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Wednesday, June 11, 2025

GRICE ITALO A-Z T

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Taddio: la ragione conversazionale della fenomenologia eretica – la scuola d’Udine – filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo friulao. Filosofo italiano. Udine, Friuli, Venezia Giulia. Si occupa in particolare di fenomenologia della percezione, ontologia e teoria della conoscenza a cavallo tra estetica e metafisica. Si laurea in Trieste. Insegna a Udine. Allievo di  BOZZI e DEROSSI.  Il suo saggio Spazi immaginali, Campanotto, con prefazione di Ferraris, è un testo di narrativa filosofica che si inserisce all'interno della tradizione del realismo magico. L’esistenza viene espressa da una sequenza di istantanee emergenti dallo spazio immaginale. Tutti i suoi saggi sono di matrice realista. Fenomenologia eretica: saggio sull'esperienza immediata della cosa, Mimesis, s’incentra sull'analisi di un unico esempio considerato dall'autore paradigmatico per l'intera tradizione fenomenologica: la percezione di un cubo. L'analisi critica dell'esperienza è sviluppata, da un lato, in rapporto alla fenomenologia sperimentale e, dall'altro, in risposta alle critiche alla fenomenologia.  A partire di Magritte, ne Il mistero viene applicata la teoria della percezione diretta al problema della raffigurazione pittorica. In L'affermazione dell'architettura, Mimesis, la relazione filosofia-architettura sta al centro, come in Costruire abitare pensare, Mimesis, e Città metropoli territorio, Mimesis. Il concetto d’affermazione in architettura e preso in “aut aut”. In Verso un realismo, Jouvence, si delinea un'ontologia della meta-stabilità. Sul tema del realismo avvia un articolato confronto. Le riflessioni sul realismo si sono sviluppate in diversi direzioni: politica, architettura, cinema, ontologia ed epistemologia -- v. Alfabeta, aut aut, Cinema et Cie, Teoria e Modelli, e La filosofia futura. Fonda Mimesis. La società è detentrice dei marchi editoriali di Mimesis in Italia. Progetta e realizza la rivista di approfondimento culturale Scenari. Crea e dirige il festival Mimesis, territori delle idee.  A partire da una prima formazione politica di stampo liberal-socialista lavora in direzione di un rilancio della cultura cosmopolita in rapporto alle nuove forme di partecipazione democratica  -- interventi: festival Vicino Lontano, Pop Sophia, e Radio Radicale. Palazzo Reale, Genova. Altri saggi: La natura della rappresentazione, Mimesis;  Osservazioni sulla stabilità tra estetica e metafisica, Jouvence; Un mondo sotto osservazione, Mimesis; La guerra e il mortale (Mimesis); “Quale filosofia per il partito democratico e la sinistra, Mimesis; La terra e il sacro, Mimesis; Un metodo pericoloso, Mimesis; Manifesto per una sinistra cosmopolita, Mimesis; Radicalmente liberi, Mimesis; L'apparire della cosa, Uno scandalo per il pensiero, su  I lsole24ore, aut aut. Ma il realismo non è tutto nuovo, su corriere. È il crepuscolo delle tradizioni, su corriere. Sinistra e realismo, su alfabeta, Vuoti di sapere, su aut aut. saggiatore. Passione politica e democrazia. Marionette al potere, Curi, Marramao, Palazzo Reale Genova, Intervista. Artribune. Luca Taddio. Taddio. Keywords: fenomenologia eretica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taddio,” The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tagliabue: la ragione conversazionale del Remo, o le strutture del trascendentale – il concetto di gusto nell’estetica italiana – la scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Studia a Milano. Collabora a riviste. Saggi Le strutture del trascendentale: piccola inchiesta sul pensiero critico, dialettico, esistemziale, Bocca, Milano; e Il concetto dello stile: saggio di una fenomenologia dell’arte, Bocca, Milano. Insegna a Milano e Trieste. Collabora a convegni e scrive su La lettura e La rassegna d'Italia, la Rivista critica di storia della filosofia, la Rivista di filosofia, Belfagor, il giornale critico della filosofia italiana, la rivista di estetica, Il pensiero, Aretusa, Lingua e stile, Studi di estetica, Studi tedeschi, aut aut, ecc. Si occupa di germanistica, gnoseologia, semantica, estetica e poetica, attraverso numerosi saggi di taglio fenomenologico. Come per BARATONO e  BANFI, la sua analisi dell'estetica e delle scelte poetiche e stilistiche degl’artisti si distacca dall'impostazione di CROCE e poi di CALOGERO per orientarsi verso l'aspetto pratico, influenzato anche dall'esistenzialismo positivo d’ABBAGNANO, del fare arte, che non può ridursi alla sola conoscenza, ed è fortemente legato alla tecnica, intesa anche come gesto manuale e meccanico, e allo stile, inteso come rapporto tra gl’elementi formali e quelli contenutistici dell'opera -- sede, inoltre, dell'unità nel rapporto tra percezione e immaginazione. Organizza le teorie d'artista e le dottrine estetiche non tanto in senso cronologico, ma per tipi: estetica vitalistica, estetica psicologistia, estetica formalistica, estetica fenomenologica, ecc. In Linguistica e stilistica del Lizio, Ateneo, Roma, e Demetrio, dello stile, Ateneo, Roma, si occupa di retorica e stilistica antiche. Altri saggi: Il Lizio e il barocco, Bocca, Milano; Il barocco e noi; Anatomia del barocco, Æsthetica, Palermo, indagano sul barocco artistico e letterario, Bocca, Milano. Si occupa anche di estetica, del pre-criticismo, della polemica Nietzsche-Wagner, di Goethe, Musil, Roth, Kafka, ecc. Critico con la contestazione studentesca, eppure non evita il confronto con il movimento. I processi di GALILEI e l'epistemologia, Bocca, Milano; Dai romantici a noi, Marzorati, Milano; Il concetto del gusto nell'Italia, Nuova Italia, Firenze; Fenomenologia dei giudizi di valore, Istituto di filosofia, Trieste; La SEMANTICA e i suoi problemi, Istituto di Filosofia, Trieste; “La nevrosi: Saggi sul romanzo, Marietti, Monferrato; Nietzsche contro Wagner, Tesi, Pordenone; Geologia letteraria, Garzanti, Milano; Goethe e il romanzo, Einaudi, Torino: Einaudi; Il gusto nell'estetica, Centro di studi di estetica, Palermo: Arte e alienazione: il ruolo dell'artista nella societa, Marzorati, Milano; I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica, Rizzoli, Milano; Sul sentimento del bello e del sublime, Rizzoli, Milano; Sul gusto, Marietti, Genova; Esercizi filosofici, Russo, L’estetica, Æsthetica Pre-Print; Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Treccani, Istituto, Enciclopedia Italiana. Ritratto di un genio politicamente scorretto. Magris, Corriere della Sera. Guido Morpurgo-Tagliabue. Morpurgo-Tagliabue-Remo. Tagliabue. Keywords: Romolo, le strutture del trascendentale, concetto del gusto, estetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tagliabue,” The Swimming-Pool Library. Tagliabue.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tagliagambe:  la ragione conversazionale e la mediazione della re-presentazione – la scuola di Legnano -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Legnano). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Legnano, Milano, Lombardia. Studia a Milano su GEYMONAT con cui si laurea con una tesi sull'interpretazione della meccanica quantistica. Prosegue suoi studi specializzandosi sotto la direzione di Terleckij e Fock. La sua attività si è sviluppata attraverso un variegato percorso che lo porta ad insegnare presso diversi atenei e a collaborare con differenti centri di ricerca ed enti istituzionali come consulente. Si concentra sul rapporto tra filosofia e fisica quantistica in particolare sul concetto di realtàe sui rapporti tra materialismo dialettico e fisica. Rivolve l'attenzione sui temi del rapporto tra realtà OSSERVATA e sistema OSSERVANTE, le interazioni reciproche e il ruolo del linguaggio, della comunicazione INTER-SOGGETIVA, della mediazione linguistica e della semiotica. Elabora il ruolo e il significato di interfaccia, il rapporto tra intelligenza NATURALE e intelligenza artificiale, in particolare il ruolo progressivamente avuto dalle tecnologie di informazione e comunicazione. Essamina i contributi sul significato del concetto di margine, sia esso su un essere vivente, un'interfaccia o il rapporto tra corpo ed anima, nei sistemi sociali e nella comunicazione. Studia le forti inter-connessioni tra artificiale e NATURALE, il senso dell'interdisciplinarità, e il saggio Il sogno di Dostoevskij: come l’anima emerge dal cervello, Cortina, Milano, attraverso una visitazione storica dal dibattito tra Dostoevskij e Secënov, fino alle scoperte della neuro-fisiologia, mettendo a fuoco il senso del rapporto tra il corpo e l’anima, il significato e la funzione dell'inconscio. Ricostrusce e interpreta l'intenso scambio dialogico tra Pauli e il fondatore della psicologia analitica Jung, nel quale emerge il rapporto tra filosofia, fisica e psicanalisi. L'analisi tra visibile e invisibile, il ruolo dell'arte e il senso epistemologico dello spazio intermedio e del confine sono stati da lui sviluppati anche attraverso un'esegesi di Florenskij. Le ricadute della sua filosofia sulle scienze sociali ed economiche trovano approfondimenti nei saggi dedicate all'analisi dei sistemi organizzativi socio-economici. L'attività presso la facoltà di architettura l'ho porta a riflettere sull’epistemologia del progetto, sulla relazione tra possibilità e realtà, sul rapporto tra l'io, lo spazio, il tempo – cf. Grice, “Personal Identity” --, l'ambiente, tra urbs e civitas, sul concetto di paesaggio, sul ruolo delle città globali e sul nesso tra globale e locale. Gli sviluppi delle tecnologie digitali e poi della rete come fenomeno prima tecnologico poi culturale e sociale vengono elaborati e incorporati nella sua filosofia. La sua riflessione è indirizzata anche ai temi dell'apprendimento e dell'organizzazione della conoscenza soprattutto alla luce delle reali esperienze della scuola, dei processi di modernizzazione e innovazione che la coinvolgono e delle nuove esigenze che essa deve affrontare Dirige il rifacimento del manuale di filosofia di GEYMONAT, La realtà: ricerca filosofica, Garzanti. Collabora con il CNI per il Scintille dedicato all'innovazione a Pisa, Cagliari, Roma La Sapienza, Sassari, facoltà di architettura di Alghero, vicepresidente CRS4, ministero dell'istruzione, dell'università e della Ricerca per la Riforma, CIES, FIESEC, direttore del progetto scuola digitale della Sardegna. Vedi Materialismo e dialettica nella filosofia sovietica; Scienza e marxismo in Urss; La MEDIAZIONE linguistica. Il rapporto pensiero-linguaggio. Epistemologia del confine; recensione Corriere della Sera che cita che con questo saggio va avanti sul progetto di esplorare una originalissima epistemologia del confine. La tecnica e il corpo. Organizzazioni. Soggetti umani e sviluppo socio-economico. Individui e imprese: centralità delle relazioni. L'albero flessibile. La cultura della progettualità. Lo spazio intermedio, Bocconi, Milano, riprende, rielabora ed estende il concetto di confine. La didattica e la rete. Più colta e meno GENTILE. Percorsi per l'obbligo formativo; L'interpretazione materialistica della meccanica quantistica. Fisica e filosofia, Feltrinelli, Milano; Scienza, filosofia, politica, Feltrinelli, Milano; Materialismo e dialettica, Loescher, Torino; Scienza e marxismo, Loescher, Torino, La mediazione linguistica: il rapporto pensiero-linguaggio, Feltrinelli, Milano; Lo spiritismo, Boringhieri, Torino; L'impresa tra ipotesi, miti e realtà, ISEDI, Torino; Epistemologia del confine, Saggiatore, Milano; La politica che non c'è: dee guida per un progetto tra razionalità e valori, Demos, Cagliari; Il sequestro dell'identità, CUEC, Cagliari; La città possible” Dedalo, Bari; Epistemologia del cyber-spazio, Demos, Cagliari; L'albero flessibile: la cultura della progettualità, Masson, Milano); Il profilo del tempo, Nuova civiltà delle macchine, Organizzazioni. Soggetti umani e sviluppo socio-economico, Usai, Giuffré, Milano; La didattica e la rete, Pitagora, Bologna; La comunicazione nell'era di Internet; Etas Libri, Milano; Il destino del marxismo: dall'idolatria al rifiuto; Luiss,  Roma; La vittoria di Babele: dalla filosofia naturale alla separazione dei linguaggi; Civiltà delle machine; Filosofia della scienza, Cortina, Milano; Percorsi per l'obbligo formativo, PLUS, Pisa; L’unitario, Cultura, Teramo; Le due vie della percezione e l'epistemologia del Progetto, Angeli, Milano; Più colta e meno GENTILE: una scuola di massa e di qualità, (Armando, Roma; Florenskij, Bompiani, Milano, La tecnica e il corpo, Angeli, Milano; Individui e imprese: centralità delle relazioni, Giuffrè, Milano; Saper fare la scuola: il triangolo che non c'è, Einaudi, Torino; Storia della filosofia,  Filosofi italiani, Bompiani, Milano; Storia della filosofia; Un confronto su materia e psiche, Cortina, Milano, La libertà, le lettere, il potere; Rubbettino, Soveria Mannelli; La realtà e il pensiero: la ricerca filosofica e scientifica, Garzanti Scuola.  Silvano Tagliagambe. Tagliagambe. Keywords: mediazione linguistica, naturale/artificiale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tagliagambe” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Taglialatela: la ragione conversazionale degl’istituzioni di filosofia – la scuola di Mondragone -- filosofia campanese 00 filosofia italiana – Luigi Speranza (Mondragone). Flosofo campanese. Filosofo italiano. Mondragone, Caserta, Campania. Studia a Sessa. Insegna a Cava e Napoli. S’arruolarsi nelle truppe di GARIBALDI (si veda), per predicare i nuovi ideali del movimento unitario. Dirigge una scuola privata. Riprende e sposa le tesi di GIOBERTI (si veda), che lo affascina. Su questo indirizzo filosofico è stato imperniato Istituzioni di filosofia, Diogene, Napoli, che riceve le lodi di SPAVENTA. Non manca, in seguito, avendo aderito al protestantesimo, di compiere opere missionarie, in particolare in Puglia e in Abruzzo. A tal riguardo è documentato il viaggio di Pescasseroli sul quale scrisse CROCE, che segnala anche come e considerato, assieme a MAZZARELLA e CAPORALI, fra i filosofi più creativi del movimento protestante in Italia. Altre saggi: Apologia delle dottrine filosofiche di GIOBERTI, Diogene, Napoli, La scienza, la vita e SANCTIS, Diogene, Napoli, GARIBALDI, Speranza, Roma; Il papa-re nelle profezie e nella storia, Speranza, Roma, In Dio, Speranza, Roma; Fede, speranza e caritàm Speranza, Roma; Teoria evangelica della vita, Speranza, Roma, Ciampoli, T., Unione, Roma; Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari; Fiore, Civiltà Aurunca, Iurato, T.: dalla filosofia del Gioberti all'evangelismo anti-papale, Claudiana, Torino; Gioberti, Protestantesimo in Italia, Dizionario biografico dei protestanti in Italia; Società di studi valdesi. Apologia della dottrina di Gioberti. Pietro Taglialatela. Taglialatela. Keywords: istituzioni di filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taglialatela” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tagliapietra: la ragione conversazionale e la sincerità conversazionale – la scuola di Venezia – filosofia veneziana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Studia al Foscarini di Venezia, e si laurea alla Foscari con una tesi discussa con SEVERINO e MADERA. Perfeziona gli studi d’ermeneutica sotto la guida di ENZO. Insegna a Sassari e Milano. Fonde nelle sue ricerche un'indagine storica sulla filosofia romana con un'attenzione a temi contemporanei legati al mondo delle immagini e della comunicazione, allo studio del linguaggio e delle metafore, nonché all'intreccio storico e teorico fra dramma e filosofia. In quest'ultima prospettiva si orientano i suoi saggi sull'idea di sincerità e sul significato della bugia nel quadro di una costruzione drammaturgica dell'individuo, sul ridere e sulla natura del personaggio comico e l’eroe tragico. Cura per Feltrinelli, Boringhieri e Mondadori L'Apocalisse di Giovanni, raccolte di saggi sull'illuminismo e sul tema della catastrofe; il Fedone o sull’anima, Feltrinelli, Milano; L’apocalisse di FIORE (si veda), Feltrinelli, Milano; Voltaire, Rousseau, Manzoni, Volney, Feuerbach, Mercier. Cura Valent. Collabora saltuariamente al Gazzettino, il quotidiano della sua città, e a varie testate giornalistiche: Capital; Panorama; Il Sole 24 Ore; l'inserto culturale Saturno del Fatto quotidiano, ecc., con interventi di carattere culturale o legati all'attualità sociale e politica. Con La virtù crudele: filosofia e storia della sincerità (Einaudi, Torino, vince il Viareggio - è stato conferito il Viaggio a Siracusa per FIORE (si veda) e la filosofia, Prato, Padova. È direttore del giornale critico di storia delle idee. Fonda e dirigge a Milano del centro di ricerca inter-disciplinare di storia delle idee e di Icone, un centro di ricerca di storia e teoria dell'immagine a Palazzo Arese Borromeo. Altre saggi: La metafora dello specchio: lineamenti per una storia simbolica, Feltrinelli, Milano, Boringhieri, Torino; Il velo di Alcesti: la filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano; Filosofia della bugia: figure della menzogna nella filosofia occidentale, Mondadori, Milano; La forza del pudore: per una filosofia dell'inconfessabile, Rizzoli, Milano; l dono del filosofo: sul gesto originario della filosofia, Einaudi, Torino; Icone della fine: immagini apocalittiche, filmografie, miti, Mulino, Bologna, Sincerità, Cortina, Milano; Non ci resta che ridere, Mulino, Bologna; Alfabeto delle proprietà: filosofia in metafore, Moretti, Bergamo; Esperienza: storia di un'idea (Cortina, Milano; Filosofia dei cartoni animati, Boringhieri, Torino; Cartografia filosofica, La migrazione dello spirito” Mimesis, Milano; Tempo a termine e tempo senza fine: breve storia figurale della temporalità, Mimesis, Milano; Non desiderare la donna e la roba d'altri, Mulino, Bologna; Il senso del dolore, Raffaele, Milano; Zerologia. il vuoto e il nulla, Mulino, Bologna; Apocalisse di Giovanni, Feltrinelli, Milano; La verità e la menzogna: sulla fondazione morale della politica, Mondadori, Milano; Che cos'è l'illuminismo? la genealogia del concetto, Mondadori, Milano; Il sacro, Gallone, Milano; La catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro, Mondadori, Milano; La fine di tutte le cose, Boringhieri, Torino; La storia e l'invenzione, Prato, Padova; Le rovine, ossia meditazione sulll’impero romano, Mimesis, Milano; L'uomo è ciò che mangia, Boringhieri, Torino; Montesquieu a Marsiglia, Inschibboleth, Roma; Bisogna sempre dire la verità? Cortina, Milano; L’idea della fine, Agalma; Il rischio e il limite”; Magazine, Energia, Pearson. Il gesto di Socrate; Il pudore e l'enigma; Spazio Filosofico, Tipologia del riso, Fillide, Corpo di pazienza, Esser contro, XÁOS. Giornale di confine, Il dono della filosofia, XÁOS. Giornale di confine, Il giallo della filosofia, XÁOS. Il volto del potere, XÁOS, La Lotteria di Babele. Appunti filosofici su caso e fortuna nella società della comunicazione, XÁOS. Giornale di confine, L'apocalisse delle immagini. Esegesi del cinema a partire da Fino alla fine del mondo, XÁOS, La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare, XÁOS. Dire la verità. L'insistenza della critica, Giornale critico di storia delle idee,  L'uomo è un animale che esita. Intervista di Dotti, in Vita, Presentazione. Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia in Inschibboleth, Presentazione. Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti Del senso della fine. Dialogo con Dotti, Communitas, Cultura: futuro, progresso e possibilità Lezione magistrale al festival di filosofia di Modena, Inganni. Finzioni di verità e storia naturale dell'intelligenza. La filosofia della sincerità, di Pinto  Il riso è il proprio dell'uomo. Commento in margine a Non ci resta che ridere di Tugnoli. Se essere sinceri è una virtù crudele. Uno studio fra storia e filosofia, Galimberti, La Repubblica, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Tugnoli, Dialeghestai. Rivista telematica di filosofia, Premio letterario Viareggio-Rèpaci. Giornale critico di storia dell’idee. CRISI: Centro di ricerca in storia delle idee. ICONE, Centro europeo di ricerca di storia e teoria dell'immagine, su centro palazzo borromeo. Ciclo di lezioni dette Decadi, Aula Tafuri, Palazzo Badoer, Venezia, nel quadro del laboratorio di progettazione architettonica dello IUAV diretto da Rizzi e costituente il  I, Libro dello studio, del progetto Lampedusa. La cattedrale di Solomon. Andrea Tagliapietra. Tagliapietra. Keywords: Gioacchino da Fiore, l’apocalisse, dell’anima, Manzoni, inventare, storia, sincerità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tagliapietra” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tamburino: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- il probabilismo tenue nella filosofia siciliana – la scuola di Caltamissetta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caltanissetta). Flosofo siciliano. Filosofo italiano. Caltanissetta, Sicilia. Entra nella compagnia di Gesù, resta a Caltanissetta. Insegna a Messina e Palermo, e Monreale. Consigliere e qualificatore nel santo uffizio dell’inquisizione, ossia di esaminatore dei reati prima della loro attribuzione alla competenza dell'inquisizione. Durante un soggiorno romano, quale rappresentante della provincia gesuitica siciliana alla congregazione generale della compagnia di Gesù, conosce Greuter, che lavora per la casa generalizia dei gesuiti. Apprezzandone le doti, T. gli affida l'incarico di incidere le immagini della Madonna. Realizza finalmente il progetto di dare alle stampe le notizie preparate da Gajetano, riguardanti appunto i luoghi del culto mariano nell'isola, facendo illustrare l'opera con tavole riproducenti le relative icone della madonna. Accanto alle suoi saggi filosofici, restano anche edizioni, una in latino ed una in volgare, di un volume con incisioni di raro pregio per la raffinatezza di Greuter. Di queste II edizioni si trovano rari esemplari che, per le limitazioni derivanti dall'esaurimento delle matrici, sono, per buona parte, prive delle pagine in cui sono stampate le incisioni. Nella conoscenza del peccato attribuisce importanza primaria alla cognitio singulorum, cioè alla capacità di valutazione dei singoli. Diverso è, infatti, il peso delle colpe a seconda se a commettere l'infrazione è l'individuo colto oppure l'ignorante. Nel individuo colto prevale la VIS RATIOCINANDI. Nell’ignorante, la VIS SENTIENDI. Ancora differenza c'è tra l'ACTIO HUMANA e l'ACTIO HOMINIS. La prima e compiuta in perfetta consapevolezza. Nell’azione di un uomo la coscienza è spesso condizionata dal patire passionale, che può essere VIOLENTVM, COACTVM, o NECESSARIVM -- venendo così a mitigare la colpa. Nel trasporto passionale c'è dell'involontario, spesso frutto di ignoranza che rende la coscienza erronea. Il tutto si traduce in una interpretazione benignista della prudenza o epi-eìcheia, riprendendo la tradizione d’AQUINO. A sostenere questa intensa produzione sul probabilismo, col rientro da Palermo a Genova di Diana, rimane. I suoi saggi hanno ampia diffusione fino al riconoscimento della validità delle tesi probabiliste d’Alfonso de' Liguori che con la sua Theologia Moralis mette sostanzialmente fine al rigorismo giansenista.  Il probabilismo incontra ostilità negl’ambienti religiosi più vicini al rigorismo dei giansenisti. A contrastare le tesi del probabilismo i più influenti furono i domenicani, che spinsero Retz, a farsi portavoce presso il papa per l'emanazione di un provvedimento di condanna. Alessandro VII, sollecitato più volte, condenna il probabilismo. Sono censurate solo le tesi più estreme. Un'altra condanna del probabilismo e promulgata da Innocenzo XI. Però questa volta T.  non sube sanzioni ad personam, così passa alla storia della morale, come padre della probabilità TENUE.Con esso si chiuse il periodo d'oro della esportazione della cultura siciliana. È sancita la completa ri-abilitazione di T. con la pubblicazione di “Verità vindicata” che NICETI da alle stampe a Roma. I suoi saggi sono stati riuniti in Methodus expeditae confessionis, Opuscola tria de confessione, Comunione et sacrificio missae, Expedita decaloghi explicatio. Libris decem digesta; De sacrificio missae Expedite celebrando libri III, Della consolazione della filosofia, Juris divini, juris naturalis et juris ecclesiastici, Expedita moralis explicatio, Complectens tractationes III, de Sacramentis, quae sunt de jure divino, DE CONTRATTIBVS, QVOS DIRIGIT IVS NATURALE; De censuris et irregularitate, quae sunt de iure ecclesiastico; Tractatus de bulla cruciata; Sanctissimae deiparae cultus in Sicilia; Nomen sublatum; Ragguagli delli ritratti della SS. Vergine Nostra Signora più celebri, che si riveriscono in varie Chiese nell'isola di Sicilia; Opera di Cajetano della Compagnia di Gesù; Germana doctrina R. Thomae perspicue refellens impugnationes baronii adversus illam allatas; Tractatus in V ecclesiae praecepta; Tractatus de jubileo manoscritto; Additamentum continens aliquot epistolas, et levem vindicationem contra Joannem Sinichium hybernum authorem libri Saul et Rex, bibl. Roma. Fondo Gesuitico, Traduce La consolazione della Filosofia. L'Anno dei Giorni Memorabili, da Nadasi della Compagnia di Gesù., Burgio, Il probabilismo, Catania, Soc. Storia Patria, Contenson, Theologiae mentis ob cordis, Tolosa, Deman, Probabilisme, Colonia, Hebermann, Enciclopedia cattolica, Appelton, Petrocchi, Il problema del lassismo, Roma, Storia e letteratura, Sinnichins, Saul et Pax, Lovanio, Nempaei, T., Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Tommaso Tamburino. Tamburino. Keywords: prudenza, probabilismo tenue, lassimo vs. rigorismo, Grice on rigorismo, azione di un uomo singolare, la forza del ragionare, la forza del sentire, il necesario, il costretto (co-actum), il violento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tamburino” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tafuri: la ragione conversazionale del bizarro – la scuola di Soleto -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Soleto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Soleto, Lecce, Puglia. Versatile e bizzarro ingegno, che dopo studi a Napoli e la Sorbona si ritira nel natio, dove ha un cenacolo di allievi filosofi dell’accademia esoterica. Il Socrate di Soleto è una personalità eclettica ed un affascinante intellettuale, amante della conoscenza e studioso e di molteplici campi della filosofia: alchimia, astronomia, astrologia, medicina, fisiognomica, e magia naturale. Al centro dei suoi interessi vi e lo studio dei fenomeni della natura, l'anima del mondo, il miracolo, le meraviglie del creato e l'unicità irripetibile di ogni essere umano. Considerato alla stregua di un nostradamus salentino è onorato e temuto per le sue capacità divinatorie e fisiognomiche tanto da attribuirgli demonologici. Un suo ritratto col rosso copricapo della Sorbona si trova nel dipinto ad opera del galatinese Rosario nella navata sinistra della chiesa Matrice di Soleto. Sepolto dapprima nella chiesetta di S. Lorenzo delli T. adiacente alla sua abitazione e poi, dopo la demolizione della cappella nel monastero di S. Nicola in una cassa di legno con lo stemma della famiglia. Sull'architrave della sua casa natale è inciso il motto, Humile so et humilta me basta/dragon diventaro se alcun me tasta. Con quest'iscrizione esprime e manifesta a chiunque passasse dalla sua dimora la sua mite natura caratteriale, mortificata dalle ingiurie e maldicenze in conseguenza delle quali puo trasformarsi, ironicamente, attraverso alchimia e magia, in un dragone. Nella Soleto e diffusa la consuetudine di incidere sulle architravi delle finestre, sui cornicioni dei balconi o all'interno di uno stemma, delle epigrafi con la finalità di motto. Un proverbio, una citazione, un passo letterario, filosofico, o religioso, e un pensiero personale descriveno la personalità e le attitudini del padrone di casa o invitano il passante a riflettere su un tema o un monito saggio e profondo. Lo stemma della famiglia, presente sulla porta della casa natia, è costituito da un albero di quercia con due fulmini che si scagliano contro ma non lo colpiscono. Un'aquila bicipite scolpita sopra fa pensare ad un'origine albanese della famiglia. Infatti molte famiglie albanesi e greche di confessione cristiano-ortodossa e cattolica sono costrette a fuggire ed alcune emigrarono nel Salento a causa dell'avanzata dei turchi che occupano i loro territori. Del salentin suol gloria ed onore, lo define Tommasi. E davvero egli e, tra i filosofi che fioreno in Puglia ben noto. Partito da Soleto per Napoli per approfondirsi nella matematica dopo la preparazione ricevuta a Zollino da Stiso, vi torna famoso e pieno di gloria. Desideroso solo di pace, apre una scuola di filosofia. Tra i suoi allievi:  CAVAZZA, VERNALEONE, SCARPA, e CORRADO. Assiduo verso gl’infermi, è anche di modello coi suoi saggi, di ammirazione e rispetto coi suoi consulti e dalla ignoranza popolana ritenuto un mago perché cultore di scienze inusitate quali l'astronomia e l'astrologia. Tornando da Padova, cioè dai più grandi centri culturali del tempo, solle certo le gelosie interessate di coloro che non sanno rassegnarsi al suo prestigio professionale. A ciò si aggiunse il vigile sospetto della curia arcivescovile messa sull'avviso dal concilio di Trento. Egli che porta per tutte parti l'amore per il suolo natio col nome di Matteo da Soleto, proprio in patria ha a difendersi da accuse di stregoneria come spesso avviene a chi, filosofo, si rende filantropo. È più volte interrogato per le sue capacità di previsione del futuro divinatorie ma è sempre rilasciato innocente.  Il codice vaticano è testimonianza pressoché l'unica superstite del suo impegno speculativo. Da questo capostipite molti furono i T. medici o giureconsulti che da Soleto trasferirono poi la loro residenza a Gallipoli, Nardò e Lecce Galatone. Così troviamo nel Liber baptesimorum dell'archivio parrocchiale di Soleto un clericus physicus Honofrius Taphurus filius eccellentissimi doctori Francisci che è padrino al battesimo di Carrozzini. Il pronipote di Onofrio, Vincenzo Maria e sindaco di Gallipoli  mentre il fratello di Onofrio, dottore in giurisprudenza, vive presso la corte di Napoli. Svariati giureconsulti, medici e sindaci a Lecce e Galatone. Ricordiamo, non per ultimo, Manni, La guglia, Galante, Nuove rivelazioni da un manoscritto, in 'Il filo di aracne'  -- Galatina, l'astrologo, Bernari  Istoria scrittori Regno di Napoli, Bernari. Bernari, Il mago di Soleto: T., Milano, Tommasi; G. B., Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Napoli, del Balzo di Presenzano, A., I del Balzo ed il loro tempo, Napoli, Manni, Guida di Soleto, Galatina, Manni, La guglia di Soleto, Galatina, Manni, La guglia, l'astrologo, la macàra, Galatina, Montinari, Soleto, Fasano, T., G. B., Istoria degli scrittori del regno di Napoli, Napoli, Bacca, Personaggi del sole culturale, Lecce Alchimia Galatina Giovanni Battista Della Porta Orsini Orsini Del Balzo Guglia di Raimondello Soleto. G. B. Tafuri. Matteo Tafuri. Tafuri. Keywords: mago. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tafuri” – The Swimming-Pool Library.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Tandasi: la ragione conversazionale del filosofo principe – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The philosophy tutor of Antonino. It is not known to which school he belongs. Grice: “As a consequence, we shouldn’t know to what school *Antonino*  does, but we do: Porch. Keywords: Porch, Antonino.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tarantino: la ragione cnversazionale dell’umanesimo – la scuola di Gravina -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gravina). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Gravina, Bari, Puglia. Noto per i suoi studi sul padre e per fondare insieme la sezione dell'istituto italiano per gli studi filosofici di cui è stato anche presidente. Ha saggi sulla pedagogia, la psicologia e l'umanesimo. Dopo la laurea, diviene insegnante per i licei italiani; in particolare, insegna al liceo Federico II di Svevia di Altamura dove uno dei suoi studenti è RUBINI. Nominato dirigente scolastico del Liceo di Altamura, porta la scuola al più alto numero di studenti mai raggiunto. In qualità di dirigente scolastico, si reca a Tokyo  per una visita di incontro tra scuole. Durante la sua permanenza si verifica un violento terremoto, che gli causa paura e notevoli disagi con un volo di ritorno pagato 4000 euro e un'assistenza a quanto pare insufficiente da parte delle autorità consolari del posto. Dirigente scolastico del liceo classico Luca de Samuele Cagnazzi, presidente di circoscrizione del Lions club Puglia Consigliere di Club del Lions Club Altamura Host Presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Altri saggi: “Speranze e proposte formative.  La lezione di T. (Bari); Dietro la ruota. Infanzia pregiata, Levante, Lezioni di volo, Bari,  L'inconscio e la coscienza nel pensiero di T., Bari,. L'umanesimo mediterraneo. Orizzonte storico-culturale per la costruzione di una cittadinanza cosmopolita, Storia antica e moderna dell'ordine del tempio, Nisroch, L'umanesimo di T., Aracne. Filippo Tarantino. Tarantino. Keywords: umanesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tarantino” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Tarantino: la ragione conversazionale dell’inconscio e la coscienza – la scuola di Gravina – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gravina). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Gravina, Bari, Puglia. Insegna a Pisa. Studia nel ginnasio e compì gli studi superiori a Pisa, dapprima come studente all'università della stessa città e successivamente come allievo della scuola normale superiore di Pisa. Inizia gli studi sotto la guida di FIORENTINO (si veda). Si laurea e segue a Napoli il maestro FIORENTINO. In sua memoria dedica al suo maestro “I Saggi Filosofici,” ottenne la docenza in filosofia. Inizia ad acquisire notorietà grazie ai saggi critici che pubblica sul Giornale Napoletano. Insegna al liceo Genovesi di Napoli. Compone il Saggio sulla volontà, Gennaro, Napoli.  Insegna al Marciano, e Pisa. Insegna anche alla scuola di pedagogia, dove tra i suoi insegnanti figura GENTILE. La sua notorietà cresce sempre più grazie ad alcuni suoi saggi critici pubblicati sulla Rivista di Filosofia Scientifica di MORSELLI, il più noto dei quali è su Locke. Tra i suoi studenti di Pisa più noti figurano NICOLA ed ACCADIA. Torna nella sua città natale, dove dona alla biblioteca Santomasi una parte cospicua dei suoi libri. A lui è stato intitolato il liceo. Altre saggi: Appunti di Filosofia, Toso, Aversa, Saggi filosofici, Napoli, Morano; Studio storico su Locke, Rivista di Filosofia, Milano-Torino, Dumolard; Saggio sul criticismo e sull'associazionismo, Napoli, Morano; In morte di CALDERONI, Vecchi, Trani; Saggio sulla volontà; Saggio sulle idee morali e politiche di Hobbes, Napoli, Giannini; Il problema della morale di fronte al positivismo e alla metafisica, Pisa, Valenti; Il principio dell'etica e la crisi morale, Napoli, Tessitore; Il concetto dello STATO ed il principio di nazionalità” (Napoli); “Discorso preposto alle traduzioni dal latino, dall’inglese e dal francese di SOTTILE, Napoli; VINCI (si veda) e la scienza della natura, Nel centenario di VINCI, La politica e la morale. Discorso, Pisa, Mariotti, Sulla riforma universitaria, Rivista di filosofia. Cfr. Turi, Gentile: una biografia, Firenze, Giunti,  Parzialmente Google Libri.) tarantino-inconscio,  tarantino-inconscio-, tarantino-inconscio-, Tarantino, Dibattista, Recchia-Luciani, L’inconscio e la coscienza nel pensiero di T.,  F. T., Adda, F., Speranze e proposte formative. La lezione di T., Bari, Levante, Amato, Orazione funebre in onore di T.. Giuseppe Tarantino. Tarantino. Keywords: inconscio, Gentile, Vinci, lo stato, la nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tarantino” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Taranto: la ragione conversazionale della colomba d’Archita – la scuola di Taranto – filosofia tarantina -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo tarantino. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. Grice: “I was insulted, if not offended, by The Cambridge Dictionary of Philosophy having ‘Anchita’ as Greek! The man as born in Taranto, Italy, and died in Taranto, Italy! – He was a Tarantoian!” – “My favourite of his philosophical tracts is “Della colomba,” – Strawson pointed out to me that since this is a mechanical (mechanical-mechanical) pigeon, I should have used ‘scare-quote’ gesture!” Filosofo, matematico e politico. Magnum in primis et præclarum virum -- Cicerone, De senectute. Appartenente alla seconda generazione della setta di Crotone, ne incarna i massimi principi secondo l'insegnamento dei suoi maestri FILOLAO ed EURITO. Figlio di Mesarco o di Estieo o di Mnesagora, nasce nella città della quale è stratego massimo, proprio nel periodo in cui Taranto raggiunge l'apice del suo sviluppo economico, politico e culturale. Conduce una vita austera, improntata a uno stretto auto-controllo nel rispetto delle rigide regole della setta di Crotone, ma non priva di umana socievolezza. Rcconta ELIANO che spesso quello s'intrattene a SCHERZARE CON I FIGLI DEI SUOI SCHIAVI e con questi stessi non disdegna di sedere assieme a banchetto. Abile uomo politico, si tramanda che è nominato per VII volte στρατηγός di Taranto, riuscendo ad essere un condottiero sempre vittorioso nelle sue battaglie. Probabilmente è anche stratego αὐτοκράτωρ della lega italiota, ricostituitasi dopo la morte di Dionisio I di Siracusa, e che ha come sede Eraclea. Non si sa se, nonostante il divieto della costituzione cittadina, è stato nominato consecutivamente. I suoi mandati vengono datati tra il II e il III viaggio di Platone, quindi potrebbero essere stati ricoperti anche uno di seguito all'altro. Attua una politica di sviluppo che porta Taranto a diventare la metropoli più ricca e importante della Magna Grecia. Con l'edificazione di monumenti, templi e edifici da nuovo lustro alla città. Potenzia il commercio stringendo relazioni con altri centri, come l'Istria, la Grecia, e l'Africa. Durante il suo governo, si dedica allo sviluppo dell'economia, favorendo l'agricoltura e insegnando egli stesso ai contadini i precetti per migliorare i raccolti. Spesso ricordava loro che Apollo non concesse altro a Falanto che fertili campi e ama ripetere. Se vi si domanda come Taranto è diventata grande, come si conservi tale, come si aumenti la sua ricchezza, voi potete con serena fronte e con gioia nel cuore rispondere: con la BUONA agricoltura, con la MIGLIORE agricoltura, con l'OTTIMA agricoltura. Nel campo legislativo promulga una legge per favorire l’equa distribuzione delle ricchezze, basandola sul principio dell'armonia matematica. Uomo di multiforme ingegno, s’interessa di scienza, musica ed astronomia e studia matematica con EUDOSSO di Cnido. La vastità di queste competenze si spiega con il fatto che la scuola di Crotone conceve la matematica, o meglio l'aritmo-geometria, fondamento della realtà naturale e l'universo come un cosmo, ordinato cioè secondo principi mistico-matematici dai quali si genera un'armonia musicale poiché la musica stessa si basa su precisi rapporti matematici. Crede che i principi delle matematiche sono i principi di tutti gl’esseri. Ora, il principi della matematiche e il numero. Pensa quindi che gl’elementi del numeoi sono elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo è armonia e numero -- Aristotele, Metafisica. Non a caso è stato il primo a proporre il raggruppamento delle discipline canoniche -- aritmetica, geometria, astronomia e musica -- nel quadrivium, l'ordinamento che riprende BOEZIO (si veda). Infine, la partecipazione alla scuola di Crotone, configurata come una setta mistica, è riservata a spiriti eletti e implica che gl’iniziati che la frequentano hanno disponibilità di tempo e denaro per trascurare ogni attività remunerativa e che puossono dedicarsi interamente alla filosofia -- da qui il carattere aristocratico del potere politico che Crotone e suoi filiali esercitano nella Magna Grecia ed Etruria fino a quando furono sostituiti dai regimi democratici. Conosce Platone quando questo soggiorna a Taranto nel suo primo viaggio verso Siracusa, dove ha un confronto piuttosto acceso con il tiranno Dionigi I sulla realizzazione di una possibile RIFORMA FILOSOFICA del suo governo. Questa'amicizia è preziosa per Platone quando compiendo questi il suo III e ultimo viaggio in Sicilia nel tentativo di realizzare la sua riforma, il tiranno Dionigi il giovane lo caccia dall'acropoli facendolo vivere nella casa di Archedemo, vicino ai mercenari che mal lo sopportano. È grazie ad Archita, il quale invia il tarantino pitagorico LAMISCO a Siracusa per convincere l'amico Dionigi a liberare Platone, che questo puo lasciare la Sicilia – “maledetta isola,” in parole di Platone.  Lo stesso Platone racconta così quegli avvenimenti in una lettera. Sembra che Archita si sia recato presso Dionisio. Perché io, prima di ripartire avevo unito Archita e i tarantini in rapporti di ospitalità e di amicizia con Dionisio. E così con un terzo invito Dionisio mi manda una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme manda un amico di Archita, Archedemo, che egli ritene fosse il più apprezzato da me tra quei di Sicilia, e altri siciliani a me noti. Altre lettere poi mi giungeno da parte di Archita e dei tarantini, che fanno grandi elogi dello zelo filosofico di Dionisio, e anche avverteno che, se non ando subito, avrei causato la completa rottura di quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che è di grande importanza politica. Vennero in molti da me, fra cui alcuni servi, e quindi miei concittadini. Essi mi riferivano che calunnie circolano su di me fra i peltasti, e che alcuni minacciano, se riusciano a cogliermi, di sopprimermi. Escogito allora qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire Archita e gl’altri amici di Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto un pretesto per un'ambasceria, mandano uno dei loro, LAMISCO, con una nave e trenta rematori. Costui, appena giunto, intercede per me presso Dionisio, dicendogli che io voglio lasciar e nient'altro che lasciar Sicilia. Dionisio accondisce e mi lascia andare, dandomi i mezzi per il viaggio. Archita muore a seguito di un naufragio probabilmente nel corso d’operazioni di guerra nelle acque di fronte a Mattinata sul Gargano e lì e sepolto, come riferisce ORAZIO. TE MARIS ET TERRÆ NVMEROQVE CARENTIS HARENÆ MENSOREM COHIBENT ARCHYTA PVLVERIS EXIGVI PROPE LITVS PARVA MATINVM MVNERA. Nonostante e visto dopo Socrate, è considerato un continuatore dei filosofi piu antichi, perché appartenne alla scuola di Crotone e si mantenne aderente al pensiero di questa setta, tant'è che basa le proprie idee filosofiche, politiche e morali sulla matematica. Al riguardo, infatti, così recitano due suoi frammenti. Quando un ragionamento matematico è stato trovato, controlla le fazioni politiche e aumenta concordia quando c'è manca l'ingiustizia, e regna l'uguaglianza. Con ragionamento matematico noi lasciamo da parte le differenze l'un con l'altro nei nostri comportamenti. Attraverso essa i poveri prendono dai potenti, ed i ricchi danno ai bisognosi, entrambi hanno fiducia nella matematica per ottenere un'azione uguale -- Giamblico, de comm. Math. Per essere bene informato sulle cose che non si conoscono, o si devono imparare d’altri o bisogna scoprirle da sé. Ora imparando si deduce da qualcun altro e ciò è straniero, mentre scoprendo da sé è PROPRIO. Scoprire senza cercare è difficile e raro, ma con la ricerca è maneggevole e facile, sebbene CHI NON SA CERCARE NON PUO TROVARE. Dollo, Istituto e museo di storia della scienza Archimede, Olschki. A lui sono tradizionalmente attribuiti molti testi. Sono sopravvissuti alcuni frammenti conservati nei saggi d’Ateneo e CICERONE e provenienti dai suoi discorsi morali, che delineano un filosofo più originale nel suo pensiero etico rispetto alla dottrina di Crotone e piuttosto influenzato dall’Accademia Viene considerato l'inventore della meccanica razionale e il fondatore della meccanica. Si dice che inventa due straordinarie apparecchiature meccaniche.  Un'apparecchiatura è un uccello meccanico, la famosa colomba, l'altra sua invenzione era un sonaglio per bambini. Il primo è descritto d’Aulo GELLIO (si veda), e ne tenta la ricostruzione Schmidt. Si tratta d'una colomba di legno, vuota all'interno, riempita d'aria compressa e fornita d'una valvola che permette apertura e chiusura, regolabile per mezzo di contrappesi. Messa su un albero, la colomba vola di ramo in ramo perché, apertasi la valvola, la fuoruscita dell'aria ne provoca l'ascensione. Ma giunta ad un altro ramo, la valvola o si chiudeva da sé, o veniva chiusa da chi faceva agire i contrappesi. E così di seguito, sino alla fuoruscita totale dell'aria compressa. Il secondo giocattolo, la raganella, ha fortuna. È ancora in uso e spesso si vede nelle fiere popolari di giocattoli. Nella forma originaria è costituita da una piccola ruota dentata fissata ad un bastoncino. Sulla ruota, da dente a dente, salta una molla cui è congiunto un pezzo di legno. Aristotele consiglia questo giocattolo ai genitori perché, divertendo e captando l'attenzione dei bambini, li distoglie dal prendere e rompere oggetti domestici. Si dice anche che inventa la carrucola e la vite, anticipando Archimede. Il più importante risultato ottenuto da lui è una soluzione tri-dimensionale del problema della duplicazione del cubo. Precedentemente, Ippocrate ri-conduce questo problema ad un problema di proporzionalità. Se a è il lato del cubo che si vuole duplicare, il problema consiste nel trovare due valori x e y medi proporzionali tra a e 2a, ovvero tali che  a:x=x:y=y:2. Trovati questi due valori, x rappresenta il lato del cubo con volume doppio. La costruzione geometrica utilizzata d’Archita per risolvere questo problema è uno dei primi esempi dell'introduzione del movimento in geometria. In esso si considera una curva, conosciuta come curva d’Archita, generata dall'intersezione della superficie di un cilindro e di un semi-cerchio in rotazione rispetto a uno dei suoi estremi. Si dedica anche alla teoria delle medie, e da il nome alla media armonica o media sub-contrari). Inoltre, dimostra che tra due numeri interi che sono nel rapporto {\{\frac {n}{n+1}}} non è possibile trovare nessun altro intero che e una media geometrica. Il risultato ha applicazione alla teoria delle scale musicali. Apuleio riporta un argomento di fisica trattato d’Archita: la natura della riflessione della luce sopra uno specchio. Platone pensa che dai nostri occhi partano dei raggi luminosi che vanno a mescolarsi con quelli che colpiscono lo specchio. Archita concorda col fatto che i raggi partano dai nostri occhi, ma senza combinarsi con alcuna cosa. Più felici furono le sue deduzioni sul rumore. Egli capì che provenivano dalle vibrazioni prodotte dall'urto dei corpi nell'aria. Da tale scoperta, formula l'ipotesi che anche i corpi celesti, dotati di continuo movimento, produceno rumore. Questo rumore però, non sarebbe udibile dai sensi umani, essendo non intervallato, ovvero continuo nel tempo. Molto interessanti sono gli studi di carattere sperimentale che conduceno a conoscere le cause che diversificano i suoni acuti dai gravi, diversità che sono in funzione della rapidità della vibrazione. Tanto più rapida è la vibrazione, tanto più acuto è il suono che ne proviene, e viceversa. Esperimenti sono eseguiti con flauti, zufoli, tamburelli, e si constata come anche LA VOCE UMANA segue questo principio. Nell'ambito della teoria musicale sviluppata dalla scuola di Crotone, ed esposta per la prima volta da Filolao, III contributi sono sicuramente dovuti ad Archita.  I è la teoria secondo cui l'altezza dei suoni è determinata dalla loro velocità di propagazione. Secondo Archita, una bacchetta che oscilla più velocemente -- con frequenza più alta -- produce un suono che si propaga con maggiore velocità nell'aria, e che di conseguenza è percepito come più alto, rispetto a una bacchetta che oscilla più lentamente. Questa teoria, per quanto non corretta dal punto di vista fisico e percettivo, rappresenta il primo tentativo di attribuire parametri quantitativi alla propagazione del suono, ed è ripresa da molti autori successivi -- inclusi Platone e Aristotele. Il secondo contributo è di natura specificamente matematica. Archita conosce la relazione fra intervalli musicali e frazioni che conduce alla costruzione della scala pitagorica. Uno dei problemi teorici connessi a quella costruzione è il perché gl’intervalli sono progressivamente suddivisi secondo quelle particolari proporzioni, anziché suddividere semplicemente ogn’intervallo in due sotto-intervalli uguali. Per comprendere la natura del problema si deve ricordare che per definizione gl’intervalli musicali si compongono moltiplicando fra loro i rapporti corrispondenti – v. g., la XVIII 2:1 si può ottenere componendo una V 3:2 con una IV 4:3, infatti 3:2 x 4:3 = 2:1). Quindi per suddividere un intervallo a:b in II parti uguali si deve trovare il medio proporzionale fra a e b, ossia il numero x tale che a:x = x:b -- ciò equivale a cercare la radice quadrata del rapporto a:b. Archità osserva che l'intervallo di doppia IV (4:1) si può suddividere in due sottointervalli uguali (rappresentati dal rapporto 2:1), ma dimostra matematicamente che nessun rapporto del tipo super-particulare {\ {\frac {n+1}{n}}} - genere a cui appartengono tutti gl’intervalli fondamentali della scala pitagorica (2:1, 3:2, 4:3, 9:8) - ammette un medio proporzionale fra i numeri interi. Quindi nessuno di quegli intervalli può essere suddiviso in due parti uguali -- se si mantiene l'ipotesi che ogni intervallo musicale corrisponda a un rapporto fra numeri interi. Infine, Archita descrive la costruzione delle scale musicali nei III generi: dia-tonico, cromatico ed en-armonico. Diversamente dalla scala pitagorica, il tetra-cordo dia-tonico proposto da Archita è formato dai rapporti 9:8, 8:7 e 28:27. Quello pitagorico contiene invece due intervalli di tono uguali, 9:8, e un semitono di 256:243. Nel tetra-cordo cromatico di Archita figurano gli intervalli 5:4, 36:35 e 28:27, e in quello enarmonico gli intervalli 32:27, 243:224 e 28:27. Questi valori sono riportati da Tolomeo, che afferma che si basa sulla necessità teorica di descrivere tutti gl’intervalli consonanti con rapporti superparticulari -- e tuttavia nel tetracordo enarmonico figurano rapporti che non appartengono a quel genere. I filosofi hanno invece ipotizzato che Archita vuole descrivere matematicamente le scale musicali effettivamente in uso nella pratica a lui contemporanea, sulla base dell'osservazione diretta delle tecniche di accordatura usate dai musicisti. Archita si propone di superare il problema dei commi musicali. Afferma che l'VIII puo essere divisa in 12 semitoni uguali ed indica un divisore che ne consentisse la partizione, cioè un numero prossimo ad un terzo di л. In effetti il divisore dell'VIII della scala temperata, la radice XII di 2 =1,0594630943592…. è prossima a л/3=1,0471975 postulato sia da lui che d’Aristosseno. La divisione dell'VIII a cui Archita pervenne è la seguente: л/3, Л 4/11, Л 3/8, Л 2/5, Л 3/7, Л 5/11, Л 9/19, л/2, Л 7/13, Л 4/7,Л 3/5 Л 7/11, nell'ordine: II min., II maggiore, III minore, III maggiore, IV giusta, IV eccedente, V giusta, VI minore, VI maggiore, VII minore, VII maggiore, VIII. Il divisore proposto d’Archita porta a differenze con la scala temperata dell'ordine delle decine di centesimi di semitono. È trattata da Archita in un passo di Eudemo da Rodinel suo commento alla “Fisica” di Aristotele, nel quale si discute il problema della dimensione dell'universo. Per Archita l'universo è infinito. Se mi trovassi all'ultimo cielo, cioè a quello delle stelle fisse, potrei stendere la mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch'io non possa, è assurdo. Ma se la stendo, allora esiste un di fuori, sia corpo sia spazio -- non fa differenza. Sempre dunque si procede allo stesso modo verso il termine di volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e se sempre vi è altro a cui possa tendersi la bacchetta, è chiaro che anche è interminato. In Enciclopedia Garzanti di Filosofia Archita. Museo Nazionale e archeologico di Taranto. Riedweg, Pitagora: vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, Ceglia, Bari. Seminario di storia della scienza, Scienziati di Puglia: Adda, CICERONE, De senectute, ELIANO, Varia istoria; Ateneo; Dizionario di filosofia, Treccani alla voce corrispondente. Pareti, Storia della regione Lucano-Bruzzia nell'Antichità, Storia e Letteratura, Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini leggendarie alla CONQUISTA ROMANA, Edipuglia. Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana, Edipuglia srl,  Ai tarantini, citato in La Voce del Popolo, Dizionario della civiltà, Gremese Editore, Nicola, Atlante illustrato di Filosofia, Giunti. “κόσμος” nasce in ambito militare per designare l'esercito schierato ordinatamente per la battaglia (in Sesto Empirico, Adv. Math.); Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, Edizioni Arkeios, Pichot, La nascita della scienza: Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, Edizioni Dedalo,Cfr. anche Bonghi, Delle relazioni della filosofia colla società: prolusione, Vallardi. Secondo una tradizione apocrifa Archita trae dalla filosofia dell’accademia la convinzione della immortalità dell'anima. Al contrario CICERONE ritiene che Platone si reca in Sicilia per conoscere le dottrine pitagoriche che apprende da Archita e che condivide divenendo lui stesso pitagorico. Cfr. CICERONE, De Repubblica, De finibus bonorum et malorum, Tuscolanae disputationes, D. Laerzio, Platone, Lettera, Vita di Platone.  Urso, La morte d’Archita e l'alleanza fra Taranto e Archidamo di Sparta, Aevum, Taddei, I robot di Vinci: la meccanica e i nuovi automi nei codici svelati, ed. VINCI, GELLIO, Notti Attiche, Aristotele, Pol., Pitoni, Storia della fisica, Società tipografico-editrice, Boyer, Carl B., Storia della matematica, Apuleio, Apologia; Platone, Timeo, A  Giambico, in Nicom.; Ceglia, Università di Bari. Seminario di storia della scienza, Scienziati di Puglia: dda, p.1ific. Huffman, Archytas of Tarentum. Pythagorean, Philosopher and Mathematician King, Cambridge -- l'edizione più completa dei frammenti --; Cardini, I pitagorici, testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze Platone, Lettere, Mondadori; Grande, Archita e i suoi tempi, Taranto, Cressati  Paris; Olivieri, Su Archita tarantino, memoria letta all'Accademia Pontaniana; Frajese, Attraverso la storia della Matematica, Veschi, Roma Stante, I problemi di terzo grado e Archita da Taranto,  Lecce; Tagliente, “La colomba d’Archita”, Scorpione, Taranto; Tagliente, Il mistero del trattato perduto, Scorpione, Taranto A. D. Abbaiatore, Scritture Musicali greche, Teoria armonica ed Acustica, Taranto nella civiltà, Napoli Taranto e il Mediterraneo, ISAMG Taranto, Filosofia e scienze, Napoli Eredità, Taranto, Alessandro il Molosso e i condottieri, Taranto, Teofilato, "Interpretazione di Archita" dalla rassegna Vecchio e Nuovo di Lecce; Mele, Archita, i suoi tempi e il suo pensiero, in Taranto tra Classicità e Umanesimo, Scorpione Editrice Taranto; Personalità legate a Taranto Raganella (strumento musicale) Eudosso di Cnido. