavano in sardo" e ancora, per la lingua sarda
"abbiamo vissuto, per essa abbiamo sofferto, per essa viviamo e vivremo.
Il giorno che essa morrà, moriremo anche noi come sardi." (cit. in Melis
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popolo?, su gfbv.it, 21 dicembre 2006. URL consultato il 24 febbraio 2008. ^
«Se dunque il quadro delle competenze e degli usi linguistici è contraddittorio
ed estremamente eterogeneo per le ragioni che abbiamo citato prima, non
altrimenti si può dire per l'opinione. Questa è generalmente favorevole a un
mutamento dello status pubblico della lingua sarda e delle altre lingue della
Sardegna, le vuole tutelare e vuole diffonderne l'uso, anche ufficiale.» Paolo
Caretti et al., Regioni a statuto speciale e tutela della lingua, G.
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(archiviato dall'url originale il 26 marzo 2023). ^ Al giorno d'oggi i sardi
stessi «si identificano con loro lingua meno di quanto facciano altre minoranze
linguistiche esistenti in Italia, e viceversa sembrano identificarsi con
l'italiano più di quanto accada per altre minoranze linguistiche d'Italia»
(Paulis, Giulio (2001). Il sardo unificato e la teoria della panificazione
linguistica, in Argiolas, Mario; Serra, Roberto, Limba lingua language: lingue
locali, standardizzazione e identità in Sardegna nell’era della
globalizzazione, Cagliari, CUEC, p. 161) ^ Il bilinguismo perfetto è ancora
solo un miraggio, in La Nuova Sardegna, 2021. ^ «La situazione del sardo in
questi ultimi decenni risente da un lato degli esiti del processo di
italianizzazione linguistica, profondo e pervasivo, e dall'altro di un processo
che si può definire come risardizzazione linguistica, intendendo con questo una
serie di passaggi che incidono sulla modifica dello status del sardo come
lingua, sulla determinazione di una regola scritta, sulla diffusione del suo
uso nei media e nella comunicazione pubblica e, infine, sullo sviluppo del suo
uso come lingua di comunicazione privata e d'uso in set d'interazione
interpersonale dai quali era stato precedentemente bandito o considerato
sconveniente». Paolo Caretti et al., Regioni a statuto speciale e tutela della
lingua, G. Giappichelli Editore, 2017, pp. 67-68. ^ T. Telmon, Aspetti
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in Sardegna - Mauro Maxia (PDF). ^ «The sociolinguistic subordination of Sardinian to
Italian has resulted in the gradual degeneration of the Sardinian language into
an Italian patois under the label of regional Italian. This new linguistic code
that is emerging from the interference between Italian and Sardinian is very
common among the less privileged cultural and social classes.» ("La subordinazione sociolinguistica del
sardo all'italiano ha ingenerato un processo di degenerazione graduale della
lingua sarda in un patois italiano etichettato come "italiano
regionale". Questo nuovo codice linguistico, che emerge dall'interferenza
tra italiano e sardo, è particolarmente comune presso i meno privilegiati ceti
socio-culturali."). Relazione Euromosaic "Sardinian in Italy".
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faeddare in italianu a sos fizos che a como, tando est malu a creer chi sa
limba amministrativa, s’instandardizatzione e finas su sardu in iscola an a
poder cambiare abberu sas cosas.» ("Se i sardi continueranno a parlare in
italiano ai loro figli, come avviene ora, sarà difficile credere che la lingua
amministrativa, la standardizzazione e finanche l'introduzione del sardo nelle
scuole potranno davvero cambiare le cose"). Paulis, Giulio (2010). Varietà
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né frenare l'italianizzazione progredente attraverso la scuola e gli ambiti
ufficiali, né restituire vitalità al sardo in famiglia. La trasmissione
intergenerazionale, fattore essenziale per la riproduzione etnolinguistica,
resta seriamente compromessa.» Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela
Marzo, Manuale di linguistica sarda, De Gruyter Mouton, 2017, p. 40. ^ «Yet, it cannot be ignored
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elettorale italiana del 2015. ^ «Tra gli aspetti che necessitano una immediata
rivisitazione - aggiunge il governatore - vi è il fatto che nel nostro Statuto
Speciale di Autonomia non è ancora contemplata una norma che in qualche modo
richiami e contenga la lingua e la cultura isolana. Mentre, per contro, negli
Statuti della Valle d'Aosta e del Trentino Alto Adige, per quanto emananti
nello stesso periodo, tali norme son ben presenti. Il che ha consentito il
riconoscimento di un pacchetto di misure e agevolazioni da parte della