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A buon diritto chiamare l'inventore de'moderni palloni arrostatici. Però un secolo prima a LANA, SCALIGERO, a proposito della colomba volante d'Archita, della quale parla ORAZIO nell e sue odi, indica il modo di costruirla. Nulla di più facile, dice. Basta comporre la sostanza con midolla di giunco, e diligentemente coprirla colla pelle adoperata dai battiloro. Mediante un facile meccanismo sipuò dar movimento alle ali. Scaligero scorda di avvertire che bisogna riscaldare l'aria interna con un lumicino quando rolevasi farla volare. Cosi trova il modo di far salire nell'aria un pallone in forma di colomba, dacchè tutto fa credere che i mezzi impiegati da questo filosofo sono gl'identici che quelli impiegati oggigiorno per levare i palloni. Quanto al ritorno della colomba, obbediente alla voce d'Archita, questa evidentemente è una favola. Sempre, a un fatto sorprendente, l'immaginazione aggiunge circostanze impossibili. Ma ciò che io credo innegabile è che l'areostato èconosciuto a tempi detti favolosi, e che, amio parere, sono reminiscenze di una civiltà perduta, che Vico chiama il regno degli dei. Quegli ignivomi draghi. SULLA COLOMBA Entre a pišivago, e più superbo volo pel regno aereo l'ali fu e spandea, e di spirto novello acquisto fea La Colomba d'Archita inverso il Polo, volgendo a caso i suoi begl’occhi al suolo del terzo ciel la vezzofetta dea, la vide, e per rapirla già scendea da quel de' dei seggio beato, e solo. Allor grido, e quafi fu per dire: Oh così fosse pur la mia. Colomba, Fattasi Citerea con gran desire, di legno fols'avvide: esserl'augello. ARCHITA. Juan. Juven. Ital. Sacr. in Tarentin. Mitrop.  Lamb. in Schol. Horat. Od.) regnasse più di un’anno. I nuove grazie adorna il suo bel volto D LLi:etasengiva in maestà reale astrea, mirando venerato, e colto fa più volte prefetto della sua patria, ancorchè le leggi comandassero, che nessuno in tempo di sua vita quel delle leggi fu e pregio immortale. Quando Prudenza, il dolce fuon disciolto, figlia d' eccelsa mente, e trionfale, non titurbar, le diffese sia tolto il primier di regnare ordine uguale. Tempo verrà che in arme, e in toga imperi più d'un'anno al suo ftuoi, mai sempre intento Archita a nuove glorie, e a bei pensieri. E a Leila Diva, in cento modi, e certo muta pur leggi, e Fafti miei primieri, Purchè Archita mio regni, io mi contento. Diogen. Laert. in Vit. Archyt. In Joan. Buno. not. ad Philip. Cluver. ARCHITA FILOSOFO PITTAGORICO, E MATEMATICO E PERITISSIMO. Odar chi mai tanto ti può, che basti, alma immortal degnissima d'impero? Chi dir di tue virtudi il volo altero, per cui fovra ogni saggio alto poggiasti? Del ciel le stelle, e i moti lor sì vasti, tu delle cose le cagioni, e'l vero, e quanto il mare, e l'universo intero circonda, e abbraccia, chiaro a noi mostrasti, tu, ch'eccedi de’ savii i bei consigli già di ogni uman pensier reso maggiore, quanto il sol delle stelle avanza irai, tu, che te stesso, e null? altro somigli, coll'auree del tuo suon note canore tu sol di tue virtù cantar potrai. Diogen. Laert. in vit. Archyt. For eft. Joan. Juven. Tarentin. Lambin in Scbol. Horat. Od. Nicol. Parth. Giannet. in Geograph. SEN. TARENTINO, Scrivendo contro il Piacere. O So, chemente all'Von dona, e Tume aquella; SENTIMENTI D'ARCHITA chi dietro alsuo piacer brutale corre, e del sensorio fà l’alma ancella, bruto diventa agli altri bruti eguale, tutto perdendo il bel, che aveva in ella. Senza lume si vago, e rilucente Joan. Juven. Tarentin.  Mente, ch'èper fuo pregio trionfale della divinità parte più bella che quando avvien, che sopra l'alma impero abbia il piacere, allor cieca è lamente è cieca la ragion, cieco è 'l pensiero. Oprano i bruti, e senza il suo primiero lume fia, chel'uom bruto anchedivente. E pur ESER,   Diogen. Lacrt. in vit. Archyt. Foreft. Joan. Juven. Tarentin. Mille a mille empj nemici, incampo scendete pure, e con terribil grido, no uche con quel dell'armi orrido lampo Fate tremar dell'onde Jonie illido. ESERCITO TARENTINO NON MAI VINTO, ESSENDO CAPITANO. Là nel Galelo col suo nobil campo Itene or lieti delle forze usate, faran del vostro suol le schiere armate, finchè Archita sia duce, alta vendetta. ARCHITA v'aspetta il bravo duce. E già lo strido de' corni i' fento, en el cercarlo scampo già cader vi vegg'io pel colpo infido, ed alla patria, che il trionfo aspetta, le tolte spoglie in vostro onormostrate. Se per ostil cadeste atra disdetta, LA, ARCHITA D'ESSER CAPITANO, PER SOTTRARSI ALL'INVIDIA, L'ESERCITO DE TARENTINI E' FATTO PRIGIONE DA NEMICI. Arme il fulgore insiem spaventa, e sfida co’luoi deftrieri i cavalier, già scende sangue da larga vena in terra infida, mira Tarento mio, quei, che fen muore, hàgli spinti l'invidia a tante pene. LASCIANDO DO di guerra sonar le trombe orrende? di come il rio Marte all'alte strida di quel drappello, e questo i cuori accende, perchè col ferro suo l'un l' altro ancidas arme, arme fre me ognun: già di tremende e quei, che'l braccio stende alle catene son dolci figli,  oimè, del tuo dolore, freme contro d'Archita il rio livore, E lull'alme innocenti il mal senviene. Diogen: Laert, in vit. Archyt. Joon. Juven. Tarentin. AR.: ad altri venduto, ed alla fine è riscattato offri; buon savio, soffri. Ecco fortuna S di mortal sfavillando atro disdegno sue forze impiega, e l'arme sue raduna, per far del tuo valor sterminio indegno, già l'empia, oime! con faccia torva, e bruna scocca saette últrici, e ben al sogno colpito hà omai; ve come in preda d'una ti dà vile ciurmaglia in fragil legno. TARENTINO ARCHIT. A peregrinando per imparare, è preso dà’ corsari, serve ma che sie; se delcuorle forti tempre Alexand. ab Alexand, Joan. Juven. Tarentin. Di. Pur non è fazia no, schiavo al servaggio Ti mena ancor, perchè nel duol di stempre il magnanimo tuo nobil coraggio rassoda più ne'colpi suoil'Vom saggio, E di sua libertà gode mai sempre, PLATONE DOPO AVER CAMMINATO L'EGITIO, VIENE IN ITALIA PER IMPARAR SOTTO LA DISCIPLINA, edesti pur, come il gran Nilo altero, da perenne sboccando occulta fonte ogni argine disprezzi, ed ogniponte, e i campi ad ipopdar si apra il sentiero e di vi asperto di sudor la fronte delle scienze falisti all' arduo monte, e ti fur quelle il solo premio intero, ed or, per sulle scienze alzare un volo sotto l’aurea d'Archita arte gentile, cerchi il Galeso, e l Tarentino luolo? Dunque in Egitto Eroenonv hà simile, CICERONE de finib. bonor. molor. Foreft: Joan. Juven. Tarentin. DOPS V D'ARCHITA TARENTINO si, vedesti l’egizio, e 'l greco impero, ARCHI. Nè ingegno in Grecia, al solo Archita, al solo suo noro ingegno, anche oltre Battro, e Tile.    A ARCHI. Pri, Fortuna, per un solmomento gl’occhi, cui buja notte orrida cuopre, e mira, le il tuo solle afproardimento contro savio maggior sua forza adopre. Questi è il gran Platone, e quegli son que cento Folle, Re Plato al tuo servil flagello ARCHITA TARENTINO RISCATTA PLATONE PRESO DA CORSARI. Empj ladron, per le cui mani, ed opre schiavo il facefti; or com 'ei sparge al vento gl’infranti lacci, e in libertà li scuopre? Com e il trionfo, che del suo servaggio ornar credesti e de' suoi guai far bello, qual peve dilegudfli al caldo raggio? Menalti, a un cenno sol d'Archita il saggio cara torna la libertà di quello. Joan. Juven.T'arentin. e  Se avvien, che della gloria i m i diftempre La bella gloria è tua, fe Plato apprese che del tuo figlio al nome accrebbe il vanto, CICERONE, de finib.bon.domal. Fiscula Joan.Juven. Tarcntin. ARCHI. ARCHITA MAESTRO DI PLATONE. C Figlio di puro core, e viva immago, che vero io canto, efoldiluimi appago, dice un giorno Atene in dolci tempre, dal tuo gran figlio Archita il pregio santo, E B alme di virtude auree contefe. ella è mia pure, e téco i fafti io canto: Poich? Ei tal lume in tutto il mondo accese, nel gaudio, el corc in fuperbito, e pago pel mio Plato or fen vada, un don si vago A te, Tarento mio, debbo mai sempre. ARCHITA CAMPA PLATONE DALLA MORTE INTENTATAGLI DA DIONISIO TIRANNO. AR,  Due Polato il scan Plato, ahimè, quel saggio, t Veloce sahi laffo a tramontar quel raggio Det rio fallir le pene: omai trionfi si bella dote, e vinca ancor sapienza. Si disse Archita; e i fieri petti, e tronfi. Placando al gran poter d'aurea eloquenza, morrà, perchè un tiranno indegno d'ostro sogna sospetti, e teme indarno oltraggio? Correrà, che dà lume al secol nostro? Ed io, perchè più viva, ancor non mostro, Non mostro, ancor dell'anima il coraggio? No, che non porterà l'alma innocenza Plato all'ombra viveade'suoi trionfi. CICERONE Tuscul. Diogen. Laert. Vit. Archyt., o Platon. Juan. Juven. Tarentin. Ital. Sacr. in Torentin. Metrop. Plutar. in Platon. Sabell. Ennead. ARCHITA TARENTINO A PLATONE. Se amica pioggia a temprar mai l'ardore scende dal ciel, non giace no più china La fronte lor, ma col nacio colore s'innalza si, che al ciel più si avvicina; lasso ! calo io restai, allor che infermo Starte neudj fra pene, o mio buon Plato senza ajuto languendo, e senza schermo. Ma or che di sua vita al primo stato fatto hai ritorno, io mi rinfranco, e fermo pertemi rendo, cfon, qual pria, beato. Q Diogen. Laert. in vit. Archyt. Joan.Juven. Tarentin. Val Yenza umor giglio languisce, o fiore, E scolorito à terra il capo inchina, questo il vermiglio onor, quello il candore Perdendo a poco a poco in sua ruina: PLA. Q A te del loro autor duce sì pio in mezzo del cammino elle si stanno, pss.) Ma giugnere alla meta orgoglio sette Ben le vedrai, fe nuovo spirto avranno, PLATONE MANDA ISUOI COMMENTARIJ AD ARCHITA TARENT INV. Veste assai più, che dell'ingegno mio, opre de'tuoi fudori, onde a be'studii delle più gloriofe alte virtudi La mia mente infiammaiti, el buon deslo, Opre dunque son elle ora imperfette. Raro è però l'onor, se a te verranno; Più raro, le giammai fien da te lette. Diogen Lacrt. in vit. Archyt. Platon.in Epist. Vengono, Archita. O: tu le leggi, e i nudi sensi del tuo saver poi mi dischiudi con quella libertà, con cui le invio, PLA, Gloria dai tuoi si provvi di sudori, soffri in regnar, grida la Patria, e uffici Mostra di quel, che sei, Signor de cuori, E tu mal grado imperi? et ila mente Non fei; la Patria hà in te parte del tutto. Non oscuro è il linguaggio; od i mia mente: O rendi alla tua Patria il ben, ch'èsuo, O del suo ben fà, ch'ella n'abbia il frutto. CICERONE de finib. bonor. comalor. la de Offic. Joan. Juven. Tarentin. in Prefate do Lib.z. Cap.2. Platon. in Epif. gi  PLATONE TÀRENTINO VN malele solo (AD ARCHITA On, a se folo no, nasce agli Amici, nasce alla patria l'uom, nasce a Maggiori, E dal bel nascer suo giorni felici speran questi, e sperar voglion tesori. Or soffri, o Figlio, o tu, che tanta elici De' gran pubblici affari? ah che sol tua SULLA AD ARCHITA TARENTINO, Del buon governo, e loro fren spogliace. O naufragar, dall'empie arti indiscrete di piggior duce a morte ria guidate: El soffriran del cuor le tempre? Ah fiamma D'amor mostrate, evoi la Patria bella Reggete: omai con quell'ardor, che infiammar così lungi da lei strage rubella Sen fuggirà, qual Cervio a i colpi, o Damma, O, che viver a voi non mai potrete; Se non vivrete ad altri se se pensate Goder mai signoria, nè servirete Alle pubbliche cose, alle private, O vacillar ben presto le vedrete E poi fia vostra gloria il ben di quella. In argument. 9. ad Epist. 9. Platon, D'ARCHITA Ad de Archita, e vidjo senza conforto E scorse fino all' ultimo confine La Terra, e il Ciel coll'arti fue divine, Archita il grande, il nostro padre è morto! Del mar le Dive usciro al pio lamento. SULLA MORTE. Pianger lo stuol da rio dolore assorto. Oimè, dicean, chi dall'Occafo all'Orto, CAdele Dell'alte sue virtudi, e pellegrine, Pallido il viso, e lacerato il crine, E in lor leggendo i gran pubblici danni Pianfero', e poi partiro, e di Tarento Giunte alla Reggia: or vesti i negri panni Da e r, bella Città: per tuo tormento Archita è morto ahi sul bel fior degli anni ! Horat. ORAZIO od. E Diede il Popot Matin l'ultime prove se'l crudo suo destino unqua vi spiacque Le bell*ossadi Lui, che tanto piacque Abbian lieve la terra; e poi partite. Horat. od. Joan.Juven. Tarentin. za SULL’INVITO A RIMIRARE IL TUMULO D'ARCHITA PRESSO AL LIDO MATINO, Ccop Urna funefta. Alme ben nate, Cui di pietà l'amabil forza muove, Deh fermatevi alquanto, e rimirate, Pria di ftendere il passo agile altrove. Qui le fante d Archita ossa onorate Giaccio n sepolte, e qui spargendo nuove: Piogge d'amaro pianto, di pietate del passato dolore in segno ah dite:. th Allor, che in mar precipitò, smarrite Sue forze, e in franto illeguo in mezzo all'acques   Di Natura le fonti più segrete; Chi dall'onda fatal raplo diLete L e naufraghe virtudi, e l ebbe accanto; Chi le vie seppe drittamonte torte, i Percui la Luna appar', el Sols’asconde,  Aili ah yoi le face offa, e'l cener fanto Di quell Almagentilahicitogliete, Che fù si chiara al Mondo, e vi godete Della vera fapienza il facro immanto. Chi a noi mostrò con tanto studio, e tanto Horat. od. Joan. Juven.Tarentin. SUL SEPOLCRO EUDOS D.ARCHITA TARENTINO. Chi 'n Terra,e 'n Ciel la ferma, e mobil sorte; chi come il foco, el Aere, el suolo, e l'onde s'abbraccin, seppe, orquìsengiace. Oń Morte, Oh duri fastí, ohcieche ombre profonde? S quanto mai di bello in Ciel fi additag; Ne panni no, ma nella mente fiede. Diogen. Laert. in vit.Eudox. Foreft. Tom.1. Lib. 8.Cap. 4  Joan. Juven, Tarentin. Q. EUDOSSO DA GNIDO FAMOSISSIMO MATEMATICO DISCEPOLO ARCHITA NON FU'RICEVUTO DA PLATONE ALLA D Mira come in udir fuo ftile adorno La tua fuperbia, e'lfollear direon danni. No, non dovevi il gran Figliuol d'Archita SUA SCUOLA,PER ESSER POVERO, Vesti, o Platon, che tu schernisti un giorno Perchè di povertà fentia gli affanni Questi è colui fe pur nol fai che intorno Del fuo grave faver difpiega i vanni, Gnido vi spenda il più bel fior degli anni; E come giusta ad immortal tuo scorno Si vilmente scacciar dalla tua fede Qualor baffamenava umile vita. Poichè virtude, onde 1 U o m farli erede. ARCHYTAS OF TARENTUM (fifth/fourth century BC) Archytas was a Pythagorean and a friend of Plato. When Plato got into trouble in Syracuse, Archytas sent Lamiscus of Tarentum to go and rescue him. His interests were wide-ranging, but lay primarily in pure and applied mathematics. It is thought that Plato acquired a great deal of what he knew about mathematics from Archytas. He made advances in geometry and contributed to musical theory. According to lamblichus of Chalcis, he took the view that parts could only be understood properly in the context of the wholes to which they belonged. However, it is not clear whether this view should properly be attributed to him as his name became attached to a number of later Pythagorean writings long after his death. Huffman, Archytas of Tarentum: Pythagorean, Philosopher and Mathematician King, Cambridge, Cambridge University Press, Huffman, 'Archytas', The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Zalta, plato.stanford Archita.  Archita da Taranto. Taranto. Keywords: Cicerone, scuola di Crotona, scuola di Taranto, scuola di Ponto Magno, la colomba d’Archita, Platone, magna Grecia, piccione viaggiatore, il vuolo della colomba, Gellio, Notte romane. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Taranto” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tari: la ragione conversazionale e l’origine del linguaggio, o la questione spuria favorita da Grice  – la scuola di Villa Santa Maria Capua Vetere – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Villa Santa Maria Capua Vetere). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Capua Vetere, Caserta, Campania. Di famiglia originaria di Terelle, nel Frusinate, nasce in palazzo Mazzocchi, anch'essa rientrante in Terra di Lavoro, da un impiegato che si trova lì di passaggio. Il palazzo natìo ove aveva schiuso gl’occhi anche l'archeologo Mazzocchi. Studia a Montecassino, dove conosce SPAVENTA (si veda). Si trasfere a Napoli dove si laurea. Ben presto però all'avvocatura prefere la filosofia, unendosi all'amico SPAVENTA, a CUSANO, a SANCTIS, e ad altri filosofi liberali e collaborando a vari giornali letterari partenopei. Entra per concorso nella Regia Napoli, divenendo cattedratico di estetica, nello stesso periodo in cui vi insegnano anche SANCTIS, SETTEMBRINI, SPAVENTA, E BOVIO. Si dedica a vari rami della filosofia e delle scienze del linguaggio per Detken, saggi di Brothier, Moindron  e Noel. Il suo sistema estetico, variamente criticato, in particolare per la scarsa originalità, si caratterizza per una vivacità espressiva, con ricche e talvolta variopinte esemplificazioni, che peraltro ne resero celebri e molto frequentate le lezioni. CROCE define T. il lieto giullare della filosofia. T. non ha mai nemici, riuscendo a farsi ben volere sia dagl’amici sia dagl’avversari, che prende a braccetto, e li mena a spasso con sé, DIVERTENDOSI A CONTRA-DIRLI -- e a sentirsi contradetto. Quasi ad avallare la definizione sopra riportata,  ha anche a rilevare che la sua bizzarra genialità gli fa trovare piacere nei ravvicinamenti e collegamenti più disparati e più comici: della frase sublime con la scherzosa, del ricordo solenne con l'aneddoto salace, del linguaggio latino o del tedesco col vernacolo napoletano. Parla in gergo, ma in gergo che è quintessenza di cultura e stravagante miscuglio di elementi geniali. Filosofo di professione ed uomo di dottrina enciclopedica, nonostante tutta la sua perizia filosofica, la sua sterminata dottrina e il suo molto acume, e soprattutto un bizzarro artista. La sua concezione metafisica non gli concede una trattazione veramente logica dei problemi. Ma la sua personalità, vibrante di commozione innanzi alle opere dell'arte, riboccante di entusiasmo, dotata di bontà e di nobiltà di sentire, gl’ispira una filosofia che e di una specie assai rara in Italia. L'essenza giocosa si mischia, confondendosi, con un'acuta critica, che si rivolge a tutti i campi in cui l'estetica si sostanzia e, in particolare, ad una delle arti al quale e più attratto, come la musica, il melodramma, o la logica formale proposizionale del Portico. Tra il serio e il faceto, infatti, pubblica un saggio su Serietà e ludo, Regia Università, Napoli, e compone un saggio musicale, con tanto di note, dal titolo in tal senso emblematico di “Lezioni di estetica generale”. Questo indirizzo lo porta ad occuparsi anche sulla celebre pastorale di Beethoven. Altre saggi: Estetica ideale, Fibreno, Napoli, Ente spirito e reale: confessioni filosofiche, Regia Università, Napoli, Melodramma, dramma, Regia Università, Napoli, Critica, Vecchi, Trani, Estetica e metafisica, Laterza, Bari, Estetica esistenziale, Morano, Napoli, L'estetica reale, Prometheus, Milano, Dizionario dei cittadini notevoli di Terra di Lavoro antichi e moderni, Forni, Bologna, Ed. Spartaco, Santa Maria Capua Vetere; Licatese, Storia e monumenti di Santa Maria Capua Vetere, Stampa Sud, Curti, Storia popolare della filosofia, Detken, Napoli, Origine del linguaggio, Detken, Napoli, Il contratto, Detken, Napoli; Croce, La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, Laterza, Bari, Lezioni d’estetica generale, Tocco, Napoli, La sinfonia pastorale, Regia Università, Napoli, Leotta, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, Solitario, La Critica di CROCE. Contributo per un recupero, Prometheus, Milano; Solitario, Cultura filosofica, Prometheus, Milano; Treccani Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Archivi di Teatro Napoli. Antonio Tari. Tari. Keywords: ‘origine del linguaggio.” Refs. Luigi Speranza, “Grice e Tari” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tartarotti: la ragione conversazionale della differenza delle voci nella lingua italiana e la sua rilevanza filosofica, o dell’ omicidio rituale  -- la scuola di Rovereto – filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo trentino. Filosofo italiano. Rovereto, Trento, Trentino-Alto Adige. Divenne famoso per aver contrastato i processi contro i streghi e per aver osteggiato la devozione per il vescovo del XII secolo Adelpreto, mettendone in discussione santità e martirio. Impersona la figura del filosofo che non si lascia limitare dal luogo nel quale nasce, cioè nel Trentino, lontano dai grandi centri culturali del tempo. Sa anzi sfruttare le opportunità e le peculiarità di Rovereto, al confine tra mondo tedesco e italiano, in un periodo storico nel quale rifiorirono i commerci e i rapporti economici, grazie al suo trovarsi su una delle principali vie di comunicazione in Europa. Suo merito è la capacità di saper tessere legami con filosofi italiani che risiedevano a Venezia, Roma, Salisburgo, Torino, Brescia, Vienna, Innsbruck. Utrecht e Parigi.  Studia nell'imperial regio ginnasio. Si interessa di filosofia, che segue a Padova. Si interessò personalmente per far insediare nella Città della Quercia la stamperia di Berno e fonda l'Accademia dei dodonei. A Verona conosce Maffei e altri filosofi, poi ad Innsbruck, dove lavora di precettore. Si trasfere a Roma, come segretario di Passionei.  Durante le sue permanenze roveretane, vive nella stessa casa dove abita Vannetti e dove questi iniziarono a tenere un vivace SALOTTO FILOSOFICO che porta, probabilmente su ispirazione dello stesso T., alla nascita all’altra accademia, degl’agiati. Il soggiorno romano è breve, per passionati contrasti con PASSIONEI, quindi fa ritorno a Rovereto. Si trasfere a Venezia, come collaboratore di Foscarini. Ha discussioni anche con Foscarini e torna ancora una volta a Rovereto. T. si dimostra poco propenso ad accettare l'aiuto di mecenati che lo avrebbero limitato nella sua libertà e approfittò dell’occasioni che gli venivano offerte lontano da Rovereto per consultare biblioteche o incontrare filosofi. Tartarotti si dedica agli studi filosofici interessandosi per approfondire tematiche della scolastica. Infatti, scrive saggi critici nei confronti di questa. Collabora con Calogerà per la sua Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, e venne in polemica con Trento dimostrando, in una sua pubblicazione, che la città tridentina divenne sede episcopale solo nel IV secolo e non al tempo dei primi apostoli.  Pubblica “Congresso notturno delle lammie”, il suo saggio più noto, nel quale dichiara inesistente la stregoneria come la si vuole descrivere al suo tempo, e questo sulla base della FILOSOFIA. Pubblica nei “Rerum Italicarum scriptores” le sue conclusioni relative alla cronaca di Dandolo e correggendone le fonti nelle sue basi documentarie. Continua nelle indagini storiche e dimostra che era sbagliata la venerazione dei trentini per Adelpreto. La sua tesi è spiegata nella Lettera contro la santità (se non il martirio) d’Alberto. Un’altro saggio, sempre legato a questo tema sono le Notizie istorico-critiche intorno a Adalpreto.” Questo saggio venne messo al rogo su disposizione del principe d’Enno. Sempre amante della piu oscura filosofi, quando non gli fu possibile viaggiare per acquistare trattati personalmente si affida a contatti che col tempo divennero per lui preziosi per procurarseli. A Verona poté contare su Ottolini, a Brescia su Mazzucchelli, a Modena su Muratori, a Venezia su Carli. A Rovereto è molto vicino a Vannetti, degl’agiati, e anche da lui ebbe aiuti per procurasi i testi dei quali aveva bisogno per i suoi studi. A Vannetti è legato anche per altri motivi, essendo precettore del fratello di lei. Si procura libri anche grazie a donazioni, eredità e prestiti. Vannetti e Saibante si spesero dell’acquisizione culturale per Rovereto avesse successo, e l'atto di compravendita venne registrato. T. è molto attivo a Rovereto e si spese per portare una maggior apertura culturale in città facilitando l'arrivo di un tipografo, fondando l'accademia dei Dodonei, svolgendo il ruolo di precettore per due dei fondatori dell'Accademia Roveretana degli Agiati, ma non divenne mai un socio di quella istituzione.  Le ragioni del suo rifiuto di far parte di quell'accademia, che pure risponde a molte delle esigenze che sente anche sue, sono diverse. La principale è la forte inimicizia con Maffei, e il fatto che l'uomo di lettere veronese entra tra i primi come socio aggregato dell'associazione. Questo fa sì che non partecipa alle riunioni del nascente sodalizio culturale roveretano. Altri saggi: “Ragionamento intorno alla poesia lirica Toscana”; “Delle disfide letterarie, o sia pubbliche difese di conclusion”; “De auctoribus ab Andrea Dandulo laudatis in Chronico Veneto”; “Apologia del Congresso notturno delle Lammie”; “Memorie antiche di Rovereto e dei luoghi circonvicini”, “Apologia delle Memorie antiche di Rovereto”; “Lettera seconda di un giornalista d'Italia ad un giornalista oltra-montano sopra il libro intitolato: Notizie istorico-critiche intorno al b. m. Adalpreto Vescovo di Trento, Alcuni saggi sono pubblicati nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici: “Relazione d'un manoscritto dell'Istoria manoscritta di Giovanni Diacono veronese”; “Dissertazione intorno all'arte critica”; “Lettera al sig. N. N. intorno alla sua tragedia intitolata ‘il Costantino’; LETTERA INTORNO ALLA DIFFERENZA DELLE VOCI NELLA LINGUA ITALIANA; “Osservazioni sopra la Sofonisba del Trissino con prefazione di Vannetti, La conclusione dei frati francescani riformati; Annotazioni al Dialogo delle false esercitazioni delle scuole d'Aonio Paleario. Annotazioni  Ipotesi avanzata da Baldi, Direttore della Biblioteca civica T. e membro dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Baldi. Farina,  Mostra T., Mostra T., Muratori, “Rerum Italicarum scriptores”. Mediolani, ex typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, Tartarotti, (check). Trinco, Mostra T., Sito Biblioteca Civica T., su biblioteca civica. Rovereto  Comune di Rovereto. Baldi, La Biblioteca civica T. di Rovereto: contributo per una storia” (Calliano,Trento); Manfrini, La letteratura italiana, Milano-Napoli, Ricciardi, Franchini, Adversum malleum maleficarum, biografia del filosofo pre-illuminista roveretano” (Rovereto, Stella); Cusumano, “Ebrei e accusa di omicidio rituale --. Il carteggio tra T. e Bonelli” (Milano, Unicopli); Farina, “Gl’Agiati” (Brescia, Morcelliana),  Filosi, La Biblioteca di T.: filosofo roveretano: Rovereto, Palazzo Alberti, Rovereto, Provincia autonoma, Servizio beni librari e archivistici, Comune di Rovereto, Biblioteca civica T., Trinco, San Marco in Rovereto: la chiesa arcipretale tra storia, arte e devozione, Mori, La grafica, Gl’agiati roveretani, Biblioteca civica T. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Girolamo Tartarotti. Tartarotti. Keywords: accusa di omicidio rituale, la differenza delle voci nella lingua italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tartarotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tataranni: la ragione conversazionale del gusto per l’antico – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo basilicatese. Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Lucano di origine, esponente dell'illuminismo napoletano. Non sappiamo a quale ceto appartenesse la sua famiglia, ma sicuramente essa è fornita dei mezzi economici. Non a caso, quando è battezzato nella chiesa cattedrale di Matera, i suoi genitori scelsero come padrino il nobile Ferraù. Sin da ragazzo matura quella che è la sua vocazione, tanto che divenne prima allievo del seminario diocesano. Sebbene ha una posizione di un certo rilievo sia in ambito ecclesiastico, sia in ambito educativo, non mostra alcun tentennamento nell'accettare l'invito del principe di Francavilla, che lo vuole a Napoli per affidargli la direzione della sua paggeria. Grazie a questo incarico, accrebbe ancor di più la stima di cui già gode, stringendo rapporti amichevoli con i filosofi più illustri ed autorevoli del tempo, incardinate nella reale accademia delle scienze e belle lettere. Ha la possibilità di frequentare proprio tali stimolanti dibattiti, che del resto avrebbero formato l'humus delle sue future riflessioni, in qualità prima di direttore della paggeria, poi della scuola militare del real collegio militare -- ufficialmente reale accademia militare -- fortemente voluta da Ferdinando IV, che mostra di aderire al generale clima di rinnovamento e consolidamento delle istituzioni militari del suo regno. Ha l'onore di esserne il direttore, partecipando vivamente, dunque, al graduale svilupparsi e moltiplicarsi dell'alveo della cultura politica riformatrice, che ancora auspica un reale cambiamento all'interno dello stesso apparato monarchico. Così, nell'arco di un settennio, pubblica dei saggi molto significativi, in cui è evidente il suo tracciato ideale di società. Tuttavia, in seguito agl’avvenimenti, quindi dopo il concordato e dopo la fallita congiura di Lauberg, le sue posizioni rispetto alla politica e allo stato cambiano tangenzialmente. Con questa disillusione coincide il silenzio del filosofo materano, che in quegl’anni si limita, a quanto noto, a proseguire i suoi studi come direttore ed al giardino. La delusione, si può ipotizzare, lo spinge a tacere fino alla proclamazione della repubblica, quando dichiara sicuro dell'importanza dell'istruzione del popolo e del nuovo cittadino, elabora il catechismo nazionale pe'l cittadino, nel quale incoraggia il popolo a difendere i principi della rivoluzione a vantaggio dell'umanità intera. Il catechismo vince il primo premio indetto dal governo e venne adottato come catechismo ufficiale della repubblica ed ha il compito di educare i SUDDITI – I SUDDITI DI ROMOLO -- a divenire CITTADINI – BRUTO E SUOI CO-CITTADINI. Alla caduta della repubblica riusce a porsi in salvo, rifugiandosi a Matera, nei cui tribunali, in tale periodo, venneno esaminate le posizioni di ben rei di stato lucani, dei quali sono condanati all'esportazione e VII a morte. Comunque, a Matera puo contare su solide relazioni interne al locale capitolo cattedrale. Più volte tiene a sottolineare l'importanza della triade divino-ragione-sentimento, in una sorta di compromesso tra illuminismo, sensismo e religione.  Inoltre, caratteristica della sua filosofia è una forte connotazione politica, mirando alla figura del sovrano quale principale esempio per i SUDDITI, capace di governare un regno che si fonda su solidi valori, legati all'importanza della famiglia, della civiltà contadina e della piccola proprietà terriera, quest'ultima ottenuta con un giusto ed onesto lavoro. È da evidenziare come il T. professa idee di una peculiare modernità, al punto da convincersi che il passaggio verso una nuova stagione dell'umanità avvenne attraverso la costituzione di una dieta universale. T. sostene, infatti, che, ad ogni rappresentante dell’organismo, esse ha espresso i giusti diritti del re (mon-arca) al fine di raggiungere la felicità COMUNE e la PUBBLICA sicurezza, ponendosi, negl’ordini e nelle attività sociali, sull'unica distinzione del merito. Notevole importanza e, poi, assegnata al ruolo dell'educazione e dell'istruzione, poiché afferma l'importanza dello studio delle litterae humaniores -- unico mezzo per riscoprire i principali temi della filosofia antica ed attualizzarli. Inoltre, T. si fa anche sostenitore dell'istruzione in geometria pura e, ancora una volta, suggere di avviare gl’alunni sin dall'età più tenera al processo educativo, seguendo le direttive di Pitagora. Il filosofo-riformatore auspica tutto questo in un contesto socio-economico che riserva particolare attenzione all'attività agraria (agrimensura) e ad una pratica religiosa semplice “pura, e brieve.” Dunque, predica il ritorno alla religione delle origini, costruita sull'aiuto reciproco tra gl’individui, in modo che gli’uomini si rassomiglino in qualche modo all'ente supremo d'infinità bonta. Pertanto, afferma che i filosofi dovessero essere esenti dalle pubbliche cariche e che come gl’altri uomini dovessero essere soggetti alla giurisdizione dei giudici laici nelle loro cause civili. Il primo, monumentale, saggio è il Saggio d'un filosofo politico amico dell'uomo (Napoli). Con la composizione di questo saggio, T. si propone di delineare il suo tracciato ideale di società, confidando nella figura del sovrano. Infatti, già il titolo dell'opera risulta molto significativo, in quanto T. si presenta come un filosofo con atteggiamento “filantropico” nei confronti di Ferdinando IV, al fine di mostrargli la retta direzione per guidare un giusto governo ed attuare delle riforme interne allo stesso apparato monarchico, favorevoli alle idee democratiche.  La fiducia che ripone nei riguardi del monarca vienne ancora espressa nel “Ragionamento sul carattere religioso di Carlo III umiliato a Ferdinando IV re delle Due Sicilie” (Napoli). Si tratta di un panegirico riferito al *padre* del sovrano, Carlo di Borbone, che, spentosi l'anno precedente, vienne proposto come esempio da seguire al suo erede. In tal senso, egli si rivolge ancora pieno di ammirazione nei confronti di Ferdinando IV nel “Ragionamento sulle sovrane leggi della nascente popolazione di S. Leucio umiliata alla maestà di Ferdinando IV re delle Due Sicilie” (Napoli). Nella “Brieve memoria sull'educazione nazionale dei nobili guerrieri,” T. affronta il tema, a lui caro come direttore di istituti di formazione, dell'educazione dei militari. T. adere alla repubblica, ma, convinto dell'importanza che rivestiva la formazione del popolo e del nuovo cittadino, decide di redattare e pubblicare questo catechismo nazionale pe'l cittadino. Archivio Diocesano di Matera, Cattedrale, Battesimi Lerra. Catechismo nazionale pe’l cittadino. Progetto di cultura politica e ruolo dell'antico. Lerra XVII.  Chiosi, Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell'età dell'illuminismo (Napoli, Giannini); Bruno, "Catechismo nazionale pe' il cittadino". Contributo alla storia della repubblica partenopea -- "Studi Meridionali", Cronache di una rivoluzione: Napoli (Angeli, Milano); Lerra, L'albero e la croce: istituzioni e ceta dirigente nella Basilicata, Napoli, ESI, Bruno, Il catechismo nazionale pe' il cittadino" (noterelle di storia napoletana), in Scritti in onore di Trifone, Storia Meridionale,  II, Sapri, Ed. del Centro Librario, Bruno, "Catechismo nazionale pe' il cittadino". Contributo alla storia della Repubblica Partenopea, in Studi Meridionali,  Guerci, Istruire alle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell'Italia in rivoluzione” (Bologna, il Mulino); Caserta, Teologo della rivoluzione napoletana, Napoli, Vivarium, Capobianco, La pedagogia dei catechismi laici nella Repubblica napoletana (Napoli, Liguori), Lerra, Catechismo nazionale pe' l cittadino. Progetto di cultura politica e ruolo dell'antico, Manduria-Roma-Bari, Lacaita, Andria, T.: un riformatore napoletano in limine, in Sguardi sul mezzogiorno, Quaderni eretici -- studi sul dissenso politico, religioso e letterario, Illuminismo in Italia Repubblica Napoletana. Storia della Basilicata  Un'analisi dei concetti politici nel catechismo, su nuovo monitore napoletano. L'indice ragionato del Filosofo Politico amico dell'Uomo La Brieve memoria in edizione integrale. Onofrio Tataranni. Tataranni. Keywords: filosofo principe, i sudditi e i cittadini, il popolo sovrano – sovrano e monarca, filantropia del re.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tataranni” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tatiano: la ragione conversazionale -- ogni filosofo è arrogante – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds a sect in Rome which he calls The Encratites’ – the self-controlled ones. Ippolito claims they are more followers of the Cinargo than anything else. T. famously accuses all philosphers of arrogance – “including himself,” as IRENEO di LIONS noted in his review of the tract.

 

Luigi Speranza -- Grice e Taumasio: la ragione conversazionale della dialettica come anti-romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A pupil of Plotino and Porfirio at Rome. He finds their style of teaching – through questions and answers – to be very ‘silly,’ and ‘uncongenial to a proper Roman,’ preferring instead the old ‘formal lecture’ of his ancestors. “And right he was, too!” – H. P. Grice.

 

Luigi Speranza -- Grice e Teage: la ragione conversazionale degl’ottimati di Crotona  – Roma – la scuola di Crotone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. According to Giamblico, a Pythagorean, who seeks to introduce more democratic institutions into Crotone. STOBEO (si veda) preserves fragments of a little treatise T. writes on this – “On Virtue – possibly by a later philosopher, though. The treatise is not well known, and as a result of this ignorance, the sect is destroyed without a trace, by the real democrats, who think that the sect was pro-aristocratic, only!

 

Luigi Speranza -- Grice e Teagene: la ragione naturale del naturale, del tras-naturale,  e del sopra-naturale – Roma – la scuola di Reggio Calabria -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Reggio, Calabria. T. argues that a myth or a legend – such as a she-wolf having nurtured the founder of Rome, and his twin brother – should be interpreted *allegorically* or analogically. T. also claims that what people regard as an act of a god (say, Romolo, once divinised, or when the statue of the she-wolf is struck by a lightning – is only a natural (fisico), not trans-natural (meta-fisico) o super-natural (iper-fisico) phenomenon. Cf. Psicologia, para-psicologia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Teagene: la ragione conversazionale del cinargo di Roma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cinargo. T. gives his seminars in the foro di Traiano. He dies, unfortunately, when he consults Attalo about a problem he is experiencing with his the liver, and for which Attalo gives him the totally wrong treatment and medication – hemlock, mixed with beans -- causing the philosopher’s death.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teanor: la ragione conversazionale del filosofo come dramatis persona -- Roma – la scuola di Crotone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Crotone, Calabria. Filosofo italiano. A Pythagorean, he appears as a character in some of the dialogues by Plutarco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tearida: la ragione conversazionale -- il principio conversazaionale è uno – Roma – la scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. T. composes an essay entitled, “Della natura” – where he argues that everything comes from one single first principle. Cited by Clemente of Alexandria. He may have attended the sect at Crotone. “Or not.” – Grice.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Telecle: la ragione conversazionale della diaspora di Crotona -- Roma – la scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Telesio: la ragione conversazionale del filosofo sperimentale – la scuola di Cosenza -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italico -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Cosenza). Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Cosenza, Calabria. Mentre le sue teorie naturali sono state successivamente smentite, la sua enfasi sull'osservazione fa il primo dei moderni che alla fine hanno sviluppato il metodo scientifico. Nato da genitori nobili, è istruito a Milano dallo zio, lui stesso uno studioso e poeta di eminenza, e poi a Roma e Padova. I suoi studi hanno incluso tutta la vasta gamma di argomenti, classici, scienza e FILOSOFIA, che costitusceno il curriculum degli rinascimentali sapienti. Così equipaggiata, inizia il suo attacco sul LIZIO medievale che poi fiorisce a Padova e Bologna. Fonda l’Accademia cosentina. Per un certo periodo vive nella casa del duca di Nocera. Il suo grande saggio è “Sulla natura delle cose secondo i loro propri principi,” seguito da un gran numero di saggi di importanza sussidiaria. L’opinioni eterodosse che mantenne suscitano l'ira di Roma per conto del suo amato LIZIO. Tutti i suoi saggi sono stati immessi sul “Index.” Invece di postulare materia e FORMA, T. basa l'esistenza sulla materia e FORZA. Questa forza ha due elementi opposti. Il primo elemento è il calore, che espande la materia. Il secondo è il freddo, che la contræ. Questi due processi rappresentano tutte le tipi di esistenza, mentre la MASSA su cui opera la FORZA rimane la stessa. L'armonia del tutto consiste nel fatto che ogni cosa separata sviluppa in sé e per sé conformemente alla sua natura e allo stesso tempo la sua MOSSA avvantaggia il resto. I difetti di questa teoria, che solo i sensi possono non comprendere materia o MASSA stessa. Non è chiaro come la molteplicità dei fenomeni puo derivare da queste due forze. Pensato, non è meno convincente di Aristotele caldo/freddo, secca spiegazione/umido, e che addotta alcuna prova per dimostrare l'esistenza di queste due forze, sono stati sottolineato a suo tempo. Inoltre, la sua teoria della terra fredda a riposo e il sole caldo in moto è destinato a confutazione per mano di Copernico. Allo stesso tempo, la teoria è sufficientemente coerente per fare una grande impressione sulla filosofia italiana. Va ricordato, però, che la sua obliterazione di una distinzione tra la fisica super-lunare e la fisica sub-lunare certamente abbastanza preveggente anche se non riconosciuto dai suoi successori come particolarmente degno di nota. Quando T. continua a spiegare la relazione tra mente o anima e materia, e ancora più eterodosso. Le forze materiali sono, per ipotesi, in grado di sentire. Questione deve anche essere stato fin dal primo essere vivo dotato di coscienza. Per la coscienza, o anima, esiste, e non avrebbe potuto essere sviluppato dal nulla. Questo porta T. a una forma di ilo-zoismo. Anche in questo caso, l'anima è influenzata dalle condizioni materiali o della massa e la forza. Di conseguenza, l'anima deve avere un esistenza materiale. Inoltre, T. dichiara che tutta la conoscenza è sensazione ("non-ratione sensu sed") e che l'intelligenza è, quindi, un agglomerato di dati isolati, in sensi. Non lo fa, però, riesce a spiegare come solo i sensi possono percepire la differenza e identità. Alla fine del schema di T., probabilmente in ossequio ai pregiudizi teologici, aggiunta un elemento che e completamente estraneo, vale a dire, un impulso più alto, un'anima sovrapposta dal divino, in virtù della quale ci sforziamo di là del mondo sensibile. Questa anima divina non è affatto un concetto completamente nuovo, se visto nel contesto della teoria percettiva d’Averroe e Aquino. L’intero sistema di T. mostra lacune nella sua tesi, e l'ignoranza dei fatti. Allo stesso tempo, T. è un precursore di tutte le successive scuole dell'empirismo e segna chiaramente il periodo di transizione da autorità e la ragione di SPERIMENTARE e individuale responsabilità. Nel ricorso ai dati sensoriali, T. è il capo del grande movimento italiano del sud, che protesta contro l'autorità accettata della ragione astratta e semina i semi da cui spuntavano i metodi scientifici di CAMPANELLA (si veda) e BRUNO (si veda), e di Bacon e Descartes, con i loro risultati ampiamente divergenti. T. quindi, abbandona la sfera puramente intellettuale e ha proposto un'indagine sui dati forniti dai sensi, dai quali ha ricoperto che tutta la vera conoscenza viene veramente. La sua teoria della percezione sensoriale è essenzialmente una ri-elaborazione della teoria di Aristotele dal De anima). Nota all'inizio del proemio del primo libro della terza edizione del De Rerum Natura Iuxta propria principia Libri Ix che la costruzione del mondo e la grandezza dei corpi in esso contenuti, e la natura del mondo, è da ricercare non dalla ragione, come è stato fatto dagl’antichi, ma è da intendersi per mezzo di osservazione. Mundi constructionem, corporumque in eo contentorum magnitudinem, naturamque non ratione, quod antiquioribus factum est, inquirendam, sed sensu percipiendam. Questa affermazione, che si trova sulla prima pagina, riassume ciò che molti studiosi moderni hanno generalmente considerato la filosofia di T., e spesso sembra che molti non leggere oltre per nella pagina successiva si imposta il suo caldo teoria/freddo della materia o massa informata, una teoria che non è chiaramente informata dall’osservazione. L’osservazione (sensu percipiendam) è un processo dell’anima molto più grande di una semplice registrazione dei dati. L’osservazione comprende anche l’analogia. Anche se Bacon è generalmente accreditato con la codificazione di un induttivo metodo che sottoscrive pienamente l'osservazione come procedura primaria per l'acquisizione di conoscenze, non è certamente il primo a suggerire che la percezione sensoriale è la fonte primaria della conoscenza. Tra i filosofi naturali del Rinascimento, questo onore è generalmente conferito a T.. Bacone si riconosce T. come il primo dei moderni. De T. autem bene sentimus, atque eum ut amantem veritatis, e scientiis utilem, e non nullorum Placitorum emendatorem et novorum hominum primum agnoscimus. – Bacone, “De principiis atque originibus.” Per mettere l'osservazione di sopra di tutti gl’altri metodi di acquisizione delle conoscenze sul mondo naturale. Questa frase spesso citata da Bacon, però, è fuorviante, perché semplifica eccessivamente e travisa l'opinione di Bacone di T.. La maggior parte del saggio di Bacon è un attacco a T. e questa frase, invariabilmente fuori contesto, facilita un malinteso generale della filosofia naturale di T. dando ad essa un timbro baconiana di approvazione, che era lontano dalle intenzioni originali di Bacon. Bacone vede in T. un alleato nella lotta contro l'antica autorità. Ma Bacone ha poco positivo da dire su specifiche teorie di T. della mossa della massa per la forza. Ciò che forse colpisce di più De Rerum Natura è il tentativo di T. di meccanizzare il più possibile. Si sforza di spiegare tutto chiaramente in termini di materia informati – la mossa della massa colla forza -- dalla calda e fredda e per mantenere i suoi argomenti il più semplice possibile. Quando i suoi colloqui si rivolgono agl’esseri umani, introduce un istinto di auto-conservazione per spiegare le loro motivazioni. E quando discute l’anima e mente umana e la sua capacità di ragionare in astratto su argomenti immateriali e divine, aggiunge un’anima divina. Per senza anima, tutto il pensiero, dal suo ragionamento, sarebbe limitato alle cose materiali. Ciò renderebbe il divino impensabile e chiaramente questo non è il caso, per l'osservazione dimostra che la gente pensa del divino. “De rerum natura iuxta propia principii libri IX” (Horatium Saluianum, Napoli). Altre saggi: “De Somno”; “De la quæ in ære fiunt de mari de cometis et circulo lactea respirationis. De USU. Gl’appunti Riferimenti. Deusen, Telesio: primo dei moderni. De La sua, Quæ in ære Sunt, et de Terræ motibus piena. GENTILE T. CON APPENDICE BIBLIOGRAFICA BARI LATERZA Questa commemorazione, scritta per invito del Comitato per le onoranze a T. nella ricorrenza del quarto centenario della sua nascita, e letta, tranne poche pagine, nel Teatro Comunale di Cosenza, poteva e non vuol essere una monografia su T,; ma soltanto una caratteristica della sua personalità e della sua filosofia guardata nel processo generale del pensiero speculativo. Ciò spiega perche essa si estenda un po ' largamente sulla storia degli antecedenti. Aggiungendovi, per questa stampa, oltre le note necessarie, una bibliografia, 1 nè sembralo opportuno riprodurre in essa dalle vecchie edizioni raiùssime degli scritti telesiani dediche e proemii, che sono documenti biografici e storici notevolissimi, poiché m'è accaduto di vederli non di rado citati di seconda mano pur dagli studiosi più diligenti, ai quali non era riuscito di averli sott'occhio. Dietro al chiarore del rinascimento, sullo sfondo dell’orizzonte, s’addensa ancora la nebbia medievale; e la luce nascente s’imporpora dei riflessi fumiganti di quella nebbia, che il sole alto, splendente nel mezzo del cielo, spazzerà, quando all’alba della rinascenza sarà successo il gran giorno dell’età moderna. In quella prima ora le vecchie idee sono morte; ma, pur morte, rimangono nel pensiero umano, e l’impediscono e l’opprimono con la gravezza di ciò che, estraneo alla vita, attraversa il processo della vita. Le idee nuove, quelle che sono anche oggi la sostanza del nostro spirito, si sono annunziate, anzi affermate con la vivacità impetuosa e fremente, con l’entusiasmo gioioso della giovinezza, che ha per sè l’avvenire, e non sente il passato che si lascia alle spalle. Ma la loro affermazione per noi è piuttosto un annunzio: manca lo sviluppo logico, in cui è la vita vera e concreta delle idee, e manca l’integrazione, che il lembo della verità intravvista raccolga nella coscienza coerente • del tutto, dove ogni parte ha il suo valore organico. E lo sviluppo e l’integrazione mancano, perchè il nuovo è commisto e ravvolto nel vecchio: e si va innanzi, come infatti è dei giovani, senza sapere distintamente che cosa si lascia e che cosa si cerca, e quale è il cammino: portati dall’istinto della vita, che perverrà più tardi alla netta coscienza del nuovo in quanto negazione del vecchio. Perciò tutti i pensatori di questa età hanno due facce, e ci presentano contraddizioni, che paiono spiantare i principii stessi del loro filosofare: e chi guarda a una sola faccia, non riesce a più rendersi conto dell’altra; e c’è chi di costoro ne fa gli iniziatori, a dirittura, del pensiero moderno, e chi li re- ' spinge indietro, alla scolastica dei tempi di mezzo: laddove il loro significato storico è in questa posizione, che occupano, tra una filosofia che hanno solo virtualmente superata e una filosofia che solo del pari virtualmente essi affermano. Trascurare cotesto residuo esanime, che resiste nei loro sistemi alle loro intuizioni innovatrici, in tutti questi filosofi, dal Poinponazzi a Bruno e a Campanella, non è possibile: vien meno tutto il significato di queste medesime intuizioni, che fanno di loro i precursori dei più grandi filosofi moderni; e non si spiegano più atteggiamenti essenziali, parti vitali del loro pensiero; ma, sopra tutto, diviene un mistero perchè il germe di verità, che essi si recano in mano, rimanga soltanto un germe, di cui la vita s’arresti appena cominciata. L’uomo del medio evo si era travagliato in una contraddizione, che si può dire organica, perchè ne dipendeva la vita stessa del pensiero: contraddizione, i cui termini, se si vuol considerare il processo generale della storia ne’ suoi grandi tratti, si possono designare come la filosofia greca e la fede cristiana: due termini, che il pensiero tentò tutte le vie, lungo più di un millennio, di conciliare; ma erano inconciliabili per lui, assolutamente, sul terreno in cui egli era posto; perchè, a dirla brevissimamente, la filosofia sua, che avrebbe dovuto operare la conciliazione, era tuttavia la filosofia greca, e cioè uno dei due termini stessi antagonisti. T. La filosofia greca è il pensiero che si vede fuori di sè: e si vede perciò o come natura, nella sua immediatezza sensibile, o come idea, che non è atto del pensiero che pensa, ma cosa in cui il pensiero si affisa, e che presuppone come verità eterna e ragione eterna di tutte le cose e della sua stessa cognizione parallela alla vicenda delle cose: in entrambi i casi, come una realtà che è in se stessa quella che è, indipendentemente dalla relazione in cui il pensiero entra con essa quando la conosce. Visione la più dolorosa che l’anima umana possa avere del proprio essere nel mondo: perchè l’anima umana vive di verità, ossia della fede che sia quel che essa pensa ed afferma: e in quella visione, che è poi la visione eterna della prima riflessione, da cui si dovrà sempre pigliare le mosse, la verità, quel che è veramente, non è nell’anima umana; la cui condizione permanente ed essenziale è raffigurata da quel sensibilissimo amatore della verità, dell’essere eterno del mondo, che fu Platone, nel mito di Eros: mito pregno, nella sua classica serenità, di pathos che direi cosmico: perchè l’aspirazione fervente al divino, che è l’Amore di Platone, e che nella sua forma più alta è la filosofia, non è solo lo sforzo supremo in cui si concentra l’anima umana, ma culmina in questa, e affatica tutto l’universo, tormentato dal desiderio di qualche cosa che è il suo vero essere, ma è fuori di esso. Mito, che, con tutto il suo pathos, può essere intanto sereno, perchè l’occhio dell’idealista greco è attratto e fermato dalla bellezza dell’ideale lontano, e gli sfugge la miseria infinita dell’amante senza speranza. In questa visione, quando, per opera principalmente dello stesso Platone, la verità della natura sensibile e mortale si rifrange nelle forme ideali, ond’essa si rivela al pensiero ne’ suoi varii aspetti, e diventa sistema di idee, tutta la scienza, nel suo proprio assetto, come possesso adeguato della verità, non apparisce quale il perenne lavoro della mente e la celebrazione dell’ufficio supremo del mondo, ma quasi un che di remoto dalla realtà, o, come si dice, d’ideale, di cui la cognizione umana è sempre copia imperfetta. La scienza, di cui la logica deduttiva di Aristotile descrive mirabilmente il congegno, non è la scienza nostra, la scienza umana, che si fa e rifà continuamente nella storia: è la scienza che ha principi! immediati, che in sè contengono sistematicamente tutti i concetti, I in cui si snoda lo scibile: è pertanto la scienza che è tale, in quanto è tutta e perfetta a un tratto, senza possibilità di svolgimento storico. Ossia, la scienza per ottenere la quale ] tutto questo svolgimento, in cui è pure tutta la vita e tutto l’essere nostro, non giova: un ideale, al cui cospetto quel travaglio mentale, che ci par tuttavia la cosa più seria del mondo, non ha valore di sorta '). Dentro questa visione si chiude tutta la filosofia greca, e ogni filosofia che, come quella del medio evo, accetta la logica, ossia la maniera d’intendere la verità, di Aristotile. Questa logica si può definire la logica della trascendenza; o altrimenti, la logica dell’intellettualismo: per questa logica infatti la verità, che è termine dello intelletto, è trascendente, radicalmente superiore all’intelletto stesso; e questo è ridotto a semplice facoltà passiva, contemplatrice e non autrice: che è il concetto dell’intelletto nel senso deteriore di questo termine: quasi una mente, che importa bensì la presenza delle cose da conoscere, ma non dell’uomo, non dello spirito che le conosce, e che ha appunto questo di proprio e di diverso rispetto alle cose: che non è cosa da conoscere, ma l’attività correlativa, che queste presuppongono nel loro concetto di « cose da conoscere » : una mente, insomma, per cui c’è il mondo, ed essa, per cui il mondo è, non è. Che è come dire: l’uomo, questo divino artefice di quanto è bello e santo e vero nel mondo, di quanto c i umilia e ci esalta, ora facendoci piegar le ginocchia innanzi alla potenza terribile del genio, ora sublimandoci nel gaudio di quanto trascorre immortale i secoli e aduna nel consenso d’uno spirito solo i morti coi vivi; quest’uomo, annichilato. Annichilato, s’intende, ai proprii occhi, nella coscienza che ha del suo essere. Di un uomo così, ignaro del proprio valore, men che atomo disperso nell’infinito, Chiesa ed Impero, accampatisi immediatamente come rappresentanti di Dio, possono disporre a loro talento, come cose, che non sono persone. Manca la coscienza, e manca perciò l’individuo: non c’è la libertà, come coscienza della propria legge. La legge, come la verità, scende dall’alto. Ma era questo il principio del cristianesimo? Il cristianesimo voleva essere, al contrario, la redenzione, la rivendicazione del valore dell’uomo; voleva sollevare l’uomo a T. Dio, facendo scendere Dio nell’uomo, e rendendo questo partecipe della natura divina. Giacché in Gesù, che è l’uomo stesso nella sua idealità, o come dev’essere concepito, Dio stesso era uomo: con tutte le miserie j umane, soggetto all’estrema delle miserie, la morte; ed era Dio (quel dio, che redimeva) in quanto questo uomo, che eroicamente affrontava la morte, otteneva in questa il premio della missione della sua vita tutta spesa umanamente in un’opera d’amore. Onde l’amore risorgeva, non più, come nel mito platonico, contemplazione desiderosa dell’irraggiungibile, ma attività dell’uomo che crea se stesso perennemente: e non era più la celebrazione estatica di un mondo che è, ma la celebrazione operosa, dolorosa insieme e letificante, di un mondo, che è regno di Dio essendo la purificazione della smessa volontà umana nella fiamma della carità. Onde l’uomo non è più sapere o intelletto; ma amore o volontà, cioè creatore esso stesso della sua verità, che è il bene: la verità che si scorge, j insomma, quando la cerchiamo con la buona volontà, col cuore puro, mettendo tutto l’essere nostro, sinceramente, ingenuamente nella ricerca; e che non è più, quindi, un che di esterno a noi, che si presenti e s’imponga a noi passivi, ma è il premio o il risultato del nostro sforzo. L’uomo non è più spettatore; ma artefice. Si desta, e sente se stesso; sente che senza la sua volontà, senza il suo conato, senza lui, il mondo che ha valore per lui, la felicità, la vita, Dio, non si raggiunge. Acquista quindi davvero la coscienza della sua personalità, e però della sua responsabilità: poiché vede che da sè dipende tutto; e, lui caduto, tutto cade; e lui risorto, tutto risorge. L’uomo trova dunque se stesso nel cristianesimo. Se questa intuizione fosse divenuta senz’altro concetto complessivo ed organico del mondo, se questo senso nuovo del valore dello spirito umano avesse rinnovato tutta la concezione della vita, in cui l’uomo afferma la sua creatrice potenza, se insomma il contenuto della nuova fede fosse assurto al vigore di una nuova filosofia, il cristianesimo avrebbe segnato fin da principio la morte dell’intellettualismo. Ma la fede non è ancora filosofia: è visione immediata della verità non integrata in sistema di pensiero. E il cristiano, quando volle pensare il suo Dio, pensò più a Dio padre che a Dio figlio, e G. Gentile, Bernardino Te lesto. s’impigliò nella rete della metafisica aristo telica che il principio della realtà, come motore immobile, che è solo pensiero di se stesso, e non d’altro, faceva estraneo alla realtà, e poi s’affaticava invano a colmare l’abisso tra Dio e la natura; tra la causa del movimento, che non è movimento, e il movimento, che non ha in sè la propria ragione sufficiente; e quindi tra il principio del divenire, che non diviene, e la natura che in se non ha la cagione del suo perenne generarsi e corrompersi; e poi tra l’anima e il corpo; e poi ancora tra l’anima che intende, ed è lo stesso intendimento in atto, e 1 anima naturale solo capace di raggiungere la mera possibilità d’intendere, ma incapace per sè d'intendere mai realmente: e,' in generale, tra la materia, potenza, e non più che potenza, di tutto, e la forma, realizzazione di tutto: come dire, tra l’aspirazione alla vita e la vita: eterno destino di Tantalo! Aristotelici o platonici, nominalisti o realisti, averroisti o tomisti, tutti i cristiani che nel medio evo si sono sforzati di concepire la realtà, sono giunti a questo risultato: al destino di lantalo. Tanto più doloroso, tanto più inquietante, in quanto era pur contenuto nella fede novella, che fiammeggiava a quando a quando nei mistici, il concetto dell’immanenza di Dio nel mondo, nell’uomo, nello spirito. La teologia, tutta la filosofia scolastica, anzi tutta la scienza medievale (che non è tutta filosofia) si costruisce come scienza di una verità che si sente, appena il sentimento si sveglia (basti per tutti ricordare Francesco d'Assisi e Jacopone, il suo poeta), che si sente, dico, estranea all’anima, lontana, occupante per vano riflesso solo l’intelletto dell'uomo, speculazione umbratile e di scuola, che non entra nell’ intimo e non afferra e non impegna e non riforma e non fa l’uomo. Scienza vana per chi ravvivava in sé il sentimento tutto cristiano del valore spirituale: scienza elegante nel suo laborioso artifizio, sottile nella pellegrinità de’ suoi tecnicismi, delicatissima nei pazienti avvolgimenti didascalici in cui si dispiega, vasta, universale come un mondo per quanti vi si dedicavano: e, messovi dentro, talvolta, un intelletto di vasto respiro e di tempra ferrea, vi si aggiravano e scendevano per meati lunghissimi, con ricerche, che ora ci spaventano per la fatica di pensiero e la forza di sacrifizio che attestano, fino a toccare l’ultimo fondo delle difficoltà, in cui la filosofia antica urta e si arresta. E basti per tutti ricordare il nostro Aquino: i cui sforzi possenti per scuotersi di dosso la plumbea cappa delle conseguenze ineluttabili dell’antica filosofia, riempiono l’animo dello studioso moderno di commossa ammirazione e di reverenza. Chi vuole intendere la storia del pensiero medievale, deve figgere lo sguardo in questo contrasto delle maggiori forze spirituali che vi operavano dentro: il misticismo, che, affermando immediatamente la presenza di Dio, della verità, di quanto ha valore, nello spirito umano, nega la scienza, la cognizione che è sviluppo e sistema, e tutte le forme a cui lo sviluppo dello spirito dà luogo nella scienza e nella vita; e la filosofia intellettua* listica, che, presupponendo una realtà fuori dello spirito che la ricerca, si affanna in una costruzione, formalmente ricchissima e sostanzialmente vuota, di quel che non può essere verità. O verità senza scienza, senza vita dello spirito; — o scienza, forma elevatissima di questa vita, senza verità, vana. Quando il medio evo è al tramonto, un uomo di genio raccoglie in una espressione eloquente il senso di vuoto che l’anima cristiana provava nella scienza delle scuole: ma un senso, che non è più schietta conseguenza di disposizione mistica, la quale, rinunciando alla scienza, possa trovare il suo appagamento nell’immediatezza della fede; anzi, un senso che nasce da un vivo bisogno di sapere, di pensare, d’intendere. Egli è un dotto, un grande mæstro di dottrina, un amante appassionato della scienza; ma aspira dal profondo a una scienza che riempia l’anima e appaghi i bisogni che la nuova fede ha creati dando all'uomo la coscienza della sua iniziativa, della sua posizione centrale nel mondo: a una scienza insomma che dia la filosofia a questa fede. Quest’uomo, che si presenta sulla soglia del rinascimento con la coscienza di tale nuovo problema, e che, parlando un linguaggio pieno di malinconica nostalgia per un tempo che non è il suo, avvia per una nuova strada lo spirito umano, svegliando intorno e innanzi a sè una lunga schiera e folta di ricercatori, che indagano con fedel oscura ma salda una scienza nuova, che noni essi potranno trovare, è un grande poeta,! che fu anche un grande scrutatore deH’anima propria colta e sensibilissima, I'rancesco le trarca: iniziatore deH’umanesimo. L’umanesimo ha un doppio valore storico negativo e positivo. È guerra alla scienza del medio evo, combattuta bensì con argomenti alquanto estrinseci e con spirito assolutamente restio per lo più, a passare attraverso a quelli scienza per superarla: combattuta con 1; satira della forma letteraria, ispida, irsuta lutulenta, aspra di terminologia creata dal l’intelletto assottigliantesi nell’astrazione quello degli studi, e quell’altro, in cui purj vive come uomo, che ha famiglia e interess sociali, non è il suo mondo; il letterato in^ somma che non è uomo. Tale il Petrarca, i cui sdegni contro l’avara Babilonia e il saluto augurale ed ammonitore allo spirito gentile sono superfetazioni retoriche della sua poe? sia. Tale non era stato quell'Alighieri, che fu a lui sempre incomprensibile, nel poemi divino, contemplazione e poesia, ma di uno spirito energico, che guarda al suo tempo, e s’appassiona per tutte le lotte che gli si agitano attorno, e fa tuonare da Dio la parola che può essere la salute di tutti. Letterati saranno tutti i poeti e filosofi della Italia fiorentissima del rinascimento, che accetteranno tutti la vita quale la troveranno, poiché la loro vera vita essi se la faranno dentro, nella fantasia e nella speculazione, nel mondo creato da loro. La stessa religione, fissatasi al loro sguardo nella Chiesa, che non solo associa le anime, ma le forma e riforma, con l’amministrazione del divino commessole, con la sua teologia e con la sua filosofia, diventa per loro qualche cosa di estrinseco e indifferente, che ogni cittadino nel suo pæse deve accettare come le leggi dello Stato. Cioè, in realtà, essi non partecipano alla religione del pæse; ma ne hanno una per conto loro, il loro Dio è la loro arte, la loro filosofia, alle quali votano tutta infatti l’anima loro e subordinano ogni altro interesse, almeno nell’intimo del loro spirito. Non è, veramente, nè indifferentismo religioso, nè tanto meno ateismo. Ma ateismo pare verso la religiosità ufficiale di cui si ridono, ancorché esteriormente le professino ogni riguardo. Quindi i conflitti frequenti e le prigioni e i roghi, che aspettano i nostri filosofi del secolo xvi. Il letterato, a ogni modo, stralciandosi dalla vita comune, in cui si era consolidata, in forma di instituzioni costrittive dell’individuo, l'intuizione trascendente e intellettualistica del medio evo, ereditata dalla filosofia greca, ristaurava, come poteva, la libertà dello spirito che si fa il suo mondo; e si fa un mondo di puro pensiero, poiché non gli è consentito di scrollare, d’un tratto, quell’altro della comunità sociale; al quale per altro, a suo tempo, perverrà egualmente quando il principio suo, il principio della libertà, diverrà nel secolo xvm coscienza di tutti. E per questa sua ristaurazione, che è perfetta ed assoluta rispetto al mondo dell’umanista, egli, il malvisto della Chiesa, il perseguitato nei libri che saranno proibiti, nell’insegnamento che sarà vietato, nella persona' che sarà bruciata, egli è più cristiano dei suoi persecutori: egli è il continuatore dello spirito vero del cristianesimo. Ha infranta e buttata via, con l’impeto. • della giovinezza, la vecchia filosofia, la fida, l’eterna alleata della chiesa medievale, come della chiesa di oggi e di ogni chiesa avvenire (poiché un medio evo bisogna che ci sia sempre); ma non si è abbandonato, come si faceva una volta, al misticismo; anzi celebra la potenza dello spirito; e, poiché una filosofia sua non ce rha (e non era facile averla, dopo il rifiuto di una filosofia opera millenaria), ei la ricerca nell’antichità più remota. La ricerca dove, a dir vero, era vano cercarla; perchè quell’antichità aveva generato il medio evo; ma l’umanista non sa questo, e non può credere che Platone, Aristotile, quei mæstri solenni di sapienza umana, che gli scrittori antichi a una voce lodano, possono avere insertato la dottrina di cui essi vedono la tardiva e sfigurata immagine nelle scuole del loro tempo. E poiché, in realtà, noi troviamo solo quello che cerchiamo, gli umanisti, che imparano il greco, e vanno a leggere nei testi originali e traducono e commentano, col sussidio dei più genuini commenti greci, gli scritti di Platone ed Aristotile, scoprono un mondo nuovo; un altro Platone e un altro Aristotile da quelli che erano i mæstri della filosofia del medio evo; non dico di quella filosofia, ansimante nella logica terministica degli occamisti, che sul cadere del 300 lacerava le orecchie delicate dei primi umanisti fiorentini, i quali avviarono pure i lavori delle nuove traduzioni greche (chè codesta è la filosofia della decadenza medioevale); ma di quella che e la vera, la essenziale filosofia dell epoca: la filosofia della trascendenza e dell’intellettualismo. E non occorre dire che, se essi non trovano più i mæstri di questa filosofia, è perchè muovono da una condizione spirituale affatto nuova, che fa di questo ritorno all’antico, che avviene nel 400, ' qualcosa di radicalmente diverso non solo dalla primitiva ellenizzazione del cristianesimo nel periodo alessandrino, ma anche, e sopra tutto, da quel primo ritorno alle fonti I greche del sapere, che era già avvenuto nel secolo xm, nel tempo stesso di San Tom- I maso. Marsilio Ticino e Pico della Mirandola, in j cui culmina la direzione platonizzante, sono j platonici; ma sono profondamente cristiani; 1 e un aura di mistica religiosità pervade tutto 1 il loro pensiero, che vede e sente Dio per ] tutto, e sommamente nell’anima umana; e, | ispirandosi ai neoplatonici anzi che a Pia- J tone, accentuano più della trascendenza, che ] non possono negare, l’immanenza del divino I nella realtà naturale e aspirante a ritornare ] all Uno da cui træ sua origine: e aprono la 1 via a Leone Ebreo e a Bruno. Pomponazzi, il maggiore aristote- 1 fico, fiorito al principio del 500 dal movimento filologico sui testi di Aristotile del secolo antecedente, scopre un Aristotile, che non è più quello dei tomisti, nè quello degli averroisti: un Aristotile che, a poco per volta, secondo apparisce dai varii gradi attraversati dalla speculazione stessa del Pomponazzi, finisce col persuadersi che la materia si possa sollevare da sè fino all’intelligenza, senza il sussidio dell’intelletto separato; e che l’anima umana, ultimo risultato così del processo della natura, possa compiere in questo mondo, con le sue forze, tutta la sua missione, che è principalmente il ben fare, la virtù; e che tutti poi i fatti della natura debbano pel filosofo spiegarsi meccanicamente, per le loro cause: un Aristotile, insomma, per cui quel che rimane di trascendente (e rimane tutto quello che nell’Aristotile originale e nell’Aristotile medievale, ossia nella scolastica, era tale) non serve più alla ricostruzione e spiegazione della realtà che sola è per il filosofo. Sicché la filologia del secolo xv riesce, ricalcando gli antichi modelli con lo spirito nuovo dell’umanesimo, a cavarne due intuizioni generali, in cui la filosofia greca riapparisce trasfigurata e come ricreata dal soffio spirituale del cristianesimo, inteso, come ho detto, quale autonomia e valore assoluto della natura e dell’uomo. La nuova filosofia infatti dicesi platonica e aristotelica $ ed è cristiana, ancorché mal veduta e con-] dannata dai rappresentanti ufficiali del cri-^ stianesimo. Guardatela in Machiavelli, contemporaneo di Pomponazzi e coerede suo della tradii zione filologica del secolo xv: chè tutto il suo realismo politico, quella concezione dello ^ spirito, della storia, dello Stato, tutta fondata sulla visione della realtà effettuale e I illuminata dalla lezione degli antichi, non è I come il positivismo guicciardiniano un empi- I rismo, ma è una vera e propria speculazione I (Machiavelli è un idealista); la quale dello I studio degli antichi si giova solo per libe- I rare l’uomo dalle contingenze storiche, quali I sono per lei tutte le forme e istituzioni me-j I dievali sorrette dalla autorità di una tra- I dizione irrazionale; e studiarlo quindi per I quel che esso è, nelle sue forze e nelle sue I reali attinenze col resto del mondo, come il I vero ed unico autore della sua storia: una J specie di naturalismo del mondo umano. Guardate, dico, questa nuova filosofia nel I Machiavelli. Machiavellismo sarà dopo un secolo, nel Campanella, sinonimo di « achitofellismo », negazione di ogni fede religiosa, p l’achitofellismo, più o meno apertamente e coraggiosamente, è la conclusione definitiva e il succo delle dottrine di tutti i pensatori del 500: anzi, di tutto lo spirito italiano del secolo: a cui l’interpretazione aristotelica si ispira e si conforma. Giacché averroisti e alessandristi, per diverse vie, tendono tutti alla stessa mèta: che è la spiegazione naturale di quel che una volta pareva superiore affatto alla natura; e gli artisti, si chiamino Ariosto o Folengo, non conoscono altro inondo, oltre quello naturale ed umano. Ma negavano perciò Dio? Se Dio è quel Dio, che, stando fuori della natura e dell’uomo, rende impossibile concepire una natura divina e un uomo divino, Dio essi lo negavano, perchè affermavano il valore assoluto della natura e deH’uomo. Ma quel Dio, che era sceso in terra, e si era fatto uomo, e aveva redento la natura, era la radice della religione, che, essi primi, dopo il lungo vano travaglio medievale, ristauravano nella storia della umanità. Essi, infatti, per la prima volta, rivendicavano in libertà, dal misticismo e dall’ intellettiialismo, che ne sono per opposte ra-, gioni la oppressione aduggiatrice, il sensi profondo, proprio del cristianesimo, dellaI divinità della vita che crea eternamente sj stessa, dell essere che nella propria logica ha eternamente la ragione del proprio traJ formarsi e perpetuarsi trasformandosi. Quando l’umanesimo venne per tal modo in chi prima e in chi dopo, alla maturiti della rinascenza, lo spirito umano potè mettere quasi 1 anelito potente di una nuova; vita, e di filologia farsi filosofia. Quando il nuovo Platone e il nuovo Aristotile ridiedero all’uomo la coscienza dell’immanente suo valore, e l’ebbero allenato alla libertà dell esser suo, e dell’essere naturale, cui il suo essere appartiene, lo stesso Platone e lo stesso Aristotile, (questi sopra tutto, che era stato il vero signore delle scuole e il mæstro di ogni umana sapienza) dovevano necessariamente perdere il loro prestigio di rivelatori privilegiati delle verità naturali.] L umanista e ancora un platonico o un aristotelico; cerca la scienza; e non sa nè anche come deve cercarla; e interroga gli] antichi, che la tradizione e la fama consacra nella generale estimazione come i soli filosofi. UMANESIMO E RINASCIMENTO il fil° s °f° c l e H a rinascenza da questi ntichi, meglio conosciuti e studiati con lo spirito nuovo dell’umanesimo, ha appreso he la natura si spiega con la natura, la toria con la storia; e che bisogna cercare quindi nel gran libro della natura e della realtà effettuale dei fatti umani che cosa è la natura e che cosa è l’uomo. Gli antichi mæstri rimandavano i nuovi scolari all’osservazione diretta di quel che essi avevano osservato e inteso come era possibile a loro, senza nessun sentore della imprescindibile presenza del soggetto umano nel mondo dell'uomo. La libertà, che gli scolari appresero da loro, quali essi li videro coi loro occhi nuovi, la libertà essi la affermarono ben presto contro l’autorità dei mæstri, che faceva della verità qualche cosa di dato e di estrinseco alla mente come il Dio nascosto della teologia, come la realtà dell’intellettualismo. E però gli umanisti, divenuti filosofi, come parvero, e in un certo senso furono, atei e achitofellisti, furono antiaristotelici e, in generale, ribelli all’autorità degli antichi. Tutti invasi da un fantasma affatto nuovo, non intravvisto mai dagli antichi scrittori: quello in cui i vecchi pensatori e sacerdoti l’avj vano posta a sedere, quasi paralitica impoJ tente: e si sgranchisce, e procede col tempo! e vive di questo suo cammino pei secoli ' anzi per le menti delle generazioni, che si succedono, e mai indarno: quasi fiamma che] passi da una mano all’altra e mai non sii spenga perchè accenda sempre nuovi incendiiJ e sempre più vasti. / eritas jilia temporis! Gli uomini, che peri lo innanzi avevano concepito la verità cornei pei se stante e non come il loro lavoro, I l’avevan sempre collocata dietro a loro', al principio della loro vita, nel paradiso ter- ] restie, nell età dell oro, nel vangelo rinnoJ vatore e iniziatore di un’era nuova già fin da principio perfetta, o, almeno (la verità acJ cessibile a mente umana) nell’insegnamento degli antichi, venuti crescendo perciò sempre ] più nella venerazione dell’universale e illuni! nandosi dell’aureola della saggezza, onde agli t occhi dei fanciulli si ricinge sempre la canizie, dei vegliardi. — Sì, è vero, si comincia a dire I sulla fine del secolo xvi : la sapienza cresci cogli anni ; ma i vecchi siamo noi, non quelli che furono prima di noi. — Così dice Bruno; ; e così ripeteranno Bacone e Cartesio, Pascali UMANESIMO E RINASCIMENTO Malebranche, e poi con voce sempre più alta tutti i filosofi moderni 4 ). I quali affermeranno con coscienza sempre più salda la ] e 11, 1-5; c. 49 r e 49 v : capp. 11 e 12; c. 50 v a 51 v : cap. 14. Ma per mostrare con un solo esempio, tratto da un luogo del De retimi natura contenente alcuni periodi famosi (cfr. anche in questo voi. p. 40: quei periodi in forma poco diversa erano nel proemio del 1565, soppresso nell’ed. 1570: cfr. sopra pp. 102-3) come il Telesio lavorasse dopo il 1570 attorno al testo della sua opera, giova riferire il cap. 1 del lib. 11 dell’edizione Cacchi con le correzioni autografe dell'esemplare napoletano e la redazione corrispondente del 1588, dov’è mantenuta la più importante di quelle correzioni. Ecco il cap. dell’ed. Cacchi con le correzioni dell’autore: Quoniam, quæ in superiore Commentario exposita sunt t alio omnia se habere modo Aristoteli videntur, eius omnino de singulis illis sxp/icondqw esse, cxcwiviividfinique sententiam. Quoniam autem non Terra modo e sublunaribus primum corpus Aristoteli videtur; sed et aqua itidem, et qui nos ambit ær, et is, qui Coelo subiacet et cum Coelo circumvolvi videtur; et unumquodque eorum non ab unica' agente natura, sed a duplici singula illas, debilitatasque, at non eas tamen modo, quæ unius sint corporis, sed omnes simul sibi ipsis commistas, contplicatasque, pene et unum factas inesse; e simplicium itaque complexu, commistioneque effecta mista Aristoteli dicuntur: et nequaquam a propria Coelum natura, propriaque calefacere substantia, caloris omnino expers, nec calorem suscipere ullum aptum, commune sublunaribus habens nihil, penitusque diversa præditum natura, sed sublunarem ærem commovens, conterensque: et nec a propria omnino forma '), propriaque moveri substantia, sed ab immotìs motoribus; longe omnia a nostris dissidentia; ipsius explicanda est, excutiendaque de singulis sententìa: neque enim et aliorum itidem recensendæ sunt, examinandæque opiniones, ab ipso satis reiectæ Aristotele, et non penitus etiam notæ nobis. Utinam et cum Peripateticis liceret idem: magno itaque vacuis labore aliena exponendi reiiciendique, nostra tantum explicanda. esset sententia; at non admissis modo illorum placitis decretisque, sed ea acceptis fide ac religione, ut si ex ipsius naturæ ore prolata essent: non igitur rei ullius 1 2 ) amplius natura inspicienda, indagandaque cuipiam videtur, at tantum quid de quaque Aristoteles senserit, speculandum. Non id ignoscant raortales rogandi, quod videlicet in singulis examinandis et neqnaquam a propria Coelum.., forma, cancellato. 2) itaque rei ti ullius. T. Arislotelis sententiis hæreamus '): at quod dissentire ab ilio audeamus, et non illum numinis instar veneremur; qui si illius dicto audiant, aut factum incitentur, nihil nobis veritatis studio illi adversantibus succenseant : quin gratias potius habeant, et idem ipsi faciant omnes: ipse enim Aristoteles veritatem amicis omnibus præhonorandam admonet, et veritatis gratia præceptorem etiam amicumque incusare nihil vereri videtur. Huius certe nos amore illecti, et hanc venerantes solam, in iis, quæ ab antiquoribus tradita fuerant acquiescere impotentes, diu rerum naturam inspeximus: et conspectam (ni fallimur) tandem aperire illam mortalibus voluimus, nec liberi nec probi liominis officio fungi iudicantes, si generi illam hurnano invidentes, at invidiam ab hominibus veriti ipsi illam occultemus. Age igitur, ut clarius illa elucescat, agentia rerum principia inquirentem, et prima constituentem corpora, tum reliqua ex iis componentem, postremo et Coeli Solisque motu calorem generantem, et motores immotos, a quibus Coelum moveatur, indagantem, ea omnino, quæ in superiore nobis tractata sunt Commentario, in quibus (ut dictum est) omnibus summe a nobis dissentit, explicantem Aristotelem audiamus, eiusque dieta singula rationesque examinemus. Ed ecco che cosa diventerà questo capitolo nella redazione definitiva del De rer. natura (ed. Spampanato). Cancellato questo periodo Non id... hæreamus, c corretto: {speculandnm) quovis labore nostro, quovis ahorum itidem fastidio, singulæ eius positiones quam diligentissime et sæpius eadem interdum esponendo f ex am in a n dæque omnino sunt (?). Nihil si in iis tractandis plus iusto immoremur mortales nobis ut ignoscant rogandos esse existimantcs. GENTILE, T. Repeluntur complura quæ superioribus traditi sunt commenlariis. Ponitur stimma positionum Aristotelìs quæ infra sunt expendendæ. Materia non una ei duplex natura agens, et unus calor frigusque unum, mundi huius universi principia, nec quod terrain mareque et stella? inter quodque ipsas inter stellas locatum est ens, unam idemque et ab una eademque universum constitutum natura, nec duo tantum prima esse corpora, nec entia reliqua a coeli solisque natura e terra effecta, quemadmodum nobis, Aristoteli videntur. Ille enim sublunaria omnia una eademque e materia; quæ supra lunam sunt entia, cælum stellasque omnes, ex alia constare et quæ nihil illi congruat naturarumque quas illa suscipit prorsus incapax sit; et quod inter lunæ orbem terramque et mare est ens, in duo, in ignem aéremque (ignem enim supremam eius portionem quæ lunæ orbi subiacet, ærem vero infimam liane quæ terram ambit, appellat), divisam esse affirmat. Et præter cælum quattuor esse prima corpora, terram, aquam, ærem, ignem, decernit: minimeque ad horum constitutionem calorem modo frigusque sed humiditatem etiam et siccitatem, ut agentes naturas, et ad illorum singulorum constitutionem nequaquam earum unam sed oppositionis utriusque alteram affert; et duplicem omnino singulis agentem assignat naturane dictisque e quattuor corporibus, at veluti mutuis vulneribus confectis afflictisque et pugnam pertæsis tandem et sibi ipsis commixtis, pene et unum factis omnibus, entia reliqua constituit omnia. Et cælum stellasque omnes propria natura et quæ a calore frigoreque et ab humiditate siccitateque prorsus diversa sit, donat. Itaque calor qui a sale fit non ab eius natura nec a propriis eius viribus, sed ab eius fit motu, a quo sic cælo suppositus ignis et bona aéris pars agitetur, conteratur, accendatur accensusque ad terram usque detrudatur; et nequaquam a propria cælum natura propriaque substantia sed ab immotis moveri motoribus statuit. Longe tandem mutuo in omnibus fere dissentimus. Quas ob res Aristotelis explicanda excutiendaque est de singulis sententia; nec vero et aliorum etiam opiniones, satis ab ipso, ut videtur, reiectæ et quæ, nulli admissæ, ab ullius removendæ sunt animo. Utinam cum Peripateticis liceret idem: magno aliena exponendi reiciendique labore vacuis, nostra tantum explicanda esset sententia. At quoniam non admiserunt modo illorum placita et decreta, sed ea acceperunt fide et religione ac si ex ipsius naturæ ore prolata essent; itaque rei nullius amplius natura inspicienda indagandaque cuipiam videtur. sed tantum quid de quaque Aristoteles senserit speculandum: utique quovis labore nostro, aliorum etiam fastidio quovis, singulæ illius positiones quam diligentissime, et sæpius eædem interdum, exponendæ examinandæque sunt. Nihil, si in iis tractandis plus iusto interdum immoremur, mortales nobis ut ignoscant, sed quod a summo naturæ interprete dissentire audeamus et non numinis instar illum veneremur, rogandos esse existimamus: qui, si illius dictum audiant aut factum imitentur, nihil nobis veritatis studio illi adversantibus succenseant, quin gratias potius habeant idemque ipsi faciant omnes. Ipse enim liber in philosophando Aristoteles veritatem amicis omnibus præhonorandam admonet, et veritatis gratia præceptorem etiam amicumque incusare nihil veretur. Huius certe solius nos amore illecti et hanc venerantes solam, in iis quæ ab antiquoribus tradita erant acquiescere impotentes, diu rerum naturam inspeximus, et conspectam, ni fallimur, tandem mortalibus aperire voluimus; nec liberi nec probi hominis officio fungi iudicantes, si generi illam humano invidentes aut invidiam ab hominibus veriti, ipsi illam occultaremus. Ergo, ut clarius illa eluceat, agentia rerum principia inquirentem et prima constituentem corpora, tum reliqua ex iis componentem, postremo et càeli'solisque motu calorem generantem et motores immotos, a quibus cælum moveatur, indagantem, ea denique, in quibus omnibus summe a nobis dissentit, explicantem Aristotelem audiamus, et singula eius dieta rationesque examinemus. T. Consentini De Ret urn natura \ iuxta propria principia | libri IX | ad illustriss. et Excellenriss. D. Ferdinandum Carrafam Nuceriæ Ducem | Neapoli | Apud Horatium Salvianum In f. Sul frontespizio è riprodotta la figura femminile. Questa edizione definitiva (di cui Græsse, vi, ij, p. 47 ricorda copie con la data 1587) è riprodotta nelle due seguenti: 4 Tractutionum pkilosophicarum tomus unus\ in quo continentu.r: I. Mocenic! Veneti Universaliutn Institutionum ad hominum perfectionem, quatcnus industria paruri potest, contemplationcs quinque ; Cæsat.pini Aretini Quæstionum Peripateticarum, libri v; III. Ber. Telesii De rerum natura, Genevæ, apud Eustach. Vignon; in f. Nè anch'io I10 potuto vedere questa edizione; che il Nicekon (Mèmoires) dice conforme all’ed.. Spampanato, pref. alla sua ed. p. xxi, erra dicendo genovese questa ristampa e credendo relative al De rcr. fiat, le opere del Mocenigo e del Cesalpino. T. I i; 5 T. Consentini De rerum natura iuxta propria principia, Coloniæ, Excudebat Petrus Moulardus,Questa edizione è citata da L. T., in T. Operimi catalogus, aggiunto alla sua ristampa dell 'Orazione del D’Aquino, p. 71.— Fiorentino, Pomponazzi, cita una edizione del De rei . natura con la data di « Neapoli 1637»: che dice appartenuta a Ulisse Aldrovandi ed esistente nella Bibl. Naz. di Bologna. Se non che, come m’informa l’amico prof. Flores, questa Biblioteca possiede soltanto l’edizione, e del resto l'Aldrovandi mori nel 1605. È piuttosto da tener presente il seguente luogo della Orazione 8 del D’Aquino (p. 9): « Onde de’ suoi divini scritti tanta stima ha fatto il mondo, che sono stati dati più volte in luce, non solamente in Italia, ma in Fiandra ed in Germania: e sebbene gli Italiani hanno innalzato le sue opere grandemente, le nazioni straniere si sono ingegnate in ciò di avanzargli, e gli Alemanni, rimosso il primo titolo del libro, dove egli per sua modestia ponea solamente il suo nome ed il suggetto dell’opera, l’hanno ornato grandemente d’un altro nuovo titolo nel quale si contiene, che quella opera è piena di molta dottrina, e che è necessaria agli studiosi delle lettere così umane come divine ». T. De rerum natura \ a cura di | Vincenzo Spampanato, Formiggini editore in Modena. È il 1“ volume dei Filosofi italiani, collezione promossa dalla Soc. filos. italiana, diretta da Felice Tocco. Precede una pref. del Tocco e una dello Spampanato. Il (piale pubblicherà in altri due volumi il resto del Ve r. nat., e forse un 4“ e un 5» voi. contenenti dei saggi delle edizioni e gli opuscoli. A questo i» voi. ha premesso una riproduzione del ritratto inciso dal Morghen, pubbl. per la prima volta nella Biografia degli uomini ili. del Regno di Napoli del Gervasi. n 8 appendice bibliografica Riproduco qui appresso la dedica e il proemio, premessi dal Telesio all’edizione definitiva della sua opera, secondo la stampa del Salvianl. Illustrissimo atque exceli.entissimo domino don Ferdinando Carrafæ duci Nuceriæ Bernardinus Telesius consentinus. Commentarios de rerum natura, quos, ut probe nosti, excellentissime Princeps, magnis laboribus diuturnisque confeceram vigiliis, edendos tandem visum cum csset, sub tuis omnino auspiciis emittendos esse duximus; nani et domi tuæ conscripti fuerant, et plurtmis magnisque beneficiis, quæ in me contuleras, debebantur. Et amplius etiam, quod Aristotelis doctrinam (quam adeo Alexander excoluit veneratusque est, et quæ sub Alexandri patrocinio adeo floruit tantoque habita fuit in honore) ut sensui et sibi ipsi passim repugnantem cum damnemus, aliamque et longe ab illa diversam cum ponamus, non sub regis cuiuspiam auspiciis, qui imperii amplitudine Alexandro conferri posset, sed sub herois præsidio emittendos esse duximus, qui nec ingenio nec iudicio nec animi magnitudine nec virtute omnino ulla ab Alexandro exsuperaretur, quin qui in multis illum exsuperaret. Et nostri temporis hominum unus tu talis, excellentissime Princeps, non nobis modo, sed sanis hominibus visus es omnibus, ltaque nihil venti quod opibus potentiaque ab ilio exsupercris, sub tuis omnino auspiciis emittendos esse decrevimus. Nostra siquidem doctrina quoniam nec sensui nec sibi ipsi nec sacris etiam litteris repugnat unquam, quin adeo bis et illi concors est, ut ex utrisque enata videri possit; quoniam omnino vera est, sese ut ab mvidorum calumniis tueatur et, iis reiectis, sese assidue T. effundat amplificetque, nullis regum opibus nuliaque potentia sed tua modo opus habet ope; qui sic animi bonis, quæ dieta sunt, nihil ab Alexandro exsuperaris, quin in illorum multis tu illum exsuperas. Nam ingenio iudicioque te ilio quam longissime præstantiorem esse, vel doctrina, quam uterque admittendam decrevit, manifestai.,Quam enim ille amplexatus veneratusque est et summis præmiis summisque dignara existimavit honoribus, quod dictum est, et sensui et sibi etiam ipsi, quin et Deo optimo maximo, passim repugnat. Itaque soli calorem lucemque abnegat: et mundum nequaquam a Deo optimo maximo constructum, sed voluti casu quodam enatum ponit; et rerum humanarum administrationem cognitionemque Deo demit omnem. Et non sensui modo, sed, ut nostris in commentariis apertissime ostensum est, sibi ipsi etiam passim dissentit adversaturque ; ut existimare liceat vel in præceptoris gratiam, nihil eius fundamentis positionibusque inspectis examinatisque, Alexandro admissam fuisse, vel quam longissime illum abesse, ut ingenio iudiciove tibi conferri possit. Nam tu doctrinam nostram non statim, sed ibi tandem admittendam perdiscendamque esse duxisti, ubi sensui et sibi ipsi universa et sacræ etiam scripturæ bene concors visa est. Ut, quod dictum est, ingenio iudicioque multo te Alexandro præstantiorem esse necessario existimandum sit. Neque enim, si, quali tu, ingenio iudiciove donatus ille fuisset, et sensui et sibi ipsi et sacris divinis litteris passim dissentientem Aristotelis doctrinam admittendam duxisset unquam. Animi porro magnitudine fortitudineque nihil Alexandrum te præstantiorem fuisse res, a te in Peloponneso gestæ, manifestant: ubi, innumerabilibus Turcarum equitibus in Christianorum exercitum, turbatum iam trepidantemque, irruentibus (qui omnino nisi a te repressi reiectique fuissent, magnimi nostris incommodum illaturi erant), non magno veteranoque cum exercitu, ut Alexander, sed perpaucis cum peditibus, in fugam iam coniectis et a te retentis tuaque præsentia et fortitudine confirmatis, sponte tua te opposuisti; et longe illorum plurimis interfectis, reliquos in fugam coniecisti penitusque prodigasti. Itaque Christianorum exercitum, summum iam in periculum adductum et in fugam iam conversum confirmasti conservastique : talem omnino te præstitisti, ut eorum, qui pugnantem te conspexere, nulli dubium esse posset, quin, si unquam exercitus ductandi magnaque bella gerendi occasio tibi oblata foret, bellicam Alexandri gloriam æquaturus et superaturus etiam esses. At pares, quæ dictæ sunt, virtutes in utroque ut sint, puriores certe in te splendent, neque enim, quod in ilio passæ interdum sunt, ab immixtis vitiis in te obscuratæ sunt unquam. Et nequaquam, ut ille, deos tu colis ab hominibus effictos multisque obnoxios vitiis; sed Deum venerans, cæli terr:eque conditorem et qui unigeniti Filii sui morte humanum genus servari substinuit, sanctissimaque eius præcepta summa observas cum religione. Minus etiam generis claritate ab Alexandro exsuperaris, siquidem Carraforum) familia multis iam sæculis plurimorum magnorumque principum coronis et regio etiam diademate effulget (nam tuus ille Stephanus Sardiniæ regnum regio cum titulo obtinuit diuque possedit), et plurimorum magnorumque sacrorum antistitum puniceis pileis et pontificia etiam corona exornata est: ut ambigere non liceat, quin generis etiam claritate nihil ab Alexandro exsupereris. Quoniam igitur, Alexandro collatus, nec generis claritate nec ullis animi bonis inferior videri Spamp. Carra/arum. potes; age, commentarios nostros (propterea in primis tibi dicatos, quod Alexandro si) quidem fortuna imperioque, non certe et ingenio iudiciove, nec vel magnitudine vel aliis ullis animi bonis ab ilio J ) exsuperaris, quin in multis tu illum exsuperas) libens suscipe. Et si Aristotelis voluminibus, quæ tantis Alexander præmiis tantoque digna existimavit honore, niliil deteriores tibi visi sint; et nostri mores nostrumque ingenium, quod penitus tibi perspectum sit oportet, nihil me unquam (cuiusmodi Aristoteles erga Alexandrum fuit) tuorum erga me beneficiorum immemorem ingratumque futurum suspicari sinent 3 ); non quidem, ut non minoribus præmiis nos prosequaris, rogamus (quæ scilicet a præsenti fortuna tua exspectari non possunt et quæ nulla a te expetimus, satis superque a benigni tate tua ditati), sed ut non minore me prosequaris benevolenza et, quod hactenus strenue fecisti, Peripatedcorum iniurias calurnniasque repellas. Nihil omnino, quam Aristoteles Alexandro fuit, me tibi minus carum, neque in minore, quam ab ilio habitus fuit, nos a te in honore haberi homines intelligant. Hoc vero, ut præstes, percupimus et summopere te rogamus. Vale, o præsidium et dulce decus meum. Spamp. Quod si. Spamp. Ab Alexandro. Spamp. Sinant.I T. Comentini De rerum natura iuxta propria principia Liber primus: Prooemium '). Mandi constructionem corporumque in eo contentoram magnitudinem naturamque non ratione, quod antiquiorihus factum est, inquirendam, sed sensu percipiendam et ab ipsis liabendam esse rebus., Qui ante nos mundi huius constructionem rerumque in eo contentarum naturam 3 ) perscrutati sunt, diuturni quidem vigiliis magnisque illam indagasse laboribus, at nequaquam inspexisse videntur. Quid enim iis illa innotuisse videri queat 5), quorum sermones omnes et rebus et sibi etiam ipsis dissentiant adversique sint? Id vero propterea iis evenisse existimare licet 1 2 3 4 5 6 7 ), quod, nimis forte sibi ipsis confisi, nequaquam, quod oportebat, res ipsas earumque vires intuiti, eam rebus magnitudinem ingeniumque et facultates '), quibus donatæ videntur, indidere. Sed veluti, cum Deo de sapientia contendentes decertantesque, mundi ipsius principia et caussas ratione inquirere ausi, et, quæ non invenerant, inventa ea sibi esse existimantes volentesque, veluti suo arbitratu mundum effinxere. Itaque corporibus, e quibus Questo Proemio formava il cap. i del lib. i nella ediz. 1570 con alcune varianti che saranno qui appresso indicate: rultima delle quali assai notevole. coni etti or uni naturam. rerumqtu naturam.indagasse illatn. videri potest. evenisse videtur. id rebus ingenium easque facultates. 8) causas. constare is videtur, nec magnitudinera positionemque, quam sortita apparent, nec dignitatem viresque ‘), quibus prædita videntur, sed quibus donari oportere propria ratio dictavit, largiti sunt. Non scilicet eo usque sibi homines piacere et eo usque animo efferri oportebat, ut (veluti naturæ præeuntes, et Dei ipsius non sapientiam modo 1 2 3 4 5 ) sed potentiam etiam i) affectantes) ea ipsi rebus darent, quæ rebus inesse intuid non forent et quæ ab ipsis omnino habenda erant rebus. Nos non adeo nobis confisi, et tardiore ingenio et animo donati remissiore, et humanæ omnino sapientiæ amatores cultoresque (quæ quidem vel ad summum pervenisse videri debet, si, quæ sensus patefecerit et quæ e rerum sensu perceptarum similitudine haberi possunt, inspexerit), mundum ipsutn et singula eius partes, et partium rerumque in eo contentarum passiones, acriones, operationes et species intueri proposuimus. IUæ enim, recte perspectæ, propriam singulæ magnitudinem, hæ verum ingenium viresque et naturam manifestabunt. Ut si nihil divinum, nihil admiradone dignum, nihil etiam valde acutum nostris inesse visura fuerit, at nihil ea tamen vel rebus vel sibi ipsi repugnent unquam; sensuin videlicet nos et naturam, aliud præterea nihil, secud sumus, quæ, perpetuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo atque idem semper operatur. Nec tamen, si quid eorum, quæ nobis posita sunt, sacris litteris catholicæve ecclesiæ non cohæreat, tenendum id, quin penitus reiciendum, asseveramus 1) ejfmxere et corporibus. e quibus constate is videtur. non ram tuagnUudinem eamque dignitatem et vires. modo sapientiam.etiam potentiam.aciiones atque operationes intueri.magnitudinem ac speciem, hæ. s unirne. contendimusque. Nequeenim humana modo ratio quævis, sed ipse edam sensus illis posthabendus; et si illis non congruat, abnegandus omnino et ipse etiam est sensus *). 7 Bernardini | Telesii | Consentini | De hìs, quæ in Ære fiunt; et de Terræ- \ motibus. Liber (Jnicus | cum Superiorum facultate. | Neapoli, | Apud Iosephum C'acchium. Carte. nuin. nel redo. Sul frontespizio è la solita figura femminile, eom’è anche nei due opuscoli seguenti. Precede questa dedica: Illustrissimo et Reverendissimo Tolomeo Gallio Cardinali Comensi ac Archiepiscopo Sipontino Bernardinus Telesius S. P. D. Quoniam plurimis gravissimisque, ut nosti, molestiis oppresso detentoque, ad te, quod summe quidem semper cupivi, et quo nihil mihi iucundius contingere posset, venire tecumque vivere non licet; nec vero alia ratione meam erga te observaniiam gratitudinemque manifestare; utrumque, quo licet modo, ut efficerem, Commentarium De iis quæ in aère fiunt, ad te mittere statui. Minus certe munus, quam quod tuis erga me meritis debeo; qui scilicet cum nulla alia in re studium voluntatemque tuam a me desiderati passus sis, tum vero studiorum meorum egregius imprimis fautor semper fuisti. Multo etiam minus quam quod virtutes tuæ expostulant, surnma integritas, summaque in omnes charitas; non illæ quidem ad homines alliciendos simulatæ, [Mancano i due ultimi periodi: JVec tamen... est sensus. a ut segnes unquam, sed veræ puræque, et unius honesd grada scraper vigiles semperque operantes; et summa prudentia, rerumque omnium cognido. Emicuerunt quidem illæ, cum sub Pio IIII. Pontif. Max. Christianam Rempublicam tu imprimis tractares, administraresque; et ita eraicuere, ut multo spiendidius emicaturæ viderentur, si tempus unquam nactæ forent, in quo liberius splendere possent. Summam præterea animi tui magnitudinem quis non summopere amet summeque veneretur? Qua effectum est, ut nullis bonorum quorumvis accessionibus quicquam elatus aut immutatus omnino esses unquam; bona scilicet quævis, et quæ virtus tibi pararat tua, te minora semper visa sunt, et fuere mehercule semper minora; itaque nihil illa te extulere unquam. Me quidem diu penitusque egregias animi tui virtutes et mores cum sancdtatis tum vero et iucunditatis plenissimos intuitum tanta illæ erga te veneradone tantoque animi tui amore desiderioque inflammarunt, ut nec venerari te satis, nec colere amareque, et tecum esse satis desiderare posse videar. At multo, ut dixi, maiora a me meritus, parvo hoc munere, scio, contentus eris ; Deum Opt. Max. imitatus, qui non quas non habemus opes, nec opes omnino ullas, sed veram modo pietatem, esto et modici thuris evaporationem a nobis poscit. Tum qualecunque id est, perpetuum erit, spero, tuorum erga me meritorum, et meæ erga te observantiæ charitatisque signum. Vale. T. | Consentini De color um generatione Opusculum. Cum superiorum facultate | Neapoli, | Apud Iosephum Cacchium. In-4 1 cc. 7 nnmiii. nel redo. Precede la seguente dedica, in alcuni esemplari premessa ai due libri del De t er. natura del '70 per errore di chi legò con essi questi opuscoli. Illustr. mo Io anni Hieronymo Aquevivio Hadrianensium Duci T.,CONSENTINUS S. P. D. Multos equidem iam annos surama te prosequor veneratione, summoque tui videndi desiderio teneor. Neque enim unus aut alter te cum cæteris animi bonis virtutibusquetum vero divino sane ingenio iudicioque longe acerrimo præditum disciplinisque omnibus apprime ornatum mihi prædicavit; sed communis omnium consensus, et eorum præcipue qui et te magis norunt, et qui, quæ in te sunt, bona reliquis exquisitius intueri possunt: in primis Marius C/aleota (qui vir et quantus!): hic quideni te non summis ætatis nostræ hominibus, sed antiquis illis hæroibus ac divinis viris conferre nihil veretur; nec vero Rempublicam vel manu vel consilio adiuvandi occasionem nactus si sis umquam, quin illorum gloriam exæques, aut etiam exsuperes dubitat quicquam. Admirabilem scilicet intuitus naturam tuam, et cum reliquarum honestarum disciplinarum tum vero philosophiæ studiis diu summaque excultam diligentia, summa itaque erga te charitate ac veneratione summoque tui desiderio me inflammavit (rie). Quod si per molestias, quibus multos iam annos assidue opprimor, mihi licuisset, promptius, mihi crede, ad te quani ad fortunatissimos reges advolassem; et præsens animi mei propensionem erga te patefecissem, ac dedidissem omnhio me tibi. Id quando adhuc facere non licuit studiorum meorum monumentum quippiam tibi offerre visum est, quod meæ erga te observantiæ signum esset: itaque commentarium De colorum generatione ad te mitto. Libens, spero, munus, qualecumque est, accipies, in quo nimirum hominem, qui te nunquam vidit, virtutum tuarum pulchritudine ac fulgore incensum intuebere. Nani, si probatus tibi ille fuerit, et perobscuram adhuc, ut videtur, colorum naturarli exortumque patefecerit, id vero opibus a te omnibus carius æstimatum iri certo scio; ut qui illustrissimorum maiorum tuorum more rerum cognitionem rebus omnibus ac regnis edam ipsis præhabendam semper duxeris. Vale. 9 Bernardini | T. | Consendni | De mari, \ Liber Unicus. | Ad Ulustriss. Ferdinandum Carrafam | Soriani Comitem. | Neapoli, | Apud Iosephuin Cacchium. In fondo all'opuscolo-. Cum Licentia Superiorum. Sono cc. 12 numm. nel recto-.Precede questa dedica: Illustriss. Ferdinando Carrææ Soriani Comiti T. S. P. D. Cum primum literas tuas accepi, quibus declarabas te in iis, quæ de mari ab Aristotele tradita erant, acquiescere minime posse, et quid de eius natura et motibus sentirem, ad te conscribere mandabas: etsi plurimis (ut nosti) opprimerer molestiis, dbi tamen ut morem gererem tuique desiderio sadsfacerem, commentari uni, quem iam pridem de eo conscripseram, rudem adhuc, quantum per præsentes occupadones licuit, polivi. Et præter morem nostrum, prius quæ ab Aristotele tradita sunt, in eo exponuntur examinanturque, ut facile homines intelligerent iure te in iis acquiescere non potuisse: tum nostra apponuntur. Perleges vero tu illuni, et si tibi probatus sit talisque visus, qui et tuo sub nomine in lucem prodire queat, prodeat. Neque enim, quæ tu admittenda decreveris, alii ut damnent vereri licet; libens certe confectum tibi opus, qualecumque id sit, accipies; summara in eo meam erga te charitatem observantiamque intuitus et grati animi signum cura erga te, tum et erga illustrissimos parentes tuos, Alfonsum Nuceriæ Ducem, virum unum omnium optimum constantissimumque, et loannam Castriotam, quæ cum maxime fortunæ corporisque bonis affluat, et tantis omnino, quantis plura ne optare quidem liceat, si cum alias eius animi virtutes, tum vero, quæ ægre sitnul coire videntur, lenitatem sublimitatemque summe in ilio coniunctas, pene et unum factas quis inspiciat, vix illorum splendorem intueatur; ut mihi quidem nostræ ætatis homines nihil ea amabilius, nihil etiam divintus conspicere posse videantur. Hæc vero tu eius parentisque tui splendorem summamque utriusque generis claritatem ne novis luminibus non illustres dubitandum est quicquam. Nam mihi quidem te illosque intuenti, quæ in illorum utroque corporis animique bona sunt, ex utroque hausisse videris omnia: minimeque vel eorum vel avorum gloria vel tantarum opum possessione, totve ac tantorum populorum dominatione contentus tuo tibi ut studio tuoque labore novum decus novosque honores acquiras summa attendis cum diligentia. Age vero, qua coepisti perge, et mihi crede, non summam modo gloriam, sed veram adipisceris felicitatem, summæ nimirum fortunæ summam adiicies sapientiam. Vale. io. Bernardini | Telesii | Consentini | Vani de naturalibus | rebus libelli \ ab Antonio Persio editi. | Quorum alii nunquam antea excusi, alii meliores | facti prodeunt. | Sunt autem hi | de Cometis, et | Lacteo Circulo. | De liis, quæ in Ære fiunt. | De Iride. | De Man. SCRITTI DI B. T. Quod Animai universum. | De Usu Respirationis. | De Coloribus. | De Saporibus. | De Somno. | Unicuique libello appositus est capitum Index. | Cum privilegio | [insegna tipografica) | Venetiis M.D.XC. | Apud Felicem Valgrisium. Dopo la pref. Antonine Persine camiido Perfori, c’è l’ Inde a opusculorum, diviso in due parti: Prima pars, in qua precipua Metereologica continentur; Secunda pars, in qua, quæ Parva naturalia dici possimi, tractantur. Nella 1“ classe sono compresi i quattro opuscoli De Cometis et tacteo circolo, De bis quæ in apre fiunl (dedicati entrambi a Gian Iacopo Tomaie), De iride (al vescovo di Padova Luigi Cornelio) e De mari (a Francesco Patrizio). Nella 2 a altri cinque opuscoli : Quod animai universum ab unica animæ substantia gubernatur contro Calenum (a Tinelli), De usu respirationis (a Giovanni Micheli), De coloribus (a Benedetto Giorgi), De saporibus (a Fed. Pendasio), De somno (a Girolamo Mercuriale). Il volume consta di 4 carte inn. a principio, 5 parimenti inn. in fine e dei 9 opuscoli ciascuno dei quali con numerazione a sé, sul recto, e con frontespizio particolare; tranne il primo. Il I- 1 I op. di cc. (De Com. e De Air); il III (De ir.) di cc. 20; il IV (De mari) di cc. 19; il V (Quod anim.) di cc. 47; De usu) cc. 8; De color.) cc. 15; (De sapor.) cc. 15; De somno) cc. 15. Riporto la prefazione generale e le singole dediche. Antonius Persius CANDIDO LECTORI. Novem hæc Bernardini Telesii physica opuscula, quorum tria tantum antehac excusa fuerunt, eodem omnia volumine complexa, ut publici iuris efficienda curarim id fuit causæ potissimum, Candide lector, quod, cum paucissima eorum exempla circumferrentur, adeo ut jpsi mihi, qui Telesio inter vivos agenti coniunctissimus, G. Gentile, T.1.^0 ac, ni fallor, carissimus fueram, antequani unius ex singulis compos fierem, sudandum fuerit, liuic malo quani primum eonsulere necessarium existimarim. Timebam enim ego duorum alierum, vel scilicet ne labores Ili perirent omnino, vel ne quis eos tanquain proprii sibi partum ingenii vindicans, suuni iis noinen, Telesii expuncto nomine, inscriberet, et ut sua tandem in commune proferret. Cuiusmodi non defuturos homines fuisse ut milii persuaderem effecere multi, quos novi egomet consimilem lusisse ludum. Ac profecto nostra liac tempestate, si ulla unquam alia factum est, malis hisce artibus prò sapientia uti licet. Ut autem rem piane intelligas, erant ex his tres tantum modo, ut dixi, excusi libri, De his quæ in ære fiunt scilicet unus, alter De mari, tertius De colorum generatione. Ac De mari quident ille nonnullis auctior capitibus tibi datur, quæ nos in ipsius calcem omnia reiecimus. Qui vero De coloribus est, longe prodit alius, non verbis tantum, sed et sententiis atque opinione. Cæteri omnes nunc primum publicantur. Ex iis, qui mihi a T. missi fuere (sunt autem hi; De somno, De saporibus, De bis quæ in ære, De mari), hi longe aliis emendatiores exhibentur; reliqui autem, quos aliunde expiscatus sum (curavit eos mihi Franciscus Mutus, præstanti vir doctrina ac T. philosophiæ cognitione liaud levi præditus), ii non solum alicubi imperfecti, veruni etiam tam male exarati ac mendose exscripti erant, ut divinandum mihi fuerit in plerisque locis. Cum autem in iis exentplaribus, quæ nacti sumus, loci nulli neque Aristotelis, neque Galeni, neque aliorum, qui a I elesio laudantur authores, neque in contextu, neque in margine notati extarent, nos eos omnes in tuum commodum, Amice Lector. ad oram cuiusque libelli rite adscripsimus. Ad hæc schemata quædam in libello De '.il iride ab authore nominata, vel saltem subintellecta, quod nullum eorum in nostris codicibus vestigium extar et, accurate delineavimus, ut facilius id, quo de agitur, intelligeres. Atque hæc nos tibi tanquam in alieno solo (ut cum nostris loquar iurisconsultis) elaboravimus, propediem te in nostro accepturi, atque ex ugello ingenioli nostri, quæ tibi forte non ingrata videantur, multo liberalius deprompturi. Quod reliquum est, Lector Immanissime, quo nobiscum ab illius sapientissimi viri manibus gratinili aliquam in eas, ac magis udlitati publicæ consulamus, si forte meliores, quam nostri sunt, codices fuerit nactus, ut et ego meliores edere possim, mihi eos, quæso candidus imperti; si non, his utere mecum. Vale. Ai primi due opuscoli è premessa la dedica seguente: Antonius Persius IGANNÌ IACOBO TONIALO VIRO PRÆSTANTISSIMO S. P. D. Quod in studio mathematices, quo maxime omnium semper es delectatus, in primisque astronomicæ facultatis, totus usque sis, laudo te, mi Tomaie, vehementer, ac vere virum censeo, qui non te otio, quod plerique ista fortuna, hoc est opibus, abundantes homines faciunt, corrutnpi sinas; sed, cum ingenio iudicioque cum paucis sis conferendus, animum tuum optimis artibus perpolitum nobilissima rerum excelsissimarum excolis cognitione. Cui tantum detulit Aristoteles, ut eam vel imperfectam perfecta inferiorum rerum scientia multo duxerit esse præstantiorem. Utere igitur fortunæ bono dum per florentem ætatem tuam licet, et viaticum senectuti para. Collocupleta tuum solidis atque immortalibus bonis animimi: amicitias quoque, quod facis, adiunge tibi liberalitate hac tua, omnique officiorum genere, quæ ego abs te expertus non vulgaria, perlibenter soleo prædicare. Et quo extaret eoruni significano diuturnior, a me tibi nuncupati ut exirent duo hi Telesii nostri libelli De cometis et lacteo circulo unus, De iis quæ in ære fiunt alter, libentissime curavi: simul ut haberes occasionerei de rebus coelestibus, coeloque proximis, quo te rapit astrorum studium, novam Telesii nostri disputationem alacrius legendi. Cuius tu philosophiam magno animo amplexatus maxima cum iudicii et ingenii laude tueris. Ac liber ille quidem, quo De iis, quæ in ære fiunt, disseritur, editus antehac est, nunc emaculatior prodit. Alter vero nunc primum publici iuris efficitur. Vale, et Persium tuum ex animo nunquam elabi tuo patiare. Patavio Illustrissimo ac reverendissimo Aloysio Cornelio episcopo Paphiensi et Patavino designato. Antonius Persius. S. P. D. Post nobilem illum universæ terræ cataclysmum, ex quo Noe, cum familia servatus, humanum genus reparavit, apud Ethnicos quoque pervulgatum, ac Deucaleonearum undarum nomine a poeds significatimi, scriptum fecit Moses summi ille Dei scriba atque interpres, Illustrissime ac Reverendissime Episcope, Deum ipsum edidisse arcum, seu Iridem pacti indicem ac foederis inter se atque humanum genus constituti, ut quoties id in coelo appareret toties divinæ potentiæ beneficiique nobis divinitus collati memoriam renovaret. Hoc mihi, . 