Repubblica proprio in ragione del fatto di essere territori aventi lo status di
minoranza etnolinguistica.» Giornata mondiale della lingua madre, Solinas:
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scrivere il sardo, ma non si ha notizia di alcuna regolazione: la sua
ufficialità era implicita e data per scontata. Nel XVI e, poi, nel XVIII
secolo, nei circoli umanisti e in quelli gesuitici, rispettivamente, si è
osservato un tentativo di fornire una regolazione, ma tali tentativi furono non
solo ostacolati ma anche repressi dalle autorità coloniali ispaniche e
soprattutto sabaude.» Paolo Caretti et al., Regioni a statuto speciale e tutela
della lingua, G. Giappichelli Editore, 2017, pp. 75-76. ^ «L'esistenza di una
striscia di "terra di nessuno" (fatta eccezione, comunque, per i
dialetti di Laconi e Seneghe) tra dialetti meridionali e settentrionali, come
anche della tradizionale suddivisione della Sardegna in due "capi"
politico-amministrativi oltre che, ma fino a un certo punto, sociali e
antropologici (Cabu de Susu e Cabu de Jossu), ma soprattutto della
popolarizzazione, condotta dai mass media negli ultimi trent'anni, di teorie
pseudo-scientifiche sulla suddivisione del sardo in due varietà nettamente
distinte tra di loro, hanno contribuito a creare presso una parte del pubblico
l'idea che il sardo sia diviso tra le due varietà del "campidanese" e
del "logudorese". In effetti, si deve più correttamente parlare di
due tradizioni ortografiche, che rispondono a queste denominazioni, mettendo
bene in chiaro però che esse non corrispondono a nessuna varietà reale parlata
in Sardegna.» Bolognesi, Roberto (2013). Le identità linguistiche dei sardi,
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logudoresu, su Bolognesu: in sardu, 4 aprile 2010. URL consultato il 14
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Cagliari, Condaghes, 2013, p. 141, ISBN 978-88-7356-225-2, OCLC 874573242. «In
altre parole, queste divisioni del sardo in logudorese e campidanese sono
basate unicamente sulla necessità - chiarissima nel Cetti - di arrivare
comunque a una divisione della Sardegna in due "capi". [...] La
grande omogeneità grammaticale del sardo viene ignorata, per quanto riguarda
gli autori tradizionali, in parte per mancanza di cultura linguistica, ma
soprattutto per la volontà, riscontrata esplicitamente in Spano e Wagner, di
dividere il sardo e i sardi in varietà "pure" e "spurie". In altri termini, la divisione
del sardo in due varietà nettamente distinte è frutto di un approccio
ideologico alla variazione dialettale in Sardegna» ^ «The phonetic differences
between the dialects occasionally lead to communicative difficulties, particularly
in those cases where a dialect is believed to be 'strange' and 'unintelligible'
owing to the presence of phonetic peculiarities such as laryngeal or pharyngeal
consonants or nazalized vowels in Campidanese and in the dialects of central
Sardinia. In his comprehensive experimental-phonetic study, however, Contini
(1987) concludes that interdialectal intelligibility exists and, on the whole,
works satisfactorily.» Rebecca Posner, John N. Green, Bilingualism and
Linguistic Conflict in Romance, De Gruyter Mouton, 1993, p. 287. ^ Michel Contini, Etude de
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Grammatica sarda Lingua protosarda Prenomi sardi Cognomi sardi Limba Sarda
Comuna Italiano regionale della Sardegna Nuova letteratura sarda Varianti della
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esterni[modifica | modifica wikitesto] Sardu.wiki, Atlante dei lemmi della
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16/14 de su 18.04.2006 "Limba Sarda Comuna: Adotzione de sas normas de
referèntzia de caràtere isperimentale pro sa limba sarda iscrita in essida de
s'Amministratzione regionale" (pdf) (PDF) [collegamento interrotto], su
regione.sardegna.it. nascondi V · D · M Lingue romanze Lingue d'origine Latino
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incerta Romanzo africano† · Romanzo britannico† · Romanzo mosellano† · Romanzo
pannonico† † lingua estinta (nessun sopravvissuto tra i parlanti nativi e
nessuno tra i discendenti) mostra V · D · M Minoranze in Italia mostra V · D ·
M Italia (bandiera) Lingue e dialetti d'Italia Controllo di autorità GND (DE)
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Linguistica Portale Sardegna Categorie: Lingua sardaLingue SVOLingue SOVLingue
VOS[altre]. Tuveri. Keywords: la lingua sarda -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Tuveri: implicature sarda” – The Swimming-Poo Library. Tuveri.


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