1 .1,ì dura eximii philosophi Bernardini Telesii libellum De iride in lucem proferre cogitarem animo repetenti cupido incessit, ut haud ita dissimilis in re simili tui erga me animi significatio exstaret, operam dare. Est igitur a me curatimi, ut ii, in quorum oculos hæc T. Iris incurreret, de tuorum in me magnitudine meritorum brevi hac ad te epistola quoquo pacto admonerentur. Namque, ut alia præteream, maximorum semper in loco beneficiorum mihi delatum putabo, quod in aliqua apud te grada vigeam, ac me ipse in tuorum tibi addictissimorum numero censeri velis. Cum enim percrebuerit te non nisi doctos, probos ac sapientes viros, tui scilicet simillimos, amare, fovere atque ornare solere, cum tu non solum maiorum splendore summaque familiæ nobilitate, verum edam doctrinæ, probitatis ac sapientiæ laude nemini concedas (quarum quidem virtutum singulare specimen in administradone Episcopatus Patavini tibi ab amplissimo Cardinali Federico patruo tuo, prudentissimo viro delata maximo cum ecclesiæ Patavinæ fructu quotidie exhibes); quid mihi proficisci abs te maius atque optabilius unquam posset, quam ex tua consuetudine, qua me dignum tua esse voluit humanitas singularis, tantarum mihi virtutum famnia, ac nomen aliquod comparare? Quod igitur opusculum hoc tuo sacratum nomini dicarim, id primum boni ut consulas vehementer cupio; deinde ut tuam in me animi propensionem, in qua maximam existimadonis meæ partem esse positam inteiligo, (quod facis) tueare te iterum rogo obsecroque. Vale. Patavii. d) Antonius Persius Francisco Patricio Platonicæ Philosophiæ in Ferrariensi Gymnasio Professori Celeberrimo S. P. D. Meministi, eruditissime Patrici, cum Venetiis conintoraremur, me tibi novam Telesil Philosophiam ac philosophandi rationem sæpius commendare, et te hortari, ut libros eius de natura legeres diligenter. Quod ubi est a te factum, cum multa offenderes in iis, quæ velini Democritea Delio quopiam natatore indigerent, me identidem tanquam in eorum lectione diutius versatuni, ac Telesii familiarem consulebas, ego igitur libenter et obscura quæcunque tibi essent interpretabar, et obiicientium sese dubitationum scrupulos eximebam, quod poteram. Ita ad calcem usque operis cum legendo pervenisses, tum honorifice de eo loqui cæpisti, ut ipsurn veteribus philosophis anteferres. Scripsisti quoque a me rogatus in eam philosophiam dubitationes tuas nonnullas, quas ad Telesium transmisi. Ex eo candidissimus philosophus quanti tuum lacere iudicium haud obscure significavit, cum deinceps sua scripta ad tuum sensum exigere non sii gravatus. Cum igitur libellum eius De mari ab ipso primum editum, atque aliquibus ex eiusdem scriptis ad eandcm rem pertinentibus auctum, denuo imprimendum curarem, patrem ipsi ac patronum nullum Patricio aptiorem in venire me posse existimavi, tuæque idcirco ipsum fidei commendare decrevi. Tu, si constans es in summi viri laude, ut te esse mihi et natura et consuetudo tua suadet, huiusce opusculi patrocinium suscipias libenter, ac tuam in eo tuendo non SCRITTI ni n. T. t35vulgarein eruditionem plaudentibus omnibus explicabis. Feceris autem mihi pergratum, si meis verbis coniraunem amicum ac fatniliarem Franciscum Mutum et tuum et Telesii præclarum propugnatorem ingenii, et eruditionis laude ornatissimum, salutaveris, meoque ipsi nomine dixeris, cura ego ipsius beneficio plerosque ex iis, quos iam edo libellos, fuerim nactus, expectare, ut eosdem idem ipse meliores, atque alios eiusdem Auctoris nondum editos nobis eruat alicunde. Vale, ac mei mutuo memor est. Patavio. Dopo il cap. x segue quest’avvertenza (c. 13 t f ): Tria hæc, quæ sequuntur capita de maris æstu, a Telesio quidern et ipsa elucubrata sunt, sed tamen ab eodem in prima huiusce libelli editione consulto prætermissa; idque ea, ut puto, de causa, quod in hac conteraplatione nondum sibi piane satisfaceret. Erat enim tum in alienis, tum maxime in propriis sententiis iudicandis sane quam difficilis atque morosus. Itaque nihil edere ille solebat, quod non longa adhibita discussione lente prius ac fastidiose probasset. Nos tamen, ne ea quidern intercidere æquum putantes, quæ ipse rudia atque imperfecta reliquerat, pauca hæc de manuscripto exemplari diligenter excepta, priusquam ea sibi aliquis vindicaret et ut sua venditaret, in calce huiusce libelli excudenda curavimus. l H. T. doctrina et eloquentia tectum sartumque præstes ab aculeis reprehensorum, libenter curavi ut nonien tuum clarissimum præ se ferret imprcssus. Neque enim dubito, quin maximum apud omnes hoc tuum patrocinium sit pondus habiturum. Perspectum iam enim est ac notum, quanto te discipulo gloriaretur dignus ille tnagnorum philosophorum magister Iacobus Zabarelia, nobis importuna morte præreptus. Cuius sane viri quoties mihi venit in mentem, venit autem sæpissime, toties ego Patavinæ, in qua profitebatur, Academiæ ingemisco, quæ tot tantisque infra paucos annos orbata viris, civem hunc suum, qui facile omnium desiderium leniret, rednere diutius in vita non potuerit, cum tamen ea decesserit ætate, quæ senectutem vix a limine attingebat. Verum alieno quidem patriæ et amicis, sibi autem, hoc est nomini, et gloriæ suæ liaud quam importuno tempore cessit e vita, relictis ingenii sui monumentis, nunquam intermorituris. Cuius vocem porticus illæ eruditæ Lycei Patavini frustra nunc, frustra, inquam, desiderant. atque eum, si possent, suum ipsæ civem, qui philosophiam non præceptis tantum ac scriptis, verum et factis præclarissime exprimebat, omnium virtutum, imprimis humanitatis ac modestiæ, singulare exemplunt erat, perpetuo lugerent ; ut eos contra philosophos riderent, qui non tam in academiæ porticis prò Peripateticæ doctrinæ primatu, quam in publicis hisce, quæ promiscere ab omnibus ultro citroque commeantibus teruntur, prò peripatetica, hoc est, ambulatoria (ut sic dixerim) prærogativa tanquam prò aris et focis ridiculc dimicant, quasi in eo sitæ sint Græciæ divitiæ, si cui occurrens, caput aperias, aut interiorem Porticus partem, videlicet parietem ambulanti concedas. Sed iam nos iis homulis et xaipeiv dicamus et vyicuveiv. Te vero iterum iterumque rogo, ut animum tuum familiæ tuæ splendidissimæ nobilitate dignissimum mihi benevolum æ meæ summæ in te observantiæ memorerà tueri, munusculumque hoc, novum piane munus (cum libellus hic it prodeat ab eodem Auctore iam pridem multis additis, detractis, immutatis interpolatus, ut, si cum antea edito conferas, mirum quantum ab eo difierre deprehendas) tanquam maximum a maximo ad te missum animo gratificandi tibi suscipere ne dedigneris. Vale. h) Persius Eminentissimo Phii.osopho Federico Pendasio,. S. P. D. Si quantum Aristoteli philosophorum filii, tantum tibi, Federice Pendasi, philosophorum memoriæ nostræ facile princeps, ipsum debere Aristotélem dixerim, næ ego vera prædicarim. Illustrasti etenim publicus tot annos in ceteberrimis Italiæ Gymnasiis interpres Aristotelicam usque adeo philosophiam, ut non tibi minus, quam Aristotelicorum librorum, qui situ obsiti parum ab interitu aberant, erutori ac vindicatori iHi gratiæ debeatur. Quos si nobis inimicum fatum ad exitium usque invidisset, poteras tu novus illucere mortalibus Aristoteles, iacturamque tantam undequaque compensare. Itaque subinvideo Ascanio fratri, quod ipsi, te Bononiæ degente, Bononiæ degenti fruì licet, ac de te non publicos solum, sed, quæ tua in omnes privatimque in ipsum est benignitas, domesticos haurire sermones. Ferebam ego antea tui desiderium paullo lenius, dum viveret alterum Italiæ lumen Zabarella philosophiæ scientia, ut tibi uni secundus (quem scilicet ille sibi non solum præferebat, sed auctorem ctiam recte philosophandi fuisse olim prædicabat), sic cæteris omnibus meo ac multorum iudicio anteponendus. Eo nunc,quo familiarissime utebar, extineto, nisi tua me aliquando usurum consuetudine sperarem, vitarn mihi profecto acerbam putarem. Interim autem quia te libenter et studiose legere ea scripta, in quibus ingenii et eruditionis lumina haud vulgaria conspiciantur probe novi, cuiusmodi sunt Telesii philosophica monumenta, idcirco ut ex ungue leonem agnosceres: ad hæc ut sententiarum novitate animum tuum consuetis fessum contemplationibus recreares, liunc eius De saporibus libellum tanquam èvSóoipav ad reliquam ipsius philosophiam cognoscendam, et, ut sapiat, iudicandam ad et mittere, adeoque tuo inscriptum nomini publicare decrevi. Accipies igitur hilari fronte hanc meæ in te benevolentiæ atque observantiæ significationem, ut meum in te studium nunquam in posterum obliviscaris. Vale. Patavii. Persius PRÆCLAR1SSIMO MEDICO Hieronymo Mercuriali S. P. D. Homericus ille Iuppiter, quod te non fugit, HieronymeMercurialis, medicorum choryphæe, ut Agamemnonem de sonino excitaret, misisse ipsi somnium a poeta perhibetur. Ego vero, ne tu mihi dormias, hoc est, ne me tibi e memoria atque ex animo excidere patiare, tui amantissimum studiosissimumque tui nunquam oblitum, non vanum aut mendax aliquod somnium, sed eruditum ca veridicum Somnum Telesianum a Telesio tum, cum minime dormitabat, elucubratum ad te mitto, qui somnum arcere quovis somnio validius possit. Hunc ego, et ut sedulum monitorem, et ut non obscurum mei in te animi interpretem ad Te destinavi, dum aliud TOSINO U2 quæro tibi mnemosynon, quo pateat illustrius non solimi quantuni tibi ipse ego debeam deferamque, veruni edam quam ab aliis omnibus esse deferenduni exisdniem; etsi tu unica de te clarissimæ Bononiensis Academiæ existimatione (ut communem eruditorum omnium sensum prætermittam) contcntus esse potes, quæ te tanto studio ac contentione ad eminentissimam medicinæ cathedram ingentibus atque ante te nemini propositi præmiis pertraxit. Atque hoc sapienter B0110nienses, ut alia omnia, sapienter te quoque ipsum, qui condicionem acceperis, fecisse sapientissimus quisque existimat, cum tibi in ea urbe domicilium statueris, quæ bonorum omnium ornatu ac copia comparari cum urbibus' omnibus merito potest. Quo tit ut non iniuria et te ego Bononiæ, et tibi Bononiam invideam, hoc est summorum virorum doctrinae et huraanitatis laude celeberrimorum Bononiae degentium consuetudinein. Peregrinos nunc taceo, ne te plus aequo legentem morer. De civium numero unum tantum honoris caussa commemorabo, Camillum Palaeottum, tuorum, ut tu te merito gloriaris, principem amicorum; quem virimi primum Romae sum contemplatus, allocutus, admiratus, cum in eo omnia maiora opinione ac fama deprehenderim. Itaque Alexandrum Burghium summa insignem timi scientia et eloquentia, tum probitate virum amo plurimum, qui ut Romae Palaeottum cognoscerem atque ab eo cognoscerer et auctor et interpres mihi fuit. Obsecro igitur te, vir preclarissime, per humanitatem et comitatem iliam tuain, qua vel sola aegrotis restituere valetudinem soles, ut me illi addictissimum diligentissime commendes, et a me salutem dicere ne graveris. Te vero mei muneris ne poeniteat, siquidem id, quod ab optimo in te est animo profectum, optimum putas. Vale, et diu vive, ut diutius alii vivant. Patavio. In fine della raccolta sono 3 cc. di Errata-corrige,Due opuscoli inediti del T. De fulmine e Quae et quomodo febres facilini furono per la prima volta pubblicati dal Fiorentino, Telesio, n, pp. 325-374, insieme con la risposta del Telesio al Patrizi: Soluliones Thyìesii. Dal Fiorentino è anche ristampato il Carmen ad Ioannam Castriotam del T., inserito nel volume Rime et versi in lode della illustriss. et eccellen/iss. S. D. Giovanna Castrio/a Carr. Duchessa dì Nocera et Marchesa di Civita Santo Angelo, scritti in lingua toscana, latina et spagnuota da diversi huomini illustri in varii et diversi tempi et raccolti da Don Scipione de’ Monti, Vico Equense; già ristampato da S. Spiriti, Memorie, e da Luigi T., o. c. pp. 55-6. Circa l’apocrifità dell’epigramma per la storia di Scipione Mazzella v. Bartelli, Note, Manoscritti e opere smarrite. Oltre la notizia importante dataci da Giov. Paolo d’Aquino, riferita a p. 54, e quelle del Persio, è da considerare la lettera del Quattromani, su cui richiamò già l'attenzione il Nicodemi nelle Addizioni copiose alla Bibl. Nap. del dott. N. Toppi, Napoli, Castaldo: e l’accenno dello stesso Telesio De rer. nat., v, 1: « Tum maris aquarumque et eorum quae im sublimi fiunt iridisque et colorum exortus in propriis est explicatus commentariis. Metallorum lapidumque et reliquorum, si quae alia supersunt, quin in superioribus manifestatus sit, parimi cannino deesse videri potest, et alias, si coeptis faverit Deus, manifestabitur magis ». Per un opuscolo De pluvfis, cui si allude nel De mari, c. x, cfr. AlmagiA, I.e dottr. geofisiche di B. T.. La Filosofia di Berardino T. ristretta in brevità, et scritta in lingua toscana dal Montano Accademico Cosentino [Sertorio Quattromani], in Napoli, appresso Giuseppe Cacchi, 1589. Ora/ione di Gio. d‘Aquino in morte di Bernardino Telesio, philosopho eccellentissimo, agli Accademici Cosentini. In Cosenza, per Leonardo Angrisani, 1596. Rist. a Napoli, Fratelli Traili, a cura di L[uigi) T., Precede una lettera di T. al marchese di Villarosa; e seguono (p. 55) il Carme del Telesio a Giovanna Castriota con la trad. italiana del Cavalcanti, l’epigramma a Scipione Mazze-Ila (p. 60) col distico contro Aristotile, il son. di Lelio Capilupi (p. 61) e due poemetti di Antonio Telesio. Sul p. Luigi Telesio prefetto della Biblioteca dei Gerolamini v. Luigi Maria Greco, Elogio del p. L. T., negli Atti dell’Accademia Cosentina, voi. Ili, pp. 345 sgg. Francesco Bacone, De principiis atque originibus secundum fabulas Cupidinis et Coeli: sive Parmenidis et T. et praecipue Democriti philosophia, tractata iti fabula de Cupidine ; in Philosophical Works edited by Ellis and Spedding (con pref. dell’EUis e note). La prima volta questo opuscolo fu pubblicato da Isacco Gruter in Franc. Baconi de Verulamio Scripta in naturali et universali philosophia, Amsterdam. Sono citati gli scritti più notevoli. Delle storie generali della filosofia soltanto quelle che contengono esposizioni originali. G. Gentile, Bernardino T. appendice bibliografica Iohannis Imperiala Musaeum kistoricum et pkysicum, Venetiis, ap. Iuntas, C’è un ritratto del Telesio. Pel cui valore storico si osservi che nello stesso frontespizio del libro è detto che le imagines del Museo storico sono ad vivum expressae, e nella prefazione al lettore: « Icones ad vivum ubique locorum a nobis anxio perennique studio conquisitas, vix cogere in unum licuit paucas, nec impensae pepercimus, nec oleo, aliquam interdum, prout minus congrua censebatur, abolendo, aliquam reformando, et cum probatioribus conferendo, quo studiosa cupidaque huiusmodi elegantiarum tua non falleretur fiducia». Petri Freheri Theatrum viro rum eruditione claro rum, Norimbergae. C’è un ritratto del T., riprodotto da Rixner e Sibek innanzi al vojutne qui sotto citato. Ioh. Georgii Lotteri De vita et philosophia T. commentarmi ad illustrandas historiam philosophicam universam et literariam saeculi XVI C/iristiani sigillativi, Lipsiae, apud Bernh. Christoph. BreitKopfium. Nei Nova Acla eruditorum di Lipsia, 3 c'è una recensione di questa monografia. Bruckeri, Historia critica philosophiae, to. iv, pars 1, Lipsiae, Mémoires pour servir à filisi, des hommes illustres dans la republique des le/tres avec un catalogne raisonné de leurs ouvrages par le R. P. Niceron barnabite, to. xxx, Paris, io. H 4 Salvatore Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, Napoli, Buhle, Gesch. d. neueren Philosopkie seit der Epoche d. Wiederhers/ellung der Wissenschaften, SCRITTI SU B. T. Gòttingen.; trad. frane. Jourdan, Paris, Ginguené, Histoire littéraire d’Italie [continuata da F. Salfi], to. vii, Paris, Michaud. I- e PP' 5 °°* 1 4 relative al T. sono un’aggiunta di Salfi. Rixner e Siber, Leben und Lehrmeinungen berukm- ter Physiker am Ende des XVI und am Anfange des XVII fakrhunder/s, Bd. ni (Sulzbach) (T.) . Oltre una biografia del T., contiene la traduzione'(molto libera) di molti brani del De rei' . natura. Giuseppe Boccanera da Macerata, B T., nella Biografia degli uom. illustri del Regno di Napoli, to. vni, Napoli, N. Gervasi (col ritr. del Morghen). Francesco Saverio Sai.ki, Elogio di Bernardino T., 2“ ediz., Cosenza, Migliaccio Ristampato in Salpi, Prose varie, Cosenza, Migliaccio. La prima volta era stato pubblicato nel giorn. La Fata Morgana di Reggio Calabria; e contro di esso allora comparve un opuscolo: Luigi Telesio, Risposta all'art. inserito nel giorn. intitolato La Fata Morgana... Su la vita e la filosofia dì Bernardino Telesio, in Napoli, nella Stamp. della Società Filomatica (cit. da F. Bartelli, Note). Scaglione, [La filosofia di B. Telesio]-, negli Atti della Accademia Cosentina, Cosenza, pe’ tipi di G. Migliaccio, 1842, voi. 11, pp.15-115. In risposta al tema assegnato dall’Accademia l’anno 1838: « Esporre con lucidezza e precisione il sistema filosofico di B. T., e far conoscere quale e quanta influenza abbia esercitato sul progresso delle scienze, e quali scrittori, sian essi calabri o stranieri, abbiano maggiormente contribuito a propagare la nuova dottrina Telesiana APPENDICE BIBLIOGRAFICA Bartholmèss, De Bernardino T., Paris, 1849. H. Ritter, Geschichte dcr Philosopkie, r l heil (Bd. I della Gesch. d. neutra Pkilos. ), Hamburg, Perthes, Erdmann, Grundriss der Geschichte der Phi- losophie, 1, Berlin, Fiorentino, T., ossia studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento italiano, Firenze, Le Monnier, 2 voli. 1872, e 1874. Della psicologia del T. il Fior, s’era occupato nel Pomponazzi. A proposito del volume del Telesio furono pubblicati i seguenti scritti du Ferri e Francie. Luigi Ferri, La filosofia della natura e le dottrine di B. T.\ nella Filos. ileUe scuole i/al., a. 1873. Ad. Franck, Bernard. Telesio, ou Études histort- ques sur l’idée de la nature pendant la renaissance ita- lienne par F. Fiorentino, in Journaldes Savanls. Carriere, Die philosophische Weltanschauung der Reformationszeit*, Leipzig. T., rivista di scienze lettere ed arti, Cosenza (direttori Iulia e Bianchi). Ne conosco 3 fase., che non contengono nulla sul Telesio, salvo un cenno neil’art. di G. M. Greco, Il Qualiromani critico a 8 a teoria dell’anima del filosofo cosentino, difesa dalle critiche del Fiorentino. SCRITTI SI! B. T. Lasswitz, Geschichte der Atomisti): vom Afitte/- alter bis Newton, Hamburg u. Leipzig, Heiland, Erkenntnisslehre nnd Ethik des Bernardinus Telesius ; Inaug.-Dissert., Leipzig. C’è una bibliografia della letteratura telesiana. Tocco, Le fonti più recenti della filosofia del Bruno, Roma, 1892 (estr. dai Rend. Lincei). I rapporti di Bruno col T. Cui è da aggiungere l'osservazione dell' Eli.is nella pref. al De principiis di Bacone, ed. cit., p. 75 n. Felici, Le dottrine fi/osofico-religiose di Campanella con particolare riguardo alla filos. della rinascenza italiana. Lanciano, Carabba. Sono studiati i rapporti del Camp, con T. St. de Chiara, Bricciche lelesiane. Nozze Tancredi- Zumbini, xix aprile mdcccxcvii (Cosenza, ApreaJ, Spigolature dall’archivio cosentino relative al nome della madre del T. e ad alcuni de’ suoi figliuoli. A p. 4 n. 1, è detto: c Un solo, il Bruckero, dice ch'egli sia nato nel 1508: ma questo non è assolutamente possibile, perchè nel sett. del 1508, come abhiam visto [«nelle schede del notar Arnone, i capitoli di un secondo matrimonio, che Giovanni T., padre del nostro Bernardino, contrasse con la signora Vincenza Garofalo »], il padre passa a seconde nozze. La data, poi, si desume anche dalla seguente notizia cortesemente comunicatami dal mio nob. amico Luciano de Matera e da lui ricavata di su un antico ms.: si sepelì nella sua sepultura della sua cappella dentro la Chiesa magiore il filosofo Bernardino tilese d’età d’anni settantanove APPENDICE BIBLIOGRAFICA Bartelli, Note biografiche (B. Telesio e Galeazzo di Tarsia) Cosenza, A. Troppa, MCMVI. Sul T. È il miglior saggio biografico che si abbia per l’esame rigoroso delle notizie e per la larga • esplorazione dei documenti inediti cosentini. Almagià, Le dottrine geofisiche di B. T.: primo contributo alla storia della geografia scien¬ tifica nel cinquecento, Firenze, Ricci, 1908 (estr. dagli Scritti di geografia e storia della geografia pubbl. in onore di Vedova). Duilio Ceci, Bernardino Telesio (con bibliografia) ne La cultura contemporanea, Roma, a. n, n. 3, Articoluccio d’occasione. Nella Bibliografia si cita: «Bonci, Il volgarizzamento dello scritto latino di B. (sic) T: I colori presso gli antichi Romani, Pesaro, Federici, 1894. Ma si tratta del De coloribus di Antonio T. Troilo, T., Modena, Formiggini; col ritr. del Morghen; N. 11 dei Profili del Formiggini). Il medio evo; II. Umanesimo e rinascimento Vita e scritti del T., La filosofia del T.; V. Chiarimenti Note Appendice bibliografica. » I. Scritti di B. T. » II. Scritti su B. Telesio LATERZA BIBLIOTECA DI CULTURA MODERNA Elegante collezione Orano Psicologia sociale (esaurito). •2. B. King e T. Okkv 1/ Italia d'oggi .Ciccotti Psicologia del movimento socialista . Virgiu L’Istituto famigliare nelle Società primordiali -,f>0 Martin L’Edncazione del carattere (esaurito). Lorenzo — India e Buddhismo antico Spinazzola — Le origini ed il cammino dell’Arte. Gourmont Fisica dell’Amore. Maggio su l' istinto sessuale . Cassola I sindacati industriali. Cartelli - Pools - Trusts . Marchesini Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica Kbioh 11 Successo delle Nazioni. Barbagali La fine della Grecia antica . Novati Attraverso il Medio Evo Spingarn La critica letteraria nel Rinascimento.. Carlyle Sartor Resartus Carabki.lbse Nord e Sud attraverso i secoli Spaventa — Da Socrate a Hegel Labriola — Scritti vari di filosofia e politica a cura di B, Croce. LATERZA Balfour Le basi della fede Freycinet Saggio sulla Filosofia delle Scienze Crock Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel Hearn Kokoro. Cenni ed echi dell’intima vita giapponese . Nietzsche Le origini della tragedia Imbriani — Studi letterari e bizzarrie satiriche. Hearn Spigolature nei campi di Bml- dho . Saleeby La Preoccupazione ossia la malattia del secolo. K. Vossi.br Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio. Arcoleo Forme vecchie, idee nuove Il pensiero dell’Abate Galiani - Antologia di tutti i suoi scrìtti editi e inediti Spaventa La filosofia italiana nelle sne relazioni con la filosofia europea Sorbi. — Considerazioni sulla violenza Labriola Socrate. Kohlkr Moderni problemi del Diritto Vossi.br — la Divina Commedia stu¬ diata nella sua genesi e interpretata Storia dello svolgi¬ mento religioso-filosofico Storia dello svol¬ gimento etico-politico. Gentile — Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Festa — Un galateo femminile italiano del trecento Spaventa — La politica della destra Royce — Lo spirito della filosofia mo¬ derna Pensatori e Problemi Prime linee d’un sistema . LATERZA Rrnier Svaghi critici Gbbhart — L’Italia mistica Farinelli — Il romanticismo in Germania Tari — Saggi (li Estetica e di Metafisica Romagnoli — Musica e Poesia nell antica Grecia Fiorentino — Studi e ritratti • 45. G. Fkrrarelli Memorie militari del Mezzogiorno d'Italia Spaventa - Principii di Filosofia Anile - Vigilie di Scienza e di Vita Royce — La Filosofia della Fedeltà Emerson L’anima, la natura e la saggezza - Saggi Rbnsi — Il genio etico ed altri saggi Gentile, T. Bernardino Teleio. Telesio. Keywords: empirismo, teoria della percezione, l’anima d’Aristotele, l’analogia, l’uomo e gl’animali, la ragione, i antici, contro i antici, osservazione, percezione, la tradizione empirista italiana, il Telesio di Bacone, sperimento, sperienza, esperienza, ex-perior, esperire – Latino ex-perior, Gr. em-pereia, osservazione, osservare – observatum, percipere – percezione per-capio. Refs.: Luigi Speranza, “Telesio e Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Telesio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teocle: la ragione conversazionale della legislazione di Reggio – principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Reggio Calabria, Calabria. A Pytahgorean who helps produce a new code of law for Reggio. Cited by Giamblico. Unfortunately, Giamblico also mentions one Teeteto in exactly the same context – implying that they may be the same person.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teodoro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della natura rerum – Roma – la scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Milano, Lombardia. Accademia. Nato da famiglia ligure. Agostino, che gli dedica il “De beata vita”, dice che conosce bene l’Accademia, Dopo essere stato per qualche tempo avvocato, poi governatore in Africa e consolare della Macedonia e aver coperto vari uffici a corte, è praefectus praetorio delle Gallie. Si occupa dell’amministrazione dei propri beni e di studi filosofici e astronomici e scrive dialoghi su questi argomenti, STILONE lo nomina praefectus praetorio per l’Italia, l’Illirico e l'Africa. Mentre confere questo ufficio ha il consolato e in quell'occasione CLAUDIO CLAUDIANO gli dedica un panegirico. Di T. resta un saggio “De metris”, mentre si sono perduti altri, tra i quali un “De natura rerum.” Console, Consolato Prefetto del pretorio d'Italia. Di T. è noto abbastanza, grazie al panegyricus dedicatogli da CLAUDIO CLAUDIANO. Di famiglia notabile, sappiamo che è console. Il suo consolato avvenne sotto il principe ONORIO.  Prima di essere console è anche prefetto con sede a Mediolanum-Aquileia. Qui Agostino conosce T., uno degl’intellettuali accademici che incontrato appunto a Milano e, scrive “De vita beata”, dedicandolo proprio a T., che a quel tempo si è ritirato dalla corte. Di T. resta un trattato di metrica, “De metris”, uno dei migliori pervenuti, e per questo molto conosciuto e studiato. Inoltre, sempre secondo CLAUDIO CLAUDIANO, e un cultore di filosofia, astronomia e geometria e scrive diverse saggi su questi argomenti che, insieme al suo consolato, sono l'argomento del panegirico a T. dedicato da CLAUDIO CLAUDIANO.  Markus, The end of ancient Christianity, Cambridge; Keil, “Grammatici Latini”. Bonfils, C. Th. e il prefetto T., Bari, Edi puglia, consoli tardo imperiali romani Stilicone Prefettura del pretorio delle Gallie Mariano Comense Siburio Teatro romano di Milano Prefettura del pretorio d'Italia Nicomaco Flaviano (prefetto del pretorio) T., su Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di T. su digi libLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Opere di T., su Open Library, Internet Archive. Predecessore Consoli romani Successore Imperatore Cesare Flavio Honorio Augusto IV, Flavio Eutichiano T., Eutropio Aureliano, Flavio Stilicone V D M Grammatici romani Portale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Scrittori romani Grammatici romani Politici romani Scrittori Consoli imperiali romani Prefetti del pretorio d'Italia. A statesman and author who writes on a wide range of subjects. He is best known for a technical work on poetry, but he also comments philosophical works. Flavio Mallio (o Manlio) Teodoro. Keywords: de natura rerum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Teodoro”, per H. P. Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza

 

Luigi Speranza -- Grice e Teodoro: la ragione conversazionale della scuola di Taranto – Roma – filosofia pugliese – la scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Taranto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della salute – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. He moves to Gaul to become a healer. Cited by Eunapio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Teofri:  la ragione conversazionale della setta di Crotone– Roma – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria.  A Pythagorean.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Teoride: la ragione conversazionale da Crotone a Metaponto  – Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Matera, Basilicata. Pythagorean cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Terillo: all’isola – la ragione conversazionale della scuola di Siracusa -- Roma – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. Plato mentions T. in his letter to Dionisio II di Siracusa. In it, T. is described as someone who divides his time between Siracusa ‘and everywhere else’ – ‘a philosopher, of much learning, too’, he adds as a joke. The authenticity of the letter is highly doubted – “and therefore, of Terillo’s own existence!” – H. P. Grice. Terillo. Keywords: filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Terillo,” per H. P. Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia Grice e Tertulliano: la ragione conversazionale -- nothing is so absurd that some philosopher has not thought it – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Filosofo italiano. ‘Credo quia absurdum est’ is his life-guiding motto, which he learns from his philosophy tutor at Rome. He belongs to the Porch, and later becomes a ‘montano,’ an ascetic sect, “although,” his brother reminsices, “my brother stays away from the more extreme forms of the asceticism the sect officially promulgates.” Quinto Settimio Florente Tertulliano.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Terzi: implicatura crittologica – Gaskell’s pupil -- la scuola di Brescia – filosofia lombarda. filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Brescia). Abstract. Keywords: Peccavi. It was a pupil of Gaskell who submitted to PUNCH the Peccavi conversational implicature pun.  Francesco Lana de Terzi Francesco Lana de Terzi (Brescia, 10 dicembre 1631 – Brescia, 22 febbraio 1687) è stato un gesuita, matematico e naturalista italiano, considerato il fondatore della scienza aeronautica.[1] Il pioniere dell'aeronautica Gaston Tissandier definì Lana «Le premier qui formula le principe de la navigation aérienne.»[2] Arthur Mangin riconosce nel Lana «il solo fisico del secolo XVII, le cui vedute sull'aerostatica abbiano veramente avuto qualcosa di razionale».[3]  All'aeronave di Lana de Terzi si ispirò Bernardo Zamagna per il suo celebre poemetto latino Navis aeria (1768).[4]  Biografia  Frontespizio del terzo volume del Magisterium naturae, et artis di Francesco Lana de Terzi (1692) Francesco Lana de Terzi, figlio del conte Ghirardo e della contessa Bianca Martinengo, nacque a Brescia il 10 dicembre 1631 dalla nobile famiglia Lana de Terzi.[5] Dopo aver frequentato il Collegio dei Nobili di Sant'Antonio, l'11 novembre 1647 entrò nella Compagnia di Gesù.[6]  Dopo il biennio di noviziato passò nel Collegio romano, dove studiò per due anni lettere e per tre anni filosofia (1651-1654). Nel 1652 iniziò a collaborare con padre Athanasius Kircher, che aveva un laboratorio attrezzato per le esperienze scientifiche e lo introdusse al metodo sperimentale[7][5]; seguì anche i corsi di matematica di Paolo Casati.[8][6]  Il p. Lana dimostrò fin da giovane grande ingegno, unendo lo studio e la ricerca in svariati campi dello scibile umano a viaggi, che lo portarono a visitare molte città d'Italia. A Terni insegnò grammatica e retorica, scrivendo nel frattempo una piccola opera dedicata al protettore della città. Dal 1675 al 1679 insegnò matematica e fisica all'Università di Ferrara e in forma privata nel Collegio della Compagnia.[9][10] Nel periodo ferrarese, il Lana intrattenne una ricca corrispondenza epistolare con il confratello Daniello Bartoli, e «meditò a lungo e profondamente le opere dei maggiori scienziati del primo Seicento italiano ed europeo (Keplero, Galilei, Torricelli), nonché quelle degli studiosi a lui più vicini nel tempo (come Hevelius, Huygens e Malpighi).»[11]  La sua salute cagionevole lo costrinse a ritornare a Brescia, dove divenne insegnante di filosofia nel convento di Santa Maria delle Grazie. Intraprese lunghi viaggi verso i territori vicini, i laghi di Garda, Iseo e Idro, e le valli, Camonica, Sabbia e Trompia, traendo dalle sue esplorazioni il trattato Storia naturale Bresciana, che rimarrà in forma di manoscritto. Nel 1671 venne nominato socio corrispondente della Royal Society di Londra ed entrò in relazione epistolare con il giovane Leibniz.[10]  Studioso poliedrico, il Lana si segnalò per le brillanti invenzioni: «dopo un geniale telaio «per rendere più razionale la semina», riuscì a perfezionare un modello di cannocchiale distanziometrico (attuato in perfetto parallelo con Geminiano Montanari), e affrontò il progetto della “nave volante” che gli diede un posto ragguardevole nella storia della scienza.»[12]  Nel 1686, sull'esempio dell'Accademia dei Lincei, fondò a Brescia l'Accademia dei Filesotici, con lo scopo di pubblicare ogni mese i risultati degli esperimenti condotti dagli accademici e di recensire le nuove pubblicazioni, sia italiane che estere.[13] L'Accademia, tuttavia, non sopravvisse alla morte del fondatore, e pubblicò un solo volume di Atti (Acta Novae Academiae Philexoticorum Naturae, et Artis, Brixiae, apud Jo. Mariam Ricciardum, 1687, in-12).[14][15]  Dedicati dal Segretario dell'Accademia, Ermete Francesco Lantana, a Gianfrancesco Gonzaga, Duca di Sabioneta, gli Atti riportano i resoconti degli esperimenti condotti dagli accademici dal marzo 1686 al febbraio 1687 e la recensione delle pubblicazioni scientifiche più recenti («ragguaglio de' libri»), come i primi due volumi del Magisterium naturae et artis del Lana e le opere di Filippo Bonanni, Marcello Malpighi e Bernardino Bono, lui pure «academico filesotico».[16] Vari esperimenti inclusi negli Acta, come quelli sulla declinazione magnetica, sulla costruzione di una pisside magnetica, sulla solidificazione di due liquidi venuti a contatto, furono realizzati sotto la direzione del p. Lana.[10]  Tra le opere del Lana notevole è anche il progetto del Magisterium naturæ et artis (3 voll. 1684-1692), opera enciclopedica in nove volumi, di cui però solo i primi due furono completati.  Gli è stato dedicato un asteroide, 6892 Lana.[17]  L'aeronave  Disegno dell'aeronave di Lana de Terzi (c.1670) Francesco Lana de Terzi propone il primo serio tentativo di realizzare un velivolo volante più leggero dell'aria. Nel 1670 pubblica infatti il libro Prodromo, che contiene un capitolo intitolato Saggio di alcune invenzioni nuove premesso all'arte maestra nel quale è riportata la descrizione di una nave volante, un vascello più leggero dell'aria da lui immaginato nel 1663 sviluppando un'idea suggerita dagli esperimenti di Otto von Guericke con gli emisferi di Magdeburgo.[18]  Secondo il progetto, che intendeva "fabricare una nave, che camini sostenuta sopra l'aria a remi, & a veli", il velivolo doveva essere sollevato per mezzo di quattro sfere di rame, dalle quali doveva essere estratta tutta l'aria. La chiglia sarebbe stata appesa alle sfere di rame (di circa 7,5 metri di diametro), con un albero a cui era attaccata una vela; secondo i suoi calcoli, quando nelle sfere veniva fatto il vuoto, esse divenivano più leggere dell'aria e offrivano una spinta ascensionale sufficiente a sollevare la barca e sei passeggeri.  Oggi sappiamo che la realizzazione del progetto non è fisicamente possibile, perché la pressione dell'aria farebbe implodere le sfere e perché sfere sufficientemente resistenti avrebbero un peso superiore alla spinta fornita. Ma il grande merito dello scienziato è di aver per primo applicato alla navigazione aerea il principio di Archimede, lo stesso che consente alle navi di galleggiare sull'acqua e che nel 1783 porterà all'aerostato dei fratelli Montgolfier.[19]  Lana non giunse infine a realizzare la sua "nave volante", non per i problemi che il progetto presentava (di cui comunque era ignaro), ma per il timore che la sua invenzione potesse essere usata per scopi militari, come egli stesso ebbe a scrivere nel Prodromo.[20][21] Ma intanto l'aeronave del Lana aveva fatto parlare molto di sé, in Italia e all'estero, nei circoli colti, divenendo soggetto di discussioni erudite, suscitando ammiratori e oppositori. Per accennare alla diffusione delle sue idee nei primi anni dopo la pubblicazione del Prodromo, va ricordato che già nel 1671 Henry Oldenburg ne pubblicò una recensione sulle Philosophical Transactions.[22] Robert Hooke, curatore degli esperimenti della Royal Society, presentò una traduzione inglese di alcune sezioni del Prodromo, accompagnata da una dettagliata discussione dei principi fisici su cui l'idea di Lana si basa.[23][24] Nel 1673 le sue tesi sui presupposti scientifici dell'aeronave furono difese all'Università Carolina di Praga per iniziativa del gesuita Kaspar Knittel, professore di matematica. Simili atti accademici ebbero luogo all'Università di Erfurt sotto la presidenza del professor Hiob Ludolf e nel 1676 all'Università di Rinteln in una tesi di laurea sotto la presidenza del gesuita Philipp Lohmeier, il quale però attribuì a se stesso il merito dell'invenzione. Lo stesso anno a Norimberga Johann Christoph Sturm pubblicava una raccolta di esperimenti di fisica in cui si sosteneva la validità scientifica dell'invenzione del Lana.[25]  L'alfabeto per ciechi L'aeronautica non esaurisce certo gli interessi del p. Lana. Ad esempio nel capo primo del Prodromo («nuove inventioni di scrivere in cifra») Lana elabora nuovi sistemi di crittografia, più tardi ripresi da Kaspar Schott nella sua Schola Stenographica.[26] Ma uno dei meriti maggiori di Lana consiste nell'avere elaborato, cent'anni prima dell'Abate de l'Épée, un metodo pratico per l'istruzione dei sordomuti e dei ciechi nati.[27]  Nel capo secondo del Prodromo, infatti, viene presentato un alfabeto per non vedenti di concezione interamente nuova. A differenza dei metodi di lettura e scrittura per ciechi inventati in precedenza, l'alfabeto creato da Lana si basava sull'intuizione fondamentale che esso non dovesse imitare i caratteri "classici" (come avevano proposto ad esempio Girolamo Cardano ed Erasmo da Rotterdam), ma dovesse utilizzare un sistema di segni fatto da una serie di linee percepibili al tatto. Vi fu un solo dettaglio che impedì all'invenzione di Lana di avere successo: il gesuita non comprese che i punti, invece delle linee, sarebbero stati più facilmente riconoscibili con la sensibilità delle dita. Ciò fu invece compreso da Louis Braille, il quale apportò la miglioria definitiva all'alfabeto per ciechi che da lui ha preso il nome.[28]  Opere Francesco Lana de Terzi, Prodromo ovvero saggio di alcune inventione nuove premesso all'arte Maestra Opera che prepara il P. Francesco Lana, Bresciano della Compagnia di Giesu. Per mostrare li più reconditi proncipij della Naturale Filosofia, riconosciuti con accurata Teorica nelle più segnalate inventioni, ed isperienze fin'hora ritrovate da gli scrittori di questa materia & altre nuove dell'autore medesimo, Brescia, Rizzardi, 1670. (Ristampa: Milano, Longanesi, 1977) (LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium naturae, et artis. Opus physico-mathematicum, vol. 1, Brescia, per Io. Mariam Ricciardum, 1684. (LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium naturae, et artis. Opus physico-mathematicum, vol. 2, Brescia, per Io. Mariam Ricciardum, 1686. (LA) Francesco Lana de Terzi, Magisterium naturae, et artis. Opus physico-mathematicum, vol. 3, Parma, Typis Hyppoliti Rosati ac sumptibus Iosephi ab Oleo, 1692. Edizioni moderne Francesco Lana Terzi, Prodromo all'Arte maestra, a cura di Andrea Battistini, Brescia, Morcelliana, 2016, ISBN 978-88-372-3070-8. Note ^ Joseph MacDonnell, Jesuit geometers: a study of fifty-six prominent Jesuit geometers during the first two centuries of Jesuit history, Institute of Jesuit Sources, 1989, p. 21, ISBN 978-0-912422-94-7. «Francesco Lana-Terzi is found at the head of literature on Aviation because of the treatise in his book Prodromo alla Arte Maestra (1670) on aerostatics. His work was translated by Robert Hooke and presented to the Royal Society of London by Robert Boyle. Later it was discussed by physicists for over a century before the first successful aerostatics flight by the Montgolfier brothers in 1783. His work fascinated scientists because it was the first time anyone worked out the geometry and physics for such a device.» ^ Giuseppe Boffito, Il 'più leggero dell'aria' prima di Montgolfier, in L'ala d'Italia rivista mensile di aeronautica, febbraio 1926 – nº 2, p. 51. ^ «Le seul physicien d'alors dont les vues sur l'aérostation aient eu quelque chose de judicieux et de rationnel»; Arthur Mangin, La navigation aérienne, Mame, Tours 1856, 10. ^ Giuseppe Boffito, Il 'più leggero dell'aria' prima di Montgolfier, in L'ala d'Italia rivista mensile di aeronautica, febbraio 1926 – nº 2, p. 52. «Al Lana s'ispirò Bernardo Zamagna nel cantare latinamente la sua Aeronave (Navis Aerea).»  Mario Zanfredini, 1987.  DBI. ^ Cfr. Magisterium naturae et artis, II, Brixiae 1686, p. 176. ^ ibid., p. 425. ^ Grendler (2017), p. 373.  Enciclopedia bresciana. ^ Davide Arecco, Mongolfiere, scienze e lumi nel tardo Settecento: cultura accademica e conoscenze tecniche dalla vigilia della Rivoluzione francese all'età napoleonica, Bari, Cacucci, 2003, pp. 30-31. ^ Maria Luisa Altieri Biagi e Bruno Basile (a cura di), Galileo e gli scienziati del Seicento, vol. 2, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1980, p. 1220. ^ Giambattista Chiaramonti, Dissertazione istorica delle Accademie Bresciane, 1762, p. 46. ^ Antonio Fappani (a cura di), Accademia dei Filesotici, in Enciclopedia bresciana, vol. 1, Brescia, La Voce del Popolo, 1987, p. 4. ^ Cfr. anche: Clelia Pighetti (a cura di). L'opera scientifica di Francesco Lana Terzi S.I.: 1631-1687 (Brescia: Comune di Brescia, 1989). ^ Ugo Vaglia, Stampatori e editori bresciani e benacensi nei secoli XVII e XVIII (PDF), Brescia, Ateneo di Brescia, 1984, p. 281. Su Bernardino Bono medico e collaboratore del Vallisneri cfr: Ivano Dal Prete, “Ingenuous Investigators": Antonio Vallisneri's Regional Network and the Making of Natural Knowledge in 18th-century Italy, in Paula Findlen (a cura di), Empires of Knowledge: Scientific Networks in the Early Modern World, Routledge, 2018, pp. 179-204, in partic. pp. 184-188, ISBN 978-0-429-86792-7. Negli Acta compaiono diversi suoi interventi di pregio (Relatio de quodam aegroto singulis paroxismis sanguinem loco urinae excernente; Epistola continens quaedam circa visionem depravatam et vitae prolungationem per respirationem alterati aeris; Intestini caeci usus; De scorbuto nostrarum regionum advena exotico; De respiratione). ^ (EN) Lana - Dati riportati nel database dell'International Astronomical Union, su minorplanetcenter.net. ^ Ronald S. Wilkinson, John F. Buydos, William J. Sittig, Aeronautical and Astronautical Resources of the Library of Congress: A Comprehensive Guide, Library of Congress, 2007. «This author's work was based on the discovery of atmospheric pressure by Torricelli, the barometrical researches of Pascal in France, and the experiments relating to the vacuum pursued in Germany by Otto von Guericke, but Lana Terzi deserves the sole credit for discovering the principles of aerostation.» ^ Gaston Tissandier, La Navigation aérienne, BnF collection ebooks, 2014, ISBN 978-2-346-00000-5. «Assurément le projet de Lana est impraticable : le savant jésuite n'a pas prévu que ses ballons de cuivre vides d'air seraient écrasés par la pression atmosphérique extérieure ; mais il n'en a pas moins eu une idée très nette et très remarquable pour son époque du principe de la navigation aérienne par les ballons plus légers que le volume d'air qu'ils déplacent.» ^ Francesco Lana, su Gesuiti.it (archiviato dall'url originale il 9 gennaio 2006). ^ «Dio non sia mai per permettere che una tale macchina sia per riuscire nella pratica, per impedire molte conseguenze che perturberebbero il governo civile e politico tra gli uomini. Imperciocché chi non vede che niuna città sarebbe sicura dalle sorprese, potendosi [...] con ferri che dalla nave si gettassero a basso sconvolgere i vascelli, uccidere gli uomini ed incendiare le navi [...] le case, i castelli, le città.» ^ An accompt of two books. - I. Prodromo overo saggio di alcune inventioni nuove premesso all'Arte Maestra di P. Francisco Lana della Campagnia di Jesu, in Brescia, 1670. in 4˚. II Joh. Henr. Meibomii de cerevisiis, potibùsque & ebriaminibus extra vinum aliis Commentarius, annexo libello Turnebi de vino. Helmestadii 1668. in 4˚, in Philosophical Transactions, vol. 6, 1671, pp. 2114-2118, DOI:10.1098/rstl.1671.0005, JSTOR 101056. ^ Robert Hooke, P. Fran. Lana's Way of Making a Flying Chariot; with an Examination of the Grounds and Principles thereof, in Philosophical Collections, vol. 1, 1679, pp. 18-29. ^ Viktoria Tkaczyk, Ready for Takeoff. 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V · D · M Compagnia di Gesù Controllo di autorità VIAF (EN) 27801240 · ISNI (EN) 0000 0001 2017 5199 · SBN SBLV017399 · BAV 495/206139 · CERL cnp00376043 · LCCN (EN) no95060009 · GND (DE) 115501479 · BNE (ES) XX1675409 (data) · BNF (FR) cb10681783j (data) · CONOR.SI (SL) 159216995 Portale Biografie Portale Cattolicesimo Portale Scienza e tecnica Categorie: Gesuiti italianiMatematici italiani del XVII secoloNaturalisti italianiNati nel 1631Morti nel 1687Nati il 10 dicembreMorti il 22 febbraioNati a BresciaMorti a BresciaIngegneri aerospazialiInventori italianiFisici italiani del XVII secoloScrittori in lingua latinaScrittori in lingua italianaScienziati del clero cattolico[altre]Filosofo lombardo. italiano. Brescia, Lombardia. Sistemi crittografici di questo tipo hanno grande fortuna. Ma ovviamente in ragione dello scopo contrario a quello qui perseguito d’A., il rendere illeggibile un testo non possedendone la chiave di lettura. Più sistemi di questo tipo sono ad esempio creati dal padre gesuita, e allievo di Kircher, Francesco Lana conte de’ TERZI (si veda) nella suo saggio “Prodromo, overo saggio di alcune inventioni nuove premesso all'arte maestra pubblicato a Brescia. Vedasi FRANCESCO LANA CONTE DE' TERZI, Prodromo, overo saggio di alcune inventioni nuove premesso all'arte Maestra, opera che prepara il P. Francesco Lana bresciano della Compagnia di Giesu per mostrare li piu reconditi principij della naturale filosofia, riconosciuti con accurata teorica nelle piu segnalate inventioni, ed isperienze fin'hora ritrovate dai filosofi di questa materia e altre nuove del filosofo medesimo, Brescia, presso Rizzardi. Lana nacque a Brescia e vi muore. Studia FILOSOFIA presso l'ordine dei gesuiti a Roma, dove conosce anche Kircher che lo introduce alla fisica e al poker. È insegnante di matematica e FILOSOFIA. •^J 'iMì\h TPi- 3M00 PRODROMO ovvero saggio di alcune invenzioni nuove premesso ALL’ARTE MAESTRA, opera che prepara T., BRESCIANO, DELLA COMPAGNIA DI GIESV. Per mostrare li più reconditi principij della naturale filosofia, riconosciuti con accurata teorica nelle pio segnalate invenzioni, ed isperienze fin'hora ritrovate dagli scrittori di questa materia ed altre nuoue dell'autore medeiimo. DEDICATO ALLA SACRA MAESTÀ CESAREA EL IMPERATO LEOPOLDO I IN BRESCIA. Per li RizLardi, Con Licenza de' Superiori. V SACRA MAESTÀ CESAREA Ouca per ogni titolo ricorrere al patrocinio dt Vojlra Sacra Maefià Cefarea, quejia prtr/io, e ro'j^iQ parto del mio dehhole ingegno : ìmpcrcioche ejfendo egli ijn fag^ gio dell' opere, che fono per dedicare k Fofira Sacra ^Maefià, fono le ali deli" aquila Imperiale, tncominctera ad auuelJiarfi a fijfare lo f guardo ne' chiari ffimt fpiendori dt quei SOLE terreno, che tiene il primo pofio nella ^Monarchi^ Colitica de" Trencipi, come appunto ti Sole nella cele fle gerarchia delle felle. Non doueano efporp alla luce dt vn Pianeta sì luminofo tutti li miei parti prima di far prona, fé pano atti a contemplare i raggi del f no maejlofo fplendore-^ All'hora io gli ricono fcero per miei, quando potranno fìjfar gl'occhi in Vofira Sacra t^AtaeJlà, (f all' hora folo potranno 'Volare per tutto il mondo, quando faranno fofienutt dalle grand' ali di queìi' ej^qutU, che impera nelì'Vniuerfo. Quejlo TRO D ROMO, che va innanzi all' ^ RT £ ìM a e ST RA, non potea ritrouare alloggio più fortunato, che in cote fa Qorte, la quale da leggi, ^ ammaejira tutti le nattoni : e benché fir amerò, fpera nulladtmeno fa per ejferc ^ ejfere accolio be/jignamefUe d^ l^oflra Sacra lAaefla, che con fauorue ì lelicralt jcrrihra haner conferito U csìtadt.nanl^a a tiitie l Arti piti nobili . Pertanto fé queUe mandano per vn fuo mcjfao^gtcre alcune naoue ìnuenìionì fi deggiono tributare al merito di Vofira Sacra Aiaefià, che con la ma~ gntficen]^a della Jua mano {^efarea, e con la grandeZjZ^^ del petto magnanimo i diva altro. Il nono è il moto predominante, che imp"difcc,o rv^primc "l'altri moti meno potenti, Il decimo è quello di lìftole, e dialtole, quai'è quello delle arterie. L'vndecimo è quello di fimpatia,& antipatia. Alcuni aggiongono quello, che imprime alcuna virtù alle_^ cpfe, fenza comunicarli alcuna foftanza; quale io nego potcrfifare, e refterà prouaro a fuo luogo. Inoltre vi fono li moti propri] di ciafcun fenfo, della FantafiajC dell'Appetito; ma quefti fi deuono fpicgare a luogo proprio,oue fi tratta delle operationidelli animali ;folo a predetti moti fi deue aggiongerc la quiete, con ciò che fa refiftenzs al moto. Dalli predetti moti naturali femplici prouengono i moti naturali. compofti,che fono Talteratione, la niiftione,la feparationc, la gcncr rationCjC corruttione, Taumentationce diminutionej poiché i moti femplici j che nafcono da più intimi penetrali della Natura continuati, mescolati, replicati, alternatÌ5rafrrenati, incitati, &: in molte maniere variati sono cagione di tutti gl’effetti j e h.e amrairiaiBO r.cllc cpfe Efiche 0, La seconda parte della fisìca aftratta confiderà gl'accidenti, che fono c6muni, o a tutte, o almeno a molte sostanze materiali, come sono il raro,^ iì,den/o ; il greue,e leggiere; il caldo, et il freddo ; l'huraido,8c il lecco 1 il volatile, et il fifso; ilfolido5& il £luidp;il crudo 6 fondare inai alcun principio ("opra ilpeneniejche non fiano certe, e prouaiCj proeurjndo di ibbilir? laveria non fopra vna fola, ma ibpra molte ilpericnic fé fìa pofsibilei Ec oflemando fé il principioj e verità ftahilita fi confacela ad altre limili efperienzc^ poiché all'ho-fa fi donerà itimarc infallibile vn priacipio, quando coerentemente a quello caminano tutte le altre cofc della medefima, o fimile.^ •nate ria. Manca dunque a qiicfta fcienza vna notitia efatta, e ben ordi=T nata di tutte l'ifperienze, le quali Piano certe^e prouatCjtanto naturali, quanto artiBciali, ò mirtea e quefte fi deuono ridurre a capijcon-f forme l'ordinedeUe matcrieje quali ti trattano, premettendo le dette ifpeticnze,e pofcia ftabilendo con quelle i principi;, e le verità proprie di quella materia, e con cfsi rendendo ragione delle ifperienz,e medefime, mollando la coerenza de principi; con tutte quelle ifpC'^ iienzc; il che noi procuraremodi fare nella noftr'AtteMaeftrajqyaiv to comporterà il noffro debole intendimento. Tutte Tifpericnze fi pofsono conliderare di tre forti: la prima intorno alle gcnerationi saturali di tutte lecofe materiali, e fenfibili, come delli mincralijdelli vegetabili, e delli animali, e anche delle mur tationi,& accidenti ne corpi celefti, delli elementi, e de mifti imperfetti j La feconda, intorno all€ generationi^che fono ftior dell'ordir ne naturale, e fi chiamano pretergenerationi, e tutto ciò che fifcofta dalcorfo ordinario della Naturalo fia per ragion del luogo particolare, o del concorfo di caufe ftraordinarie j o per qualche altro infoiito cafo, o accidente; sì de moftri nelli animali, e nelle piante 5 sì de portenti meteorologici, e fotserran/^if sì d'alcun' Indiuiduo fingolare nella fua fpctie; sìdi altre nafcofte proprietà ftraordinarie. La terza, intorno all'ifperienze artificiali, le quali fono moltiflìmp da notarfi in ciafcun' aite, non trafcurando le piuEriuialÌ5& vfitate, quando da quelle fi pofsano dedurre verità non. ordi|iarÌ€,.e di moke confcguenzCo ., La prima forte d'jfperienze,per quanto appartengono alla gcneratione delli animali,de vegetabili, e minerali, è fiata afsai accuratamente ofseruata da Arìftotele,da Diofcoride, da Teofraflo, da Giorgio Aericola,e da akri^ non cosi di quelle che appartengono alli elementi, et alle cofe meteorologiche, fotterranee, e celefti. La fecondi forteèft.ata afsai uafcnrata dalli antichi» e, Jbjp il mg-. derno derno Aldroando l'ha' in buona parte illuftrata. La terza delle ifperienze artificiali, fi ritrouafparfa in molti autori, fenza alcun buoji-, ordine,e molto imperfettamente. Tutte tré poi fono, come diffi, ripiene di molti inganni, e fallacie, efsendo molte cofe ofcure, altre incerte, et altre del tutto falfe ^ oltre che non fono confiderate, et ordinate in modo, che feruano al fine, che pretendiamo, di ftabilire con elìe_-> le più foftantiali verità della fcienza naturale. Quanto poi a quella parte della Fifica,che tratta de principi] delle cofe fenfibili,èftata maneggiata affai bene da molti, e particolarmente da alcuni moderni, tra quali il noUro P, Cabco, e dopo lui il Caffendo j ma in elfi fi può defiderare maggior metodo, et vn indutcione megliore di maggior numero di efatte ifperienze. Quell'altra parte, che difcorre della fabricadelPVniuerfo con l'ordine, e collegamento delle fue parti, non la ritrouo trattata con quella., dignità, che merita vna materia fi nobile : Poiché fé bene molti hanno fcritto opere degne dì Aftronomia, e di Cofmografia, particolarmente il noftro P.Riccioli nel fuo impareggiabile Almagefto jquefti però fi fono fermati nella confiderationede'moticclefli^ nelle mifure del!a_^ grandezza de cieli, e della terra, nelle lorodiftanze, e nella defcrictione de'fiti, fenza confidcrare Tordine, e connedìone delle cofe terrene jcon le celefti,* la virtù, et efficacia dell'operare dell'vne nell'altre, e la dipendenza nelli effetti squali fi debbano attribuire, a quef1:a,ò a quell'altra ftella^qualfia la vera, e fifica foitanza de corpi celef^i ; quale fia la cagione del loro moto : perche alcuni veloci, altri tardi s'aggirino ; perche altri intorno alla terra, altri intorno al Sole, a Gioue, a Saturno; perche hora vicini, hora più lontani dalla terra, e cofe fimili . Et ancorché delli effetti, et influenze de Cieli, moke cofe fi leggano apprelfo gl'afiirologi giudiciarij, fono però tanto vane, e fi mal fondate, che meritamente da huomini di giudicio fi hanno in conto di pazze chimcre,e di vere bugie, ellendo quelli fimili a Prometeo, che ingannò Gioue con vn bue, il quale haueua folo la pelle grande, bella, e ben difpofta, ma fotto di efla altro non v*era,che paglia,e foglie. Moflrano coftoro vn cielo fatto da Dio, qui e xiendit calumf cut pillem ^con bell'ordine di regolati fiftemi difpoftojma vi mancano le vifcert»» 5 cioè le ragioni fific he, dalle quali fi poffano ftabilire le verità intorno alla natura, foftanza, moto, et influfidieffi. E benché io del tutto condanni quella parte di Aftrologiagiudiciaria, la quale foggetta il libero arbitrio alle influenze del Cielo j non pretendo però condannare, quella,che giudica de futuri auuenimenti nelle cofe fifiche, e naturali; come fono le mutationi dell'aria, l'impreflìoni meteorologiche,& altri D eflfecci ' effetti pccpnarijjchedcpendono dancccflaric cagioni: ma folo dico che qucfta parte fia alcuni fondamenti fìlli, i quali fi deuono rigettare, jilcuiii veri 5 che fi deuono ammettere, ma adoperare con maggior cautela diquellojche fi faccia comunemente dalli aftrologi; e che molti filtri feli deuono aggiongere,dopo che fi faranno ben conofeiutc le proprietà, e natura delle ftcUe, e de loro infludì, conforme vedremo a |uo luo^Ojincui prccuraremo di riformare quell'arte, accio in cai modo corretta, polla non folo con diletto, ma vtilmente efcrcitarfi. Laterza parte, che difcorre delle nature fparfe in varij generi, «^ fpecie, ritrouo edere molto più imperfetta delle due precedenti j e ciò r.onfolo mentre tratta delle cofeaflratte, ma anche delle concret^-^ } poiché quanto a quefte non fi ritroua alcuno, che abbracci tutcc 1^.^ parti,edi ciafcuna numeri Tjfperienze, deducendo da effe con buon ordine le verità, e principi] di quefta (cienz,a.' e benché molti habbiano riattato di vna parte, o fpecie di cofe particolare sciopero hanno fatto rn^^lto imperfettamente, non penetrando a fondamenti, e ragioni più recondite dclli effetti, e ciò per mancamento delfinduttione, l*aItrafcientifica,e fpeculatiua j la prima contencrà gran numero d'ifperienze le più confiderabili, et vtili appartenenti a quella materia, eoa l'inuentioni più rare tanto mie propri^.^ quanto di ciafcun altro autore, fi antiche come moderne. Nella feconda partCjdalle predette ifperienze,& operationiprattiche, dedurrò tutti i principi j vniuerfali,con le altre verità che s'afpettano a tai ma« teria, procurando di confermarle con lunga induttione dell* ifperienze medefime,emoftrando la coerenia di quelle con li Inabiliti principi], che renderanno la ragione vera, e legitima di effe : doue infieme accennerò cornei mcdefimi principi} fi poffano ftendere all'inuentione di cofe nuoue, e ftraordinarie; particolarmente applicando i principi] di vna materia ftfica a quelli di vn altra parimente fifica, et a quelh di ciafcuna materia fifica, quelli di alcuna parte della Matematica. Nel principi® di ciafcuna di quefte feconde parti riferirò grafiìomi,& il modo di filofofare di ciafcuna fetta de filofofi i e nel fine aggiongerò vn catalogo de problemi, ò fiana cofe dubbiofe, delle quali non fi hauerà potuto hauer perfetta cognitione fpeculatiua, et vn altro dellt^ inuentioni prattiche,che reftaranno a ritrouarfi j accio ogn* vno, dalle cofe antecedenti pigliando nuouo lume, poffa animarfi a perfettionare maggiormente quefta fcienzaj mentre procurarò di far vedere che l'Arte, e Tefperieza è quella, da cui ogn'vno più che da niuna cofa reftì jneffa ammacftratOjond*è,chemi è piaciuto di dare all'opera, che in quefto faggio prometto, nome d'Arte Maeftra j non arrogandomi il ti» tolodi maeftro,ma attribuendolo air Arte, di cui con indefeffe ifpe^^ jienze mi fono fempre profeffato fcolaro.. Ho voluto dare q^uefto faggio, e notitia dell* opera j che fono pe^ man^ 17 mandare alle ftampe, non tanto per fodisfarc alla curlofità di quelli, che defideraranno di vederla, quanto far fare intendere a tutti quelli, che fi dilettano d'ifperienze, buone, e di curiofe inuentioni,che mi faranno cofa grata fé degnaranfi di communicarmi alcuna cofa di nuouo ritrouata in tal genere, e mi obligaranno a darne all'autore quell'honore, di cui farà meriteuole. In tanto acciò tal vno non ftimi che io prometti cofe vane, mentre prometto inuentioni nuoue in ogni forte di arti, con il modo di perfettionarle 5 ho voluto inuiare auanti all'Arte Maeftra quefto mio Prodromo, in cui oltre varij nuoui ritrouamenti in molte forti di arti,pongo per vltimole regole prattiche, che feruiranno a perfettionare due arti appartenenti ad vna fol parte della Fifica, cioè alla fcienza delfOpticajlVna è l'arte della Pittura, l'altra de cannocchiali, e microfcopij; Doue per hora tralafcio di rendere efattamente le ragioni di quefte operationijriferuandomi a farlo ordinatamente in ciafcuna-. parte dell'opera già promefla, che oltre l'ifperienze, et operationi prattiche in ogni materia, et in ogni arte, comprenderà infierae ia_teorica, e fpeculatiua, con l'ordine, e forma accennata di fopra_.. 2^uoud ìttuentione di fcriuere in "fifira, in modo tale, che il fegreto nafcofto nella fcrittura fia del tutto tmper-eettihilei^ U fcrtttura formi fenfi totalmente diuerp dal f egreto, siche non dia fa ff etto alcuno di X^fra, Oltifsimi fono ì modi di fcriuere in Zifra,nafcondendo alcun feg^eto fotto varie note, caratteri, numeri, e cofe (ìmili, ritrouati da varijAutori,come fi può vedere nelle loro Opere date allaStampaj e particolarm.ente in quelle di Tritemio, di Cardano,e nuouamente di Hercol^-ij. deSundc,e del noftro Gafparo Scotto. Ninno però fin hora ha po-t tuto ritrouare ciò,che N(^ qui proponiamo di fare j con tutto che ciafcuno (ìHa in quefto affaticatOjC particolarmente i Segretari] de Prencipi dcftinati a quefto laboriofo meftiere di fcriuere, et interpretare le Zifrc . Tre fono le forti di Zifre ritrouate fin hora da altri : La prima è tale, che venendo in mano d'alcuno viene tofto riconofciuta per zifraj& il modo con cui è comporta fi può penetrare da chi è prattico nel dizifrare; e quelle zifre fono le più imperfette di tutte le altre; poiché hanno ambi li difetti,che fogliono efsere nelle zifre; rvno che danno fofpetto di alcun fegreto nafcofto, e perciò vengono trattenute; Taltro che facilmente fi può fcoprire, e cauare il fegrero con le regole del dizifrare molto ben note a fegretarij di zifre, quali infegnaremo nella già promeffa no^ra. Arte Maefìra,!.^ feconda iorte di zifre, è quella, che non da fofpetto alcuno: ma eflendoui il fofpetto per altro, è tale, che con le medefime regole fi può dizifrare. La terza è di quelle zifre,che in niunmodofipofìbno dizifrare da chi non ha la contrazifra; ma però ritengono l'altro difetto, ch'è il dare fofpettodizifra, e di fegreto; onde le lettere fcritte in tal forma vengono trattenute, . Reda dunque da ritrouare il modo di togliere alla zifra ambidue C|ueftidifettì,sichene dia fofpetto, ne poifa effer dizifrata da chi haucfle per altro alcun fofpetto; ilche fin hora non è ftato ritrouato da alcuno, benché cercato con ogni ftudio, per IVrilità grande che può recare nelli pia importanti maneggi,& intereflì Politici : Onde fpero, che per quefto folo fia per efler gradita quefta mia Operetta, mentre palefo vna nuoua mia inuencione tanto gioueuole a tutti,emafi[ìmea grandi, li quali finhoraL l'hanna anfiofamente defiderata. Pri 29 Frìma ^ifrA in intelligthile, e fen-^a sospetto, si dividano le venti lettere dell'alfabeto italiano in cinque parti come qui si vede, e sé le dia queir ordine confuso che ciascun vuole: il quale i b o n a 1 e d hspnì I qgfz Alfabeto cofi diuifo seruirà dichiaueper chiudere, e nascondere nella lettera qual si voglia segreto, e per cauarnelo, 8c intenderlo, da chi farà partecipe della medesima chiave. Si scriva pofcia una lettera di cerimonie, o di qualunque negotio meno importante –H. P. Grice PECCAVI: an ingenious pun which few in South-Asian regions woul understand, but which well-educated English people of the time would appreciate – submitted to PUNCH by a pupil of GASKELL for which a cheque was received!. , ma ciò fi faccia.» in modo tale, che fi fcielgano alcune lettere, le quali seguitaranno dopo una virgola, e punti che foglionfi mettere sopra la vocale i:  1««* quali lettere doueranno pigliarfi, o immediatamente dopo  l’ultima i» oucroncl principio della parola seguente, il che riuscirà più facilt^j Umilmente le lettere che feguitano dopo un punto fermo, e Tiftefle vocali i, e nello stesso modo le lettere, che seguitano dopo due punti, e le medesime vocali i. Quelle parimente che seguono dopo vn punto interrogativoje vocale  i,  E finalmente quelle lettere che seguitano dopo un accento, eie medesime  vocali i.  Si che volendo indicare la lettera h del SEGRETO, faremo che detta lettera si ritrovi immediatamétc dopo una virgola, e due vocali; per efleril h la seconda lettera delle quattro notate colla virgola: ma volendo SIGNIFICARE la lcrtera_.  O, faremo che questa venga immediatamente dopo una virgola, e tre vocali  j, per esser nel terzo luogo. Se poi voremo SIGNIFICARE 1.  lettera » faremo che questa sia immediatamente dopo una virgola le quattro vocali i, che sé voremo DENOTARE la  lettera  /. faremo si, che venga-» dopo un punto, e due vocali  ».  fé la lettera  /?.  dopo due punc!, e tré vocali  ».  fé la lettera g  dopo un punto interrogatiuo, e due vocali i  i,  * fé la lettera e dopo un accento, e quattro vocali  /'.  m Volendo dunque scrivere QUELLE PAROLE SECRETE è mono Paolo ^ pet più facilità disponerai aparte ciascuna lettera, con le note dc funti,  i]irgole, ed accenti, che li devono precedere conforme la chiavi  iopr*polla, le quali faranno queste.  ..  e  è  in  21   r  ~  t  i  ?  I  I •  »  r  »  5    j  cmortopaolo Ciò fatto potremo stendere una lettera di cerimonie in questa forma.  jFÙ  (ingoiare ilhenepcio, e grande ti favore  fattomi da  V. S» : ne io mai mancaro di corrispondere^proteHandomi di rimanere à lei obligato in ognhora, in ogni momento f' che mi rejìa digita cuunque farai Porgami occasione di poter mostrare dottuto affetto. Poiché  amo-, di impiegarmi ognora a prò di  f^.S.  Aspetto Cuoi comandi lontano, ben fi di loco ma non di ohìtgatiom,  ^affetto. PER INTENDERE IL SEGRETO NASCOSTO in  quella  lettera – cf. Napier’s dispatch to Ellenborough: Peccavi – I’ve Oude.,  si  osserveranno tutti i accenti, virgole, e punti, con tutti li punti pofti sopra le vocali u e vedremo primieramente che dopo il primo accento posto sopra la prima parola/»  seguitano quattro..  ..di quattro vocali  «.prima di ritrovare altro accento, uirgola, o punto  j perciò vederemo nella chiave  quale sia quella lettera, la quale è notata con un accento, e tiene il quarto luogo tra le accentate, e ritrovaremo eiTere la lettera e.  Seguitando poi avanti ritrovaremo due  punti: e dopo questi prima di ritrovare altra virgola, o interpuntione, vedremo che vi sono quattro not«L^  di  uocale  i.  Dal che verrà SIGNIFICATA quella lettera, nella chiave jche tiene il quarto loco tra le appuntate  con due punti, cioè la Ietterai. Poi ritrovaremo una virgola, e dopo questa tre note della vocale i.  prima di ritrovare altro accento, onero interpuntione, la qual virgola co tre vocali  i.  DENOTANO nella chiave la lettera  o.  segue poi l'accento con tre punti di vocali prima di ritrovare altra interpuntione, che ci NOTANO la lettera r. fi che pigliaremo la lettera r. e cosi caveremo lo»  altre  lettere, che compongono LE PAROLE SEGRETE: PECCAVI I HAVE SINNED -- e  morto Paolo. Avvertasi che per facilità maggiore nel comporre la lettera si potrà tal'hora tralasciare alcuna NOTA, o punto, che per altrodourebbe collocarsi sopra la vocale /'.  come filiede nelle parole il fattore fattomi, tL^  fimilmente si potrà tralasciare alcuna virgola, o punto; poiché quando ciò si  faccia con moderazione, non da alcun sospetto, essendo consueto a molti l'aver poco riguardo nello scriuere alle virgole, ed interpuntioni. Quefìo modo di scriuere come che paia al quanto laborioso, nnlfa dimeno dopo qualche efercitio, colla prattica si rende facilcj perche siamo sempre in libertà di scrivere que'sensi che noi vogliamo, e di usare, e variare le parole a nostro capriccio – HUMPTY DUMPTY IMPENETRABILITY – H. P. GRICE, DEUTERO-ESPERANTO --, il che fa che fi poflano fare cadere le lettere del SEGRETO nel principio delle parole, che seguitano doporinterpuntioni, e note richieste. Così resta manlfefìo, che non solo si toglie ogni sospetto, ma anche si rende la zifra impercettibile, il che naice dalie coflibinationi quasi infinite delle lettere  dell'alfabetto, colle quali si può variate la chiave in altre tante maniere, quante sono le combinatieni possbilf. Resta parimente manifefto che con questa maniera di scriuereoC'  eultamente  si può comporre la lettera in lingua latina, o greca, o in_. qual si voglia altro idioma, ancor che IL SEGRETO NASCOSTO SIA IN LINGUA ITALIANA – cf. H. P. GRICE: PECCAVI – I HAVE SINNED – I HAVE SCINDE --; ed all'incontro IL SEGRETO POTRà  eifere Latino – PECCAVI: I have Scinde --, Greco, o Arabo, anchor che la lettera sia in lingua italiana si che scrivendo in tutte le lingue, potrò esser intefoda chine sa una folade scriuendo in vna sol linrzua, potrò esser inteso da tutti quelli, che profefiano altre lingue diverse Si può anche render più facile la  composizione della lettera, disponendo la chiave nella forma seguente-»  i b o n \  a 1 e  d |  h s p m  j q, : :  *  :  ^  l  i i  i ? JJ  J)>   1  >   5>.   >3>    I  5  55  5>J    I  >    5>     g    f"  2 ? ? ? g  f  z  j   u  t  r  e  J  >  3 Conforme alla quale volendo noi SIGNIFICARE la lettera i. faremo che questa seguiti immediatamente dopo un punto fermo, e volendo SIGNIFICARE la lettera k faremo  ch'ella seguiti immediatamente dopo un punto, ed una virgola; la lettera o. seguitarà dopo vn punto, e due virgole 5 la lettera ». dopo vn punto, e due virgole j la lettera ^on  inuiAruì nella presente una fuìfc erata preghiera y e he ut *.  mgliate degnare di commandarmi  (^c.     Nel quale paragrafo fé noi voremo FARE INTENDERE queste parole segrete: mi ritrem prigione scieglieremo  li foli caratteri, v he f )rmano tali parole,  --the complex example of the British General who captured the province of Sind and sent back the message Peccavi. The ambiguity involved ("I have Sind"/"I have sinned") is phonemic, not morphemic; and the expression actually used is un-ambiguous, but since it is in a language foreign to speaker and hearer, translation is called for, and the ambiguity resides in the standard translation into native English.  Whether or not the straightforward interpretant ("I have sinned") is being conveyed, it seems that the nonstraightforward interpretant must be. There might be stylistic reasons for conveying by a sentence merely its nonstraightforward interpretant, but it would be pointless, and perhaps also stylistically objectionable, to go to the trouble of finding an expression that nonstraightforwardly conveys that p, thus imposing on an audience the effort involved in finding this interpre-tant, if this interpretant were otiose so far as communication was concerned. Whether the straightforward interpretant is also being conveyed seems to depend on whether such a supposition would conflict with other conversational requirements, for example, would it be relevant, would it be something the speaker could be supposed to accept, and so on. If such requirements are not satisfied, then the straightforward interpretant is not being conveyed. If they are, it is. If the author of Peccavi could naturally be supposed to think that he had committed some kind of transgression, for example, had disobeyed his orders in capturing Sind, and if reference to such a transgression would be relevant to the presumed interests of the au-dience, then he would have been conveying both interpretants: otherwise he would be conveying only the nonstraightforward one. Take the complex example of Latin pupil, who, upon advice of his tutor – Gaskell, as it happens – sent a note to PUNCH, receiving a cheque in return, about Napier, who, having captured the province of Scinde, in South Asia, sent back the secretive military dispatch to Ellenboroguh: “Peccavi.” The ‘ambiguity’ involved (Peccavi -> I have Scinde”) – I know explaining jokes ruins them, but hey -- is phonemic, not morphemic. The expression actually used is of course unambiguous in Latin. But, since this is supposed to be a military dispatch containing a serecy, and where Latin was often used as the lingua non-franca --, i. e. the expression it is in a language ‘foreign’ – in some way of understanding ‘foreign’ to both the utterer, Napier, and his intende, but only his intended, addresses – Ellenborough – spontaneous on-line translation is called for. The ‘ambiguity’ resides in the standard translation into Napier’s and Ellenborough’s language. Whether or not the straightforward interpretant -- "I have, literally, sinned" -- is being conveyed by any intelligent reader of PUNCH, it seems that the NON-straightforward interpretant must be. There may be stylistic reasons for conveying by a sentence merely its NON-straightforward interpretant. The writer in PUNCH assumes that it would be more or less pointless, and perhaps also stylistically objectionable, to go to the trouble of finding an expression that NON-straightforwardly conveys that the utterer has Scinde, thus imposing on Ellenborough the mental – as Peirce calls it -- effort involved in finding this interpretant, only to find out that this interpretant is wholly otiose so far as communication – however secretive to a third party -- concerned. Whether the straightforward interpretant is being conveyed seems to depend on whether such a supposition would conflict with other conversational requirements, for example, would Napier be being relevant, would it be something Napier could be supposed to accept, and so on. If such requirements are not satisfied, the straightforward interpretant is not being conveyed. But if these other conversational requirements ARE met, it is. If Napier could naturally be supposed to think that, by having Scinde – and this seems to be the PUNCH in PUNCH -- he had committed some kind of transgression – cf. the repartee: More briefly, I’ve Oude --, e g., Napier had disobeyed his orders in capturing Scinde, or more generally, the command of Jesus Christ and Kant about eternal peace --, and if reference to such a transgression would be relevant to the presumed interests Ellenboough, Napier would have been conveying BOTH interpretants. Otherwise he would be conveying only the NON-straightforward one.  It is a common idea that the most laconic military despatch ever issued  was that sent by CesAr to  the Horse Guards at Rome, containing the  three memorable words " Veni, ridi, viei," and, perhaps, until our own day, no like instance of brevity has been found.  The despatch of Sin  CHARLES NorIER, after the capture of Seinde, to LORD ELLENBOROUGH, both for brevity and truth, is, howeves, far beyond it. The despatch consisted of one emphatic word--" Peccuri," " I have Seinde," (sinned). Grice comments: “It has been a common idea that the most laconic military despatch that was ever issued is that sent by GIULIO CESARE to the Horse Guards at Rome, containing the three memorable words: Veni, ridi, vici -- and, perhaps, until our own day, no like instance of brevity has been found. The despatch of Sin CHARLES NAPIER, after the capture of Scinde, to LORD ELLENBOROUGH, both for brevity and truth, is, however, far beyond it. The despatch consists of only one emphatic word: Peccavi”.  According to the Encyclopedia of Britain by Bamber Gascoigne (1993),[12] it was Catherine Winkworth who, learning of General Charles James Napier's ruthless and unauthorised, but successful campaign to conquer the Indian province of Sindh, "remarked to her teacher that Napier's despatch to the governor-general of India, after capturing Sindh, should have been Peccavi" (Latin for "I have sinned": a pun on "I have Sindh"). She sent her joke to the new humorous magazine Punch, which printed it on 18 May 1844. She was then sixteen years old.  The Oxford Dictionary of Quotations attributes this to Winkworth, noting that it was assigned to her in Notes and Queries in May 1954.[13]  The pun has usually been credited to Napier himself.[14] The rumour's persistence over the decades led to investigations in Calcutta archives, as well as comments by William Lee-Warner in 1917 and Lord Zetland, Secretary of State for India, in 1936.[15] Grice comments: “According to the Encyclopedia of Britain by Gascoigne, it was one of Gaskell’s Latin pupils, who, upon learning of Napier's RUTHLESS AND UNAUTHORISED, but successful campaign to conquer the Indian province of Sindh, remarked to Gaskell that Napier's DESPATCH to Ellenborough, then the governor-general of India, after capturing Sindh, should have been Peccavi. Gaskell sent the  joke to the humorous magazine Punch, which printed it. The Oxford Dictionary of Quotations attributes this to Gaskell as per Notes and Queries. The pun has usually been credited to Napier himself. The rumour's persistence over the decades led to investigations in Calcutta archives, as well as comments by Warner and Lord Zetland, Secretary of State for India. Refs.: “Napier’s Sin” – “A good story killed” The Manchester Guardian. [15] Michael John Barry was another who at this time (1857) shed no little brilliancy on Punch; and to him is now credited the admirable "Peccavi" despatch—perhaps the most finished and pointed that ever appeared in Punch's pages, and certainly one of the most highly appreciated and most loudly applauded:—  "'Peccavi! I've Scinde,' said Lord Ellen[44] so proud— Dalhousie, more modest, said 'Vovi, I've Oude!'" This brilliant couplet, according to the "Times," is said to have been contended for by "both Punch and Thomas Hood;" and it never was finally decided which of the two great humorists followed the other. Their claims, indeed, are not irreconcilable. Latterly, the credit has been claimed, with some show of authority, for Barry, who was generally regarded in his day as one of Jerrold's peers in wit. It is curious to observe that in the House of Commons debate on the Candahar question, Mr. P. J. Smyth was reported to have referred to "the unexampled brevity of the General's despatch after he had won his great victory on the Indus," in the quaint belief that the first half-line of the epigram was Lord Ellenborough's actual report. Grice comments: “Barry was another who at this time shed no little brilliancy on Punch. To Barry is credited the admirable "Peccavi" dispatch — perhaps the most finished and pointed that ever appeared in Punch's pages, and certainly one of the most highly appreciated and most loudly applauded: Peccavi! I've Scinde,' said Lord Ellen so proud— Dalhousie, more modest, said 'Vovi, I've Oude!'" This brilliant couplet, according to the "Times," is said to have been contended for by both Punch and Thomas Hood; and it never was finally decided which of the two great humorists followed the other. Their claims, indeed, are not irreconcilable. Latterly, the credit has been claimed, with some show of authority, for Barry, who was generally regarded in his day as one of Jerrold's peers in wit. It is curious to observe that in the House of Commons debate on the Candahar question, Smyth was reported to have referred to “the unexampled brevity of the general's despatch after he had won his great victory on the Indus,” in the quaint belief that the first half-line of the epigram was Lord Ellenborough's actual report – when it was Napier’s confession of his ruthless and unauthorised act in his despatch to the governor -- incominciando dal terzo carattere w. e da queitoiì no all'altro carattere /.del secreto numeraremo cinque caratteri,  quindi prima di ritrovare il terzo carattere r. numeraremo dicci carattcri, e così delli altri, che per facilità abbiamo NOTATI con punti, ed in quefìo métte collocheremo da parte li numeri delli caratteri, che s'interpongono tra l'vn punto, c Taltroj cioè numerando dal primo carattere fmo all'/», aueremo il numero 5. e dall' w. fino all'/, aueremo il numero s, da_, questo fino air  r, averemo  il numero i  o. e cosi facendo delli altri raccoglieremo li numeri seguenti . 5, 5. 10.4. 22. 25. I. IO. 10.45. I(). 21. II. 2. IO. IO,  5. Oltre di ciò aueremo un alfabeto, il quale sia dispofto non coll'ordine naturale, ma con qualfivoglia altro ordine j e sopra il detto alfabeto si collocheranno i suoi numeri corrispondenti alli caratteri, il quale alfabeto così disposto seruirà di chiave. Supponiamo  per tanto che sia dispofto nel modo seguente,  I. 2. 3. 4. 5. C, 7. 8. 5).  lo.  II. 12. 15, 14. 15. 16. 17. 18. Ip.20,  a. r. n. d. b, d. f. e. i.  h.  1.  m. s. u. t. e. g.  p. q,  z. Per nascondere dunque li predetti numeri, che mostrano il segreto nascosto nel primo paragrafo della lettera, componeremo il secondo paragrafo in modo, che la prima lettera fia». la quale INDICATA il primo numero 3. pofcia dopo la prima virgola incominciaremo la parola con la lettera ^. che indiorà il secondo numero 5. Similmente dopo la seconda virgola, incominciaremo la parola col carattere/;. chft«» DENOTATA il terzo numero cioè i o. e così degl'altri caratteri, z^ numeri. Si oflrerui che fe vi farà alcun numero maggiore, il quale non si ritrou^neU'alfabettOjfi donerà aver riguardo solo alla seconda nota numerale, incominciando la parola col carattere à tal nota corrisponaente, guanti alla quale parola cfoiirannò '^recedòre due punti in_i luogo r'jeiJa virgola, i quali due punti mostrcranno, che la prima nota_» nmiiP-vale farà 2. e quando la prima nota numerale farà 5., dourà precedere vn punto, ed una virgolasse vn punto fermo quando la nota numerale farà, Per tanto il fecondo paragrafo della lettera potrà ei'er questo, ^cn ho potuto/:» hora, benché io la desideri, avere occasione di parlare con Antonio yOYide mi dispiace: reH^wdo defraudato dal deJJderto di femirui: non ho pero perfa U [piranha ^anzi credo che prejìo, auero commodita, oggiforfi di abboccarmi con esso. u^el reHo sempre, t^m ogni occorenza farò pronto 5 anzi prontissimo a seruirvi la vosra wodejìia non'vi, ritenga di commandarmi auete un servo fedele y abbiate ogni confidanzj^ con me^ ne ut f cordate di un mHra Ajfctionatifftmo &c. In questo modo di scrinerefele interpuntioni per maggiore facilità non foflero del tutto acconcie, e pofte a suoi luoghi, non perciò li darà sospetto alcuno, come ho auiiertito di sfopra^e sempre il segreto starà nascosto, senza poterfi intendere da chi non ha la chiavcj cioè la disposizione del sopraposto alfabeto. Ma il corrispondente, o amico, il quale sia partecipe della chiaue josseruerà il primo carattere ». al quale nella chiave corrisponde il numero ^. e pofcia il carattere.^, che fc"U!ta dopo la prima virgola cioè ^. a cui corrisponde nella chiave il numero 5. indi dopo l'altra virgola ritroverà il carattere h, a cui corrisponde il numero io. più avanti ritroverà il carattere^, a cui corrisponde il numero 4. Poco dopo ritrouerà il carattere r. a cui corritiponde il numero 2. e perche al detto r. precedono due punti, che SIGNIFICANO – nautrale o non-naturalemente? GRICE -- il numero 2. perciò noterà il numero 22. e così ritroverà tutti li altri numeri; con i quali avcrà poi facilmente nel primo paragrafo della kttera, tutti li caratteri che formano il segreto nascosto, Ter^o f^oào ài fcrluere in zifra fatile ^che non da alcuu sospetto 3 ne può intendersi da chi non ha la chiave» Q Vello, che ferine, e similmente quello, a cui si ferine, auranno una serie, ed ordine di caratteri, com'è il posto qui sotto, ed ambidue s’accorderanno aflìeme di scrivere in una tal chiaue determinata, quale farà una parola, o molte, O SIGNFICIATIVA – come PARROT --, O NON SIGNIFICATIVA – come PIROT -- come lorc pili piacerào A B M A B C D E F G H 1 L M N O P Q R S T V Z A B C D E F G H I L M N O P Q R S T V Z A B C D E F N O P C L R S G H I L T V Z M A B C D E F G H I L O P C L R S T V Z M N A B C D E FG H I L P Q R S T V Z M N O A B C D E F G H I L Q R S T V Z M N O P A B C D E F G H I L R S T V Z M N O P C L A B C D E F G H I L S T V Z M N O P Q R A B C D E F G H I L T V Z M N O P Q R S A B C D E F G H I L V Z M N O P Q R S T A B C D E F G H I L Z M N O P Q R S T V ;!pnj ••0'> Il ^'5 /> CU ore cuorecuo r ecuor ecuorecuo :i Il tuo fratello è stato ammazzato,>> Di poi nell’ordine de’caratteri posto di sopra si cercherà la prima^ lettera e, della chiave rielli caratteri più grandi, la qual lettera e stà nella seconda riga, e perche sotto il e della chiave v’è la prima lettera j. del segreto, cercheremo nella seconda linea la lettera i, delli caratteri più piccoli, ed in vece di essa fermeremo quella, che vi stà sotto cioè àferpendo{l!uoniptrò,/ono gl'auuifi dell'armata yi>uoni[iìmi quellt dei nofìro CeneraliJl/tmOiÀcui. è riyfcito yfcuidare dalli alloggiamenti n nemico ? Q ode fi per tanto Jpermdoxhe il Turco si risolverà ad abbandonare l'intprefa^ Se altro accader a ^mandaro auutjo iiJoiin tanto fiate [ano ^ godete dt fotefi\ ^ria.; non. fate, dfordini^e ricordateui di onorartni de m^ri commandi f^c. U cQtrispondente consapevole dell’artificio, aperta la lettera, noterà per ordine tutti li caratteri, che seguitano immediatamente dopo le virgole,^: interpuntionì, quali ritroverà essere li seguenti cuQ re cuore cuore zubba fgfafmugne., Sopra de quali egli scriuerà la solita chiaue 5 poi cerchersi la. prima^! lettera IìR fcrluercinxifrafi servono alcuni delli numeri corrispondenti alle lettere j ma perche cosi facendo, rifte(ro numero vale sempr«-» ^erla medesima lettera j perciò riefcc facile rintenderc, e cavare dalla 2Ìfra il segreto nascosto; Noi dunque in vece di scriucre li numeri corrispondenti alle lettere, cioè /. per a. 2. per L 5. per e scriuercmo vn altro numero ,che sìa moltiplice di eflb j fi che poi quelli numeri divisi per vii altro numero si abbia il numero precifo cornfpondence alli caratteri. Per efempio volendo lu scriuere quelle parole non ti pdire di Pietro, scriuerai questi numeri in tal forma 5 9, 42, 3 9« 5 7, 27. i 8, 27, f 2, 5, 5 1, 15. 12, 27.45,27, 15, 57> 5 i,42. dove i punti sono quelli, che dividojio le parole vna dall'altra, eie virgole dividono le lettere: quelli nujmeri dunque divisi per il numero 5, fil quale serve di chiave) danno li aìumeri seguenti 15,14,15. I9,p.6,p,4, i, 17, 5. 4,9. MjP, 5)«9, 17,14. IL PRIMO NUMERO SIGNIFICA »«» jpoiehe il i ?.corrifp. Io. I7« iS. ti?. 29. H. 12. 13. 14. 15» I. %, 3. 4. 5. 6. 7. S. . ICt li. tf. 10. II. 12. 13* 14. 15. i^. 17. t. 1. 3. 4. 5. 6. 7. •• P. IO» 19. 20. II. 12. 13. I4. 15. 16, 17. 18. '•= •* 2 I '• ^* 5* 4* 5. ^» ?• "• 9* i®» ^ I ipi II. 12^. I3« 14. ts. i^. 17. IS. 19 H ST 5^ Si determini una chiave, sopfa cui si auerà da scriuere, ta quale consisterà in alcuni numeri, più, ò meno, conforme si vuole_^, pur che niun numero ecceda il venti. Sia per essempio la chiave composta delli quattro numeri seguenti, cioò 7. 12. ?. 8. Volendo metrtere in zifra queste parole, ^on it firmare in l^oma, cercherai nelle lettere poste qui a lato la lettera N. è nella riga corrirpondcnte iln^.y^ ma in luogo del 7. scriverai quello, che vi è posto Tetto, cioè 12. Di poi prenderai la seconda lettera del segreto, che è O, e nella riga corrifpondente cercherai il secondo numero della chiave, che è 12. ina in luogo di 12. scriuerai il numero sopraposto, che è'(5. similmente prenderaila terza N, e nella riga corrispondente cercherai il numero 3. della chiane, ma in luogo del j. metterai il numero pofto di fotto, cioè 1 8. cesi farai di tutte le altre lettere, ed averai li seguenti numeri 1 2. (?. 18. 15. 1 1. IO. 15. 15. 12.2.20. 20. 1 1.7.20.14. 12.2. quali fé manderai al suo corrispondente, fingendo, che fiano numeri di altre cofej non cagionaranno sospetrpje quando ben'anehe vi foflfe per altro alcun sospetto, la zifra è tale, che non potrà mai esser inteso il segreto j perche la medesima lettera muta sempre numero per cagione della chiave, come si può facilmente osservare dell’esempip allegato.'' ^ ' t-^'-i >■•%. t'?. •:£ *o.!: .^?. .?? .A,1t r .-t .^ i ki. D l l ''^, 8-. ■ • t : t .on,^l .1? " M «:i Ti * "» •? t£ oi i *T '^ t%t l^ :14 a? «Q? «^2 I ',3 y Settima Si §. VII, Settima x'tfra cen numeri, QVellOjche scriue, è quello a cui si scri'ue, abbiano rvno, e l'altro alcune virgolette di cartone, o di rame, o di legno con sopra notati i numeri e lettere, come si vede nelle seguenti . * VI 2 B 4 5 6 7 8 ( .« 2 ■ b* ■d e S g il i T n o X 7 t li t I 2 4 7i loi ili I2i .I>|, ^7 il 19 2Ó 1 b C e T g i T m n o P a r s t u z a I 2 4 7 9 lo I I 12; 11 1(5 17. i5' !>> 20 e e ^— cr ?> h T T m n 0 P »— • q r s I u a i' 2 7 8 s» Jo 1 1 12 (4 i7 16 iS I7 '2ÒI d e il h* i T m n 0 P r s t u z a b e 2 i ■ 4 I 9" IO Ili 16; 17 ì8, IP 20 e 7 g i T m n 0 i 2. r s t u z a b e di 1 1 >^\ 2! 1' 4 il _9 II 12 13 14 (5 16 18 19 lo' f a ti i> T ! m n. 0 P r ., s '^ t u z a b e 11 2 1 4' I 5i 8 II' 11 u I6 17 il 19 20 g h i m n z P q 7 s t U z a b e d e 7Ì 2' II 7 •>— • ■ 6 Ji 8| 7 10 i7 i7! '7 "7 18 i^ 20 : h ! ^ 7 m n. z q r s t^ u z a b e 7 r 7 g I 2 4 7 8 i IO IC II IJ i7 '7 18 19 20 V Quelle verghettc si potranno proseguire fino al numero di venti, che cosi ciafcuna sarà diversa dall’altra; ma balleranno anche meno per il nostro intento: servendosi noi dunque delle sole otto qui pofte, e volendo per esempio scriuere:,: “Pietro è morto,” per scriuere il p prenderemo iU'n:-iih mo qualfivoglia delle dette vei ghette^ per esempio quella, che ha ili fronte il 5. e troverernojclie in essa alla lettera;» corrisponde il numero IO. onde noteremo questi due numeri 5.r o. coli in luogo della lettera i, scriuerenio 8. 2. CHE SIGNIFICAnell'ottava verghetta il secondo luogOj Oiiero 4, tf, CHE SIGNIFICA nella quarta verghetta il sesto luogo &c. e per togliere il sospetto che potrebbero recare questi numeri, li potremo scriuere come sé fossero tauole astronomiche, ponendoui avanti il C, & M» quasi che IL NUMERO CHE SIGNIFICAle verghette SIGNIFICAsse i gradi 5 e l’altro numero SIGNIFICAsse i piinuti di qualche fcgiio qelei^c; il che refleropio potrà stare così, ^ C. 5 . G. 8. G. 7. G. ». G. 5 . G. a. G. ^. G. 1. G. 2. G. 5. C.7. G. 9^ ~ M.IQ.M. 2» M,ip. M.i7.M.i2.M,i i.M.^o.M.^i.M. 1 2.M.14.M.1 ^.M.^, Quando dunque l’amico tuo vorrà leggere una tale scrittura, prende-' là le verghette per ordine cioè la quinta, Tottauaj la settima &c. e queste le ponerà l'vna dopo Taltra alzandole, ed abbacandole si, che s'incontrino insieme li secondi numeri 10. 2.19. i7«&c. Poiché con tali niji^ in?ri auerà gnqora \c predette parole, “Pietro e morto.” Un altro modo di scrivere in ^ifrsJimUi 4I precedente SI abbia no le tavole posse qui sotto segnate con LI DODICI SEGNI DEL ZODIACO, in quella forma che qui si vede, con progressione di numeri, Hiuno de quali sia maggiore del 30. per esprimere i gradi di tali segni. Volendo dunque scrivere “Paolo” in luogo del Pi scrierai G.24. onero G. 25. ouero G.22.§ic.cosi in luogo di « scriaerai G. il. ouero G. io. e cosi le altre lettere di mano in mano. Li collocarai poi seguitamente rvno dopo l'altro in modo che ftmbri. vna tavola astronomica. ^9 Auercait Jr a Illa bi2 C15 loia CI2 C15 e 14 {16 gì? hi8 i Jp I 20 raii n22 o 15 P»4 q25 r i6 ( 27 C28 U29 biojb 5 e II e Io d 12 d II e 15 e 12 f i4f 15 gM fi5 gi6 hi7 hi^.h 15 i i8ji 17 i 16 I iPjl 18I 17 mzo^mip mi8 mi n2o n 19 022 021 02Q p25 ;P22 p2I SS fi • a 8 (a 7 b 8 e 9 d lo ei I f 12 np sa a 5[a 5 b 7 b 6 e 8 e 7 d 9d 8 e Iole 9 f Ii'flo hi4'hij h II, i 15 ji 14 i 15 1 i5 1 !5 1 14 mi7|mi^ nn5 n lèin 17 n i5 o ipjo 18 o 17 p2o, pippi8 gU q 24 425 q22 q2I r 25 jr 24 r 23 r 22 f 26 f 15 f 24 f 25 ti? U28 Z19 t adi c 25,c 24 U27 ui^s m^ q2o q C9 r 21 r 20 r 22 f »i t 25 t 22 a b 1 .. iM6 3J 4'=l « Jb i«6 K ^la 2:a Ha 30 5|b 4'b i\k 2bi9 e ole 5 |c 4|c 5 C28 d 7 d ó'd 5id 4 d 27 e sic 7ie 5 e 5 e 2^ f 9f 8f 7f 6 f 25 giog ^g 8|g 7g24 hii b lo h s> h 8,h25 i 121 II ji loi pji 22 1 I? l 12 il ni «o l 21 0114 mi3 mi2^mn'ifn20 a 15 n 14'n ti n lin ip Q 160 1.5 |o 140 150 18 pi7:pi6!pi5 PI4'P»7 qi8qi7 r ipjr li r 2,o;f 19 e 21 |t 20 U 24 U2JU22 U 21 ^28'l27lZ %6*Z2$ Z 24li23'£ 22 q I5qi5jq ^^ r 17 r i6 r t5 fi8f 17 e ip't 18 U20ÌU IP r 14 t li U 12 £21 Z20Ì£ Ili Auuertafi, che in qucftc tauole fi è fchiuato il cominciare dallVnrà tà » ma fi è cominciato dall' vndici, per Icuare ogni fofpjstto,il che configiiamoa fare io ogni altra uuola. .ty^'-..,imm 34 Volendo dunque scrivere GuarJati Ja Pittiò Tefcmpìt (iiaì n«I modo che feguQ. V I uì, I V ♦H, I C, 17. I G. »?. \ G. 10. Q. 19 I cofì fbrme esprimono di essere in diversi gradi delli segni del zodiaco; nel qual modo oga uno potrà formarsi le tauo« k a suo piacere j potendofi queJftc disporre in molte maniere, per esempio in luogo di cifticuna lettera, potrai usare qual si voglia € nel medesimo modo egli potrà rispondere benché cieco. In oltre si potrà trattare viccndeuolroentc in segreto co vn cieco per mezzo di un libro di molti fogli: ponendo tra fogli medesimi vari segni, si che i'vnofia dittante dall'altro tanti fogli quante il numero corrispondentc al carattere del alfabeto, che vogliamo indicarejd: acciò il segreto retti maggiormente nascotto, daremo alli caratteri dell’alfabeto vari numeri feni ordine naturale 5 come farebbero li seguenti. i 3. 2. I. 7. 8. 9* lo. 4. 5. 6, II, I). I J.I4. 15. 2o» fp. 18. I7.1tf« a b c d e f g h i l m n o p q r f c v z E volendo indicare il carattere g* numeraremo dal principio del libro dieci carte, e dopo la decima metteremo nel libro un segno di car13, 0 altro; ovvero piegaremo la carta medesima j volendo indicare il d seguitaremo a numerare sette altre carte, e dopo vi metteremo un altro segno, e cosi seguitando finoche sia compito tutto il senso segreto. Questo modo si può variare in molte forme facendo seruire diverse sorti di segni per diverse lettere, ovvero diverfe piegature impiegature empiegature di carte, bora di sopra, hor di sotto, hor alla dettra, hor alla siniftra del libro; si che il diuerso numero delle carte, e la diversa sorte di segni combinati insieme denotino li diversi caratteri. Il modo di dare minor sospetto, e difficilissimo ad esser ritrovato da chi non ha la contra-zifra, può esser questo. Aabbiansi cinque segni diversi da mettere tra una carta, e l'altra del libro j la diversità de’segni otrà essere, che vno sia vna lifta fottile di carta, raltro vna lifta parimente di carta ma piegata per lungo, il 3. vna lista simile piegata da capo; il quarto un’altra iifta piegata da piedi, il 5. vna lista piegata da capo, e da piedi. Aciafcuno di quefti segni si attribuiranno quattro carattc!ri, che saranno in tutto venti. Volendo poi indicare il primo di quelli quattro caratteri, posto il segno in qualfivoglia luogo cominciando dal principio del libro verso il fine, ò dal fine verso il principio tra IVna-j» carta, e Taltra fi piegherà la carta, che sta alla destra parte del segno, c6 vna piegatura, come fi fuole, nella parte di sopra; e volendo indicare il 2**carattere si piegherà la medefima carta nella parte di fono: per indicare il 4J il terzo carattere si piegherà la carta siniftra nella parte superiore, o per indicare 4°. carattere si piegheri la medesima carta nella parte inferiore j così faremo di tutti li altri caratteri attribuiti a gl'altri segni si che la diverfità delli segni, colla diversità della piegatura delle carte, indicfai la diversità delli 20. caratteri. Molti altri modi si potrebbero INVENTARE – “I can invent a new language – call it Deutero-Esperanto” – GRICE --, quali ognino potrà facilmente ritrovarea similitudine delli precedenti – cfr. Myro’s SYSTEM G, based on Grice’s SYSTEM Q – or Austin’s SYMBOLO and Whoof’n’Poof –a whole term writing dots on pieces of paper; a quali voglio aggiongerne vn altro non meno ingegnoso, benché alquanto laborioso. Si pigli una tavola di legno dolce, e molle, e con caratteri da ftanv. pa, quali però vorebbero essere di ferro, o altro metallo fodo, più tosto che piombo, ed alquanto grandi, s'imprimano nella tavola le parole del segreto – LISTEN DO YOU WANT TO KNOW A SECRET --, facendo rientrare in dentro il legno j di poi con vna pialla, si fpiani la tavola levandone tutto il legno, che foprasta alli caratteri impressi, in modo, che resti tutta piana. Questa tavola s'inui; al cieco il quale la metterà neiraqua: & in breve l’aqua penetran ào per i pori fari rialzare i caratteri compressi, si che il cieco TOCCANDOLI CONLLE MANI – alla BRAILE -- potrà leggere ed intendere il segreto. In questi modo si pojfa parlare, o rnamfeUarc ì suoi fcnji 4 chi ^t^ lontano fenza mandare ne letjtre ne mejfaggtere^ JTIft «^^'Arie inticntloni h sono ritrovate per manifestare i suoi fl^nfi, ^\Éj4?^ e parlare a chi (la lontano PER VIA D’ALCUNI SEGNI VISIBILI – Roman smoke signals – signify fire --, p\\Jv^^ le quali deicriueremo nell'arte maestra, con molte altre ¥&i^^ cosejcheaqucfta materia s'afpettano.Maperrhe le fu dette inuentioni feruonofolo per parlare : Ila diltanza di pochenilgliaje di più fono alquanto labonofea pratticarfi: perciò ne defcriuerò qui due altre mie molto più facili delle ritrouate fu/ bora_., con le quali pot^-emo parlare alla dilania di trenta, et anche piu mi olia_Je Sedunque quello,con cui vogliamo parlare farà in Iuoctoj ne! quale fionpofla penetrare la vifta, per eflerui di mezzo alcuna collina, muraglia,© altro: potremo nulladimeno parlar facilmente con efib lui in_a quefta forma. Spararemo vn mofchetto, e fé queflo.per la molu; diftanza, non potefle vdirfi, vn grofìfo mortaro, onero vn pezzo di cannone | «quello farà il primo fegno 5 che daremo a quello, con cui vogliamo parlare. Tanto egli 5 quanto noi hauremovna palla di qualfivoglia materia pendente da vn filo, o catena, con il moto,&ondutioni della quale fi mifuri il tempo: ma è neceflario chelVno, e l'altro (ìlo-da cui pendono fofpefe in aria le pallejfia della medefima lunghezza, accio i moti, et ondationiiiano parimente vguaii. L'amico dunque vdito il primo fparo fi accoderà al fuo filo, e pallajC noi fimilmente alla no(ìra_i : All'hora faremo vn altro fparo, e nel medefimo tempo daremo il moto alia palla pendente dal filo, acciò faccialelue ondationiiil che farà anche l'amico lontano, tofto che ode quefto fecondo colpo: Volendo poi noi fignificare la prima lettera del alfabeto afpettaremo,che la_# palla habbia compito cinque ondationi,& all'hora faremo vn altro fparo jfimilmente volendo dopo quello fignificarela feconda lettera_> dell'alfabeto, afpettaremo chela medefima palla habbia terminato dieciondationi, e fubito faremo vn altro fparo j per fignificare la terza lettera afpettaremo quindici ondationi della palla; e così dell'altre j in tal maniera ancor e he fi vfafle qualche negligenza in sparare vn poco k, piti 45 più pretto, o più tard© del tempo «on fi potrà pigliar' errore dall'amico lontano; polche lo fuarionon farà mai più di vna,odueondationi. Non potrà ne anche cagionai* errore il fentirfi Io fparo lontano, molto tempo dopo che fi è dato fuoco aljmortaro, o cannone 5 poiché tanto tempo paflèrà di mezzo all'vno fparo, e l'altro, quato di mezzo al vdnfi dellVno, et allVdirfi deiraltro. più facile farà il parlare quando l'amico lontano fia in luogo non., impedito alla vifta; poiché in tal cafo, fé farà di notte in luogo dello fparo, potremo moftrare vna torcia acccfa, e poi nafconderla mentre-* che la palla falefucondationiie di nuouomoftrarla dopo cinque, o dieci, o quindici > onero venti ondationi, conforme le lcttere,che vorremo fignificarc ; et cflèndo di giorno,farcmo il medefimocon vna bandiera,© altra cofa vifibile da lontano in luogo della torcia : ma queiU di notte fi vedrà molto più lontano. Ofleruifianchora che con la torcia, o bandiera fi potrebbero abbreuiare roperationi,feruendofidi più torc ie, o bandiere j in modo che, per efempio, volendo denotare la prima lettera deiralfabeto,fi moftraflc vna torcia dopo cinque moti, et ondationi della palla ; e volendo denotare la feconda lettera fi moftraflero due torcie parimente dopo cinque ondationi ; volendo fignificare la terza lettera fi moftraflero tre torcie dopo il medefimo tempo ; volendo poi denotare la quarta lettera fi moftraife di nuouo vna torcia fola, ma-» dopo dieci ondationi, e cofi dell'altre . Qyefta inuentionedidare diuerfofignìficatoal medefimo fegno dal diuerfo tempo, in cui fi moftra, può feruire alle perfoneinduftriofe per fondamento di molte altre inuentionij et a me bafta per bora-, haucilo accennato. Vn altro modo propongo per parlar da lontano, pur che fia in luogo vifibile,che può feruire alla diflanza di vinticinque, trenta,e più miglia particolarmente di notte.Si facciano tante tauole di legno quadre, t-* larghe vn braccio almeno, quante fono le lettere dell'alfabeto j& iii^ ciafcunatauola sentagli vna lettera grande quanto è la tauola,ficheiI taglio fiagroflbdue deti,'e palli dalfvna all'altra parte della tauola-/, poi fi copra elfo taglio con carta rofla, fottilc, e trafparente: facciati poi vna feneftrella della medefima grandezza delle tauole : alla qualci» feneflra di notte fi applicheranno fucceflìuamente le lettere intagliate nelle tauole, le quali trafpariranno da lontano, tenendoui dietro vna torcia: onde fé l'amico lontano farà prouifto di vneccelente cannocchiale, potrà diftingucre le predette lettere trenta, e più miglia lontane^. Si poffono anchora fai riflettere, per mezzo della luce, e dell'ombra M i 5® I caratteri sì,che comparìfconoropra !e muraglie di alcuna càfa Ioni ranaje ciò in moke maniere j come diremo alcrouej in tanto io qui ac* far sì, che vn tal muto fciolga la lingua, et impari a parlare ^ e qu-llo che è più mirabile intenda benché fordo l'altrui parole . E ve ne fono alcuni efempi, quah mi piace di riferire. Racconta Digbeo nel fuo trattato 4e natura corporum cap. 2 ^.num. 8. che vn nobile Spagnolo, fratello minore del Conteltabile di Cailigiii»,, fordo, e muto dalla fua nafcita in modo, che non vdiua ne pure vna bombarda fparata vicino alle fue orecchie, dopo hauer tentato ognarte de Medici in vano,per aquiftare rvdito,e per confequenz.a la loquela, che li mahcauafolopernò poter imparare a parlare dall'vdire l'altrui parole j finalmente vn certo Sacerdote fpagnolo, sì offerì ad '\n(Q-r gnargli non folo a parlare, ma anche ad intendere le parole de gl'altri; i\ che fé bene cagionò da principio le rifa ne circoftantiinulladimeno dopo qualche anno fi x'ìMq riufcito,con ftupore di tutti j nel qual tempo con molta fatica, &: allìduaapplicatioue dello fcolare,e del maeftro jnfienie,fi fece in tal modo, che intendeua beniflìmo ogni parola proferita da altri, anche in linguaggio difficile, e di cui non intendeua il fignificato, ma pero egli la ripcteua felicemente, e parlaua nella propria lingua,e rifpondeua fenz* alcuna difficoltà >haucndone fatto più volte rifperienza il Sereniamo Prencipe di Zambre, parlando nella propria Ìingua,di cui è molto difficile l'articolar le parole j& ilCaua^ liere Digbeo medefimo afferma di hauer più volte parlato con queftp nobile fpagnolo, et hauere ammirato com'egli ripeteua le parola-* proferite da vn altro con voce fommclfa, e lontano quanto era la lunghezza di vna gran fala. L'ifteflb è riufcito al Prencipe di Sauoia fratello cugino del Duca prefence, come mi hanno atteftato perfone,che hanno trattato con efla ., . lui. 5* li:i,huomo di vìuaciflimo ingegno: e vi fono ftati due nofìri Padri, che dal folo veder muouere le labra diquellijche parlauano, incendc uano le parole j come riferifce il P. Carparo Schotci nella fua Fifica-i curiofa lib. 5,cap. 3J, Niuno però, ch'io fappia, ha fcrittodel modo,che{ìdeuc tenera-» per apprendere queft'artc veramente mirabile^ onde ho (limato, che jion fia per ifpiacere, fé io qui ne dirò ciò, che fento. Deuefi dunque» confiderare 5 che nel proferire ciafcuna lettera dell'alfabeto, tanto Italiano, quanto Latino, Greco, Hebreo, odi altra lingua,neceflariamenle fi fa diuerfo moto, o nelle labra, o nella lingua, o ne denti, o in tutti afiìeme 5 hor* aprendo più la bocca come nell'Arhora meno come nell* E : hora prima ftringcndo le labra, e poi aprendole, come nel B : bora aprendole, e ftringendo i denti come nel C : e così dell' altre . Ciò che fuccede nelle lettere folitarie,fuccede parimente nelle lettere accompagnate, cioè nelle fiIlabe,epoi nelle parole intiere . Se dunque alcunofiauneLzeràa conofcerc tutte le differenze di queftimoti, potrà pariméte intendere cio,che vien detto da vn altro,bcnche no oda la voce; e per confeguenza imparare a proferire le medefime parole, procurando d'imitare tali moti di labra, di denti, e di linguali che non fideueftimare tanto difficile, come a prima vifta raffembra, percloche ogn'vnodinoietiandio prima, che haueffc IVfo della ragione, imparò a proferire le parole con marauigliofa induftria della natura, che (limolata dalla nece(Iìtà,fi affaticaua d'imitare l'altrui parole,con dare alle labra vari modfm tanto, chp ritrouaflfe quello, che articolaua )a ricercata parola. Ma molto più viene diminuita la difficoltà di apprendere queft'arte in vnfordojdallaprouida, e cortefe natura, che al diffetto di vn fenfo fuole fupplireconla perfettione de gl'altri j onde fi come alcuni priui di vifta, con il tatto riconofcono tutte le diuerfìtà de colori: come ho raccontato di fopra,compenfando(ì il mancamento delia vifta con la perfettione delli altri fen(ì,edeirimaginationc non diftratta dalli oggetti vifibili : così il difetto deHVdito fuole ricompenfarfi dalla pcrf^tttone della vifta, e parimente deirimaginatione,e memoria,non diftratta dalli oggetti ftrepitofi j ond'è che il (ìlentio fi chiama padre, e maeftro delle concemplationi. Hor venendo alle regolc,chefi deuono pratticareda chi vuole farfi tnaeftro inqueft*arte;dicochefi deue primieramenrc hauere auanti a gl'occhi del fordo vn alfabeto, et incominciando ad accennare al fordola prima lettera, nel medefimo tempo proferirla con moto gagliardo della bocca, e della lingua, accennando al fordo^che anch'egU prò 4P procuri d'imitare l'ifteflb motore ciò fi dcuc fare fin* tanto, che imitandolo perfettamente proferifclii ciafcuna lettera, il che riufcirà in_. poche lettioni . Apprefo che haucrà il fordo tutto J*aIfabcto,dourà aUuezzarfi a proferire ii monofillabi,comc fono gl'articoli //, 4/, / aura fpiritus inclufxy atque occulia ccncitum. Dal qual mQdodifauellarc raccogliefi p che moflb non era da vento eftrinfeco, ma più tofto da vn fiato chiufo nelle parti interne della machina, che ftauafene equilibrata nell'aria. Racconta parimente Adriano Romano, che il Regiomontano famofo Aftronomo,e matematico fabricò vn aquila, la quale volò incontro a Carlo V, mentre faceua la folcnne entrata in Norimberga, e con eflb Carlo ritornò addietro accompagnandolo fin* dentro la Città. Boetio famentionedi certi vccelletti formati di rame, che volauano non folo, ma cantauano ancora. Glica, e Manafle raccontano, ch'altri fimilivccellihauefle apprefo di fé l'Imperatore Leone. E più modernamente habbiamo dal noftroP.Famiano Strada che il Turriano ingegnere valorofifiìmo, faceua volare certi vccelletti per le ftanzc di Carlo quinto, mentre ftaua ritirato dopo la rinuntia del fuo gouerno fatta al fuo figliuolo Filippo. Eflendo che dunque niuno ha tramandato a pofteri queft'arte tanto ingegnofa^ e diletteuole, mi è paruto di doner fodisfare alla curiofità de machinifti,eon accennare in qual modo fi poiTano imitare fimilivcceU 5ili ; il che llimo fi pofla pratticare in più maniere. Primieramente ciò f: può fare con inanticetti moflì da ruote dentate :Fabricata che iiaraiiuila, colomba, o altro vccello di materia legoerequanto piufia podi bile 5 fé li faranno le Tue ah di penne, odi altra materia atta per riceuere il vento, e fi connetteranno al còrpo dellaJ colomba per modo tale, che fi pollano agitare, e muoucre facilmente : pofcianel corpo della medcfima fi acconcieranno alcune ruote dentate, le quali fi muouano p mezio di vna fufta nel modo mcdefimOjchVfafi ne "li oriuoli j quelle ruote mouendofi faranno alzare, $^' abbaflaredue piccoli mantici conncfii allMtjma ruota, che fi muoue più veloceméte, in modo, che mentre l'vno fi alia, l'altro fi abballi, il che non è difficile a chi ben intende il modo, con cui le medefime ruote de gli orinoli muouono il tempo, o librile dell'orinolo mcdefimo; Il vento de manlicettifi farà vfcire per due piccole cannette fotto l'ali ne fianchi della colomba, in modo tale,chevrtando nell'ali medefime le muouino, eoaqualche incerottione si, che dibattendofije per conieguenza rcfiften(toaU'^riajfi {blleuerannoinefia,e daranno il volo alla machina, il quale durerà fin tanto, che perfeuererà il moto delle ruote,e de mantici; e quefto modo fembra conforme a quello,che riferifce Aulo Celio citato, i - ; 11 fecondo modo fimile al precedente farà, fare' le medefime ruote dentate, che in vece di muouere i manticetti, o il tcpo dell'oriuolo muo» uano immediatamente le ali con moto proportionato alla grauità della machina, fi che fia fufficiente ad alzarla in aria, e farla volare. . Terzo fi potrebbe ancora condcnfare violentemente l'aria in vna^ vefica, o vafo di vetro chiufo nel corpo della colomba, fi che poi apredo il vafo co vna chiauetta, e lafciando vfcire l'aria per due Gaoneìfini fotto Tali, quefiia con il fuo impeto fofpingeffe l'ali medefime j ma poco durarebbe vn tal moto,& andrebbe prefto mancando. Quarto finalmente fi potrebbe far folleuare in arialVccclIo in quel modo,che fi foUeua vn vuouo pieno di ruggiada fi:illata,pofto a raggi caldi del Soie, fé nel corpo dell'vccello medefimo chiudèffìmo TvuouOjO vefica piena diliquorefottili{Iìmo,ehc facilmente rarefatto dal colore del Sole fi folle uafle. E quefto, e quanto ho voluto accennare in quefta materia, per aprir la via a gl'ingegni perfpicaci in ordine a pcrfettionare quefta inuentionc, e ricrouarnc altre fimili j e per inftradarmi ad vn altra mia inuemione più marauigliofa, cioè ' ri^ V,'! • ;iì 6*nGob Féthricàrt 'vriA naut^ che camini fofientata fopra l* aria 4t remi, ^ h vele \ quale fi dimoerà poter riufcirs nella prattica» [ON fi è fermato nelle precedenti inuentioni r.irdire, e.^ curipfità deirintelletto humano j ma in oltre ha cercato comegl'huomini poflanoanch'eflìiguifadi vccelli vo» lare per l'aria; e non è tbrfi fauolofo ciò, che di Dedalo^ e de' Iccaro fi racconta; Imperciochc narrafi per cofa.» certa, che vn tale,di cui non fouuiemi il nome, a tempi noftri con fimi. le artificio, pafsò volando dall'vna all'altra parte del lago di Perugia-^: benché poi volendofi pofare in terra fi lafciò cadere con troppo impeto, e precipitò a cofto della fua vita. Ninno però mai ha ftimato podibile il fabricare vna naue, che fcorra per l'aria, come fc foffe foftcnuta dalPaque j imperoche hanno giudicato non poterfi far machina più leggiera dell* aria fteifa, il che è necelTario accio poffa feguire l'effetto •dcfidcrato • j3.iio^nvm;f; JL Hor* io che fempre hebbi genio di ritrouare inuentioni di cofe lc-> più difficili, dopolungoftudio fopradi ciò, ftimo hauere ottenuto l'intentodi fare vna machina piu leggiera in fpecie dell'aria fi, che honu -folo cffa con la propria leggierezza ftia folleuata in aria, ma pofla por.tare fopradi fé huomfni, e qualfivoglia altropefojue credo d'ingan.narmi, effendoche diraoftro il tutto con ifperienze certe, e con vna_# infallibile dimoftratione del libro vndecimo di Euclide, riceuuta per tate da tutti li matematici. Farò dunque prima alcune fuppofitioni,dalle quali pofcìa dedurrò il modo prattico di fabricarc quefta naue, la-, quale fé non meriterà come quella di Argo,d effer pofta tra le Stelle^» falirà alineno verfo di efle da fé medcfima. Suppongo in primo luogo, che l'aria habbia il fuopcfo,a cagione dei vapori,&efalationiche all'altezza di molte miglia fi folleua no dalla terra, e dall'aque, e circondano tutto il noftro globo tcrraqueo 5 «.*» ciò non mi farà negato da filofofi, che fono leggiermente verfati nelle ifperienzej poiché è facile il fi mela prona, con cauare fé non tutta almeno parte dell'aria, chefia in vn vafo di vetro: il quale pefato prima, e dopo che n*è ftata cauata l'aria fi ritrouerà notabilmente dimi^ &*-..nuito 5^ nulto di pefo. Quanto poi fia il p£fodeirariaiol*ho ritrouato inquc fta maniera. Ho prefo vn gran vafo di vetro, il di cui collo fi poteua-# chiudere, et aprire con vna chiauetta : e tenendolo aperto l'ho rifcaldato al fuoco tanto', che rarefacendofi l'aria, ne vfcì la maggior parte: poifubitolo chiufi sì,chenon poteflrerientrarui,e Io pelai j ciò fatto ibmmerfi il collo ncH'aqua, reftando tutto il vafo fopra l' aqua iftelTa, et aprendolo fi alzò l'aqua nel vafo, e ne riempì la maggior parte_j : l'apri) di nuouo,e ne feci vfcir Taqua quale pefai,ene mifurai la mole, e quantità 5 Dal che inferifco che altre tanta quantità d'aria era ufcita dal vafo 5 quanta era la quantità deiraqua,cheviera entrata per riempire la parte abbandonata dall'aria 5 Pcfai di nuouo il vafo prima ben rafciugato dall'aqua, e ritrouaiche pefauavn oncia più mentre era-, pieno d'aria di quello pefafle, quando n'era vfcita gran parte. Si che quello di più, che pcfauaera vna quantità di aria vgualc in mole all*aqua, che vi entrò in fuo luogo : L'aqua pefaua 540. oncie, onde concludo che il pefo dell'aria paragonato a quello dell' aqua, e come i.a (540. cioè a dire fé l'aqua, che riempie vn vafo pefa 640. oncie, l'aria.» che riempie il medcfimo vafo pefa vn oncia. Suppongo fecondo che vn piede cubico di aqua, cioè l'aqua ch;_> può fìare in vn vafo quadro, largo vn piede, et altretanto lungo, et alto, pefi 80. librecioè oncie p5o. conforme all'ifperienza del Villalpando, che è quafi del tutto conforme alla mra : Imperciohe ritrouai che qucll' aqua la quale pefaua 640. oncie era poco meno di due terzi di vn pie. de cubico . Dal che viene in neceifaria confeguenza > che fé due terzi di vn piede di aria pefa vn oncia, vn piede intiero pefarà vn oncia e hiezza. Terzo, fuppongo che ogni gran vafo fi pofla notare da tutta, o alme no quafi tutta l'aria je ciò dimoftrerò farfiinvarij modi nell'opera dell'arte maeftra, come fpiegaròa fuoluogo^ Intanto accio tal uno non ftimi, che fia una uana promefla, ne infegnarò qui uno de più facili. Piglifi qualfiuoglia gran uafojche fia tondo, et habbia un collo, o al yr,coUofiaconnefla una canna di rame, odi latta lunga almeno 47. V^^' Terzéi mi Romani moderni, conforme allamifura che èregiftrata verfo il ' finediquefto libro, nel trattato decannochiali 5 et eflendopiù lunga l'effetto farà più ficuro 5 uicino al uafo A. fia una chiauetta B.chechiuda per tal modo il uafo, che nonni poffa entrare aria: fi riempia di 3qua tutto il uafo con tutta la canna; poichiufaJa canna nella partt-» eflrema C. fi riuolti il uafo si, che flia nella parte di fopra, e la parto «flrema C. della canoa, fi fommerga dentro alfa qua; e mentre .è im^ i '.; O merfa ri 54 merfa nell'aqua fi apra, accio cfcaraquadal vafo,!a quale ufcirà tutta, reftando piena la canna fino all'alcezia di palmi 45. minuti 2^. e tutto il rimanente di fiDpra farà voto, non potendo entrar aria per alcuna partcj airhora fi chiuda il collo del uafi^conlachiauettaB. e fi haucrà il uafo uoto^ che fé alcuno non lo crede lo pefi, e ritrouerà,che quanti piedi cubici d'aqua fonoufcitida efi^o,altre,e tante oncie, e mezze.-» oncie di meno pefarà di quello pefaua prima, quando era pieno di aria ; il che bafta per il mio intento, non uolendo qui difputare, fé refti woto d'ogni forte di corpo 5 del che difcorrerò a fuo luogo difendendo, che non può efler uacuo, et infieme moftrando, che non ui refta-. corpo,il quale fia di alcun pefo, Qu^arto,fuppongoefleruere, ed infallibili le dimoftrationidel libro I i . e £ 2. di Euclide, riceuute da tutti i filofofi, e matematici,& euidenti per manifefta ifperienza ; nelle quali fi proua, che la fuperficie delle palle, o sfere crefce in ragione duplicata delli loro diametri, douc che Ja folidità crefce in ragione triplicata delli medefimi diametri: Et ac-* cioqueftofi pofla intendere da tutti; fi deue fapere che allora la ragione, o proportione è duplicata, quando fi pigliano tre numeri in tal modojcheil terzo contenga il fecondo tante uolte, quante il fecondo contiene il primo, come nell* efempio qui pofto I. 2. 4, I. 5 5>. l. 4' i^. doue il terzo numero 4, contiene, il 2.0 numero 2, tante uolte quante il due contiene l'uno, cioè due uolte; e fimilmente, il terzo numero p. contiene il fecondo 5, tante uolte,quante il tre contiene l'uno, cioè tre uolte 6cc, All'horapoila proportione è triplicata, quando fi pigliano quattro numeri in modo tale,che il 4.*' cótenga tante uolte il 3 .° quante quefto contiene il 2.** &; il terzo contenga tante uolte il 2.0 quante quefto con» tiene il primo, come ft uede in quefto altro efempio. I* 3. 9' 17» I, 4. i6^ 64. Dimoftra dunque Badile che la fuperficie delle palle, o sfere crefce in proportione dupUcau delli diametri 5 cioè fé pigliaremo due palle» una delle quali fia di diametro groifa il doppio dell'altra, per efempia una 55 vnadl vn palmo di diametro, l'altra di duella fuperficie della palla_^ di due palmi farà quattro volte più grande della fupcrficie della palU di vnpalmoje che rutto il corpo, o folidità della palla di due palmi crefcendo in pioportione triplicata farà otto volte più grande, e per confeguenza otto volte più pefante della palladi vn palmo di diametro; fi chela fuperficie della maggiore alla fuperfìcie della minore»/ farà come4, a i.e lafoliditi faràcome 8. a i. La quale verità oltre la dimoftrationefpcculatiuafi può vedere in prattica,pefando Taqua-. che empie vna palladi vn palmo di diametro, e quella che empie vn_. altra palladi due palmi: con il che haueremo la proportione triplicata della folidità ; la proportione poi duplicata della fuperficie la ritrouaremo, mifurandola fuperfìcie delle medefime palle, ovafirDoue di paflaggio auuerto vna regola vtile all'economia, e fparamio nella fpefa de materiali, volendo fare botti per tener vino,facchi,o altri vafi neceflfarij; cioè che facendo vna fola botte con quei legnami con i quali fé ne farebbero due, quella botte fola terrà in fé il doppio di vinodi quello, che farebbero tutte due le botti jcofi anche, fé la medefima tela, che forma due facchi fi vniràinfieme facendone vn Tacco folo, quefto folo facce terrà il doppio più grano di quello, che teneuanolidue facchi. Quinto, fuppongo con tutti i filofofi, che quando vn corpo è più leggiero in fpetie,com*e(lì parlano,di vn altro, il più leggiero afcende-» nell'altro piugreue,fe il più greuefia corpo liquido; come vna palla di legno, afcendefopra raqua,e galleggia percheè più leggiera in fpetie dell*aqua ; cofi anche vna palla di vetro ripiena di aria galleggia fopra l'aqua, perche fé bene il vetro è più greue dell' aqua, tutto il corpo pero della palla pigliando il vetro inlìemeconTariaèpiu leggiero di quello, che fia akretanto corpo di aqua: che quqfto è reflere più leggiero in fpetie, -ìm... Prefuppoftequeftecofe,certoèchefc noi poteflìmofare vn vafodi vetro, o d'altra materia, il quale pefafle meno dell'aria, che viftà dentro, e poi ne cauafifìmo tutta l'aria, nel modo infcgnato di foprajquefto vaforeftarebbepiu leggiero in fpetie dell'aria medefimajficheper il quinto fuppofto gaUeggiarebbe fopra l'aria, 6 che fi deuemultiplicareefib diametro per la circonferenza;fiche mul-^ tjiplicheremo 14. per44. &haueremola fuperficiedi quefto vafo ton-ì do, che faranno ó 16. piedi quadri di laftra di ramc,ciafcuno de quali hab 57 habblamopoftochepefi tre oncie,riche muItiplìcando^K?. per 5. haueremo i 848. oncie j che è il pefo di tutto iì rame con il quale è fabricatala palla, cioè libre 154. Vediamo horafe l'aria che fi concieae in queftovafo pefipiudi i 54. libre poiché fé cofi è, cauatanc raria_, refterà il yafo più leggiero di lei : e quanto farà più leggiero d:lla rnedefima,altretanto pefo potrà alzare feco, efolleuarloin aria. Per vedere il pefo dell'aria, che vi fta dentro, bifogna vedere quanti piedi cubici di aria contenga, ciafcuno de quali habbiamo moftrato che pefi vn oncia, e mezza. Perciò fare infegna di nuouo Archimede, che bifogna multiplicareil femidiametro,chefarà piediy, per la terza parte della fuperficie che farà 20 5 .e vn terzo,il che £uto, h luremo la e :ip icitàdel yafo, che farà piedi 1457.6 vnterzo,e perche ogni piede di aria pefa yn oncia, e mezza, Airà il pefo di tutta l'aria contenuta nel vafo oncic 2i5 5.edueterzi,cioèlibrc i79.oncie7. e due terzi. Hauédo duridue veduto che il rame, di cui è formato il vafo pefa folo 154. libre, reftail yafo più leggiero dell'aria 2 5. libre oncie 7.C ducterzi,comehaueuo propofto didimoftrare; fi che canata fuori queft'aria, non folo falirà fopra l'aria, ma potrà tirar feco in alto yn pefo di 2 5 . libre, ««# oncie 7. e due terzi. Ma accio che pofla alzar maggior pefo,efolleuarehuominiinaria pigliaremoil doppio di rame,cioè piedi 1232. che fono libre di rame 3o8.conilquaI rame duplicato potremo fabricare vn vafo, non folo al doppio più capace, ma più capace quattro volte del primo, per la_^ ragione più volte replicata della quarta fuppofitione je per confeguéza l*aria,che fi conterrà in detto vafo farà libre 7 1 8 oncie 4.e due terzi, fi che cauata queft'aria dal vafo, quefto refterà 410. libre, et oncie 4. e due terzi,piu leggiero di altretant'aria, e per confegucnza potrà folle-; uare tre huomini, o due almeno 3 ancor che pefino più di otto pefi per yno. Si vede dunque manifeftamenteyche quanto più grande fi firà li-* palla, o vafo fi potrà anche adoperare laftra di rame, o di latta più groffa, e {oda ; Impercioche fé bene crefcerà il pefo di eflb, crefcerà pero fempre più la capacità del medefimo vafo, e per confegucnza il pefo dell'aria j onde potrà fempre alzare in aria maggior pefo. Da ciò fi raccoglie facilmente, come fi pofla formare vna machina, FigwA laqualeaguifa dinauc camini per aria jSi facciano quattro palle ciaf IV. cuna delle quali fia atta ad alzare due, o tre huomini, come fi è detto pocoauantijle quali fi votino dall'aria nel modo fopra moftrato, e fiano le palle, 0 vafi A. B. C. D. Qucftc fi connetta no infieme con quattro legni, come fi vede nella figura, fi formi poi vna machina di legno P ' E.F. 5» E.F. fimilead vna barca, con il fuo albero, vele, e remi: e con quattro funi vgiiali fi leghi alle quattro palle,dopo che fi farà cauata fuori l'aria, tenendole legate a terra accio non sfuggano, e fi folleuino prima, che fiano entrati gHiuomini nella machina j all' hora fi fciolgano le funi rallentandole tutte nel medclìmo tempo : cofi la barca fi folleuerà fo pra l'aria, e porterà feco molti huomini più, o meno conforme la gra pezza delle palle; i quali potranno feruirfi delle vele, e de remi a fuo diaccreper andare velociffimamenre in ogni luogho fino fopra allcj' iiìontagne più alte. Ma mentre rifcrifco quefta cofa rido tra mefte0b parendomi che_-» ila vna fauola non m.eno incredibile, e fìrana di quelle, che vfcirono dalla volontariamente paz.za fantafiadel lepidiflìmo capo di Luciano; e pure dall'altro canto conofco chiaramente di non hauere errato nelle mie prone, particolarmente haucndole conferire a molte perfone_-» intendenti, e fauie j le quali non hanno faputoritrouare errore nel mio difcorfo;& hanno folodefiderato di poter vederelaprouain vna palla, che da fé ftefla falifìe in aria j quale hauerei fatta volontieri prima_. di publicarequeftamiainuentione,fe]apouerta religiofache profcflo mi hauefie permefìb Io fpenderevn centinaio di ducati, che farebbero d'auantagoio per fodisfarea fidiletteuole curiofirà : onde prego i lettori di quefto mio libro a quali veniife curiofità di fare quella ifperienza, che mi vogliano ragguagliare del fucefìb,il quale fé per qualche-* difetto commefib nell'operare non fortifle felicemente, potrò forfi ad-» ditarli il modo di correggere l'errore j e per animare maggiormente_j ciafcuno alla proua voglio fciogliere alcune difficoltàjche potrebbero opporfì in ordine alla prattica di quefta inuentione. Primieramente può ritrouarfi difficoltà in voltare la predetta palla, ovafo nel modo di fopra infcgn3ro,richiedendofi il riuoltare fopra la canna B. C. la palla A. mettendo in alto la palla che prima pofaua_. in terra 5 il che certo non fi potrebbe farefenza qualche machina, con difficoltà, filante la grandezza del vafo,o palla tutta ripiena di aqua • A quefto fi può rimediare in modo, chenonfianeceifario muouere la ì^igmA palla. Si collochi dunque la palla in luogo alto almeno 47. palmi, e_^ V. nella parte di fottofiaconeflb al collo Ja canna di 47. palmi,la quale fi chiuderà nella parte inferiore C. pofcia fi empirà di aqua il vafo A. con tutta la canna per vn altro forame D. nella parte fuperiore ; pieno che farà, fi chiuderà il detto forame con vna vite, ochiauetta D. e volendolo votare bafterà aprire la parte efl:reraa C. della canna immerfa in un uafo d'aqua, accio ufcendo Taqua dal uafo non ui pofia fottentrar' aria ; ufcita che (ara rutta Taqua fi chiuderà la chiauetta B. del collo del " uafoj 59 uafo, e fi leiiera via la canna, cofi haueremo il uafo, il quale fé non farà del tutto voto di aria, del che non uoglio qui difputare, certo è che almeno peferà tante uncieje mezza di menojquanti fono i piedi d'aqua, che prima conteneua nella fua capacità, il che bafta per il mio intento,et è già ftato prouato con rifperienza, come ho detto di fopra : deuefi folo vfare diligenza in fare, che le chiaui, che chiudono il vafo, fiano f^t^e efattamente in modo,che non vi pofla entrar aria perle commef furc->. Secondo, fi può fare difficoltà in ordine alla fottigliezza del vafo ; poiché facendo gran forza l'aria per entrar dentro ad impedire il vacuo, o almeno la violenta rarefattione, pare che douerebbe comprimere eflb vafo, e fé non romperlo, almeno fchiacciarlo, e guaftare la fua rotondità. A quefto rifpondo, che ciò auuenirebbe quando il vafo non folle tondo i ma eflendo sferico l'aria lo comprime vgualmentc da tutte le parti sì, che; più tofto lo raffodajche romperlo? ciò fi è veduto per ifperienza in vafi di vetro, li quali anchor che fatti di vetro grofiò, e-» gagliardo,fe non hanno figura rotonda,fi rompono in mille pezzi^doue all'incontro ivafi tondi di vetro ancor che fottiIiffimi,non fi rompono^ ne è necefiaria vna pcrfetciffima rotondità j ma bafta, che non fi fcofti molto da vna tale figura sferica. Terzo,nel formare la palla di rame fi potranno fiire due mezze palle,e poi connetterle infieme, e faldarle con ftagno al modo folito ; ouero farne molte parti, e fimilmente vnirle j nel che non fi può ritrouare difficultà. Quarto, può nafcere difficoltà circa l'altezza alla quale falirà per aria la nauej poiché s'ella fi follcuafle fopra tutta l'aria che comunementefi ftimaefferalta cinquanta miglia piu,o meno come vedremo dopo, feguitarebbe che gl'hucmini nonpoteflero refpirare. Al che rifpondo, che quanto più fi va in alto nell'aria, ella è fempre plufottile, e leggiera 3 onde arriuata la nane ad vna certa altezza non potrebbe falire più alto, perche l'aria fuperiore efiendo più leggiera-, nò farebbe atta a foftcnerla, fi che fi fermerà doue ritrouerà l'aria tanto fottiie, che fia vguale nel pcfo a tutta la machina -, con la gente, che vi fta fopra. Quindi accio non vada troppo alta, conuerrà caricarla di pefopiu,o meno conforme all'altezza, alla quale voremo falire; ma fé ella pure faliffe troppo alto ; fi può a ciò rimediare facilmente coii_. aprire alquanto le chiauette delle palle lafciandoui entrare qualche quantità di aria; imperoche perdendo in parte la loro kggierezza fi abbaiferannocon tuttala nane; come airincontrofenon falifle alta_. quanto 6q quanto defìderiamo, potremo farli falire con allegerirla di que'pefi, che vi metteremo fopra. Cofi parimente volendo dcfcendere fino a Cerrafidoucrà aprire le chiauette de vafijpercioche entrando in effi a poco a poco Taria perderanno la fualeggierezza 5 e fi abbafleranno a poco a poco fino a deporre la nane in terra. Quinto, alcuno potrebbe opporre, che quefta nane non pofla efler fpinta pervia di remi, perche quefti in tanto fpingono le naui per 1*-^ 2 qua, in quanto l'aqua fd refiftenza al remo, la doue l'aria non può fare tal rellftenza. A quello rirpondo,cherarfabenche non faccia tanta refiftenza al remo quanto fa Taqua per efser piufottile,e mobile; fa pero notabile refiftenza, e tanta, quanta bafteràafpingere la nane; poiché quanto è minore la refiftenza che fa l'aria al remo, altre tanto è minore la refiftenza che fa al moto della nane: onde con poca refiftenza di remo potrà muouerfiageuolniente; oltre che rare volte farà necefsario adoprarei remi, mentre nslfariafempre haueremo qualche poco di vento, il quale ancorché debboliffimo farà (ufficiente a muouerla velocemente j e quando anche fofse vento contrario alla noftra nauigatione, infegnerò altroueilmodo di accomodare l'albero delle naui in modo, che pofsano caminare con qualfi voglia vento non folo per aria_» ma anche per aqua, Sefto, maggiore è la difficoltà di rimediare all'impeto troppo grandc,ccn cui il vento gaoljardo potrebbe fpingere la naue sì, che corref^ fé pericolo di vrtare nei monti,che fono i fcogli di quefto oceano dellV aria^ouero di fconuolgerfijC ribakarfi: Ma quanto al fecondo dico che difficilmente potrà da venti fconuolgerfi tutto il pefo della machina, con molti huomini,che ftandoui fopra la premeranno in modo che fempre contrapcferannoalla leggierezza delle palle; fi che quefte refteranno fempre in alto fopra la naue,ne mai la naue potrà alzarfi fo« pra di loro ; oltre che non potendo mai la naue cadere a terra, fé non_. entra aria nelle palle ; ne eflendoui pericolo d'affogare nell'aria, come neiraqua,afferrandofi gl'huominialegni,o corde della machina farebbero ficuri di non cadere. Quanto al primo confeflb che quefta noftra naue potrebbe correre molto pericolo; ma non maggiore di quelli, a quali foggiaciono le navi maritime ; percioche come quelle, cofì quefta potrebbe feruirfi dell'ancore, le quali facilmente fi attaccherebbero a gl'alberi : oltre che quell'oceano dell' aria, benché fia fenza_» lidi, ha pero qnefto auuantaggio,che non abbifognano i porti oue ricouerarfi la naue, potendo ogni qual volta vede il pericolo prender terra, e defcendere dall'aria, Altre 6i Altre difficoltà non vedo cbe fi pofl'ano oppore a quefta inuentione toltane vna,che a me fembra maggiore di tutte le altre, et è che Dio non fia per mai permettere, che vna cale machina fia per riufcire nella prattica, per impedire molte confeguenze,chepcrtiirbarebbcroiI gouerno ciuile, e politico tra gl'huomini : Impercioche chi non vede, che niuna Città r:irebbe ficura dalle forprefe, potendofi ad ogn'hora portar la nr uè a dirittura fopra la piazza di erie,e lafciatala calare a terra., defcenderc la gente ? rifteflb accaderebbe nelle corti delle cafe priuatcje nelle naui che fcorrono il mare, anzi con folodefcenderelanaue dall'altezza dell'aria, fino alle vele della naue maritima^ potrebbe troncarle le funi j& anche fenza defcendere, con ferri, che dalla naue fi gcttaflero a baffo fconuolgere i vafcelli, vccider gl'huomini, et incendiare le naui con fuochi artificiati, con palle, e bombe y ne folo le naui, ma le cafe, i cartelli, e le città, con ficurezza di non poter effer offefi quelli, che da vna fmifurata altezza le faceffero precipitare. Nuoue jNfuoue intient'iom diTermofcopi per cono [cere U ^varietà del caldo, e del freddo ., ne gl'elementi. primoinuentoredelTermofcopiojper mexz.ol'di cui fi pofìa conofccre quando l'aria fia più, e meno calda, o frcda, fu Roberto Fluddo, il quale prefe vn tubo di vetro com'è A.B. con vna palla, o altro vafo C. connelTo al tubo nella fommità di lui, e facendo prima rifcaldare al fuoco la palla, fi che Taria ne reftafle rarefatta, immerfe rcftremità A. del tubo in vn vafo D. pieno di aqua; onde l'aria nel tubo 5 e nella palla-, raffreddandofi, e ritornando al fuo ftato naturale di prima,ne potendo per la bocca A. immerfa ncll'aqua entrare altr'aria, l'aqua del vafo D. ialiuaperil tubo ad occupare il luogo abbandonato dall'aria, mentre quefta condenfandofi fi ritiraua nella palla C. Quindi pofcia auueniua che reftandoqueftoinftrumento immobile, ogni qualvolta l'aria efterna vcniua alterata dal freddo, o dal caldo, fi alteraua ancor l'aria chiufe nel vetroi e condenfandofi perii freddo, faceua che l'aqua faliff^L.,» più alta nel tubojfi come rarefacendofiperil caldo rifcfpingeua a_. bado l'aqua medcfima -, et efiendo il tubo di vguale groffezza in tutte le parti, e diuifo in molti gradi trafeileffi vguali, l'aqua falendo, onero abbaflandofi moftraua nella lunghezza del tubo li diuerfi gradi del freddo,© del caldo. Quefta inuentione fu meritamente ftimata ingeonofa,ma nulladimenoera foggetta a tale inconuenientejcherinuernofpeiTo agghiacciandofi Taqua, o rompeua l'inftrumcnto, o almeno lo rendeua inutile per quella ftagione. La onde ringegnofiflTimo Gran Duca diTofcana hoggidi viuente, quanto amante de peregrini intelÌetti,altretanto perI fpicace con il fuo alle nuoue inucntioni, ouuiò al predetto incommodo, facendo lauorare a quelli, che fanno l'arte, con la fiamma di vna lucerna, vna palletina di vetro con il fuo collo fottile, quale appunto dimoftra la figura A. B. e riempiendo tutta la palla con parte del collo figura ^jj quint' eflenza di vino, o aquauita retificatiflìma, il che fi fa immerVII' gendo l'iftefìb vetro con il collo B. apcrto,mentre è tutto caldo, nel liquore medefimo j pofcia fi chiude, e figilla con Tifteflo vetro la bocca del collo,e fi coferua rinftrumcto,che fa Tvfo medefimo deiraltro,ma c6 ^t;vt-i,. et effetto cótrariojpercioche h doue in quello l'aqua afcende per il freddo, che condenfa l'aria della palla fuperiore, in qucftoil liquore afcende per il caldo che Io rarefa nella pallina inferiore, e falendo per il collo diuifone fuoi gradi, moftrahora il freddo bora il caldo,fenza verun pericolo, che il Iiquorefiagghiacci,o fi confumi, o fi verH, come nel primo: hauendo di più quefto maggior commodo,che potiamo facilmente portarlo con noi ouunque andiamo ; quefto medefimo feruc per regolare i gradi del caldo ne fornelli, de quali fi feruono i chimici per le loro operationi ; per ritrouare, e mantenere il calore neceffario a_. far nafcer i pulcini dalle vuoua fcnza opera di gallina, anche di mezzo inuerno : per far cuocer l'voua medefime a quel fegno, che vn vuole»^ tenendo l'inftrumcntoimmerfo nelt*aqua,in cui fi cuociono, fin tanto che il caldo arriui al grado prefifTo, e per molte altre cofe come fi dirà altroue. Inuentione degna per certo di fi Gran Prencipe, il quale noa_. contento d'hauerla ritrouata con ammiratione ài chi fha veduta, ha_» voluto pratticarla non folo con far nafcer li pulcini ne forni, ponendo prima rinftrumentofofto la gallina che coua, e notando il grado del caldo che fi ricerca per tale effetto ; ma anche dando la cura a moIte_-p perfonein diuerfipaefi,che ancor hoggi notano ogni giorno la diuerfità del caldo, e del freddo, per potere pofcia confrontare infieme tutte le mutationi dell'aria cagionate dalleftellein varie parti del mondo,e quindi dedurre regole d'aftronomia fondate nell'induttione di effetti efattamente fperimentati. Etohvi foiferopur molti ches'occupafleroin efsercitij fi nobili ! quanto accrefcimento farebbero rarri,ele fcienze, fé tanti Prencipi, e Caualieri dotati di eleuato ingegno, che confumano le ricchezze in_« giuochi, e trattenimenti affatto inutili, Timpiegafìero nell'ifperienzc-^ tìfiche, da cui trarebbsro non folo diletto maggiore, ma gloria immortale al fuo nome, con le ingegnofe inuentioni, che riempirebbero i libri de' letterati. Io pertanto aggiongendo in quefta materia alcuna cofa alle già ritrouateslafcierò che altri vadino fpeculando cofe migliori 3 e per dir ciò che fento, parmi che li due modi predetti di conofcere i gradi del caldo, e freddo foggiaciano ancora a qualche difetto; e quanto al primo chiara cofa è, che quanto piìì l'aqua afcende nel tubo di vetro,tanto più con il fuo maggior peforefiftealla falitaj ondefe quattro gradi di freddo, per cagion d'efempio, baftano per farla afcendere alla metà del tubo, quattro altri gradi di freddo, non batteranno per farla afcendere tutta l'altra metà, efìendo che quanto più faglie, tanto più forza fi richiede per alzarla ; aggioqgafi che parimente l'aria, che fi condenfa-. oriuj quan 6^ quanto più fi rimuoue dalla Tua rarità naturale, tanto maggior freddo richiedefi percondenfar]a,ond*èche non fi può alzarl'aquaapropor»tione del freddo eftrinfeco. Si porrebbe rimediare a quefto con diuider il tubo in parti ineguali, facendo che le parti fuperiori fodero più piccole delle inferiori ; ouero formando vn tubo, che fofle più fottile nella fommita,che nel fondo ; ma farebbe Tempre difficile il ritrouarc la proportione,con la qualc-> le parti, o la grofczza dei tubo doueflcro andarfi diminuendo. Quanto al tcrmofcopio piccolo del Gran Duca, egli incorre invn-* fimJle inconueniente: poiché l'aria chiufa nel collo del vetro al falir del liquore fi deue condenfare violentamente,6 quanto più alto faglie il liquore per ragion del caldo, tanto maggiormente l'aria fa refiftenia; e ciononfolo perche fempre più fi difcofta dalla fua rarità naturale.^, ma anche perche il caldo, che fa rarefare, e falir il liquore,fa rarefare ancora l'aria, la quale perciò fi sforxa di defcendere, e fa refiftenza alla falita del liquore medefimojaggiongaficheficomeho detto dell'aria,cofidcli'aqua vita fipuo dire, che fc dieci gradi di calore bafbno a far che falga fino alla metà del collo, dieci altri gradi non balleranno a far che falga fino alla fommità, poiché tanto più refifte alla rarefatione? quanto più fi rarefa, eflendo naturale ad ogni patiente tanto più refiftere quanto più fi ritroua vicino alla fua deftrutione,e più lontano dal fuo effere naturale. Si che queft'inflrumentino^e ben fi ottimo per determinarci gradi del calore richicfto ne forni, o per altra fimile opqratione chimica; ma nonèattoa diitinguere vgualmente i gradi del caldo, e del freddo? Per ouuiare dunque a quefti difetti, ho ritrouato,e pratticato vn_» altro modo più certo, e ficuro fjcendovntermofcopio,il quale ha anche quefto auuantaggio fopra graltri,chc per ogni minima alteratione dell'aria, egli fi altera notabilmente 5 fi che fi puoconofcere facilmente ogni picciola differenza di caldo, e di freddo. Si pigli vnvafo di vetro diqualfivoglia figura, e farà forfi migliore Figura]^ sferica 3 quefto habbia vna picciol bocca, quale fi rapprefenta^ Vili* nella figura A. B. e nel lui fondo fi pongano due dita incirca di aqua; fi pigli pofcia vn tubo fottile di vetro aperto d'ambe le parti, e fi metta con vn eftremitànel vafo A.B.fi chela parte eftrema A. refti immerfa neiraquaj&ilcollo B.fi chiuda diligentemente sì,che non vi poffa entrar aria. Ciò fatto fi foffi con la bocca violentemente per il tubo dalla parte C. peroche in tal modo l'aria, che fta chiufa nel vetro fi condenferà, e facendo forza per rarefarfi di nuouo, fofpingerà l'aqua in alto per il tubo ^5 tubo A. C. il quale douera efler lunga, non molto grofifo, e diuifo nelle fue parti. Supponiamo dunque, che per forza della condenfationc-» fatta con il foffio 5 Taqua fia falitafinoal fegnoD. vedra(Iì,che ftando immobile l'inflrumento ogni minima alteratione d'aria farà alzarti» notabilmente l'aqua, o abbacarla j poiché il caldo rarefacendo mag^ giormente l'ariajch'è condenfata violentemente nel vetro,farà alzac l'aqua : et il freddo condenfando la medefima aria, faraila defcenderc«j. ' Quefto modo non paté quell'inconueniente, a cui foggiaciono gl'aitri due modi mcntouati di fopra; cioè della refiftenza dell'aria alla condenfatione, mentre faglie il liquore ; poiché, com' è manifefto^ nel tubo l'aria, eh' è nella parte di fopra entraj et efce dal tubo,il quale nmane aperto, ne l'aqua ritrouarelìflenza nell'aria perfalire più alto, come fa il liquore nelli altri termometri. f In oltre fé bene anche in quefto l'aqua con il caldo deue falirc contro alla fua naturale inclinatione, onde pare che non debba falirs.^' •ugualmente 5 et a proportionc del caldo, cóme fi è detto del primo termofcopiojcio pero è rimediato fé non in tutto almeno in gran_» parte dalla violenta condenfatione dell'aria fatta nel vetro j poiché fé bene Taqua con il fuo pefo refifte al falire j pero raria che fta_. fopra Taquadel vafoelTendo condenfata violentemente, preme l'aqua è lafofpinge in alto fi, che l'vna, e l'altra con il fuo pefo ftanno in_, equilibrio :& ogni benché picciolaggionta di calore bada per rarefar l'aria, che per fé ftelfa procura di rarefarfi,e cofi fa falir Taqua-,: e pero vero,che anche in quefto termofcopio quanto più l'aria fi rarefa, e ritorna al fuo ftato naturale, tanto maggior forza di calore ix richiede, refiftendo anche vn maggior pefo di aqua che deueakarfi nel tubo: ma quefta differenza non è fi notabile come ne gl'altri . Aggiongafi,che in quefto,come fi proua per ifperienEa,ogni picciol calore fa alzare l'aqua notabilmente anche quando è giontaquafi fino "i*"^ alla cima del tubo, fi che fono più diftintamente notabili i gradi, particolarmente fé il va fo A. B. fia grande, e fé pur vi è qualche iraproportione,fi può facilmente correggere, con diuider la parte fuperiore del tubo ili gradi proportionalmente fempre minori. Finalmentefi può rimediare anche a quefta piccola imperfettione del pefo dell'aqua nel canelloche refifte al falire,con porre ilcanelloinfito quafi hori^ig^r*. zontale, cioè con poca decliuità, come fi vede nella figura nona. I^* Vn'altra forte di termofcopio ritrouo per ifperienza riufcire non meno delli due primi, benché fia foggetto ad vno delli difetti accenP^g^'^x nati. Piglio vnvafo,Q palla di vetro A. con vn colio B.C. non molto X« .:'-b ' R fbttile 66 iGiuk^Si. al collo C. attacco vn pefo conuènìénte F. poi Io immergo] ncU'aciuajdicuicpicno il vafoD. E. fattoa modo di cojonnaj fi che. refiftcndola leggierezza dell'aria chiufa nella palla, enei collo>quefta. auuanzi fuori del vafo D. F. in gran parte, o la metà incirca j il colla è diqifo nefuoi gradi 5 fi chcrifcaldandofi Tana fi rarefa nella palla, ricercando maggior luogo, ne potendo vfcire per il collo immerfa neU*aqua fa alzar tutto il vetro, e nell'orlo, o labro D.del va(oD.EJ nota i gradi diuerfi. Ma perche Tacjua contiene in fearia,efacilmen-» te inaria fi rifoluc&efala in vapori, riempiendo la palla di eflì vapori, quando l'aria di cfladouercbbe condenfarfi.-equeftoèvn altra ìnconueniente, che patifce anche la prima forte di termofcopio vfata comrrunementej perciò potremo rimediare ancheaqueftocon empi-* re il vafo D, F. non di aqua? ma d'ai genso viuo j nel qual cafo accio il pefofipo0a fommcrgerinclfodouerà eflere vna palla d*oro:ma chi non hauerà commodità della palla d'oro, o vorrà ifparamiar queOa fpe* fa, potrà fabricare il vafo A. in modo,che nella parte fuprema di elfo (ì pofla collocar qualche pefo di piombo, o d'altra materia, che tenga_^ niiiììerfa parte del collo nell'argento vino. Si può per maggior leggiadria delnoftro termometro addattarlo in modo, che reftandoeglinafcofto fi vedano li ^radi delfrcddo-e del caldo in vna moftrafimile a quella delli horiuoli: ilchefiottencrà facendo galleggiare fopra l'aquachefialza nella canna vn cilindretto ft^m» di le|;nQC. il quale ahandofi,o abbafìandofi con l'aqua medcfima_» XI. faccia girare vn aife A. B. con la Tua frezza in B. mediante vn pefo E. attaccato ad vn filo,che fi rauuolge intorno all'alfe in p. e dall'aitro ca* pofoftieneil cilindretto C« Si può anche fare che il fi|o,a cui è annelfo il cilindro fia attaccata al capo di vnaftafottile A.B. eleggiera,chcappoggiatainE. a modo /"/^«m di vna lena fi alzi, e fi abbadi, notando con l'altro capo B. i gradi XII. del caldo, o del freddo nell'arco CD, nelchefiolTcruische quanta maggiore farà la proportione=delle due parti A. E. et E. B, della lcua,c quanto più lunga farà ra(la,tanto più fenfibile farà ogni minima muta^ tione dell' aria. Finalmente fi può fare vn termometro duplicato, in cui fi condenfcF'igmx rà l'aria foffiando nella chiauetta A. e fubito di nuouo chiudendola, XIIU accio l'aria condenfata faccia falirc alquanto l'aqua nei fifone B. dai quale ritirandofi l'aria nell'altro vafo C. farà parimente falir l'aqua nel fifone D.e col rifcaldarfi maggiormente dell'aria, falirà l*aqua fino alla fommità delli fifoni, paflando vicendeuolmente dall' vno all'-, altro vafo, con effetti curiofi, e diietteuoli, particolarmente fé li prcn detti re ietti vafi,o fifoni farannodi grandezzadiucrfa. Molto più galan leggiadra riufcirà quefta inuentionc,fe dentro a detti vafi, o alme no in vnodi effifi collocherà yna piccola ruota, che fatta girare dairaqua,chevicaderi fopra mentre viene per il fifone dell'altro yafo, faccia Tuonare va_i campanello, e nioftri con vna frezza aggio nta, i gradi del caldo, e dèi freddo? Altre K« «/^/f;'^ ìnutnùonì per fapere tutte le mt^tatlom dèlPana humiàa :, o fecc4>,oUU:?b;, i'ii;-!g!jr: ^Ejl conofcere ogni giorno le varie mutationi intorno all' hiimidità,oficcità dell'aria, fono varie inuentioni ritro^ uatc parte da altri, e parte da mej delle quali ne accen^SMÌÉ narò alcune in quello capo, riferuandomi il trattarne^ più longamente nell'Arte maeftra a fuo proprio luogo. ìlP. Kirchero nell'arte magnetica lib.j.p. 2. capo j. dice che fi pigHj, vn'arifta,o paglia di quelle che Iranno intorno alle fpighe dell'auena, et vneftremità di efla fi fermi nella fommità di vno ftile, o fopra vn_, legno perpendicolare alThorizonte^e fopra l'altra eftremùà fé li vnifca vn indice di carta, o altra cofa che tì pofTa girare facilmente, e fia-, parallelo all'horiz-ontc, intorno ài quale fi -defcriuavn circolo diltinto ingradij e farà preparato rifinimento ^poiché eflendo quella paglia-, naturalmente ritorta a modo di fune quando viene inhumidita fi va_» difnodando,&afciugandofi,o fcccandofiiiiorna ad auuiticchiarCj'i-*' contorcere, fi che riuolgendofi in giro muoiie l'indice che ha vniconeU la parte fuperiore, e nota i qradi deirhun^idità, e ficcità dell'aria, con^ forme alla qualejfiauuiticchia,© fi riuolgé piu,o meno. Il mcdefimo effetto fa§|iQ.tuttii furti di hQ/be,che nafcono naturala mente in tal modo ritorte, 6^ aivùiticcfiiàtef come fono i conuoluoli jTt^ura notturni, e fimili jde'quali io piglio vnfufto B. A. e lo pongo chiufa XlVe in vn cilindro,0 colonnetta A. F. fi che non veda fermando l'eftrema parte B.fichequefta non fi pofl'a girare 5 nell'altra parte cftrema A. del detto fufto di herba, pongo vna figurina di carta che tiene innianovna frezza D. fi cheauuiticchiandofijegirandofi ilfuflofi gira anche la_. figurina, che gì e attaccata per vnpiedej&in vn circolo chefì:a intor-r no, e copre il cilindro, accio non fi veda l'artificio, moftra i gradi dell'humidità, o ficcità dell'aria per caufa delia quale fi va girando la figuraj e la frezza. Vn'altromodouieneinfegnato dal Cardinale Cufano il quale prefcriue,che fi prenda una bilancia, et in efla fi ponga della lana, o altra_» materia atta ad imbeuerei'humidicà dell'aria ^collocando nella partc^ oppofla il fuo contrapefo alla bilancia, poiché in tal modo inhumi^ dandofi 69^ dendoG la lana fi accrefcerà il fuo pefojOnde dal pefooppofto che la tiene in equilibrio, fapremo la maggiore,e minore humidità deiraria medefima . Io per pefarel'h umidità dell'aria tengoappreflb di meuna piccola bilancina ^ e in unofcudellino dì efla pongo del fale di alcun hcrba calida, poiché quefto attrae maggiormente l'humido, onero del Talnicro calcinato che fi il medefimo effetto, anzi attrae tanto efficacemente,^ che fi rifolue tutto in aqua,& alcune uolte pefa tre, e quattro uoke più di quello che pefi quando di nuouofifecca j nell'altra parte, cioè nell'altro fcud eli ino della bilancina pongo i pefi, con la uarictà de quili uengoapefarel'humidità maggiore, e minore dell' aria: Douc fi noti che il fale non fi liquefa femplicementc perche la fola materia di cflb fi rifolua in aqua: ma perche fé li unifconoiuapori dell'aria humida, e lo' fanno più pefante j altrimente non crefcerebbe di pcfo. Manonmenogratiofo è il modo fcguente. Si prendano due grof-; fé corde di leuto, vna delle quali fia A. B. legata iminabihneiite in^ A. da vna parte,e dall'altra riuoltata intorno ad vna girchcta niol-. to piccola C. la quale girelctta fia immobilmente vniti cox^^.l'alfe di vn altra girella maggiore M. F.E. laquile habbii vn con-^rr trapefo moderato M. N. tanto,chebaftipertener tirata li corda B. A., la quale inhumidendofi l'aria, anch'eia fentendo l'humidicà fi acor4 cierà,& acorciandofi alzerà il contrapefo,e farà girare la girclla,que(ì:i girella hauerà vn dente, in F. il quale entrerà in vn manico di martelletto L, H. fermato mobilmente in G. e facendolo alzare ricaderà con il fuo pefo percuotendo il campanello H, L siche dal fuono di quefto campanello faremo ammoniti dell'humidità dell'aria. Vn altro campanello di diuerfo fuono R. ci auuertirà della ficcità in quefì:omodo:advn anello F. farà legata l'altra corda F. O. e quefta medefima corda in qualche diftanza notabile farà riuoltata con l'altro capo intorno ad vna gircletta D. vnifa come l'altra immobilmente nell'alfe ad vna girella maggiore con il fuo dente P. martello, e campanella vicini,econ il contrapefo T. Rallentandofi dunque nell'feccarfi la corda E. O. il contrapefo T. defccnderà,e ficendo girare la girella quefta vrterà con il dente P, nel martelletto, e farà fonare il campanello R. Si pofTono ancora multiplicarei denti delle girelle si che fonino più volte i campanelli,conformelamaggiore5e minore humidità, e ficcità; e le corde, ò ruote fi potrebbero difporre in altri modi,come ognivho nella prattica potrà facilmente prouarejbaftan* do che io habbia accennato il fondamento di quefto artifìcio. Nel che fi habbia riguardo di fare chele girelle, intorno alle quali firiuoltano S IcJ ie cordcjfiano molto piccolcjacciò ogni piccolo fcorcfamcnto, o al^ lungamento di corda fia fufficiente a farle girare j e le corde fiano a.% quanto lunghe, acciò lo fcorcianiento fia notabile. Finalmente fi pofsono anche con l'orecchie mifurare i gradi dell*humidità dell'aria : poiché fé noi prenderemo due corde di leuto, o di chitarra j& vnadiefse fi ftenderàfopralifcannelli d'alcuno ftrumentQ al modo ordinario ftirandola, e lafciandola fempre ad vn me^ demo pofto 5 ma l'altra la ftenderemo fopra li medefimi fcannelli facendo che refti tefada vn pefo attaccato ad vn capo di cffa,il quale fia tanto, che la renda vnifpna alla prima, Quefta che vien tefa dal pefo mantenerà femore vn mcdefimo fuono,doue che l'altra lo variarà facendolo hora più acuto hor più graucsconforme che fi ftenderà,o raU icntarà dalla maggiore, o minore humidità dell'aria; onde dalle loro confonanze, 0 difsonanze haueremo armonicamente i gradi dell'hufniditàjche faranno tantijquanti fono i tonijO femitoni rauficalio Quero fi ftenda vna corda per il maggior diametro di vn arjcllo di legno ouato e facile a concepir l'humido nelle fue fibre ftefe per lo groffo,no^ per lo lungo del legno,che fia porofo; poiché all'humido fi dilanerà ranello,e fi ftenderà la corda facendo il fuono più acuto,che paragonato co vn altro fuono fempre (labile, haueremo il medemo intento; l.e corde fiano di metallo, acciò anch'effe non fi alterino facilmente^ Cap© 7' CAPO NONO Wdhrìcsre *vn horimUt ^he fi muou^ perpetHAmente fenx^&c. fia fufficientea muouereil perpendicolo, ancorché molto più pelante della palla, che vrta nell'afta; fi aggionge al facilitar quefto moto, che il perpendicolo quando viene vrtato dall'afta è già in moto ; onde per fare che il moto continui, baftavn impulfo minore aftai di quello, che fi richiederebbe per darli il moto fé fofle totalmente in quiete 5 Di più eflb perpendicolo douràeflere molto corto, il che ci giouerà a far falire più prefto lacafletta con nmouere più velocemente le ruote; impercioche quanto è più corto, tanto più frequenti firanno le fue ondationi ; Dalla quale breuità di perpendicolo nafcerà, che fia moflb più facilmente dall'afta. Finalmente accio la palla non difcenda troppo prefto per i canali inclinati ciafcunodi elfidourà effere molto lungho; hor quanto è pia lungo il canale, per cuidifcendela palla, ella nel fine aquifta maggior impeto, fi che venendo da h in b, quando arriua in b ad vrtarenell* afta, ha giàaquiftato molto impeto dal moto decliue, per tal modo,che Scorrendo per la palla da binl,e da l in e vrta di nuouo nell'afta mentre dura ancora il moto del perpendicolo,e non fa altro che accrefcerlocon vrtarìo di nuouo, accio pofsa durare, fin tantoché venga di nuouo ad vrtarlo in d, poi in e>f &c. Secondariamente può nafcere difficoltà, che il perpendicolo fia per hauere tanta forza, quanta fi richiede per alzare la palla conlacafsettaN.douendola alzare mediante il moto di tre ruote, ciafcuna dells»-» quali fa refiftenza al moto. A quefto rifpondo, che farebbe diffi_cile alzare la cafsctta con la_, palla, quando l'altezza, a cui fi dcue alzare, fofle molta, et il tempo breue j cioè quando il moto della cafsetta douefse efser veloce; e con feguen 84 fcgucritemente veloce cfìcrdouefi'e anche il iiìoto della ruota I k noce leraca dall'altre ruote più tarde j ma quando il moto della caflccia debba efìer lento fi, che fi muoua più lentamente la ruota Jk di quello, che fi muoua la prima ruota E F, tal moto lento riufcirà piufacilejconforme fi dimofìra con i principi] della fcienza mccanica. Che poi bafti vn moto lento della cadetta èmanifelloj Pcrcioche ella non deuearriuare alla fua determinata altezza fé non quando la palla, che difccnde per il canale, farà arriuata nel fondo X : per il qual moto della palla^ firichicderà molto tempo, doucndo dii'cendeie per moki canili affai lunghi, come fi è detto di foprajonde tiìttclecofe concorono a fjcililare queftomoto. Aggiongoche lacafietia N dourà eflere IcggierifTìma ; poiché, ancorché tale, potrà femprc difcendere a ripigliare la palla in X ogni volta che farà liberata la ruota LM dal ritegno, o linguetta L. La palla fimilmente, ancor che fia moltiffìmc volte più leggiera della palla del perpendicolo D, farà fufficientca farlo muoucre ccil.. vrtare nell'afta YC, fi per l'impeto che prende nel difcendere per il canale, fi anche molto più per la lunghezza dell'aftajche farà l'effetto di Iena; e finalmente perlabreuità del perpendicolo, Auuerto anchora che la palla S del braccio tampinato S gR dourà efiere più leggiera di quello che fia lacafsetta N con la fua palla_, j accio quefta vrtando nell'afta piegata EZV pofla alzare, e ripone la.;, detta palla S foprail fuofcanettoTQ^5& ancor che quefta palla S fia afsai leggiera farà però fufficicntea far piegare il rampino in R,e liberare la ruota LM ritirandola vcrfo T 3 pcrcioche la fpira,o filo di ferroRTdcue premere leggicrifììmamcnce, e fol tanto, qu;into bafta perrifofpingerela ruota LM verfo la ruota lK,il che fi farà con poca violenza mentre l'afse della ruota IK entra mobilmente neli'afse della ruota L M in fitohorizontale. Nctifi di più che potiamo facilmente accomodare vn altr'afta dall' altra parte del canale, cioè in hlmno; nella quale vrti parimente la palla, e dia più frequentemente il moto al perpendicolo, onde roaj pofsa mai tal moto inlanguidirfi, nel qual cafo potremo fare minorcL-» quantità di canali, ma più lunghi fi, che la palla fpenderà maggior tempo in difcendere, e nel fine di ciafcun canale prenderà maggior impeto, poiché quanto più lungo è il canale, tanto maggiore farà l'inv peto, che haurà aquiftato nel fi,nt-»o Vn altro moto perpetuo Jlmile al precedente. femplice g^^^i^^N altro modo mi fouuiene a fine di perpetuare il moto no molto diflìmile dal precedente, con adoperare vna copelea, la quale riporti in alto la palla dopo che farà difce ^^ fa per il canale, come fi è moftrato di fopra j il che fi fura con minor quantità di ruote, e con machina molto più fpedita . Sia come prima vn perpendicolo A B, il quale muouendofi faccia girare con li due rocchetti H,I, vnitial fuoafìejla ruota L nel modo fpiegatonel capo precedente jall'afleLM di quefta ruota fia vnita va,, altra ruota N O, la quale girandofi morda la ruota O P : e quefta ruota OP farà vnita all'afle di vna coclea RTQ^ intorno alla quale farà il canale, che per eflere a modo di lumaca li da il nome di coclea. Le due cftremitàdell'afsedi quefta coclea cioè Y, T faranno appoggiate fopra due poli T,Y in modo che Tafse fi poffa girare liberamente con la coclea vnita, mediante il girare della ruota O P. Difcenda dunque vn\ palla per li canali O F,come di fopra j e quefta vrtando nell'afta DF ogni volta, che arriua al fine di alcun canale dia nuouo moto,&impulfo al perpendicolo; il quale muoucndo le ruote inferiori, e la coclea, quefta coclea porterà in alto un altra palla pofta nel canale tortruofo T S V Z Q^, portandola dalla parte inferiore S alla fuperiore Q^ ^^-' quale vfcendo dal canale della coclea, cadere nell'altro canale nel medcfimo tempo, o almeno poco dopo che l'altra palla è gionta al fìnc^ del canale, cioè in S : all'hora quefta palla farà prefa dalla coclea, e farà portata in alto,mentre l'altra difcende, e cofi fucceflìiiamentcruna dopo l'altra. Auertafi che acciò la palla, che è arriuata inS, fia riceuuta dalla.» coclea nel medefimo tempo, che l'altra efce dal canale Qjdella coclea, fi potrà fare, che la palla vfcendo dalla bocca Qjdel canale della», coclea, e cadendo nell'altro canale faccia impeto in alcun afta la quale fia connefla con vn ritegno, o molletta pofta nell'eftrema parte del canale S, dalla quale l'altra palla vcniua ritenuta, accio non cadeflc-* nella coclea prima del tempo. UTA y n altro moto perpetuo molto più facile deUi due precedenti per Via di trombe che ahino l'aqua. figura, ^-'^^^P, lA il perpendicolo A B foilenuto con il Tuo afse C Q^D ia KXiL ^^%>Sj1 duepoliCQ mobilmentej&al medefimoaflefiaimn.Q bilmenre connefsavn afta leggiera, ma foda QJl, che penda all' in giù neiriftefso modo che fa il perpend'colo A B 5 Al fine del medefimo afte in D fia connefso vn_. braccio F E che faccia angoli retti con l'afse C D, et alle parti cftremeE, &F fiano attaccati due piftoniI,&G i quali entrino in dut«» trombe LkIjSiMHG, in modo che muouendofi il perpendicolo AB fi alzeranno, et abbafserannoi detti piftoni G,I alzando laqua..-, ('incui rifuppongono imerfele trombe ) peri canali HM,KL nel vafo foprapofto P F j nel qual vafo farà vno fcifone N P O il lui braccio più corco NP arriui fino al fondo del vafo, ma reftipero apertala bocca fua N, e l'altro braccio più lungo P O penetri per il fondo del vafo, e ftia parimente aperto in O, e quefto fcifone fia tanto alto in P dal fondodel vafo, che riempiendofi il vafo refti pieno anch' efso, (1 che all'hora preponderando l'aqua del braccio O P incomJnci a fcorrere fuori del vafo, e per confeguenza non cefserà di vfcireperla bocca Q fin tanto,che il vafo non refti voto. Sotto la bocca O, per cui efse l'aqua farà accomodata una ruota.», ST con le fue ale foftenuta in due poli XZ,& equilibrata in modo che con facilità fi pofsa girare dall'impeto dell'aqua, che cadcrà per lo fcifone fopraefsa ruota 3 la medefima ruota hauerà da vna parte vn_* aletta S che fparga in fuori in tal modo, che girandofi la ruota vrti nell* cftrema parte R dell'afta OR,laqual hafta cadendo nontrattenerà pero il moto della ruota ; fi che fcguitera a girare fin tanto, che vi cade fopra l'aqua : et anche dopo che l'aqua farà finita, la ruota per l'impeto già concepito, girerà molte altre uolte prima di fermarfij e girandofi, urterà con l'ala S nell'afta QR, e feguiterà a dare il moto al perpendicolo AB j e perche il perpendicolo dopo che ha concepito l'impeto feguita a muouerfi molte uolte da le ftefso, fi muouerà, e farà le fuc»* ondationi ancor dopo che farà fermata la ruota j Si che dopo che farà yotatoiluafojC fcorfa tutta l'aqua per lo fcifone fopra la ruota, fegui-^. terà terà ancor qualche tempo a muouerfi la ruota, e finito anche il moto della ruota, feguiterà per qualche altro tempo il moto del perpendicolo: ne quali due tempi s'alz.erà nuou'aqua nel vafo per mezzo dcii«i^ trombe mofle dal perpendicolo : fi faccia dunque il vafo capace folo di tant* aqua, quanta è quella, che fi alza in quelli due tempi ; dal chz^ feguiterà che, finito il moto del perpendicolo, refterà di nuouoil vafi> pieno j e per confeguenza anche il Icifone N P O, onde incominciarà di nuouo a fcorrereraqua perii fi:ifone,e darenuouo moto alla ruota, et al perpendicolo^ e perche voglio che molto maggior copia di aqua_. efca dal vafo per il fcifonedi quella che nel medefimo tempo, entra_, nel medefimo vafo per le trompe, finirà ben fi di votarfi il vafo, ma non ce&rà pero fubito il moto della ruot:i,e molto meno il moto del perpendicolo, onde in quello tv mpo di nuouo fi riempirà il vafo^c tornerà a votarfi per di nuouo riempirfi, e cofi perpetuamente cadendo l'aqu-i là,d'ondefi alzò. Che quefì:o moto fia per elTere perpetuo fé io non m'inganno fi dimoftra facilmente : poiché eflendo molto maggiore la quantità dclfaqua che difcende per lo fcifone,c cad^ fopra la ruota, di quella ch^-* in vgual fpatio di tempo fi alza per le trombe j e cadendo dalla medenma altezza, alla quale fi alza j farà fufficiente, ad alzare effa minore^* quantità di aqua, mediante il moto della ruota, e del perpendicolo j al moto de quali due, perche fi muouono liberamente fopra i fuoi poH,noa vien fatta altra refiftenza, che quella del pefo deiraqua,chedeue falire perle trombe j eflendo dunque queila molto meno pefante di quella, per confeguenza potrà cfler alzata da lei : Di più ogni poca quantità di aqua, che afcenda per le trombe nel vafo,dopo che farà rollato voto, farà ballante nellVfcirechefaràper lofchifoneadarnuouo impeto al perpendicolo 5 in tal modo che pofla muouerfi, e riempire di nuouo in breue tempo il vafo. Aggiongovn altro auuantaggio, che ci nafce dalla forza della Icua; poiché fé noi faremo che Tafta QR fia molto più lunga di quello, che ila il perpendicolo A Bjquefìi'afta urtata in R dalla ruota hauerà forza dileuain ordine a muouere il perpendicolo,fi che con poca refifl:enza della ruota farà mofso il perpendicolo . E fé bene eflendo il perpendicolo più breue, più breui ancora faranno le ondationi,e per confeguéza meno fi alzeranno i piftoni I, G, alzando minor quantità di aqua i;i ciafcuna ondatione del perpendicolo: quefl:o difetto però fi rà ricompenfato dalla maggior celerità, e frequenza delle medefimeondationi del perpendicolo : il quale quanto è più breue tanto più predo compifceun ondatione 5 fi che facendofiinciòla compenfatione,ci rimarrà anchora 88 anchora il primo auiiantaggi'o del muouerfi più facilmente, e fare minor rcriilciìza al moto della ruota . Aggiongafi anchora, che poca forza fi lichiedeper rimouere il pefo B. dal Tuo centro, a cagione che non fi deuc alzare a perpendicolo, ma obliquamente nel arco delle fueontiutiuni 5 quanto più dunque con l'aiuto della leua, onde fi potrà fare il pendolo B molto pefante, e sì, che pofla aliare molta più aqua. L'efìertofeguirà anche meglio, e s'intenderà maggiormente la ragione di efib, fé in vece di fare vn fol vafo, in cui fi riceua l'aqua, che fi lihs. dalle trombe, e da cui efce per muouerc la ruota, faremo due vali ciiltinti AB,& EF IVno immediatamente fotto dall'altro, con due» icitoni C,e D. Nel vafo di fopra entrerà l'aqua alzata dalle trombe, e quando farà pieno incomincierà ad vfcire l'aqua per lo fcifone C, b:i'jbn!ì .7 À ...iiiv;?^ ^., ^n )'uh'j. OHI Oim t:jirf 'yWXi' " 1 >i». ^Modo curio jo fatile, 0* n)ù\ì[fimo di d'^fìilUre l'aria, e (onuertirU in aqua, con 'vn tnuentione di fare fontane co pio fé in luoghi» ne quali non fi a alcuna forbente di aqua. Auendomoftrato alcroueche l'aria particolarmente vicina alla terra è ripiena di molti vaporijch^ altro non fono che aqua attenuata, e rarefatta dal calore inminutifiìme particelle; non farà difficile il conuertirla di nuouoin_, aqua, fé con l'arte fapremo imitare la natura, che fimilmente mediante la condenfationeconuertei detti vapori in pioggia j fi come la natura con il calore del Sole, o fotteraneo della terra rarefacendo i'aquala conuerte in aria, e di nuouocon il freddo della feconda regione dell'aria,condenfando,i medefimi uapori,li muta io., aqua; coli l'arte per mezzo di una fimilccondcnfatione,conuertirà in aqua gl'ifte^ uapori prima attenuati naturalmente dal caldo. . Prendali vn gran varfo di vetro ABC largo nella fommità, \i quale fi vada reftringendo nel fondo.fmo a finire in vna punta, come di ^^'*'** vn cono jia parte fupcriore A B fia aperta, fé no in tutto,almeno in parte nel mezzo, con vna bocca D; e la parte inferiore (ìa tutta vetro fenr, alcuna apertura . Si riempia quello vafo di neue,o d'\ giac-, ciò in tempo di Eftate, ò almeno in luogo oue l'aria fia affai ca!da_:.; e meglio riufcirà tenendolo efpofto al Sole; poiqhe l'aria, che iìi intorno fuori del vafo, feutendo il freddo della neueficondenferà, e fiandra attaccando alla fuperficie eilerna del vetro, per il quale_^ fcorrendo giùnella punta C fi diftillarà in gaccie frequenti si, ch^^ collocandoui fotto vn vafo E, in poco tempo ne raccoglieremo buona quantità, ejtantopiù, quanto faj-à maggiore, la grandezza del. vafo A B,C.^^^*»^bn? ! • onToinri" -^l»'*^^^ • :- I'^l'OìD 'V Queft'aqua farà molto leggiera, limpida, e falubre si, che TEf* tate ne potremo bere fenza pericolo di riceuere nocumento ; anzi per cflere ripiena di fpiriti ignei folarif quando fia diftillata, mentre l'aria èefpofta a raggi del Sole) conferua, et aumenta il calore naturale; onde gì' EthicijO Tifici ne riccuono gran giouamento; et Io ho coiiofciuto vna perfona, che già toccaua il terzo grado di tale infermità; e 91 e perciò era difperata daMedicì,'c con bere per molti giorni buo-i na quantità]di queft*aqua rifanòperfettsmente.Quefto mcdefimo artificio può eflere molto vtilcjà quelli, che fi ricrouaflero in penuria di aqua dolce per bere, 3c in molte altre occarioni,come ogn'vn vede. Et acciòche alcuno non ilimaffcche queft'aqua foffe la neue liquefatta che penetrafle per ilJvetrOjpelì riftcffa neueauanti èdopo,e ritrouerj, che non farà fccmata di pcfo, fé 'non forfi alquanto per eflère ftata-» efpofta al Solejmà non mai tanto,che compcnfi il pefo dell'aqua d'aria raccolta. per conuertire maggiore quantità di aria in aqua,c fare vna Fontana copiofa in luogo benché aridiffimo,e nelquale non fia alcuna vena di aqua, particolarmente di Eftate,quando il bifogno di efla fuol effermaggiorcjfcieglieremo vn fito efporto verfo il mczzodi,e fé folle alquato eleuatoin vna collina,© monte,farebbe migliorc,c quini fca» ueremo fotto terra vna grsn camera, la quale habbia vna fola bocca, e quella non molto grande, e riuoltata verfo il mezodìj ma lo fcauamento della camera non douràefler fatto immediatamente vicino all'aria j anzi fi dourà prima incominciare vna caua larga cinque, o F/^«r^ {ci bracci, la quale fi vada reftringendo fino alla bocca della camera; XX\\ equeftaboccanonfia piùlargadivn braccio,e mei2o,o duej pofcia nella parte più a dentro fcauercmo vn gran vafo a modo di vna camera, come dimoftra la figura^ poiché in tal modo l'aria, che entri^ calda, e rarefatta dal mezzo dì per la bocca AB nel fito grande fcauatoC fi condenferà dal freddo fotterraneo, et aitaccandofi d*. ognV intorno i vapori condenfati,goccicranno dalla fommità nel fondo D copiofamente si, che ogni giorno fi potranno cauar fuori molti fecchij d'aqua per il canale D E, o in altro modo 5 e tanto maggior copia d*aqua haueremo, quanto laflagione farà piQ calda, e l'aria maggiormente percofsa dal Sole, a proportione della grandezza della camera C 5 poiché quanto più grande ella farà, tanto maggior quantità di vapori conuertirà in aqua j et acciò il freddo, che deue condenfare Taria fia maggiore, fi donerà, come dilli, fare molto profonda, et inoltrata» nella collina,cioè lontana dalla prima apertura più larga B. i Giouerà anchoraveftirla d'intorno di pietre fredde ed* vmidé, Ì qualiper natura fua fiancarti ad attraerel'vmidità, come quelle che fono imbeuute di fpiriti minerali, e particolarmente falnitrarli ; onde fi potrà ancora artificiofamentc dare vna tal qualità a dette pietre, ac» ciò più facilmente facciano l'eHetto, di condenfare i vapori io aqua_. f^ incroftando la parte inferiore D che deue riceuer l'aqua come fi fuole nelle cifterne, acciò non penetri per la terra, e fi perda. 1 £nv o3ub; .:4 Qucfì' 93 Queft'aqua farà purgata, e falubre poco meno della già detta di fo pra, onde fc ne potrà bere a fatictà : e farà baftante per l'vfo quotidiano almeno di vna famiglia, et anche di più quando fi faccia m luogo, e fito opportuno con le diligerne accennate. E di ciò io ne ho veduta-. rifpericnza,e di fimil aqua hobeuuto più volte: il cheogn*vn vede quanto fia per cfl'er gioueuolea molti in luoghi penuriofide aque; oarticolarmcnte perche quando s' inaridifcono i powi . E fi votano le ci^ fterne a cagione della ftagione caIda,&afciutta,airhorapiu che mai copiofa farà quella fontana jpercioche in tal tempo maggiore è la copia de vapori, che il calor del fole folleua nell'aria ^ fi che quell'aqua, checifù rubbata dal fole conuertcndola in aria, faremo che fia forzato a reftituircela molto più purgata, e falu^ tcuole. C^cfìia inucntione parimente può liberare tal' hora vna città dall'afledio; nel quale tagliati, come fuol farfi, i condotti dell'aqua, farebbe forzata ad arrenderfi,fe fi feruiràdi qucfto noftro rimedio. 5riDD: •yj^qd zup: \h:: ~r ■A ih 03 A a L'érU maej^r^ d' agricoltura infegna a moUi^licare il raccolto delle femen'^e. L raccogliere dalle femenze frutto copiofo, non depende in tal maniera della natura, che le produce, che non dcpenda anche molto dall'arte, che con applicare le caufc a greffètti proportionati, auualora le forze della natura medefima, di cui è ferua, e miniftra, Ne parlo io qui fole dell'arte dcll'agricokurajdi cui hanno fcritto, Varrone,Colutnelia, Palladio, Crelcentio, Herrera, il Gallo, et altri, la quale è già fatta triuiale, e ripratticacommunemente^maparlodi qu,eUa>che con modi più reconditi emulando la natura la necedìta a produrre frutti non ordinari], e molto più copiofidi quelli, che ad ogn'hora fi fogliono raccogliere. Di quefta, che chiamo arte maeftra d'agricoltura,difcorrerò lungamente a fuo luogo : in tanto per darne alcun faggio voglio accennare il modo di fare che ilgrano,e l'altre femenze ordinarie multiplichino copiofamentejC diano frutto fé non centuplicato, almeno molto abbondante, Deuefi dunque fapere che, come moftrerò altroue, tutta la virtù gcneratiua particolarmente de vegetabili confifte nel fale di e(lì, dal quale depende l'organizatione delle parti, et è formatrice dell'embrione: il quale pofcia viene nutrito,& allattato da gl'elementi, ma principalmente dalia ruggiada, che cade la notte, 6C. é il latte più falutteuolc,cho auidamente fi fucchia dalle biade afletate," per il calore del giorno • Eforfihebbe iiguardo a ciò quella benedittionc di Giacobbe Det tihi Deus de rore c^i/, Cp'»\ '•''^-'-^'j^ ^^ Quefto è quanto mi è paruto di douere accennare in quefta materia, riferuandomi molte cofevtiliècuriofe appartenenti or. all'Agricoltura e ircà^gl*irvefti,leviti,fiori, e frutti,quaU -i: paleferò nell'Arte Maeftra al fuo luogo proprioj doue anche moftrerò in qual modo fi pofla ♦ >in pochehore far nafccre ogni vege tabile, e raccoglierne il frutto poche hore dopo che fi 3 farà feminato. ^ Jf, lil jcsA ì ni lìoq ib '• oi?fn ?/>?oi ib 2rr; • Ci'. nicoun-ignoiggte Ji iiJiiiJt)! óiyq ^zn-Sì. :uqof; Ol' ìbùn'r t-^k US uì TlktV^S^ fi 'f I ir; :>aoi§ci ^fSS^^^A •'^•'"i"^^-' *"' ''J^f-^ ^ -» or, .,; ♦.jj'j'aficlv fi « -inrsii, p4r ndfcere quéil fi 'vp^lia fiore, e frutto in vn 'V^fo di vetro fenz^a ftmenz^a. ^^^it/.èi vJ -fti C c Capo taoB .siriD ilbb ifnte*ibb 5lf:i5n:>D -iin^nsT iioH'tis iinor> oirnsDOOnC aì [: i^r-«i /'^''«'«I^I^Sp^^I^ iàccia vna lucerna, di cui la part&rcibtrriceue in fc l'oglio XXl^li ^\%^SI' ^*^ ^^ farma d'vna colonnetta,:come fi vede nella figura !'p;;..efrexeU colonna, ocilindifo A Ji chiufo nella parte di i. r:fopr^,eper ogni luogo fìijche non.vipolTa entrar den.i ! tro ana, tettando aperto folo nelfondo con vna particella C per Ia.,q,ualeefica. l'oglio neJi*anneflbvafoCL incuiftàlolloppinojche arde in Li«j€0«^uniaTidoi'oglio fa chevadi difcendendo nel cilindro a pocoapoco vniforniemeBce nella parte anteriore CE della lucerna fia vn altEO-piccolo cilindretto, o^-fimile ricetracoloj nella parte fuperiore del quale fia vna girella IK-con ilfuo afìe EF chi-» habbiaanncfib vna freccia, o iindi^lc per moftrarl'horefegnate intorno alla ruota GHjciò fatto fi ponga nella colonna AB Toglio con vn-. pe7.zo di fuuaro, o altro corpo leggiero D che nuoti fopra l'oglio, a cui fia legata vna funicella fottilc D CI k M, la quale fune pafli fopra la girella IK,e neireftremo habbiaconnellb vn pefoM,ma non tanto greue che pofla far difcendere il fuuaro D, il quale galleggierà fempre fopra l'oglio, e quefto difcendendo con il confumarfi difcenderà anche il pefo Ni, che con la funicella farà girare la girella IKjCol* indice E F, che moftrerà l'hore. Deuefi dunque auucrtiredi fare la grandezza della girella Ik,proportionataal difcendere dell'oglio, e del fuuaro D. oiferuando quan* to difcendein vnhora, accio la girellai K, col* indice fi muoua ordinatamente. Si deue auuertire ancora di mettere la ftbppino fempre della medefimagrolTc'zzaje deiriikfso numero defili, acciò fempre l'oglio fi confumi vniformemente nella fommità della lucerna fi potrà metter vna_# vite A, che chiuda perfettamente il buco, per il quale fi mette l'oglio; benché quefto fi può anche mettere per la portella C riuoltando fottofopra la lucerna. Notifi anche, che fé fi poteffe accomodare in modo l'afse della girella I k dentro la colonnetta A B, che pcnetrafse fuori per vn forame tanto,addattato,che riempiuto totalmente dall'afsenon dafse adito all' aria 103 aria per penetrare nella colonna, fi potrebbe accomodare il tutto fen za l'altra colonnetta,© ricettacolo IMC; ma tuttofi potrebbe mette; e nella colonna A B^ e ciò in moki modi facendola moftra dell'horead vn latOjOueroin cima alla colonna nel piano fuperiore di efsa, ma perche Te vi entrafse aria Toglio caderebbe fijbito tutto a bafso ; et è diffìcile forare k lucerna in modo, che l'afse fi giri nel forame fenza dar adito all'aria, perciò habbiamoftimato più ifpedientc, e ficuro il modo fopra defcritto. Si potrebbe ajicora aggiongere alla moftra vna ruota dentata, che iacefse batter le hore come ognuno può facilmente uedere ; ma per far battere le hore dentro allamedefima lucerna potremo fare in quefta juaniera . Dentro alla colonna nella circonfereiìza interiore, difporemo un canale aperto nella parte fuperiore,attoa foftenere una palla di legnOschedifcendaperefib canale fatto a fpira,cioèamodQ di uite intorno ad efla colonna j quefta palla galleggiando fopra l'oglio, andrà difcendendo per il canale in giror'fia dunque accomodato in modo che dopo vn bora habbia fatto vn giro intiero, et arriuata al fine di eftb la palla vrti nel manico j onero afta di una molla fi, che alzandofi quefta lafci trafcorrere vna ruota con il fuo contrapefo, come fono quelle delli oriuoli a ruota, che fanno fonare le hore j a cui fia addatta^ to vn ma,rtelletto, che batta vn campanello pofto nella fommità della lucerna 5 e cofi fucceftìuamente cojmpito l'altro giro, la palla faccia il medefimo cftctto di far fonare Infeconda bora, e poi lctre,quattro&:c. In qtial modo chi camtna in carrozjZj^, ouero nauig^ per aqtta pofs^ [^f^^i h f»k^t^ 4^^ 'Viario fstto» ^«(•^ ^^^l^g Vefta inuentione bene he fia accennata da VitruuiOj egli XXVinllj^^^® però parla fi ofcuramente che io non ho ritrouato alcu fefe^SJ no: il quale l'habbia fapuca interpretare ; onde mi è par SSJI'ìS fpiegarla in quefto luogo come cofa nuoua.*fé non in foftanza, almeno in ordine aireifettOjdeireflc* re bene intefa,e pratticata. Si mifuri il giro di vna ruota del carro, o carezza, e fia per efempio di I o. piedi, cioè di due paflì ^ all'afle di quefta ruota A B, come fi vede nella figura, fia vn dente C. fopra all'afTe fia vna ruota di 5 o. denti C D, et airaile I E fia vnito vn dente E che morda vna ruota dentata E F, che farà la moftra del viaggio diuifa per efempio in 12. parti, e ciafcuna diefse parti habbia io. denti, che faranno in tutto 1 20. Nel centro G fia vna freccia immobile, che moftri il numero delle miglia.. ? Impcrocheogni giro della ruota AB, cioè ogni due pafli di viaggio fi promouerà vn dente della ruota C D mediante il dente C, et hauendo quefta ruota 50. denti, dopo cento pafiì di viaggio la ruota C D haurà fatto vn giro intiero, e per confeguenza mediante il dente E haurà promofso vn dente della moftra EFj &erscndo dieci denti da vn numero ali* altro, dopo dieci giri della ruota CD cioè dopo mille paflì, che ■ fono vn miglio, farà promofsa vn fegno intiero la moftra E F,e la freccia moftreràil principio del numero II. che prima moftraua il principio del I. Nel medefimo modo fi può operare naulgando per aquife fi feruiremo di vna ruota colle ale fimilja quelle delle ruote demoHni,Ic quali con il moto della naue vrtando nell'aqua facciano girare la ruota,che farà in vece della ruota A B, fi che tutto l'artificio confifte in fare, che il giro della prima ruota, che corrifponde alla quantità del uiaggio,fia multiplicatoa proportione delle altre due ruote CD, et EFj il che fi può fi^rc in più maniere, gome ognVno uede. L'Arti Maejlra di (Chimica mofira la tramutatione ie** Metaltt j ^ addita la firada pir ritrouare la ^Pietra FilofofaU, fi' Qon il modo dì fare le vere Quinte Efsenze, j»'Pg E Operationi appartenenti alla Chimica non confiftor !6§W folamente^'come rtimano alcuni) nella tramutatione. . V^lpl de Metalli, poiché ella è vn arte molto piii vniuerfah -w ^ÉH^ lacuale in certo modo abbraccia anche la Mcdicinf^ o almeno le gì accolta molto da vicmo per aiutarla-, . e fi può definire efsere vn'arte, la quale rifoluendo, e riducendt^ tutti i corpi mifti nèfuoi primi clementi, va rintracciando la natura d effi,cfeparando il purodairimpuro,edi quello fi ferue a perfcttiona-" ve i medefimi corpi, et anche a tramutare vn corpo in vn altro. _] Dalla quale definitione rclìa manifefto quanto ampiamente fi ftendrf lachimica per tutte le forti de corpi naturalijdi cui quella p;. ite, c"hl[* s'afpetta alli foli Metalli, ha il fuo proprio nome di Alchimia, prcft" dal vocabolo Greco, che fignitìca Su^o di Sale; Imperciòche ncllt fpirito fugofodel Sale rificde tutta la virtiì,& efficacia de corpi miili" La Chimica poi vien detta ancora Spagirica dal verbo Greco . . che vai quanto dire,fciegliere, ejfeparare ; poiché come fi è d-tcv, fepara l'inipurOjC fciegliere il puro, Altri la chiamarono cabbala perche anticamente fi cómunicaua da Padri alli figliuoli f jlim/ntr in voce, propagandofi à pofteri non per hiftoria, ma per fempHc!! rraditione. Altri finalment lì diedero nome di Sapienza ; perche nO;^ (cnza ragione (limarono impoflibile, fcnza tal arte ii poterconofcer ' perfettamente Ja natura, e 'ic vii tu de corpi naturali. " ^'Pcr ojongere al fine da loro pi^tefo, ch'è il perfettionarc i. cor. con la leparacione dei puro dairimp'.:io,effcrcirano i Chimici vari'., operationi, lequali tutte fi poiTono ridurre a Tei (òrti,che fono le pri " cipali.La prima èVà CaUinatìone con la quale i corpnl riduco'io in calce, onero in cenere . La fecondali chiama ^olun'one^ con cui ' difsoluono nell'vmidoi corpi gii calcinati. La."terzaèla DiUiìLuo^ mediante laquale fi purg3,e fi rettifica l'vmido già diffoluro, con. di{i{ ""^ liarìo vna o p]H volte;. La quarta vien detta Putrejaiuone^con'ìdi c.u\ 10^ fi difpongono icorpi,acciò facilmente fi pofTano fcparare le parti pure dairimpure,che fono inei?ì mefcolatc. La quinta chianiafi Suùli. tnaticne, per mezzo della qtjalc le parti più fottìi i, fpiritofe,c volatili fono forzate a falire in altoj acciò in tal modo fi feparino dalle parti pili ftfse, che rimangono nel fondo del vafojda cui fi fa la fublinutione. La lefta finalmente è l'vnione delle parti pure fpirìtofe, e volatili con le parti fimilmente puTe,ma fifse; acciò tutte infieme vnendofi fi coagulinoje dìuenohinotìfse jonde vien chiamata ConguUtione ^ «^ JFifsatione ', polche in tal modo le parti pure feparate dall'impure, ancorché altre iìano volatili, altre fifse fi vnifcono però infieme amicheuolmente,e fi congiongonocon vnfiifoj& indiflblubile legame, et all*hora aquiftano virtù, merauigliofc, et efficaciflìme ncll'operare j la doue primOjtale efficacia di operationiveniua impedita dalle parti impure, nelle quali ftauano come imprigionate, e legate. Nel che fi deue auuertire ( come diffufamente difcorrerò nell'Arto Maeftra, trattando delliElerpenti, conforme la Filofofia de Chimici) che tutti li mifti da quelVarte fi fcoprono eifer comporti di cinque»^ fjrti di foftanza 3 due forti di foftanza impura, cioè, del tutto morta, e fenza alcuna virtùjO proprietà efficace all'operare^ e credi follanza pura, nelle quali è pofta tutta la forza, et virtuofa efficacia propria diciafcunmifto; di quefte due l'vna fi chiama flemma,che è quanto direvna foftanza aqueafenzaaicnn' odore, o fapore; l'altra fi chiama capo morto,e terra dannata, cioè, vna foflanz,a terrea parimente fenxa alcun fapore,efenza alcuna virtù: Dell'altre tré poi l'vria fi chiama-. fale,&clj fofìianza più fiiTa,cosi detta perche refifte ad ogni violenza di fuoco,ne fi diftiugge, ne vola,o fuaniflfe per l'aria j la feconda vien detta oglio,oucro folfo, perche a fimilitudine di efiTi è pingue,e vifcofa; la terza chiamafi fpirito, perche è più di tutte l'altre fpiritofa,e volatilej& ogni benché minimo calore la didìparebbe per raria,fe non_. fofle vnitacQnilfale,cheèIa parte fifìfa, mediante foglio, che perciò è. di fua natura tenace, e vifcido,atto a legare il volatile con il fido» Quefte tre forti di foftanza pura fono quelle, che con altri molti nomi fi chiamano, corpo,anima,fpi rito j amaro, dolce, acido ifale,foIfo, mercurio, &c.Et in efle fole è pofta tutta la virtù,& efficacia delli minerali delli vegetabili, e delli animali j con tuttoché incialcun mifto la_* quantità della foftanza pura, in paragone dell'impura, fia meno— mifTìma. Ciò fi vedrà manifeftamente fé prenderemo afare,dirò cosi,vna_. diligente anotomia di alcun mifto,pereflempio delle rofe. Prenderemo dunque gran quantità di fofe frefche, e fiorite, colte nel leuar del I07 del fole, quando fono anchor ruggiadofc,cfubitopcfl:ate in vnmortaj-o di pietra, le metteremo in vafiditerra vetriati, e coprendole molto bène, le Jafcieremo macerare, e putrefare fin tanto che uedremo, e Tenti remo dall'odore efferfi inacidite ; il che farà dopo dodici, o quindici giornii Scacciò meglio fi difpongano alla fcparatione del puro dall'impuro, ui aggiongeremo da principio una poca quantità di fale, o cremore di tartaro j poiché quefto penetrando incide, ediuide le foftan^e eterogenee j onde poi più facilmente Tuna fifepara dall'altra • Dopo queftaputrefattione prenderemo una quintale fettima parte dì dette rofe,e pofteinuafodi uetrolediftillaremoa Bagno maria, ouero 2 bagno uaporofo/l'aqua chenediftillerà la rimetteremo fopra uil. altra parte di rofeC liferuando però da parte le già diftillate,nellt-* quali rimane anchor l'oglio, ed' il fale ) e quefte dirtilieremo al medefimo modo cauandone i'aqua foprapollaui, et anche di più quella, che in fé contengono : quale di nuouo rimetteremo fopra altre rofe, et in-. tal modo hauercmo tutta l'aqua rettificata, e pura i nella quale fi contengono gli fpiriti, cioè la parte più fottile,e uolatilc : che conuienc»/ feparare dalla flemma, cioè dalla foftanz.a aquea in quefto modo: metteremo tutta queft'aqua,o parte di efia in vn vafo di vetro, cioè in-, vna boccia con il colio alto afl'ai,efpoftoui fopra il fuo capello, con il recipiente luteremo benidimole gionture : poi a fuoco Icogieriflimo di cenere ne caucremogli fpiriti,reltando la fléma nel vafo,che come m >teria più grolla ed impura,non potrà co poco calore afcenderc tanc'alto. Ma perche nuUadimeno fempre afccnde buona parte di flemma più fottiÌe,c leggiera perciò rettificarcmo il già diftillato,diftilIandolo,di nuouo in vafo non men alto del primo, e con calore più moderato, nel modo che fi fa conlofpiritodi vino, pigliando folo quello, che afcende più facilmente, e ciò replicando più volte; poiché alla fine hiueremo benfi vna piccola parte di tutta quella foftanz,a liquida, ma clla^ ixrì tutta fpiriti il che fi conofcerà non folo da vn frag^rantiffimo odore, che fpargerafi per tutta vna ftanzacon folo aprire iìvafo; ma anche perche auuicinatogli vn lume, arderà tutta nel modo, che fi l'aqua vi?^ più fina. Conferueremo dunque quefta parte fpiritofa,,chepcrfefoìa ha infinite virtù, j e l'altra maggior parte, eh* è la flemn^a, la gettarc-mo fopra le rofe già diftillate,aggiongendoui anche alcr'aqua rofa, ofl^-pa■ ma fimile per cauar da cflè rofe l'oglio ; il che fi farà diftillando a fuoco di ccnerijcon calore alquanto galiardo; poiché in tal modo difìillarà infieme con la detta flemma anche l'oglio, il quale via via lì andrà da fé fteflb fcparando, e nuoterà in cima alla flemma in coloraureo,. e bcnchcla quantità di quefto faràpochiftìma, cioè vn oncia incirca, a poco Jo8 poco più per ogni pefo di rofe, et ynafola quinta parte dello rpirito ludetto, hauràperò maggior virtù dello fpirito medefimoje di tutto il rimanente . Si fepari dunque ; e fi conferui l'oglio da per fé, et anche la flemma: poi s'abbrugino le rofe rcftate nel vafo, dalle quali fi è già cauato l'oglio, e lo fpirito j e ncil'abbrugiarle fé gl'aggionga vn poco di folfo ; ridotte che faranno in cenere, fé le dia fuoco gagliardo acciò diuenti bianchinfima; Quella cenerefi ponga in vafo di vetro, o di tew ra ben vetriata, e fé le metta fopra la flemma fudetta j poi fi faccia bollire molto bene, fin che la flemma habbia cauato dalle ceneri il iale : All'hora fi coli percartaemporetica,efimettaadiftiIlare,e fenecaui la flemma: e refterà il fale puro nel fondo del vafo : le ceneri fi calcinino di nuouoa fuoco gagliardo di reuerbero,edi nuouofìfaccino bollire con la flemma : poiché qucfl:a cauerà dell'altro fale; e qucfta operationefi replicherà più volte, fin chele ceneri rcftino del tutto priue di fale: cquefìefonola terra dannata, cioè la fofì:anxa terrea impura; fi che farà terminata tutta la feparatione delle parti pure fpirito, ogh'o,' e fale, dalle parti impure cioè dalla flemma aquci,edcilla terra dannata,© capo morto. Ma fé il fale non fofie puriflìmo, per farlo tale, fi folua di nuouo nella flemma,fi coli, e fi congeli con farla euaporarc, o difl:illare, e quefta folutionc, e congelatione fi replichi più volte, et haueremo vn fale purismo in minor quantità dell'oglio, ma di maggiore virtù. Qdcilc tre pure foftanze ciafcuna da per fé fono efficaci flliTie: ma molto più fé fi vniranno infieme, formando vnà Quinta elTenra, il che fi fa in quefta maniera :Pongafi il fale puro in vn vafo di vetro col collo affai' Jungo,epoftoa moderatiffimo calore fé «li ponga fopra vna parte di oglio;continuifiil calore con il vafobenchiufo,(ìno che fia l'oglio perfettamente vnito al fale, poi fi aggionga vna altra parte di oglio, e fi continuiladecottione, ecofia poco a poco fin tanto, che tutto i^ogiio fiafiben incorporato,&abbracciatocon il fale: all'hora fi aggionga parte dello fpirito, e fi operi via via lentamenre nel medefimo modo che fi è tenuto con l'oglio j poiché cofi quelle tre foftanzc pure del fale, ogiio, e fpirito fi abbraccieranno infieme con vn vincolo indiflblubile talmente, che ninnartele potrà più fepa rare, e germoglieranno da fé medefime in rofe benché chiufe in uafi di uetro, operando prodigi in' medicina*,-.«..ì.jìì^ *.i- ^u>ì -ii.qoi Da ciò fi vede come la Chimica rifoluai córpi'ne iìiòi pirmi priti-' cipij,& elementi,faccndone anatomia, in ordirle a conofcere le quialità ' poi che ciò che fi è detto delle rofe vale di tutti gl'alti-i vegetabili j E anche delli animali,c dclli minerali; benché in quefti fia più difficile li feparatione della materia pura dali*inipura,e fi richiedcano diuerf«->^^ opc ìo9 ope'rationi ; delle quali diicorrcremo altrouc ; e fi vede parimente ifi_. qualmodofi facciano le vere quinte eflen/.c, le quali alerò non fono, che vnafollanza pura liberata da ogni materia impura, e che eflfendo prima diuifii intrediucrfe fodanzc, fi fapoivna fola con vn vincolo indifiblubiie di tutte tré. Ma ricorniamo alle opcrationi de Chimici in ordine alla tramutatione de metalli j per le quali innumerabili fono grinftrumenti, che.-» adoprano tanto Vafi, quanto Fornelli, eoa i quali benché facciano molte cofe vtili alia Medicina j in ordine però alla Pietra Filofofica_,, fé conofccflero la vera ilrada per la quale imitando la natura si de caminare, lafciarebbero da parte tante ftorEe,Iambichi, Vafi circulatorij, oui FiÌofofifici,Vafi di Ermete, forni d'Atanor, forni otiofi, di fafione, di r!uerbero,dicalcinatioae, di digeftione, e che so io 5 ne fi feruirebbero di alcun fuoco violento,con cui vanno in fumo i denari, e le fperanze di nioiti,refi:andogli la fola caligine nel volto, e la triftezza nell'animo d'hauer coni mantici foffiato viadal cruciuolo il mercurio, e I*crodallaborfajmentre pazzi credono alNume delle bugiejeftimano che vn Dio de ladri uà per arricchirli. Ducpoifonoleihade perlcquali procede la Chimica, in ordin,; .a òi n'incontro volendo tramutare il piombo in argento vino, fi metterà il piombo invnvafo di terra, che non fu vetriato, ma molto ben lutato ; vi fi mette lopra il cape]lo,nella parte fuprema del quale fia vn piccolo forame, e fcglVnifce vn gran recipiente, in. cui fia buona quantità di aqua ; fi colloca fopra vn fornello à vento,e quando dal fupremo forame predetto incomincia ad vfcire il fumo,fubito fi chiude con diligcnra,efiaccrefce il fuoco potentemente j poiché in tal modo il piombo fi difilla conuertito in argento viuojmadavna libra di piombo non fi caua più di quattro oncie d'argento, viuo . . ^^^u ^.y, ^ ^ Ouero piglia calce di piombo, fatta come fòpra con ilfale,o falnìtro, gettala in aqua bollente, fi che la calce deponga tutto il falt-^j poi feccatafi metta in aqua di fale armoniaco difloluto^ in cui fia alquanto di cake di fcorze d'ouo, e chiufa ogni cofa in vafo di vctr© fifepelifcafottoiJ fimo per i^.giorni^e ritrouerafsi il piombo mutato in argento vino» :L^c?ì! ; '-'-;' /^rr-y}} li 023!J.'": ., Ff Tir. TRAMVTATIONE P tD/ SitAgno in aArgcnto, Rendafi vn poco di ftagno d'Inghilterra fino,e purgato, fi chiuda invna palla di creta tenace, cioè, fi luti tutto d'intorno la ftagno con luto fortiIIìmo,che non crepi al fuoco. Poi fi Hqucfaccia vna buona quantità di argento in vn crogiuolo; all'hora fi metta la palla di cicta,ofia (lagno lutato, e prima ben caldo, acciò non crcpi dentro Targento; et acciò fi fommerga nell'argentoliqucfatto,convn ferro vi fi prema dentro a poco a poco, e vi fi tenga immerfo per meno quarto d*hora incirca; fi leui il luto, e ritrouerafli lo ftacrno mutato in vero argento; mafiauuerta,che quell'argento in cui fu immcrfa la palla refta talmente infettato da maligni vapori dello fl:agno,che poi purgandolo, e copellandoIo,fe ne perde altre tanto,e più di quello che fi è guadagnato; non rcfta però che quefta non fia vera tramutatione, poiché non fi può dire, che lo ftagno penetri per la creta nell'argento, ne che l'argento penetri ou' era lo ftagnoj ma il folo odore dell'argento comunicato allo ftagno penetrando lo muta in argento,e l'argento vicendeuolmente riceuendo i va pori dello ftagno refta infettato da quelli; onde chi ritrouaffcjil modo di riparare quefto danno con purgar prima lo ftagno da quelli alici maligni, ò eoa aggiongere all'argento alcuna cofa,chc rcprimefse tali vapori, hauerebbe vn gran fegrcto. TRAMVTATIONE r -1 .1 D*QAr gerito viua in vero Argenta . • .-t /-» o P Rendafi del Minio,ouero altra calce di piombo; fi mcfcoli con eflaCinabro,ouero argento viuo,e Solfo, de quali fi compone ilCinabrojfi metta in crogiuolo, e fé gli dia fuoco prima moderato, ma quando comincia à fumare, e volar via Targcnto viuo con il folfo,fe gli dia fuoco potentiftìrao ; reftarà confumato tutto il folfo,eIa maggior parte dell'argento viuo,reftando nel crogiuolo il piombo, il quale fé fi metterà alla copella, confumato che fia, reftcrà qualche parte di argento, ma non tanta che l'opera fia compenfata dal guadagno., % Quefta,& altre fimili fperienzehò prouate,& vedute con gli occhi chi miei, onde non mi rimane alcun dubbio intorno alla poiTibilid della tramutatione de metalli: Refta ch'cflaminiamo vn altra che fi ftiaia tramutatione di ferro in rame, TRAMVTATIONE di ferro in rame, SI prendano laftre di ferro, e fi pongano in aqua vctriolata, nella quale ftandoimmerfefi irruginifconojfirada quella rugine,che farà poluerc roifa,!! fonda in vn crogiuolo, e troueradì effer^-r rame perfetto. Quindi fanno il medefimo effetto alcune aque ch^-» naturalmente fono vetriolate, perche paffano per miniere di vetriolo; come fono quelle di vn fonte non molto lontano da Leiden, e di vn altro appreflbilCaftclloSmolentzchi della Mofcouia; Del quale Giorgio Agricola Lik ^. de natura foffìlium dice quefte parole; Expuieoextrahimr atjuay ^..,:. '^i^^ì 'j^ai^m^ÙB cij^nz^ Aggiongo, cheDio perla Prouidenw, che ha' Ù^r^ìffi^m^.h\h:, mane non deue facilmente. pcirinecter.e,,;ch,qiOiQltia!qiii{yjn^,qtìe^*»>; art«,e particolarmcnteiiPjenjci.pi gfandija:ehfifi ^(geifltp^tefe^'ei cA't?à'a)^ter€Q!n a chi più li pia(;e,non'perme^9r>d0r; pwomaÌ€hefifascci;atCQmune:.3:tmiolti .. Aggioflgafijcbe-ai cioreoftr., cQirre il pericoloni Qhi, la pofl[4edLe>fe peraiiuemura fijrifapfta>«:diC(Hmalarla, .0 z^? i.nc::^'b " • r Sì-ì r ijii! '••^-Yir/.| Hor per direalcuna cofa del modo,chc fiha à tenere per aqui», ftarla jfi de* auuertiie,anzi tenct per fermo, ch'ella tutti» cplìjQ/le ìa (puerili due precetti, che. commuaemente danaoi maeftn^ f^ j InxHmfiat n/olatflii; ^ iterftm/VQlaitile fiat fìxum : E voglioBKir dire,. chr dall'oro oéairargenta fi- Qawi la femcnza, difsolueado l'oro, o 1' e*.-: Gg argen uà ar»cnco,che fono corpi fifìfìjC permanenti alfuòcov perilche è aeceflario ch'cfib meftruo,e liquore apra i pori dell'oro, e vi penetri dentro amiche«olmente, feparando eflTa foftanzi vmida dall'altre parti pura, ed illefa ; e per confeguenia il mef— iruojfe ha ad operare in quello modo,conuienejchefiavna foftanza tenuiffìma,acciò pofta entrare peri fottiliftìmi pori dell'oro; ed in oltre congenca all'anima medefima dell'Oro, acciò non Toffenda,nela diftrugga,maamicheuolmcnte,e fimpaticamente penetrando fi vnifca con elf3,e la fepari dall'altre parti; In tal modoqucfta foftanza, che vnita prima alle parti impure reftaua fifia, e pertinace al fuoco, slegata da efle diuenta volatile, et a fuoco leggiero afcende, ediftilla per il Lambicco, come più d'vna volta io ftcfso ho vedut» per ifperienza. E quefto è il far diuentar volatile quello ch'era fifTo, nel che ftimafi efsere la maggiore difficoltà di tutte l'altre» talmente, che afserifcono comunemente eftere più difficile il diftruggere l'orOjche il farlo,' poiché quando alcuno habbia ri trouato quello meftruo, e ridotto l'oro in prima materia, diftruggendolo coii_p mantenere intatta lafua anima, onero Temenza, riefce facile l'adempire il fecondo precetto, che confitte in fifsare di nuouo queft'ani ma> 119 ma, che di fifsa è ftata fatta volatile, il che fi fa in quefto modo. Pigliali Oro finifsimo, fi riduce in calce, cioè, in poluere impalpabile rubicondifsima, ilchefi fa in molti modi, come diremo aitroue, ma particolarmente diftillandoli d'addofso più volte Targento viuo prima purgatifsimo » Sopra quefta calce di oro purifsima, fi va mettendo a poco a poco la fopradetta anima, ò fia fcmenra, ò prima materia di oro, tenendola in vn calore moderatifsimo dentro vn vafo figillato ermeticamente j quella imbibitioncjche chiamano inceratione, fi dee continuare fintanto che la calce d'oro non poffa più bere altr'anima, il che farà dopoché vna parte ne hauerà beuutecinque,piìì ò meno conforme farà più ò meno pura j in quefto modoqueiranima,ch'cra volatile, vnita a poco a poco con il corpo fifsoanch'efsafivà fifsando, ma fi de'auuertire diligentemente d'inftillarla a poco a poco,lafciando fifsare la prima parte, auanci che fi aggionga l'altra ^altramente in vece di fifsarfi farebbe diuenrar"^ volatile anche la parte fifsa, cioè, la calce fudetta j cosi refta nutrita l'infante come parlano i Chimici, per poi pigliar forze, e coronarfi monarca di tutti i metalli; il che fa mentre fi va continuando, ^ accrefcendo graduatamente il calore, fin tanto,che la materia diuentirubicondifsimacomc vn rubino, s'ella è pietra fatta con l'animi.. diOro,ouero candidifsima come vna perla s'ella e pietra fatta eoa l'anima d'argento. Et all'hora quefta pietra non teme più alcuna^* violenia di fuoco, anz.i da cfso piglia maggior vigore, che però la chiamano Salamandra . Efscndochc dunque in quefta pietra cinque parti di foftanza feminale purifsima fono perfettamente vnite ad vna foia parte di Oro puro, come cinque anime in vn fol corpo; ella_» aquifta virtù di moIti.p.'icarc,e produrre frutti copiofi sì, che vna fola parte può tramutare cento, et anche mille,e più parti di altri Metalli imperfecti j non può già perù tal virtù moltiplicatiua crefcereiiL-. infinito, come afserifcono communemente ; ma della moltiplicatione della Pietra in virtù, ed in quantità parlerò altroue. Refta dunque folo di ritrouare vn meftruo proportionaro alla folutÌGne,e riduttione dell'Oro in prima materia, il quale dico,che ■OH è altro che vna fcmenza dall'Oro medefimo : cioè, vn vmido radicale metallico fottile,pefantc>e pingjje, il quale fi ritroua in molti corpi metallici, ma diftìcilc a fepararfi puro, netto,cd intatto; ncll'argcmoviuofolamentefiha più copiofo^e più puro che in alcun'altro corpo,cccetto che neiroro,e ncH'argento medef{mo;onde chi vuo-i le operare più accertatamente, e can,iinare per la; vera ftrada,fton fi ferua d'alcun'ahra cofa,chc del mercurio,^ dell'oro ; perciochc_-> quefti 0 2I ^uefti fono i corpi più amie abili, fi come in Cielo; gx';*ì and hr \nLi>'.terra; che però vno s'accofta volontieri all'altrOjC l'abbmcd.i*,. «i^^fé Tinlìnua, come vedcfi per ifperienza ; E cioèsì vcro,clie'altlitii'ra' ifnperfcttej e nel fu« prim/> ftifcere,cd jnquéftéla Natura ha beri si difpofta la fetncnza, ma non ha antera -j^ per per mexzo di efsa' maturato il frutto ^ Perciò non efìfendo ancora quella fé menza,o prima materia deiroro, ftrcttamente legata all'aU tre foftanze, con cui formafi l'Oro perfetto, e maturo ^ ci fari facile dottenerla,eilraendola da ogn'altrafothnza minerale Impura. Non dirci quefto, fc io mcdefimo non hauedi hauuro fortuna di hauerc alqnanta di vna fimile miniera, dalla quale con noa molto artifìcio fu canata vna poca quantità di certo liquore aureo, che era la vera fcmenià di oro, ma per non cffer conofciuto, tutto fu confumacocon g'^ttarlo fopra vna quantità di argenco vino bollente, il quale tutto fubito congcloflì, et accrefciuto il fuoco,, refta* l^ono cinque parti di efìb perfettamente fido, cioè» a dire vna inciz' oncia di quei liquore fifsò, due oncie e mezza di argento,viuoj che fé foffe flato n)aggiormentc depurato, e poi congionto come anima al fuo corpo proportionato, farebbefi con eifo potuto formare la vera Pietra j ma fm hora non ho mai potuto ritrojuare altra miniera fimilq a quella, e perciò atta a quefto fi nc^ Ch'intende bene quanto fm qui (i è detto non ha bifogjjo d'sicro, ckedi elfer fauorito dalla Diuina Prouidenza si,che gli pei:aii:?:ta_,> ilritrouare vnafimile miniera di oro, ouero d'argento; ma ricordili,! jehe quello è dono fiagolare di Dio, che fùole concedcFlo folo a ^erfone di retta intenciOne, acciò non ne nafcano que'difordini,fhe come fi è detto kreUhcro co^jtcarij a iiìoi.jleUaj4ia.PxQui--jdenza, :)'>.-.-ìì-v'I r-;--:-.:? •^: ;-:n?1 p-5n'i:n:c%i:» Retta che per vltimo fi rifponda alle obiettioniiche fogliono fjrdcontro, la poflìbilità della tramutationp,benchequì non farebbe neceflfario hauendone già vedutala manifefta ifperienza. Dicono prr-i?. jìiieramcnte con S. Tomafo i.fent, di/ì.j.qua/i.^.art, i^SiC i^e Pot.(j.6, artt I. con Egidio in ^.^uod^ q,S, Auerroe m prìmum ltl>r»m de gin,amM,Si Auicenna in Comm.Meiheor, che Toro fatto per artt-> chimica non è vero oro 3 poiché la vera forma dell'oro non fi può» introdurre nella materia fé non per mezzo del calore Celcfte, e folare ; onde effcndo il calore del fooco, di cui fi feruono i Chimici molto diucrfo da quello feguita, che non pofla ge-nerare vero Oro. Al che rifpondo primieramente, che il calore del aoftro fuoco jioaè infpecie diuerfo da quello del Sole,e delle Stelle, eflendo-^ the produce molti effetti del lutto fimili,, come moftrerò di— : ftejfamcnte nell'Arte Maeftra, e per confeguenza può produrre ancor Toro . Aggiongo, che con i raggi del Sole difcende fino alla . l^oflra terra vna puriffima (oftanza Celefle,come; dirò altroueyla,^ ^laqof Hh quale 122 quale fé alcuno ritroHcrà modo di pefcarla in quefto vafto oceano dell* aria,c ridurla in liquore vifibilc, egli haucrà la chiauc di tutti i fegreri, e farà quafididì padrone della natura, che di vna tal foftania fi fcruc per fare tutti gl'effetti 5 e mutationiche noi vediamo marauigliofiin,, quefta noftra baila terra. *'^»j ^J ^ in fecondo luogo oppongono con Egidio,c he quelle cofe, le quali fono perfette in alcun genere, hanno vna fola determinata caufa della fua generatione j l'oro tra tutti i metalli è perfetti (Timo j dunque io-. vniol modo fi potrà generare, cioè in quello che adopera la natura j donquc non fi può generare dall'arte. Rifpondo che l'arte chimica non fa che Torojacui ella coopera,non proceda da quella caufa,c he dalla natura gl'è ftata determinata, parlando della caufa prodìma ed immediata j poiché quefta èia fetenza dell'ore, la quale opera naturalmente anche quando Tarte vi coopera; onde il chimico altro non fa che cauarc dall'oro la femenza, et applicarla a corpi proportionati, con i quali vnita poffa render il frutto mulciplicaiojin quel modo, che l'agricoltore non produce egli i frutti,ma difpone,eprcparala terra,e la fcmenia vncndoli in modo, che fruttiBchino, TerjQ oppongono che il luogo della generatione de metalli è determinato in tal modo,chela natura li produce fempre nelle vifcerc-^ della terra, doue concorrono tutù gì* influffi celefti,come a centra commune a tutti j e per confeguenia l'oro non potrà generarfi fuori delle vifcere della terra, Rifpondo che il luogo della generatione dell*oro non è tanto determinato, che non (ì polla produrre anche fuori della terra, purché vi fia materia difpofta,e proportionata a riccuere in fé la la femenza dell'oro j(ofi> le altre femenze di erbe,o piante portate fopra i tetti delle cafe, pur che ritrouino terreno, o materia in cui germogliare producono ifuoi fol iti frutti. Quarto, Dicono che l'arte non può mutare vna foftaniain vn altra diuerfa in fpecic : poiché il far ciò appartiene alla fola natura. Rifpondono alcuni che vn metallo non è diuerfo in fpec ie dairaltro: ma benché fia diuerfo,dico non cfler l'arte che lo tramuta, ma la natura aiutata dall'arte j poiché l'artefice altro non fa che applicare vna_j materia all'altra, dalla quale debita applicatione prouitne, che vna foftanza muti in feftefla l'altra, a cui fu congionta dall' artefice. Coiì lafemenza dell'oro congionta come conuiene al mercurio, lo tramuta in oro, in quel modo, che la femenza di grano congionta alla terra tramutala terra medc^ma in grano «Quindi fi dice, che Tarte non fa l'opere roperechc fa la natura, ma folo modifica la natura medeflma, dcterminandt)Ia ad operar? più prefto,© più tardi,in queflo,o in quell'ai* tro modo ; come ucdefi in molte arti, e particolarmente in quella dell* ineftare un albero fopra l'altro . ' epe parimente quando dicono non poterfi dall'artefice far l'oro, per non fapcr egli la proportionedelli elementi che lo compongano, ne il temperamento delle qualità, ne gli ftrumenri, de quali la natura fi fcrue : fi deue rifpondcre non edere neceffario il fa pere tali cofe : poiché fatte non opera immediatamente gl'effetti, che fono della natura, ma fole» li porge la materia, 1« quale fc prima fia ftata preparata, «_-> difpofta dairarte, U natura opera in efifa più facilmentCo ed in modo ftfaordjnariovsrr rs«Rv pi Finalmente o,ppongoiio alcuni che noi non potiamo fa pere fé l'oro chimico fia vero oro', con laverà forma foftantialc dell'oro: poiché dicono potrebbe cflere che faflTero mutati folo gl'accidenti, onde fQflcoroapparente.afìini^iO' >fl ^« Al che rifpondo che nelle cofe Bfichc non fi può hauere maggior ccrtewa che quella che ci danno concordemente tutti i fenft, i quali conofconoU foftanz,e dalli foli accidenti : onde quando apparifcono tutti gl'accidenti di vcfo eroj l'intelletto naturalmente deue aflerfrc ch'egli fia vero oro, quando la fede diuina non li diceflc il contrario, Aggiongo che loroficonofce più intimamente che dalli accidenti cfterni, facendofcne varie proue,c faggi che da Gebro fi riducono a noue, e fono Tinfocarlo, l'eÀinguerlo, il fonderlo j IVnirfi ch'egli fa ali*argento viuo, poiché il vero oro fé glVnifcc più facilmente ; il mcfcolarlo con materie adurenti : il porlo fopra vapori acuti ; il metterlo alla Due forti di Medicamenti diftinguercmo nell'Arte Maeftra,doue irattaremo della Medicina ; IVna è di quelli i quali operano per fimpatia che hanno con gl'vmori veneBci,che fparfi per il corpo cagionano le infermità, quefti fono i Medicamenti purganti, che tutti ihanao del vclenofo,anziènece(farioche habbiano in fé foftanra ve» nefica per poter efser purganti j Impercioche per la fimpatia, che hanno con l'altra fimile foftanza venefica fparfa per il corpo infermo.ìa rifuegliano, la muouono,e la tirano a fé, onde laNatuta del corpo humano per mezzj^ delia facoltà efpulfiua fcaccia poi dal corpo con il Medicamento anche la foftanza venefica, che cagionaua»» l'infermità; cosi ilDiagridio,per eflervn veleno, il quale ha fimpacia con Thumore venefico picuitofo, prefo per Medicina s'infinua^ Uiagneticamentc nella pituita, e fi vnifce con efia rifuegliandola_*, commouendola,& eccitandola, onde la Natura fentendofi opprefla da doppio remico tumultuante, e minacciante Teftintione del caler naturale, quefto tutto fi raccoglie, fi vnifce, e refiftendo fa forza al oemicoje lo difcaccia da fc; onde auuienejcheilDiagridio vfcendo dal corpo tira feco ancor l'iltro veleno, a cui fi era vnito fimpaticamente. U aiedefimo accade del Rcubarbaro in lordine alla flaua bile. bile, deirTurbit, ElIeboro,&c. in ordine all'altra bile, e cosi di tutti i Medicamenti purganti, i quali non purgano fen za contrailo con la Natura,e perciò fcmpre con debilitamento delle fue forze. L'altra forte di Medicamenti è di quelli, li quali operano per anriparia che hanno con le qualità venefiche, e maligni vmorifp^rfi per il corpo : Quefti per confeguenza hanno fimpana con la Natur^^ humana,cioè,J dire con il calore naturale, e con Tvoiido radicalt»ji; onde vnendofi a quefti,& accrefcendofì le loro forzc,iì accendono CGntroiInemico,rinueftono, e lo difca^ciano lontano dallarocca del cuore, et anche del turca dal corpo, che è come la città, di cui impadronito rentaua (orpendère la fortezza del cuore . Quindi è, che_^ quefta feconda forte al Medicamenti purga da maligni, e velenoii vmori in affai diuerfe maniere j^ poiché fc tali m.aligni vn?ori, e velenofe foftanze fono fpiritofe,e fottili le purga per i pori fcaccìandoli dal cenrro del cuore alla circonferenza, talvolta per infen{ibMc;_^ trafpiratione,e quando fono più vmidi p fudore;Sc poi fono vmid!,fTia più grollì, li fcaccìa,e purga per orinale finalmente fé fono groflì e men vmidi purgali per feceflo; ladoue la prima forte dì Medica^ iTienti purga Tempre pelfeceffo,o per vomito,rare volte per orina, e mai per fudcre, ne per infenfibile tranfpiratione. Di qui nafce ancora, che i primi debilitano la Natura perche li fono contrari) 5 e purgano con violenza,e con fconcerto delli vmori, e del naturale temperamento; ladoue i fecondi più tofto fortificano, e corroborano U Natura medefima,a cui fono fimili, e purgano foauemente, e fcKzji rurbatione, particolarmente t^uando operano per infenfibilejraBfpiratione, o per fudore . Da ciò che (ì è accennato,e fi dimoftrarà diffufamente a fuo luo^o, ognVn vede quanto piìì ficuri,e gioueuoH fiano i fecondi Medicamenti, che i primi ; nulladimeno perche i primi fono più facili arirrouarfi,e no richiedono certe particolari preparationi,e perche operano potentemente ; perciò fono più in vfo de gl'altri ; non operò, che non fi debbano più tofto adoperare i fecondi j! poiché quefti fé noii danno tanta virtù alla Natura, che bafìi per difcacciare dai corpo Tvmor vitiofo, almeno non offendono la Natura medefima ^ e replicaci più volte finalmente a poco a poco confumano affatto il nemico. Ma quello che quifideue auuertire, e perii che ho prcmeffo quello difcorfo,è, che la prima forte di Medicamenti velenofi, ò fiano catartici,© diurerici,o vomitorij, non poffono mai effere Vniuerfali sì^, che fiano applicabili ad ogni forre d'infermità; poiché purgano folo da quel veleno particolare, con cui ciafcun d'cfli ha fimpatìa^ma ai^ I i l'in l'incontro gl'altri Medicamenti, i quali fono congcnei al c«loi naturale, ed vmido radicale, fono vniuerfali, e curano ogni malaria j percirche altro non fanno, che accrefcere leforie abbattute, e rinuigorirle, acciò la Natura medefima pofla fcacciare da fé ogni forte di vmori a lei pcrnitiofi. Di tal forte fono gl'elixiti, i magifteri di perle, o di coralli, i giulebbi gemmati, i Bezuari j ma benché qucfìi in alcune forti d'infermità facciano alcun buon'effetto, pur e he fiano fatti con quell'artejchc fi ricerca, nulladimenovedefi per ifperienza, chelo più delle volte no hanno virtù fofficiente di efterminare l'vmore morbifii-o^chc però 1 Medici ricorrono alle medicine purganti, che hanno del veleno^ perche non hinno cognitione di altro medicamento, che operi cfficscementc,e fia infieme congeneo alla Natura, onde iìa liberata dal male,fenxareftare debilitata dal medica mento,an?LÌ fenia pericolo di reftarne opprefla, Per tanto io pretendo di palefare qui vno fimile Medicamento, il qualeperche,comcfi è detto, operando con dar forze alla Natura, e convna Virtù Balfamìca contraria ad ogni forte di qualità venefica, o morbifica riefce vciliflìmo in ogni genere d'mfermitàjperciò le diedi nome di Panacea, che vale quanto dire Medicamento Vniucrrfale, il quale fi prepara in queftomodo^ Si prende Salnitro ottimo, e ben raffinato^ fi mette in vn Vafo di ferro a liquefare lentamente al fUoco ; dopo, che farà liquefatto, fi piglia carbone di legna dolce peftato minutamente, e fé ne-» getta fop-a vna poca quantità, il quale fubito arde, e fi confuma, all'hora fé ne mette vn altro poco, e dopo quefto dell altro, fin che a poco a poco il Salnitro fi fifsi,fi fa di colore alquanto verde, bc il carbone non fi folleua più a modo di fiamma, come faceua per auanti: All'hora fig.'tta ji Salnitro fufo entro ad vn mortaro di pietra_«, che fia calda, acciò non crepi j raffreddato che fia refterà bianco come pietra alabafl:rma,e fragile come vetro, fubito fi pefb3,e la_. poluere fi diftende fopra laftre di vetro,© piatti di maiolica, li quali fi tengono efpofl:iairaria,m?^ in. luogo doue non gli pofla cader lopra ne picggia, ne ru^giada,ne fi«no battuti dal Solej deuono collocarfi alquanto inclinati, e pendenti, e fotto fi dee mettere vnvafo per raccoglierne il liquore, che vi caderà dentro j poiché dopo alcuni giorni attraendo il Salnitro gran quantità di aria firifoluerà in_. Ogìio, e per longo tempo fempre andcrà gocciando in liquort^ ; che fé incontrerà in ilagione opportuna, farà talvolta fei,& otto volte più in quantità, e pefo di quello, che. fofTe il Salnitro medefimo . Queft' C^eft*^Oglio,e liquore di Nitro è vn mezzo efficaci/lìmo per eftrarre potentemente, e con marauiglia ogni elìcnìa da tutte le forti di miftij particolarmente fc farà rettificato, e ridotto a maggior perfetcione nel modo, che dirò altroue . Intanto prendaci quattro, o cinque parti di eiTa, ed vna parte di antimonio del più perfctto,cioè, di auello che è più vicino alla miniera di oro, nella quale egli fuol gè* nerarfijeiiconofcedal colore, che in qualche parte rofleggiajfi ponevano m vna boccia grande di vcEro,the refti vuota almeno due terzi, e rantimonio fia macinato fotti lmente,cd il vafo chiufo per modo, che non rcfpiri: lì tenga iodigeftione a calore moderato,come farebbe a quello della fiamma di vna lucerna, fin tanto che il liquor.; del Nitro,che fopra nuota all'antimoniojfia colorito in color di oro acccfo, o di rubino : all'hora fi vuoti fuori del vafo il liquore, fi coli per carta cmporctica.e fi metta in vn altra boccia co collo lungojvi fi metta fopra altret3ntaaquavica,chefiafini(fima,c lenza f lemma, relUnJo la maggior parte del Vafo vuota, e fia ben chiufaj fi tenga per alcuni giorni iadigeftionc a moderato calore,finchc l'aquavita tiri afe tutta la tmtura, ed efscza d€irantimonio,peroc he refterà il liquore del Nitro nel fondo bianco,echiaro,e tutta la tintura rcfterà vnita all'aquavita, che fempre galleggia fopral'oglio diNitro;fi decanti dunquc,e fi fepan l'aquavita daU'ogliof'ilquale è buono come prima per reiterare la medefima opcratione ) e la detta aquavita fi ponga in vn Lambicco, e fi diitilli foauemente, finche ne rimanga folo vna_. fluinca parte incirca, nel Vafo inficme con la tintura, et eflenza dell'antimonio; Overo fi caui tutta l'Aquavita, fino che rimanga la fola foftanza, dell'antimonio a modo di fale fufibile.^. Quella è la noilra Panacea di marauigliofa Virtù per ogni forte d'inférmità,dellaqu.ilc fé è reftata in liquore fé ne pongano cinque, ofei goccie in liquore proportionato alla malatia,o vero itL* brodo,© Vino } ma fé fi è ridotta in foftanza confiftente,comc fi è detto, fé ne pongono trc,quattro,o cinque granijconforme al bifogno; auuertendQ, che l'alterar la dofe,& accrefcerU molto più non può cagionar dapno,anzi è neceflario quando il male è pertinace 3 poiché in tal cafo fi replica più volte pigliandone femprc maggior dofe tre volte, o quattro alla Settimana; ma nelle infermità ordinarie dopo due, tre; o quattro prefe gì* infermi fogliono guarire j ed in quefto modo io ho veduto rifanare moltiffime pcrfone, che hanno prefo quefto Medicamento, da ogni forte di malaria, particolarmente da cjuelle che erano più inuccchiate, e più difficili a curarfi, come dalla febre cuartana, del morbo Gal ii8 Gallico daJIa febre Etica, dairHid»opifia,e {imill : -iNfe foie gioua per i n-;ali intcrnuma anche per gl'efterni applicato a modo cii Baiamo lite vlccri,cancrenc,ferite,e limili. E paiimente'vtile alli diffttii della Vifta, alla {ordità,e fimilr,rpa ottimo' riefce per lineai caduco,e per ogni infermità, ed indirpofitiór.e del capò, e dello ftomaeo, poiché qiitllo viene mirabilmente confortato, e quefto corroborato a bea d'gcrire. Ma peTì,che la feconda differenza (la maggiore della prima di due vnità,e fnnilmente la terza della fecondale, come fi vede nelle pofte differenze i. 5. 5, 7. &c. La terza proprietà nafce dalla feconda, et è, che duplicandofi la^ radice quadra di alcun numero quadrato, et al numero prodotto a^ giongendq vna vnit3,(; ha la differenza tra cffo numero quadrato, e l'altro proffimo maggiore; onde tal differenza aggionta al quadrato minore ci dà il quadrato maggiore, così la radice del numero quadrato 4. che è 2. duplicata,& aggionta vna vnità fi ha la differenza 5. che aggionta al 4. ci dà il quadrato 9. proflìmo maggiore. Alfincontro, fé duplicaremo la radice di alcun numero quadrato, e^ dal prodotto leuaremo vna vnità haueremo la differenza tra effoqua^ drato, e Taltro proffimo minore. Ir, quale detratta dal quadrato maggiore haueremo nelrefiduo il quadiato proflìmo minore j cosi duplicata la radice 5, del quadrato 9. haueremo 6, da cuileuata vna^ vniti refterà 5. cioè, la differenza tra p. e 1* altro quadrato minore 4. i:f La quarta proprietà nafce dalla precedente,& è, che fé noi diuideremo la differenza tra due numeri quadrati proflìmi ( la quale come fi è detto è fempre vn numero imparo ) haueremo due numeri l'vno maggiore dell'altro vna fola vnità j Qi il maggiore farà la radice del qua quadrato maggiore, fi come il minore è la radice del quadrato n^inore;ccsì la differenza tra 4. e p. che è 5. diuifa ci dà a. e j.che^ fono le radici di 4.6 di p. Porto quello fi proponga vn numero,di cui fi cerca la radice qua-" dra ; quale per ritrouare fuppongo,che ci^ fiano note alcune radici di numeri perfettamente quadrati facili fiì me. Per cagion' di efcmpio oon'vno sa che ice radice di 100. che lo.eradicedi 4oa.che 30. e radice di 900. e 40. e radice di 1 600. &c. Sia dunque propeso il numero 531. di cui cercsfi la radice quadra. Prendafi vn numero quadratodtili già noti,il quale fia minore del numero propofto 525. e quefto fia per efcmpio 400. di cui fappiamojche la radice è 20. La differenza tra il quadrato 400. et il profifìmo maggiore per le cofe fopradettefarà 4T.cioè,il comporto della radice ventÌ5del numero quadrato 400.6 della radice 21. del numero quadrato proffimo maggiore; qucfì:a differenza 4i.fi aggionga al quadrato 400. 6^ hauerem.o 441. Di nuouo la differenza,tra44i.dicuila radice e it. et il quadrato fcguente,di cui la radice e 22. farà 45. quefta aggionta al quadrato 44i.haucrcmo 484. fimilmente ladifterenza tra 484. &il quadrato feguente farà 4 5. eioè5maggiore diievnità della precedente, la quale aqgionta a 484. haucrenio 5 29. che farà il numero quadrata proffimo minore del numero propofto 552. la dicui radice e 25. detratti dunque 529. da 552.reftarà j.con cui fi forma il rottOjeffcn^ dochc il numero propofto non è quadrato perfetto. Ma più facilmente faremo Toperatione in quefto modo.Ritrouaca la differenza tra il numero quadrato prefo 4oo.eraltro proffimo magoiore, quale fappiamo edere 4 1 . quefta fcriueremo a parte,e fottodi effa l'altre differenze per Oidinevna maggiore dell'altra di duevnita> comevcdefi nell'efempio qui porto; dopo aggiongercmo la prima-. differenza,cheè 4T. al quadrato 400,3! prodotto 44i.aggiongeie« rno l'altra differenza 43.6 cosi feguiteremo fin che haueremovn numero prolTìmo minore al numero propofto 5 31. poiché l'vlcima differenza aggionta indicata da l'altro lato la radice d^l numero che fi ^er ca. ai. 41. c^on .^ .i/ aa. 43. -:Sion 23. 45. 24. 47. a M ^« ^-k «if ■•* r^*? ?* *t ncj Radici Differenze. i omb 6 lì 532. Quadrato. • \> aioi^'^^x.fn 23. Radice. in Il fimilefi può fare per mcizo della fottrattionc j poiché fé noi doyeremo ritrouarc la radice del numcso 2 8p. potremo pigliare vn numero quadrato maggiore delli già noti con la fua radice j per cflempio rifteflb quadrato 400. Il cui radice nota è zo. e la differenza tri elfo, et il quadratoproffimo minore perle cofe già dettefarl ^9. qaefta fottrattada4oo. rcftarà 5 5 i.di nuouo la differenza tra 551. la cui radice è 15).& il quadrato proflìmo minore,il cui quadrato è 185. farà 57»^a quale leuatada $6 c.reflerà 514. fimilmente da queflo Iellata l'altra differenza 55» refleràil quadrato 289. onde lafua radice farà 17. Operifì dunque nel modo che fièdettodifopra,fcriuendo le radici minori, e minori lotto il quadrato prefo 400. ed in vece di aggiongerìc fi fottraggano, cerne fi vede nelfelTempio qui pofto. zo 400 18 37 17 35 Radici Differenze Quadrato iSp. Sua radice 17. Conquefta operatione farà facilismo ilritrouare la radice di qua! fi voglia numero i poiché potremo prendere qualfivoglia altro numero quadrato, di cui fia nota la radice, et il quale fia non molto maggiore, ne molto minore del numero propofto: fé è minore, fi opererà con la prima regola della fomma 5 fé è maggiore, fi opererà con la feconda della fottrattione : onde non farà mai difficile il ritrouare facilmente vn numero quadrato vicino al propofto, che ci ferua di ftrada per arriuare alla radice, che fi cerca ;fchifando con ciò tutte le operationi laboriofe, e difficili delle diuifioni, e multiplicationi, che fi fogliono adoperare nel modo ordinario di cauarcla radice quadra. Eperhaucrevn numero proflìmo maggiore, o minore a quello di cui fi cerca la radice, auuertafi di pigliare vn numero quadrato, la cui radice habbia tanti caratteri, quanti fono i punti che fi notarebbero fotto al numero,di cui fi cerca la radice, fé haueflìmo a cauar da elfo la radice nella forma ^ ©r . •^.-^ »K c-T'lTI'irr.llr'.K T /•1*i,-'^i-J ?r^-:v:'r? r^,r. n^ t^ir.'ir.t. rrn, ..A 1 I 1 « ftoric, ma ancora delle fauolc de buoni poeti, e dalla lettura di cjucfti apprenderà ràrte dell'ili iienta fé, è rìcììipirSBt-nìèlite^'Bclli fidile imagini,gualifi sformerà di ritrarre con il pcneMondta tcIa,inaàBl ìnoJo che «tllèdercrittioni poetiche vendono defcrirte.co* veri!,, 'n^ >-. ., Determinata che lara la materia, o da ltorica,otauo]>jl.-,o vera, o ideale, deuefihauer riguardo a||a rnaititu(i?ne de C'l>rpi*»difp|nendoH in modo che non partorifcanò confw(ìonc"j perciò Benché non i\ pofla ptefwiucr numero jlei^f^fìiinatòcfijcf^i fi^é|iojjq^ej|) ttìtci; rp£pi imerc in trodotalc, che fi vedano i loro propri] attef^giamcnti, difetti, fcorci, p::fi' yrcyondcnop ^Ìirtorirc'arioè0nftiflone,r'cihjndo l'vno ih gran parte n^(tipft^ di^trQ,4Jrakro, renìachei'occhti^po(ra diTcemere ciò che fi faccia i In qùèrifriódo dunque, che in vnh tragedia fi difpongono i perfonaggithcefconOin fcenatfóh tal ordine, che dalla molntudine.^ non nafcala confufione, così nel quadro non deuonfi rapprcfentarc li personaggi m guifi^t^le,-pheiVnQ-|olga all'occhio il poter godere dell* altro 5 poiché cagiona noia il vedere ififcena vn perfonjggio, cht_j pereflercon la moltitudine corfufo, non potiamo bendikerncrc ciò eh* egli operi. >Jcl che deucfiauuer^rr^di più, chetici teatro non fi proibisce i! molto numero delli attori, ancore he reftino ;ifFolIatri, e ftretti, purché vi fi veda vnitàin modo, che fé benerattioni, i moti, e gràffetticficiakuhofonodiuerfi, tutti però fia no drdmati ad vn fatto {"olo:onde nel medefinio modo, ancorché nell'ampiezza del quadro fi contenga gran molticudine di perf(/n?,& altri oggetti, dciionfi però tutti difporre in modo,che habbino vnione nella diucrfìtà delle parti; flc deuonfimai fopra vn medefinao quadro rapprc^fentarc arcioni difparatejfenEachelVnahabbia rclaticneconl'altra. Ma li come la tnufica tanto più diletta l'vdito, quanto più varie fono le vocijcrintrecciamento delle difl'onanze con le confonanzc,purche dalle proportionidcH'vnecon Tjlrre, nafca l'vnionedi tuttc,e l'armonia: e rt-ì nella piiiura, tanto più l'occhione gode, quanto più differenti fono i volti, gl'atteggiamenti, e gl'affetti delle perfonc, purché tanta diucrfità riceua vnione,concorendo a rapprefentare vn fol fatto. Pertantofideue porre gran ftudioindare vnioneall'attione rapprefentata',congiongendo con l'unità di'quefta la uarieià de gli affjtti, de gli atteggiamenti, delle pofiture de' fcorci, e fopra tutto delle fifonomiede'uolti; nelche fi ritroua molta difficoltà j poiché ogni pittore inclina naturalmente ad efprimere'nelli perfonaggi quelleiìfonomie, che ha più imprcffe nell'imaginationc, onde è ftatoofferuato che i uolti pittorefchi tengono fempre molto della fifonomia ^1 padre,della madrej o d'altra perfona più amata, e più frequentemente ueduta dal pittore ;e rari fono que* quadri ne quali rapprefentandofi molte hic« eie, l'vna non habbia la fifonomiafimile all'altra. Quindi è degno di molta lode il famofifìRmoRafaellOjche in tante opere ch'egli fecs»* difficilmente fi ritrouerà vn volto che fia fimile ad vn altro j per lo che giouerà tra la moltitudine della gente, andar ricercando nuoneSfono mie di volti, riponendoli nell'erario della imaginatione per ilrui rfene airoccafione,e cofi sfuggire la fomiglianz,a nelle fue opere j ma molto più il fapere alterare le parti che compungono il volto humanojpoiche dal variarne vna fola il tutto prende vna differente fìfonomia. Mi piace in oltre ciò che hanno vfato di fare lodeuolmentc i maeitridi queft'arte, per dar vaghezza alle loro opere con la varietà, di framefcolare con i perfonaggi humani altri oggetti confjceuoii alla ftoria,o fauola chefi rapprefenta,come animali, piante,f.ibrichedifegnate in buona profpettiua, lontananze di paefi, e cofe fimili, come PaolodaVerona,DanieI da Volterra, Raffaello, e tutti li buoni, auucrtendo però che non tutte queftc cofefidouranno accopiare sempre in vna mcdefima ftoria,ma quelle sole che à tale ftoria fi conuengono ^ per non incorrere nella riprenfione del poeta, fatta a coloro i quali perche sanno esprimer bene alcuna cosa particolare, quefta in ogni luogo, e fuori d'ogni occafione esprimer vogliono, Fortalfe cupreffum Scis [ìmulare, . ., Aquefto medefimo fine di cagionare diletto con la varietà, et anche acciò il pittore dia faggio di molto fapere con vn fol quadro, doiirà ' procurare, che alcuni de'perfonaggi dipinti (lano con vaghi, e naturali panneggiamenti coperti, altri m.oftrinonuda la fchiena, altri il petto, chi le braccia, e chi le gambe,ricordandofi però fempredinon offendere gl'occhi pudichi con nudità difdiceuolirfimilmente alcuni volti faranno dipinti in profilo sì, che lì fcorga folola metà, altri colloche-. ranno piegati alquanto, al tri chini, altri folleuati al cielo : hauendo in ognicofa riguardo alla naturalezza del fatto, et alla verità delJ:a_, ftoria, a cui non fi deue pregiudicare per accrcfcere la varietà, coa-=. giongendo inficme cole difparate,e perfonaggi vifluti in tempi diucrfi: come fanno alcuni che dipingono il Serafico d'AìTìfi {opra.* il monte caluaiio prefente alla croccfiffìone de' noilro Saluatore 5 allegando p fua difcolpa quel detto trito,nìa da cfiì mal intcfo diOratio, Viiiori'tus atijiie poetis ^idlihet auiiendi femper fu,it aqua p^oie/ias. Lodo in oltre che i pittori imitino li poeti nelle loro iperboli, e poe^. tici ingrandimenti 3 il che potranno fare conia fimilitudine,eparago M m ne, '3« fic,ouerd conil oontrapofto,come appuntoperlopiufogHono fare ì ppcti: per cagione di efempio (e tu vorrai far comparire vn huoniQ nano con la fimilitudine, lo dipingerai in età virile, con la barba, c^ membra grofle:& apprefso di elio dipingerai vn paggio,0 altro unciullo in età di fette, onero otto anni, con le membra fottili,e delicate, il quale ecceda più torto che manchi dell'altezza del nanojo pure potrai poruialato vn cane che lagnagli in grandezza, o cofe iìmili: et infieme lo potrai far comparir nano per mezzo del contrapolìo, collocandoui vicini altri huomìni, i quali egli con la mano non gionga a toccarli la cintata 5 Per quefto contrapofto iperbolico fu lodato Timan|te,il qualedipingendovn ciclope, che dormiua in vn picciol quadro, vi fece apprcifo alcuni fatiti, li quali abbracciauano il dito groflb dell* adormentdto,con jlqual contrapofto, benché la figura del ciclope fof-^ feriftretta inanguftatela,compariua nulkdimeno grandiffima,' cos^ |a bckàdivna donzella, (piccherà maggiore vicino alla deformità di vn fatiro, ed il candore di vn volto europeo, poftp al confronto di vn etiope j poiché il grande, ed ii piccolo, il chiaro, e l'ofcuro, con tutti li ^Itri accidenti, coniparifcono più, 0 meno dal confronto, e paragone^ ondeaffcrifconoifilofofijche feilcielo, le delle, la terra, le piante, gì* anirnali, egl'huomini con tutte le altre cofe che fono nel mondo, fi fa-? ^e|Irro molto maggiori, 0 minori, conferuando la medefima propor» ^jonc, che hanno al prefente,non comparirebbero ne più grandi 5 ne-» più piccole di quello, che hora fono. Deue dunque il diligente Pittore hauer fempre l'occhio al paragone, e proportione de gli oggetti, che dipinge non folo per di-' lettarecon gl'ingrandimenti iperbolici, come fi èdctto: ma anche per non incorrere in quegli errori, che molti commettono, mentre dipin» gono vicini a'ie c?fe, o torri huomini,ocaualii che in altezza le medefime torri, o gl'alberi vicini formontanoro almeno tanto grandi che per la porta di dette ca fé entrar non potrebbero, Habbiafi per tanto riguardo alla proportione, et ordine delle cofe, et anche alla diftanza, che ii fingono haucre tra di loro ; poiché fé noi fingeremo con la pittura una montagna in lontananza, potrerno fopra il medefimo quadro far un cane maggiore di ella montagna, nel che deucfi auuertire di non paflare immediatamente da un eftremo di uicinanza, alf altro eftremo di lontananza, ma piutoftofidcuono dipingere altre cole di mezzo, acciò fi veda una degradationedi molte parti, dalla quale rifulta quel diletteuole inganno, di far creder lontane le cof^-* uicine. Habbiafi fommo riguardo all'imitatione decoftumi,& alla natura-? lezza 139 lezza delle perfoncjche nella ftoria fi rapprefentano: dando a ciafcuna quelle membra, quelle veftimenta, quelle attieni, et afFc'tti che gli fono conucneuoli ; poiché farebbe grande errore chi veftiflc Marte con gonna feminile,eGaninniede diruido faioj o pure fé fi deffero a Rachele le mani di villano, con le guancie crefpe di rughe, et a Sanfone le braccia, e fianchi deboli i come anche fé rapprefentaflìmo Salo^ mone a giuocar tra fanciulli ; e poneflìmo nelle mani di Golia la cetra del paftorelloDauide:difdiceuole farebbe il vedere Nerone con manfueto afpetto, e con volto modello, o vero il Pio Coftantino con la-, crudeltà di Mafcntio su la faccia : e non poiTo non biafìmar quei pittori, i quali dipingono la Beatiflìma Vergine a pie della croce,totalmente abbandonata perii dolore,e qua fi che disperata ; douendofi efpri— mere in lei vn dolore grande si,ma coftante,e diuoto^quaKc la_ mo alprefente^è tanto alto, quanto è la diftanza deireftremità dcll*:^ due detipiu lujighiiftendendole braccia, eie mani quanto più fiupor*fibile; al qual fpatio parimente è vguale anche la diftanza..dci& due piedi, slargandoli quanto più fi può l'vno dall'altro. -ìir;':) '' Secondo, fc alcun huomo slargerà le braccia, ed infieme i piedi quanto fia poflìbile i n modo, che fi formi come vna croce, IVrabclico fata il centro di tal croce, fi che poftovn piede del compaifo ncll'vmbelico,e tirando vn circolo paflcrà per l'eflrcmità tanto delle mani quanto de* piedi j e tirando quattrolince rette le quali congionghinoj l'eftremità de'piedi, e delle mani fi formerà nel detto e irculovn perfetto quadrato. ] « »..». :Il volto è vguale di lunghezza a tutta la mano, cioè,al!a_, diltanza della giontura della mano con il braccio, fino all'eftre nid del dito più lungo; e fimilnienre alla profondità, che dal ventre fi llende fino alla fchiena . queft'ifteflfi lunghezza del volto, o d^lli,. mano è vna decima parte,o come altri vogliono alquanto più de!! i nona parte di tutta l'altezza del corpo: la quale nelli iiuomini Jì mezzana ftatura fuoleflere di trebraccia,o di cinque piedij e mcii», o pure (che è l'ifteffo di (J6, pollici. .'.biji^aoìsr Quarto, Il deto pollice, la lunghezza dellorecchio,'raIt?7.za della fronte, la lunghezza del nafo, e la dilUnza dal nafo daljmccicojii fono tutte trajfe vguali : quindi è,che nel difcgnare vn volto dividiamo la fua altezza in tre^parti vguali; La prima dall'infiina f:«^d. ce de' capelli fino alla fommità del nafo ; La feconda dalla fomn^iti. del nafo fino all'infima parte di efib; La terza da qucfta infima par4 te fino aireftremità del mento; facendo poi le orecchie dirimpetto al nafo,cd vguali ad elfo in lunghezza. evinto, Se fi piglia tutta la tefia dal mento fino alla fommità dei capo, quefl:a è l'ottaua parte di tutto il corpo; e quefta parimente èli doppio della diftanza^che è tra vn'angolo] dell'occhio airalcro, dico de gli angoli efteriori . Sefì:0j La lunghezza dell'occhio è vguale allo fpatio, che è tra vn occhiOje l'altro : fi che la diftanza delli angoli efteriori de gli occhi iì diuide ^44 diuidein tre parti vguali,due de gli ccchi,& vna tramezzoad c{Tì;e, tutta queftadiftanza è il doppio del nafo, i'ifìeira lunghezza dell'oc-. chio vogliono chefiavguale alla bocca; ma in realtà non ho ancora^* ritrouato alcuno che habbia la bocca fi piccola. Settimo, il foro della narice è la quarta parte della lun ghciza dell'occhio. Ottauo,dalla forcella fupcrjore del petto fino alla radice de'capclli,o fommità della fronte, vi è diftanza vgUale al cubito, et alla hrgherti..f;t Finalmente, riducendo a numeri quelle prohoVlioni, daremo rilla_. faccia parti i8,tra li due angoli efteriori dclli occhi parti 12. La kmghezza del nafo parti 6. la lunghezza dell'orecchio parti 6. dalle radici de'capelli alnafocioè al mezzodelle ciglia parti 6. Dal fcttonaio al mento parti 6. il pollice parti 6. La lunghezza della bocca parti 4. Dal fottonafo alla bocca parti due, l'apertura daila narice parci vnaj dalla bocca al mento parti ^. Il cubito parti 50. il petto parti 50. claiia fommità delia tefta, alla fommità della forcella iopra il petto parti 56, la lunghezza dell'occhio parti 4. La diftanza tra l'vn' occhio, e raUro parti 4. dal mento alla fommità della tefta parti 24.13 mano parti i8. il piede parti 20. tutto il corpo parti 180. Quindi non può liare come bene auuertifce Filandro ciò che dice Vitruuio, cioè che il petto fia la quarta parte di tutto il corpo. Chi vorrà vedere più minutamente altre proportioni delle parti del corpo humano legga Alberto Durero,il quale fcriffe vn intiero volume di quefta materia, a noi baftahauer numerato le principali,c più neceflaric pervn pittore jfenzafermarfi a confiderare quanto artiiìcioU fia 145 fia qucfìarimetria,e propoitione, come quella che,confornie ail'inB» iiitojfapcredcldiuino artefice, che fabricò il corpo humano, giiilli^ menteliconueniua percilerquefto il più perfetto di tutti gl'alcri corpi. Onde è poi natoche dalle parti dieflbfi prendanole mifurc di tutti li altri corpi jdicendofi che il tal corpo è di tanti cubiti, di tanti palmi, di tanti piedi, di tante dita: e con ragione,poiche la mifura è vna quantità nota,con cui lì fa con?2(fcerc vn altra quantità ignota jondiL-» non vi elTcndo quantità alThu^mopiu nota di quella delle fue proprie membra doueua di cffd feruirju per prima mifura : oltre che, come dice il Filofofo, que'la cofa, che ilei fuo genere è più perfetta,deue efter mifura di tutte le altre, che fonone! medefimo genere: che però efsendo rhuomo il più perfetto di tutti i corpi con ragione Pitagora diflc, che l'huonio era mifura di tutte lecofe. Quindi è che tutte le opere artificiali fembrano più belle all'hor quando nella fimetria, e proporticne delle loro parti, hanno qualche fimilitudinec©n la proportione delle membra humane; e ciò particolarmente viene ofseruaco nell'architeti tura ciuile ; perche ( Ione parole di Vitruuio nei libro terzo ) tìonpuò f africa alcuna fe»zj* mifura^ e proporticne hauer ragione éUcomponi-r tnento.)fe prima non haiterà rifpetto^e conjì^eratione fopra la ferace certa rapici ne dei membri delC huomo ben proportionato : quindi nelle colonne le bafi fi rafsomiglianoa piedi, i capitelli al capo, il fufto dimezzoal reilante del corpo humanoj Quindi ofseruò il Villalpandoche il tempio di Salomone con proportioni a maraviglia belle fi rendca fimile all'ordine delle parti del corpo humano,chefù il primo tempio fabricato dalle mani diuine, per collocami la fua propria imagine, che è l'anima noftra immortale: Quindi finalmente per tralafciare molte altre cofe l'arca fabricata da Noè era in lunghezza 5 oc. cubiti, in larghezza 50. «d in profondità 50. per tal modo, che la lunghezza fuperaua fei volte la larghezza,e dieci volte la profunditàjnel medefimomodo appunto, che habbiamo detto delcorpo hiimano,la cui lunghezza, e \%o^ partila larghezza 3 o. che fono la iefta parte di 180. e la profondità dal ventre fino alla fchienarS.. parti, che fono vna decima parte delle medefime i8no dall'altro, e ciafcuno in tutte quelle forme, che fi vedono differenti in varij huomini ; poiché alcuni hanno il nafo Ghiacciato, altri gonfio, altri aperto ; altri aquilino, altri profilato. ^ Alcuni pongono innanzi la bocca fpalancata, alcuni hanno i labri di €{Taprommenti,altri piegati; in fomma ogni membro ha non so che di particolare, il quale quando vi è più o meno, fa vna varietà notabile *47 bile nella fifonomìa di tutto il volto. Di più fi dourà confi derare ;a_, varietà de'membri, che fonoproprij di ciafcunaetà; poiché altra forma haueranno quelle di vn fanciullo grofle, e ritorce j altra quelle di vn vecchio fcarme, fmunte, e fottili ; auuertendo che ne corpi dc'flìnciulli non fi deueofìeruare efattamente la proportione delle parti di fopra notata ; efiendo che efiìnon hanno ancora il corpo, e le membri perfette j il che dcuefi intendere anche de vecchi, ne quali alcuni membri s'incuìuanOjO fi affotigliano,© in altra maniera fi deformano.Tutce quefle particolarità fi doneranno diligentemente ofseruare dajla natura, che fola è la perfetta maeftra di tutte le arti. Quando poi hauercmo fatto alcun profitto nel difegno di ciafcuna_, di quefte parti, farà meftieri cfercitarfi nel proportionato accopiamentodiefle difegnando figure intiere, e quelle hora in vna pofitura, bora in vn altra, fedenti, diritte in pie, giacenti, proftrate,fupinejaItre con le fpalle riuolte, altre che moftrino il petto j confiderando le diuerfé attitudini, nel che confifte la principale perfettione del difegno, che però doureraoferuirfi delle ftatuc, e modelli, fabricandone molte per confiderare inefleli diuerfifiti,c pofiture. Di più fi deue diligentemente ftudiare ildiuerfo effetto, che fanno tutte le membra, conforme alii diuerfi affetti dell'animo, nell'efprimere i quali fi de* porre ogni sforz.o dell'arte eflendo quelli, che danno la viuezza, e naturalezza alla pittM. ra;c non folo diuerfa cenuien che fia la pofitura del corpo, e l'atteggiamento dei membri conforme a diuerfi affetti, ma anche fi de'auueilire, che nell'iftefsa pofitura, et atteggiamento haurà vn non so che di diuerfo vn huomo cogitabondo, ed il medefim*huomo quado flà fpcnllerato;fimil mente quando, emefto,e quando è lieto: quando ripofa, e quando veglia : per efprimere le quali circoftanze, vero è che gioua molto la varietà di colori, ma anche nel folo difegno di chiari, e fcuri fi dourannofar campeggiare con vn certo rilcntamcnto,© ftcndimento di mufcoli, con vn talqual vigore, o franchezza delle membra,con i nei ui più, o meno ftirati, e diftefi j la qual cofa per cfsere molto ditfi^ cilc dcuefi con maggior diligenza, et accuratezza maneggiare, ferucndofi non folo del naturale, ma anche facendo molto ftudio nel!'* adotomia per conofcere i diuerfi effjtti che moftrano le diuerfe parti del corpo, diftefc,e rallentate da mufcoli, e da nerui,e per intender doua priiìCÌpiano,c finifcono entrando vno in vn altro : ma nelJi piegai menti de membri, ftorcimento di vita, e sforzi di tutto il corpo, fi dolila por molta cura di non far cofa, la qui.l ecceda lapoflìbilità del naturale i nel che molti peccano ftorcend», e dislogandoi le ofsa in tal modo, che da quefto folo fi può conofcere cfser quello vn huomo dipinto, 48 pinto,e non viao, perche non grida, e non fpafima per il dolore, che dourebbefentirne feviuofoflc. Circa di ciò farebbe molco che dire, ma ofleruofolo chenclli sforzi delia vita, e delie membra ben fpeflb ftanno nafcofti molti errori, ed innaturalezze, le quali da chi non è bene intendente difficilmente fi conofcono,perche tali sforzi rapifcono l'occhio con lanouirà,che cagiona non so qual diletteuole marauiglia : ma anche in quefto, come fi è detto dell'inuentione, ù àc procurare ben fi la marauigliaconlanouità,ma però non dee fc olla fi dal poflibile,e dal verifimile. Per tanto la tefta di chi ftà in piedi non fi volti più in sii, fé non quanto gì' occhi guardino mezzo il cielo j ne più iì volti da vn lato, fé non quanto il mento tocchi la fpalla ; il petto non-, fia fi torto che la fpallaarnui più oltre della dirittura deirvmbilico # Il volto di chi fta fermo ha riuolto là doue è dirizzato il piede. Se alcuno fi appoggia fopra vnfol piede, quello flanella linea che chiamano di diretionej le mani rare volte fi alzino fopra il capo,& il gomito fopra le fpalle,& il piede fopra il ginocchio. Finalmente giongeremo alla perfettione di qaefta fcienzajSccopiando in vnfol quadro diuerfità di corpi tanto humani, quanto di nltre-» forti convna qualche vaga, ed ingegnofa inuentione,nelmodo,ehe fu detto nel capo precedente jricordandofi della varietà, e fopra tutto d* imitare icoftumi, e proprietà di ciafcun perfonaggio nel modo, chc^ prefcriue l'arte poetica, trattando dell' imitatione de coftumi^ auuertendo in oltre di non far perfona che flia otiofaj ma in ciafcuna.» cfprimer quegli atti, e quegli affetti, che richiede l'iftoria,© la fauola. Deuo anche ricordare a quelli che fi fentono inclinati dalla na^ tura a queflo efeixitio, che fi auutziino da principio a difcgnare in graLde,cio€ conforme al naturale: poiché in vn* imagine pie-» cola ben fpcfso vi .flanno nafcofli errori grandi ; la doue in vn' imagine grande fi fcopre ogni benché minimo diffetto j che altri fcolpìfca in vn anello Fetonte tirato da quattro caualìi, non merita altra lode che di feimezza di mano, acutezza di vifta, e patienza_* nell'operare, e quefta è più propria de* fcultori, che de pittori; i quali fc apprenderanno bene il modo di formar imagini grandi, facilmente poi formeranno ancora le piccole ; la doue coloro, che hanno au-» uezKa la mano a lauori minuti, rare volte riefcono neigran-di • ?''Q'''-,.'.c..i.^.u za ijiwiii Rcflai-cbbc per vltimo, che io daffi qui le regole det difegnarcjf in profpcttiua,effendo che ogni quadro de* hauere determinato.il .:^ì:^^. .•..V---V .-punto-:! 149 punto che chiamano centrico, ed il punto della diftanza dcirocchio che-k) rimira regolando con queftidue punti le degrada tioni, e l'altezze de gli oggetti ; ma di ciò mi riferuo a difcorrerepiua lungo nell'arte maeftra. Hiunque fi farà perfettionato nel difegno*, ofseruando /(fj^^^tìj^ tutti li precetti infinuati nel precedente Capo, non.. Cni!r)/ji ritrouerà molta difficoltà nel colorire : nulladimeno Vh^*liialttijpiu ofciirij e chiamanfi tali fuperficie ricetti de' lumi,/ «ffen deche pM»t fi tirano {u*l quadro i feiTiplici contorni delire figure, che è la prima parte de! difegno,e chiamafi circonfcrittio»e; ia cin noa...j(ì vede altro che la_. linea efì:rema,che tcrmifia,e circondil rogge:t|pdifegnato: poi offeruando i termini de' chiari, e. d€ fcurji,fi 4J-^inguo"0 eoa varie Jinee,che diuidono tutto il carpa iurcoufcritto- in varie parti, o fupcrficie,cheèla feconda parte del difegno: Finalmente quefte fi deuono riempire de'fuoi proprijlumi, ilchefi faocon femplice chia* ro,e fcuro^o pure con i colori,iquali fvjnno molto migliore effetto, perche più imitano il naEurale,e dano vsghezza,e leggiadria al di^ iegno. In quefìo riempire di colori le fuperficie,& vniucrfalmente nel modo ò\ colorire fideue confiderare,che fi come i corpi reali fono compofti di quattro elementi, et in alcune parti l'vno predomina più dell'altro, onde cagiona diuerfo colore: cosi il Pitcor^^ volendo imitare la Natura fi ferue di quattro colori principali, che corrifpondono alli quattro elementi, cioè, del color roffo, fia di cinabro, dilacca,odi minio,che corrifponde al fuoco; del colore azzurro, che rapprefenta l'aria ; del verde che fi confà aH'aqua, e del cinereo ofcuro,chc fi riferifce alla terra, e quefti colori contempcra in modo,c he doue 'ì\ ricerca il predominio di vn elemento iui aumenta il colore a tal elemento corrifpondente: cosi per efprimere vn volto fanguig no, et accefo di -"degno adopera il cinabro, ed 151' ed il minia; e colendo far vn fangue fofco vi pone laheca, ma volendo rapprefentare vn volto timido, freddo, o languente, fi ailicn?.^ dalroflb,e vi aggiongc il cinereo j e cosi dell'altre cole ; Per tanto io lodo molto, che non vi fia parte per minima ch'ella fia deirimaginc, laquale non iu formata con tutti quefti quattro colori,fi come non vi è'parte di corpo reale, la quale non fia mifta di tutti quattro gli elementì; onde quando anche io hauerò a dipingere vna carnagione bianchtlTìma, aggiongerò alla biacca vn poco di cinabro, il quale certo è neceflario per cipri mere il fangue, fenza il quale non può il;arevna_. viua c^rne; ed m oltre vi porrò alquanto di azzurro oltramsrino, il quale cagiona vn mirabile effetto in tutti i colori, ed in particoiire.* visto moderatamente nella carnagione, poiché le di vna ccrt'aria, e lutiìeceldle, chela rende fuauc,e dolce. In oltre, perche inciafcua.. corpo reale olrre li quattro clementi,de*quali è comporto, euui meicolata la luce, e doQcqucfta manca, rcfta il corpo ofcuro, e cenebrofo; perciò nella pittura habbiamo due colori, fvnode quali èfimile alla_. luce,e quefto è la biacca j TaUro ci efprime le tenebre,e quefto è il ne* grodio(ro,odi fumo, odi carbone,© di terra nera; poiché, come alcroue dimoftro,aicro non è la luce, che vn puro candore, e le tenebre vna pura nerezza; onde il puro bianco, e. la femplice nerezza non fono due colori,ma fono l'eAremità di e(Tì colori, come i punti fono Tcftremità della lii>ea,'ma non fon linea; noi però perche non habbiamo ct>fa più bianca della biacca., ne più negra del negro d'elfo; perciò adoperiamo qucfti due colori per efprimere la luce, e le tenebre ; per tenebre intendo ancheTombre, che fono priuationedi luce; onde-» doue è maggiore la priuatione di tal luce, e l'ombre più gagliarde ; iui adoperiamo più quantità di negro d'olfo,doue è minore adoperiamo con elfo più terra d'ombra, o vi mefcoliamo altro colore pju, chiaro . Deuefi dunque in ogni oggetto dipinto, e per confeguenza in ogni colore porre,© la biacca quando fi ha da erprimere vna parte lucida : òil negro d'olfo quando fi ha da efprimere vna parte priua di lux:e;,e cofi conforme alk luceminore,o maggiore adoperare più o meno di biacca, nel che farà maeftralaprattica, conlaquale imparerà aafcitttoa mefcolarci colori, ne li riufcirà difficile, fé hauerà ben'-intefocif), Qhe fin bora habbiamo, detto. i > Con wttaciò perche in quefto breue trattato, pretenda d'i ftfegnare minimamente la pratica del dipingere,non voglio tralafcÌAc di dire y come io foglia |)rim a di dipingere far varie tinte fopra la mia. tauoli pigliando con lap,unta del coltello i colori macinati,con filkliìa punr U vnendoUcd impaftandoli infiemein varie parti della tauola^Pongo £"!!>•:» da MI da vna parte vb poco di biacca fchietta,fenza mcfcolamento di altro colore, la quale mi ferua perdarefopra la Pittura i fomtìii chiarij ed in vn altra parte collocano va poco di negro di ofso, parimente fchietto per le ombre maggiori, e per le minori della terra di ombrai li altri colori non li adopro mai rchieEti,fe pure non douefsero feruire per fare qualche panneggiamento,ma ne faccio varie tinte, e mezze tinte, con varij mefcolamenti, e prima faccio vna tinta di azzurro cltramarino,pigliando del meno perfetto, con vn poco di biacca,della quale mi feruo per vnire con quafi tutte le altre tinte, poi con il cinabro,© vero terra rofsavn ita con biacca, faccio tre tinte vna più carica dell'altra 5 e quefte mi fcruono per la carnagione 5 in modo però, ckc non le adopro mai fole, ma vi aggiango vn poco d'vn altra tinta fatta di biacca, e di laccai e più lacca vi metto doue la carne fi deue efprimcre più fanguigna ; ma doue la carne dourà cflere meno fanguigna, e più pallidaifparamio la lacca, et adopro la tinta di cinabro me» carica jfempre Peronella carnagione adopro vn poco della fopradetta tinta di azzurre, e he riefce mirabilmente. Faccio in oltre tre alcreche fi chiamano mezze tinte, con biacca, e terra d'ombra in tal modo, che l'vnafia più chiara dell'altra, auertendo che nella più chiara ogni poca quantitàdi terra d'ombra è fufficicnte, e quando voglio vna tinta più ofcura,vi aggiongovnpocodinegro dioffo; quelle mezze tinte di terra d'ombra feruono anch'effe per la carnagione,e particolarmente le più chiare, le quali non fi deuono adoperare femplici,ma mefcolarui vn poco delle tinte rofsc,e della tinta di azzurro^ nell'ombre della carnagione, cioè in quelle parti che fono meno illuminate, aggiongafì alle mezze tinte più ofcurevn poco di tinta fatta con la lacci, poiché quefta fa vn color carneo ofcuro,cnori s* ifparamii l'azzurloperchc anche in qucfto luogo fa la carnagione fuauiffima, e delicata. Deuonfi dunque con la punta del coltello fare fopra la tauola tutte le foprad€ttetinte,e mezze tinte per mezzo della biacca, fi che ciafcuna tinta fìadi vn color folovnito alla biacca che lo fa più chiaro quanto più vi fé neponejpofcia ne! dipingere^iideue con il penello pigliare vn poco di vna,& vn poco di vn altra mcfcolandole infìeme conforme al bifogno,e far /Indio che effe tinte tutte nel metterle in», opera fi auuicinino più alla carne naturale, e vera che fia pofTìbile, Ma perche non fi può fapere in qual luogo debbafi porre l'vna, et ia_. qual altro vn altra, fenza la cognitione dei lumi diucrfi, che diuerfainente ferifcono gl'oggetti che v^ogliamo dipingere, perciò flimo necc ffario difcorrere in quefto luogo alcuna cofa intorno ai lumi 3 Poiché dalla '5-5 dalb retta intelligenza di quefti dipende tutta queft'arte: Molte cofe farebbero degne da ofleruarfiin quefta materia, ma che io in quefto luogo pretendo dinfegnare piutofto la prattica del dipingere, che la fcienza fpeculatiua de colori,& altre cofe ali' opcica appartenenti, toccherò folo breuemente alcune oferuationi,che molto potranno gio uarc a chi l'hauerà bene intefe. Primieramente fi oflerui dal pittore il luogo, in cui dourà cflfere collocata lafua opera j come, fé farà vn quadro, che debba porfiinaLui luogo detcrminato di vna fala,o chiefa, veda da qual parte,edinqual modofia percflfcre illuminato j feda vn lato, fé in faccia, leda alto, o in altra manierale dopo tal notitia non potendo, come farebbe bene dipingerla nel proprio Ioco,dipinga lafua figura in modo che i chiari fianoda quella medefima parte,dalla quale dourà hauere il lume : e quella parte della figura che farà più rileuata, e più vicina al iumo quella facciaficon chiaro maggiore di tutte le altre,dando poi alla pittura gl'altri chiaridi grado in grado minori, conforme alla maggiore lontananzadal lume, et al rileuar delle partii in tal modo, che vna fola parte della pittura fia quella,che habbia il primo, e maggior chiaro; dopo la quale le altre habbianoichiaii minori, piu,o meno, con* forme il fitoj cofi fé il lume veniri da alto a battere immediatamente nella fronte dell'hucmo dipinto, quefta da quella parte che è ferita dal lume habbia il primo, e maggior chiaro, pofciala guancia,© nafo h:ibbia vn chiaro poco minore, e dopoqucftiIafpalla,c cofì di mano in_.r mano fino alle gambe, le quali per effer più lontane dal lume,chefifuppone fcendere da alto, douranno hauer minori chiari di tutte le altre parti fuperiori,& al lume più proIKìme. i Secondariamente, habbiafi riguardo che ciò che fi è. detto, deuefì intendere di quelle parti, le quali fono ferite perpendicolarmente, cioè, ad angoli retti, o vogliamo dire direttamente dal lume; poiché quelle, che fono ferite obliquamente, e con angoli ottufi, ancor che foflbro più vicine al lume,deuono però effer più chiare,mafideue con-; temperare IVnacofa con l'altra; quindi è, che le parti piurileuatefi fanno per ordinario più chiare, perche per lo più riceuono il lume piu^ direttamente; diffi per lo più, perche alle volte, conforme alle diuerfe pofiture, lo riceuono più direttamente le parti meno rileuatcy onde, fi fanno più chiare ; come quando il lume ferendo obliquamente la faccia, ferifce direttamente, e perpendicolarmente vn lata del nafo,e lo rende più chiaro di quello che fia il filo del medcfimo, 'benché quefto filo fia piurilcuato^mafe il lume ferirà diretta in ente il volto, all'hora il filo del nafo farà quello, che hauerà il mas^ìor; laro. Q^ q In H4 In tetto luogo oflerulfi che, fi come vn raggio di lume itott pucb ferire perpendicolarmente vna fuperftcic, fé non in vn punro folo j cosi il maggior chiaro di ciafeuna delle molte fuperficie del corpo di* pinco, donerà effere in quel fol punto, che viene ferito perpendica* Iarmenteda.1 lume; e quanto più obliquainenre il lume fcrifce le parti più lontane da quel punto, tanto meno chiare doueranno farfi,*cd in-fquefto confitte la dcgradaiione de'colori dal maggior chiaro,finoal maggiore orfcuca». Imperciocbe deuono degradare conforme alla_, maggiore, o minore obliquità del raggio, fu ppofta la medefima lonrananz,adel medcfimo.Che fé poi la parte più obliquamente ferita-* dallume,iarà anche più lontana da eifojmaggiore donerà effere la degradationejma fé vnapaiKte farà ferita pia obliquamente di vn altra, equ '.Ila farà più vicina allume di quefta,fi douerà compcnfare la minor chiarezza nata; percaufa. deli*Qbliquttà,conlachiarezza nata per la vicinanza del lirmc^ Quarto ofseruifi,che in qucfta degradatione de* chiari, et ofcuri, o vogÌi;im,o dire de lumi^& ombre c«^fifte tutta la fbrza del colorire, ed il rikuare delle parti; et acciò non rileuino con afprezza, tra il maggior chiaro, ed il maggiore ofcuro,fideuono degradare fuauemcnt^-» ed infenfibilmentei colori; poiché in quefta infenfibile degradatione confitte la dolcezza del colorire,^c(ì fugge ogni afpcrità,la quale otten* de l'occhio ogni qua! voha fi fa palfaggio immediatamente da vn eftremo all'altro; che però anche gl'iftefiì contorni, ne quali pare che fi debba pattare immediataméte dal maggior chiaro al maggiore ofcuro, fideuono fare co vna certa fuauità sfumati j fi che teraperino quell'immediato pattaggiodivn eftremo all'altro. Quando poi il chiaro è pofto in mezzodì vna fuperficie, e vifonodue degradationi verfo l'ofcuro, dall'vna, cdall'ahra parte ; all'hora ne rifulta quell* effetto, che chia» mafitondeggiare; poiché la parte di mezzo come quella che è più chiara rileua più dell'altre, le quali declinando dall'vna, e dalKaltra parte all'ofcurojfi moftranomeno rileuatesì,chcpirchericeuino il lume-» obliquamente, come appunto fanno le parti laterali di vn corpo tonda ferito nel mezzo dal lume. Quinto notifi che vna delle principali Iodi de! artefice è ch'egli nella difpofitione de chiari,e de fcuri dia tal forza alla pittura, che riIcui qaantofia poffibile,.e per così dire fi fpicchi fuori del quadro; per ottenere la qual cofa, oltre la predetta intelligenza de lumi, dourà offeruaie quel precetto, che danno molti, et èintefo da pochi, mentrc«# quelli dicono chcfidcue vfare molto parcamente la biacca, e quefti Rimano che della quantitàdi eflà fi parli ; poiché cerco c^ che la quantità *5? tiiià della biacca necefifària a dipingere vn volto è molto maggiore tU tufta la quantità dclii altri colori, che a tal funtjone fi adoperano; &l viiiucrfalmente nel colorire rare voltefi adopera colore, a: cui no»: fi, vnifca la biacca, come quella che tempera tutti icolori,in quel n>od0j, che fa la luce fopra i corpi da efla illuminati . Il fenfo dunque di tal precetto fi è, che in ni un luogo della pittura fi veda la purabiaccai tolrt tone quei pùnto,chcè ferito perpendicolarmente dal lume più vicino^; etche tutte le altre parti vadino con i debiti modi, e coni veri compartimenti de lumi degradando vcrfo l'ofcuro, caricando poi Tombr^.^, accio al confronto di queftefpjecando maggiormente i chiari) la pittura riceua forz,ad'ini^annarchiia m.ira,e far credere eh* ella, sia rile-» uata dal quadro, fsn oq Sefto, deuefi oflfcruare rintcnfionedcllumc,chc douerà i'Iuminare la.Pittura,cioè a dire fé il luogo, nel quale deue eflere il qiiadrQ,habbia lume gagliardo, o debole, e come dicono viuo,o mortoj poicht^ conforpie alla diuerfità del piaggiore,o minor lume, doueran no eflere maggiori, o minori i chiari,egIifcuridellaPittura,con reciproca prò* portione,cioè a dire, fé il lume vero farà debole, e morto, la Pittura-* douerà haucre i tuoi lumi finti, cioè i fuoi chiari,viui, e ga^jliardi ; ma ieillumefarà viuoe potente,(arannoi chiari della Pittura alquanto più lieboli, e moderaci j e ]a ragione fi è, perche il lume vero.,cbe:ièrifce la Pitturajèquellojchcriflettendofi all'occhio infieme con il lumefintOjchc è il chiaro della Pittura, concorrono ambi vniti a fQrmare la_» viflra: ondequefla che fi offende con gl'cltremijnon può tolcrare due lami ambi troppo chiari,e viui j ne li piace che ambi fia no poppo dcr bolicmorti: onde perdilettarcrocehiofideuc conteraperarc il viua del lume vero, con il morto del finto, ed il morto di quello coni il Viuodi quefto. Che fé il quadro foOc già dipinto, e fi cercafle vn luogo per collocamelo, fi douerà hauereil medefimo rifpettQ,che fé i colori del quadro fono molto viui, e chiari, fi ponga ad vn lume-» moderato j 8c all'incontro, fé i chiari faranno dcboli,fe lidiavn lume piujviuo. Settimo, ho oflèruatOjche quando il lume fcrifce vn corpo Hfcioi C.luftro,lo moftra molto più chiaro di que-io che faccia vnahracojfpforaenluftro,e pulito; e particolarmence quella parte,che è ferita perpendicolarmente dal lume fi moftra lucidiffima all'occhio ; ilche fi può vedere in vna palla di crifbllo pulita, et anche nella luce de noftri oc; chij : ond'è,chequella parte dell'occhio, la quaL è ferita dal lume dit rettamente nella pittura fi efprimecon vn punto di pura biacea^5.chc la^dimoftra.Iucidiffima eTengafi dunque per regola in materia de'lu». mi, mi, che nel colorire fi deuono vfare maggiori chiari in quelle parti, che verremo éfprimere più tcrfe-yc pulite^ come fé vorremo dipingere vna carnagione Jifcia,e luftrajdoucremo farla più chiara, benché àciò pofcia aiuti anche molto veramente la fuperfìcicjche colorica della tela fia ben lifcia,e dipinta con colori ben macinati, alli quali alcuni aggiongono in fine certa Vernice, di cui diremo apprcfso,--ichc però nell'efprimere quefti lumi rifleffi douremo tingerli alquanto del colore del corpo da cui fi riflettono, ma deu' eflere vna tintura leggieriflìma, e deueficiò pratticare con deftrezza,c ne luoghi opportuni, che cosi cagionerà vn effetto Ict'giadro, mentre Tocchi© non folo conofce, che quel chiaro è vn-* lume riflefso, ma anche comprende da qual corpo venghi riflet— Cuto. Nono,per dare alla pittura què chiari, e quei fcuri,che fono conuenelioli,ed in quelle parti che li richiedono, deuremo prima determinare VJU. 157^ vnluo^G fuori ddlapittura^dal quale doueremo imaginar{ì,che vcngi> il lume a ferirla,e pofcia collocare il quadro, che uogliamo dipingerci invn tal fico uicino ad una Feneftra,che il lume entrando per efsa_».'i lo ferifca in quel modo,che noi delìdcriamo più uiuamcnce,o meno, : da unlato,o in faccia, o da altoje tal fico e riceuimcnto di lume hab-.i bJa il quadro,mentre fi dipinge qual deue hauere dopo che farà dipin» WfQ collocata ai deftinaco luogo; circa diche non lafcieròdi dire,> che quelle pitture, che riceuono il lume da alto acquiftano una noa^ so qua! gratia,e leggiadria fopra le altre, come ben fi ofifcrua ne uiui oggetti,neIla Ritonda di Roma,che per ordinarie fifonomic chefiano, in quel loco coi lume alto apparifeono bellifTimcj Sempre però o(feruifijche dobbiamo fuporre, che il lumevcnghi da vn fol punto, e quindi fi fparga a ferire tutta la pittura,dal che nafcc la diucrfità dei chiari, conforme le diucrfe parti, che vn tal punto riguardano j ne folo fi dourà determinare il punto, da cui viene il lume, ma il punto, dal quale l'occhio dourà mirare la pittura, poiché conforme al diuerfo fito dell*occhio,i chiari appariranno in diuerfa parte; comefipuò ofl"er-«i uarcncl rimirare vna ftatua, la quale filando immota, e riceuendo femprc vnmcdcfimolume da vna medefima parte, fé l'occhio peròfimuouc, e da diuerfo fito la rimira, vedrà i e hiari del lume, che la ferifce, itu. diuerfi luoghi.Finalmente perbene intendere quefti lumi,giouerà molto rauueA7.arfi a dipingere di notte a lume di lucerna, poiché eifcRdo quefto vn lume debole,fi canofcono in cflb più notabilmente le degradationi poltre che ci viene da vnfol puneo, ciò che non patiamo fpcrimentaredi giorno, benché anchedigiornodobbiamo procurare di riceuer il lume da vna piccola feneftrella, perche in tal modo meglio li fcorge la diuerfa illuminatione delie parti direttamente ouero obHquamence ferite dal himergiouerà ancora Teflerc ita rfi nel ritrarre le i\i£ue,e qualfivogliaaltro corpo dal fuo naturale; ma fopra tutto ci ap« porterà grande vtilità il dipingere dal naturale varie forti di frutti, come anche vccelli, cani, lepri, e fimiii. cole; la ragione fi è perche i frutti fiori,ecofefimili hanno colori molto viuaci, ne quali percuotendo il lume moftra più difliintamente la diucrfità dei chiari, e de gli fcuri ; Oltre a che nel dipingere li detti oggetti fi prende vna certa franchez- za nell'operarc,che molto gioua, ed inanimifce; Tal Francezz.a,e faci- lità nafce da quefto, che nel dipingere le dette cole habbiamo grande libertà, e licenza di variare, facendo foglie, fiori, frutti qui più, e la me- no carichi di colore, glVni con vna, altri con vn altra diuerfa figura : Quefto precetto di elTercitarfi in dipingere fiorijC frutti dal naturale fi ofserui come vn gran fegrcco di qucft'arte^vn valente maeftra delia R r quale I5t qu^leametmolto locommendaua per molte ragforii,ma principal- mente per la poco auanti accennata di far venire in cognitione de i lumi, dalla quale notjtia perche dipende tutta l'arte di bendifporrf^ i e dori) perciò ho voluto auucrtire quefte poche cofe^ ma molto fo- ftantiali in quella materia. ^.'r-^yii Refta per fine di quefto capo che fi diano alcune altre regole parti» colari, e pratiche per il colorito, oltre le già accennate da principio; e già che con rintrapoftodifcorfodeluinihabbiamoperdircori inter- meflb il colorire, voglio qui auuertire,che quandoè ftato intermefibil laiioio,e pofcia fi ripiglia a dipingere il quadro, li cui colori fiano già afciutti,e fecchi, acciò corra meglio il peneilo^fideuevgnerc prima il luogo doue fi vuole fcguitar la pittura, o rittocar il fatto, con oglio di lino cotto, cioè in cui fiaftatò poftodueonciedi litargiro per ogni li- bra dioglio,e rifcaldato fino che incominci a bollire, la quarvntio- ne non nuoce altrimenti alla pittura, come alcuni ftimanoj& il pro- fitto è, che breuemente fecca, yolendiD» l'oblio (loxj cotto tempo aliai a rafciugarfi, .-"z vi'iìr Prima di formar alcun difegno fopra il quadro, quello deue hauere la faa imprimitura, non folo fc il quadro farà di tela, ma ancora fé fijt di legno,o verodi rame, fopra il quale foglionfifare ì piccoli ritratti; quefta imprimitura confifte in coprire il quadro con alcun colore,che fuolcflerc di terra d'ombra ben macinata, con vnpoco di biacca, e»^ terra rofla, con oglio di lino j quefta macinata alquanto più foda, e meno liquida de gl'altri colori, fi ftende fopra il quadro cenvn coltel- lo largo,procurandochefiaftefa,vgualmente in tutcele parti,e fotti- le i alcuni dopo eiTer afciiicta, vene ftendono dell'altra iìno alla terz.a^ fiata; il che a me non piace j poiché, riufcendo troppo grofla altera molto i colori, che pofcia fé li danno fopra, mentre li fucchia, e^ l'imbeue in modo, che partecipano del colore dell'imprimitura.* medefima. Acciò i coleri fi mantengano vini jfideuono dar fopra il quadro più volte replicando i'iftcflb colore fopra il primo; ed in oltre i colori fi deuono caricare alquanto più del naturale; come nel colorire le guan- cie,e fimili parti di cinabro, e di lacca fi ecceda alquanto facendoli più roffi ài quello che conuenga alla carnagione naturale; imperciochc dopo qualche fpatio di tempo fi vanno moderando, e mortificando ri- ducendofi al fuo douere; altrimenti reftarebbe il volto troppo pal- lido, e fmorto. Molta induftria ha ni ad vfare dal Pittore nel difporre fopra il fuo quadro gl'oggetti particolari coni loro propri], e naturali colori itu» modo, hf9 modo, che vn colore in Vicinante dell'altro faccia fpiccarc,e rileua- re tutte fe' parti jlmpcrcioche i tolori ofcuri, e profondi fanno fpicca- re maggiormente i colori chiari, che li fono vicini ; quindi Ce noi vo- gliamo che vna teftafpicchi, e rileuidifporcmoi colori intorno ad eip^. in maniera tale,che la parte più chiara habbia vicino a fé alcun* og» getto, o contorno di colore ofcpro, e fofco j come all'incontro la parte ombreggiata, &ofcura dourà hauere vicino alcun* oggetto alquanto più chiaro j il quale fé farà difpofto in modo, che riceua il lume dalla parte oppofta, e lo rifì - tta nella parte ombrofa della tefta, vn tal lunie rifleflb cagionerà vn belliffimo effetto, temperando alquanto l'ombra., di quella parte della tefta, che non può rieeuere il lume di retto j Per cagionare fimili effetti, giouerà feruirfi delli panneggiamenti formati con quelli colori che faranno più proportionati ; poiché fiamo in libèf-' tàdi dare al panneggiamento quel colore, che più ci aggradajc poten- dolo far fcorrere in quelle parti che a noi piace, procuraremo di con^ durlo in modo, che i colori di effo feruano a far fpiccare le parti me-,fb' .'0 ni r f\n♦ [VE fono li principali modi, con i quali fogliamo dipinge- re,!* vno che chiamano dipingere a frefco/altro a oglio. Il primo modo fu in vfo anticamente, auanti che fofle ritrouato l'altro di dipingere a oglio, inuentione venuta^ da Fiandra, e ritrouata in Arlemrlaqualeha aggiorno molto di v'agOjcdiluftro alla pittura, poiché riefce delicata; e fi vCilì communemente fopi a la tela, la quale fi conferua lunghiffimo tempo fenxa chefi fmarrifchino i colori,! quali più torto con l'inuecchiare pi- gliano delicatezzaniaggiore j la doue il dipingere a tempera (cofi chiamato, pcilchei colori fi ftcmperano con aqua^ fi faceua anticamen- te fopratauole di legno, le quali con lunghezza di tempo fi tarlano, benché mantengono la viuezza de* colori, che fi conferua più che fopra la tela, douei colori fonoftempcrati con Foglio ; oltre che tiefce mol- to più commodo il portare, e maneggiare le tele potendofi piegare, e leggiermente muouere; horafiè quafidel tutto tralafciato il dipingere fopra le tauolej& anche le pitture a frefco, fi fannofopraleteie,tol-' tone quando fiamo neceffitati a dipingere fopta il muro. Per tanto volendo dipingere a guazzo fopra la tela, o cartone, fé li dà prima_> fopra l'imprimitura di creta temprata con colla di ritagli, fopra la quale dopoché farà afciutta fi mettono i colori macinati con aqua, e ftemperaticon la niedefima colkdi riragli, ouero con la tempera fat- ta con oua. Ma fé noi voremo dipingere fopra il muro,dourcmo far- lo fin tanto che il muro è ancora irefco della calce, pei ò con colori ftemprati con Taqua pura, e terre fenza adoperar biacca, lacca, cinabro, e altri minerali, feruendofi invece di biacca, di Calcc,oiie-' re bianco fanto, Ciafcuna di qOefte due maniere di dipingere fi può vfare in.» tré modi, che fi diftinguono dal diucrfo maneggiare, che fi fa il pennello in lauorare ; 11 primo più vfitato, e commune è lenendo ',ì\ che fi fa con mettere ciafcun colore a fuo luogo, t^ poi con vn altro pennello, che ha netfo,c fenza tinta, congion- gendo le parti cftreme dclli due colori vicini > acciò vnendofi nfieme JnCieme non cagionino vna certa arprezza, che offenderebbe roc- chio, fé vcdeflevn colore porto immediatamente vicino all'ahrojfen- no di pittura, e di difegno, non fi ap- plicano al tediofo lauoro di ricamo, onde quefto refta fole nelle mani di donne, che poco, o niente intendono le regole di buon difegno, ne fanno le cofe neceffarie alla pittura ; nulladimeno Nicolò della Foggia di»Marfiglia a giorni no.ftfi, è ftato mirabilifiìmo, et fi vidde va ritratto di Papa Vrbano Vili, fatto di ricamo naruralifiìmo, che non eccedea di grandezza vno fpatio ottangolare, per metter in vnanelio, e donato a eflb Pontefice > cofa veramente degna d'amiratione. Simili alle imagini di ricamo fono quelle dclli Arazzi, cofi chiamati da Arazza doue prima fi lauorarono, e fc ne fanno non folo di lana^ma di feta ancora, che riefcono molto più belli, e quando fiano fatti coii buon difegno, e pofti indebita diftanza dall'occhio fanno vn bdllif- fimo effetto ; ed io direi che gl'arazzi paragonati alU ricami ^siano co- me le pitture grandi fatte a ogiio sii la tela, in riguardo alle iraagitii fat- te a punta di pennello. Inuentione molto più antica è ftata quella di far lHmagini.a-Tnafa;loo e si fanno come ogn'vn sa adoperando in vece di colori piccioli minuz- zoli di pietre pretiofe, o marmi di varij colori, o fmalti, intrecciando insieme le minute particelle, ed vnendole in modo, che formino vna fuperficie piana rapprefentante in buona form^a di difegn^o, e regola di pittura alcun* imagine di floria, o d'altra cofa. Molte di qjiefte te me vedo- vedono lauorate dalli antichi, come in S. Marco di Venetia, in Roma, ic altroue, le quali però (ono di iauoro affai groflb, e che richiede mol- ta diftanza acciò non fi conofc a quel difetto, che prouiene dal noii^ cflerben temperati i colori a riguardo della groffezza delle pietre che le compongono 5 ma delle più moderne alcune fono fatte con pietre» cofi minute, che in molta vicinanza non fi diftinguono, e fembrano pit- tore su la tela,fe non che hanno i colori più luftri, e più viuaci,com«-» quella di S, Michele Archangelo in S. Pietro di R.oma,difegno del Caualier Giufeppc d'Arpino, opera veramente Angolare in tal gc- ner feixa del marmo. Finalmente a tutte le predette inuentioni io qui ne aggiongerò vna mia, di fare, che le pitture comparifchino delicati/lime, ed in_* modo, che non fi conofca douc, ed in qual modo fiano dipinte. Si dee dunque auuertire, che tanto più delicate comparifcono le pitture, quanto più vguale, e iifcia riefce la loro fuperficie,- ond*è,che alcuni Pittori, quando hanno compira alcuna pittura.^, vi danno fopra vna Vernice,che viene a fare alquanto più Iifcia,© luftra l'opera; ferue anche a tale effetto il mettere l'imagine fotto il criftallo,oucro talco, poiché quefto toglie dall'occhio molto dX T t ine- 166 incgualirà,e roz-ierza della fupc:ficictk! quadro; ma perche il cri- ftallo,otalco non fi adatta, ed vnifce totalmente alla pittura, anz.i vi refta di mezzo molto vacuo, perciò non può dare alla pittura,, quel luftro,eroauità, che li darebbe fé potelle vr.irfi alla pittura per modo tale, che non vi reftafle parte alcuna diari3,e luo5.fo tra ef- fa pittura, ed il criltallo . Se dunque Noi dipingeremo fopra il cri- ftallo,o talco in tal modo che tralparifca rimanine nella faccia oppo- ftadelmedefimocriftallo,come ho fatto io in alcune mie pitture pic- cole, quefìe compariranno dclicariffime, ed i colori per effer imme- diatamentevniti fopra il criftallo ('che vuol' e0cr pulitiflìmo d'ambe le parti) aquiftaranno vna foauità marauigliofa; ma vn tal modo riefce molto arduo per due ragioni; rv^na,perc he i colori fopra il cri- fìallo pulito non fcorrono, ne fi vnifcono fxicilmente ; L'altra, che molto più ardua rende rimprefa,è che il primo colore, che fi dà fopra jlcriftallojè quello che trafparifce; che però fé non è pollo a fijo luo- go non fi può più emendar l'errore con metteruene fopra dell'altro; onde chi vele dipingere in quella forma, conuienc,ch'e^rhabbia-fran- coildifegno,eche lauori a botte, ouero a punta di pennello, ma con queftodiu3rio,chequì nellauorarc a punta conuicne adoperare anco labiacca,acciò non virefti parre'di Vetio,che non fia coperta di co- lore,ciòche riefce molto più diflìcile del lauoro a punta di pennello fopra la carta pecora, doue il candor della carta ferue di biacca. Perciò ho procurato di rirrouare j! modo di fare, che vn im:)gine_-* già dipinta fopra carta pecora, o lopravna tauola,o tela,fi vnifca,e{i attacchi alcriftallo totalmente, fi che non vi refti aria alcuna tra mez- xo.Faccio qucfto métrc la pittura è ancor frefca. intenerendo maggior- mente i colori con far penetrar per la tauola,o cartapecora alcun li- quore, che intenerifca i colori, lafciando in tanto m fopprefia la pittu- ra fopra il criftallo, acciò preniutauifopra,fiv2da attaccando ad eifoj poiché dopo che farà bene attaccata, ed vniti i colori al criftallo, liac- candofi la carta deftramente reftu la fuperBcie della pittura vnica al crifìiallo, con l'imagine imprefla perfettamente, conforme fi dcfidera . Nel che quando fi operi con tutta diligenza riefce opera veramente-» degna, riufcendo però meglio fopra il criftallo, che fopra il talco, perche la profondità del criftallo li da vn non so che più di luftro e delicato» Hor per aggiongere all'opera maggiore marau!glia,dopo che fa- ranno afciugati i colori pofti fopra il criftallo, dipingeremo fopra_, quelli medefimivn altra imagine totalmente dsuerfa dalla prima,fiche mirandofi la faccia del criftallo, che none dipinta trafparifca per efia cfìfa laprimaimigine^e mirandofi l'altra faccia fi veda la feconda, n_^ tutto varia dall'altra. Ouero dipingeremo dueimagini che trafpan'fcano fopra àviz diii?rfi criftaDi, e poi vniremotucce due le faccie dipince di detti crifiilli j quali incaftreremo cofi vniti in vna cornice, acciò fembri va cri- llallo folo crafparente intorno alla pittura \ poiché in tal modo d.iiiVna parte comparirà un imaginc, e dall' altra un altra diuerfa,e munì di effe farà fopra la fuperficie, cofa che renderà marauiglia a quelli ch^_> non fanno Tartificio, Con un altro artiticio più facile potremo dare molta delicarf2za_, air imagine ponendoui fopra il talcojouero crftillo in mode, che non uireftiariadi mezzo. Dopo che farà afciutta la pttrur?.,^ilt>;.ll• peraremodella gomma netti (lima in aqua limpida,ediquefta gamni alquanto denfa copriremo la pittura ftendendouela fopra coiìefc foffe vernice, e mentre è ancor tenera ui metteremo fopra il r ileo pimen- douelo fopra fintanto chefia aIIìugatalagomma,euirefti attic ato j così la gomma uerrà a riempire ogni uacuo tra il talco, e la piruura_, come fé foffe unica immediatamente, e dipinta fopra il talco, o criftallo. Quanto poi al modo di difcgnare anch'egli è moìco vario, poiché alcuni difegnano con la penna, e con l'inchioftro, e ciò in due modi. Il primo è di quelli, che lauorano minutamente^ tratteggiando, e formando difegni, in tutto fimili alle carte flam- pate in rame. Il fecondo di quelli, che mieftri nell'arce coi pochiflìmi tratti di penna formano vn difegno di molte figure, nelle quali benché non vi fia delicatezza alcuna, comparifce nulla di- meno vna gran forza di difegno nclli atteggiamenti, e viua natu- ralezza delle cofe rapprefentate, ne! che fu molto eccellente il Can- giafi,Luca per nome, e Genouefc,di cui ho veduto vn tal difegno ap« preffo air lUuftrifs. Sig. Cauaglicr Celfo Lana inrendente non folo di pittura,ma anche di fcoltura,di fortificatione, d'ailronomij,ed in ogni forte di effercitio virtuofo fempre spplicatiflìmo. Altri difegnano comunemente con lapis roffo, o piombino, nel qual modo meglio fpiccano i chiari, e gli fcuri, e lo sfumare dell om- bre j e queftomododidifegnare è neccffario, che fia bene intefo pri- ma, e pratticato da quelli, che vogliono applicarfialla pittura 5 poi- che chi faprà ben difporrei chiari e gli fcuri rie! difegno in carta„., non ritrouerà poi molta difficoltà in adoperare i colori fopra la_. tela. Anche l'intaglio in rame è vna forte di difegno, nel che non dcuo 16$ deuo tralafciare di auuertire grriuagIiatorì,e quelli che formano di- fegni per intaglio di que]rerrorc,chc fi vede in moltifsìme carte, nelle quali fi vedono i personaggi operare con la mano finiftra,e pofte alla dcftra quelle cofe, che dourcbbero eflere collocate alla finiftra parte; il che è effetto della ftampa, che muta fopra la carta il fito delle figure, che fono intagliate nel rame j perciò nel rame fi deuono ia» tagliare con fito contrario. S'intaglia anche il rame con aqua forte, inuentione molto bella è facile de' moderni, fi dà al rame la Vernice, e dopo efler afciuga- ta,s*imprime nella Vernice vna fottil punta di ferro, che penetri fino z\ rame, vi fi mette poi lopra l'aqua forte, che penetra in quei luoi ghi douenon è la Vernice, e lafcià impreflb il difegnoj ma fé noi vorremo, che qualche parte del rame refti meno bagnata dall'aqua forte, come quella che nell'Imagini rapprefenta vna lontananza di paefe, ongeremo l'intaglio con vn poco di feuo, il quale diminuirà Is^ for^a ali aqua forte. % *S4^ rca^* j»f^' *¥^* ^* nf'^* A^H' *Y4' *fe'9!*" *ì^ •JCftp ryC'» "/sii «^9k9 ^i» ft*?*» «>fèìU «>^^ ««^s» e>^L’ARTE MAESTRA OUH'^ K " e particolarmente perche il V^tro concauo diuarica, e difvnifce i raggi j oltre, che fi vedrebbero roucfci, poiché nella decuflatione de* raggi 171 raggi il dcftrodiuenta fmiftro, e rinfcriore fi fa fuperiore, et all'in- contro • Si pone dunque qucfto Vetro concauo vicino airocchio, acciò che i raggi, i quali iì vnifcono in vn 'cono,o piramide troppo acuta, fi diuertifcano da taIevnione,e fi dilatino si, che la luce cosi fparfa,c dilatata fi pofla foffrire dall'occhio^ e di più, accio che li raggi mcdefimi,i quali di nuouo firenfrangono negli vmori dell'occhio, non fi vnifcano prima di arriu.ire al fondo dcirocchio, Qyefto Vetro concauo deue parimente cfiere più, o meno \on-n, tano dal punto delP vnjone deVaggi, conforme alla pupilla dell oc- chio di chi rimira j poiché fé la pupilla farà più tu.Tiida,e sferica, come fuorcflere dei giouaniper l'abbondanza di vmido, all'hora U diftanza del Vetro concauo dal punto deU'vnione, de* eflere mag^ giorc,cioè,efler meno diftante vn Vetro dall'altrojonde il cannochiale de accorciarfi j all'incontro fi de* allongare quando la pupilla è meno gonfia e tumida, come fuol'eflere quella de Vecchi, per mancanza di vmido, il che fi potrebbe facilnientedimoftrare con i fondamenti deU Toptica, Li feconda cofa, che fi de oflcruare nella fabrica d\ quefto ftrumento, e che a proportione della lunghezza di eflb crefca anche lo fpatio aperto del Vetro obbicttiuo,per il quale entrano i raggi con le fpccie de gli oggetti, Ciò fi fa comodamente, coprendo l'eftre- mità del Vetro con vn cartoncino, il quale hahhia vn foro tondo nel mezzo della grandezza predetta j la qual regola e molto importante, edaeffa depcnde molto il vedere l'oggetto chiaro, e diftinto]; poiché fé il foro, et apertura del Vetro farà troppo grande comparirà 'con- fufo, et ofcuro ; e la ragione è, perche non tutti li raggi dopo la re- frattionc fatta dal Vetro conu;^(ro,fi vnifcono nel medefimo punto; «• come fi vede nella figura fcguente ; poiché gl'cftremi rags;! A A fi y J^ vnifcono più prei^odi quello,che facciano li raggi B3, cioè qneliifi voifcono in D,e quelH in E, e fimilmente i rag^i B più prcfto, fi vnifcono che li raggi C, poiché qucfìi fi vnifcono in F,e la ragionec, perche li raggi eftremi vengono a^ ferire più obliquamente la fuper- ficie sferica ABCCBA, m^ gl'altri CC la ferifcono meno obliqua- mente^ onde meno, anche fi refrangono, e confeguencemente fi lien- dono più lontani prima di vnirfi nel punto F. Se dunque poneremo il Vetro concauo nel luogo. GG, quefto. non riceuerà altri raggi primaiche fi vnifchino, e fi decu(fino, che li CC, poiché li raggi A A, è: BB fi decufiinojed vriifcono in D, et in E auanti al Vetro concauo Gj conuerrà dunque dar adito, et am- mettere nel tubo li foli raggi CC,con gl'altri di mezzo, impedendo l'- in-. ingrefTo a gli altri con ricoprire reftrcmità AB, AB (Eel Vetro j altri- mcnte li raggi A,B, dopoché faranno decuffati in D, et E, confon- derebbero in tal luogo le fpecie de gli oggetti, che feco portano, eie portano confufe all'occhio pofto vicino al Vetro G. • Giouerà dunque molto oiTeruare vna proportione conuenicnte, nel che auuerto,che non fi poflbno afTegnare proportioni certe, It^ quali feruano in ogni calo, ed in ogni circoftanza;anii in due cafi la proportione fi dourà alterare . Primieramente per ragione del Vetro conueffo; poiché s'egli haurà Sgura Ipérbolicaj all'hora il forame, 5c apertura dourà eÌTerc molto più grande, come dimollre-» remojne folo quando i Vetri hanno figura Iperbolica, ma anche_^ quando la figura sferica farà più efattamente fatta ; poiché in tal cafo pochi fono li raggi inutili,che fi dcuono impedire, onde l'apertura pò-, tra eflere maggiore ; ma fé il Vetro farà lauorato male, conuerrà fare l'apertura più ftretta. Secondariamente, per ragione dell'illumina- tione dell'oggetto ; poiché quando l'oggetto è affai illuminato dee l'apertura del Vetro cffcr minore; ma particolarmente annulla de ef- fere quando noi miriamo le ftelle più chiare, le quali altrimenti non fipofibno vedere cfattamerite, perche i raggi, che rifplendono intor-. noallall:ellai^^ombranola vita; oltre che fanno, che il corpo di efsa ftella comparifca più grande, nel che molti hanno errato nel deter- minare la grandezza del Sole,e dell'altre ftelle, e pianeti; e ciò auuìe- ne particolarmente in Mercurio, ed in Marte, come che fono pianeti più fcintillanti; intorno alche vedafiHeuelio nella fua Selenografia, et il P. Niicolò Zucchi nella fìlofofia optica parte prima cap. i.fe'"-'^ nuouo refrangendofi dalli medefirai vmori, conforme la maggiore, o._ ' minore conuefiità loro in O, et in P, dopo tale refrattione co.iJj'^,^'*f! ! v»yV corrano finalmente in Q, fuperficie deÙ4 Retina,.ij^^ J Efsendoche dunque non tutti gl'occhi, e pupille hanno la' me- defima figura,e conuefi^tà, per tutti gl'occhi non ferue vgualmente i-i X X bene bene il mcdefimo Vetro toncauo j Quefto folo fi ofseruì, che fé il Vetro oculare ùlÙ meno concauQ, e come dicono più clo^c»/, rapprcfcntcrà l oggetto più chiaro, ma anche più piccolo, e con* fcgucntcmentc il cannocchiale farà più corto -, all'incontro fc farà pitt concauOjC come dicono più acuto, farà bensipiu grandi gl'o^^ getti? ma i"cno chiari, ed il cannocchiale fari più lun^o, perche il Vetro più concauo, più anche dilata li raggi, onde per non dilatarli iroppo dourà riceuere folo quelli, che più fono riftrettiie tali fono quelli che fi vnifcono pi" lontani dal Vetro conuefso . Serua dun» que di auuifo,che non fi de accomu^odare la lunghezza del can- ^occhiale al Vetro j ma fi de cercare vn Vetro concauo propor- tionatoalla lunghezza del cannocchiale già Inabilita, cioè, alquanto minore del fcmidiametro della conueffità del Vetro ©bbiettiuo ; e fé in tal diftanza vn conuefso della mcdefiitia conuedìtà richiederà vn concauo più acuto dell'altro farà fegno di maggior perfettionc-» del medefimo con^eflo, poiché f^rà più grande l'oggetto, fenzM ofcurarlo. Ordinariamente fi potremo feruire della Tauola féguente, in cui fono determinate le proportioni tra il diametro del conuefso, et il diametro del concauo, conforme ne ha Infeguato l'ifperienza-p e J^unghezza del diametro dclconucffo I 2 o. 5^ 12 > 2. 24 3 4 5 C. 7 8 > 2. 4 II i. 41 28 2.56 51 > 2. Io > 2.43 29 > S.57 IPt Lunghezza del d'jamctiCi delconcaao 5 0. 3^ II 2, 20 »3 — > I, 28 > > I. 49 1-57 17 2. 35) 2. i^ Conueffo14 IS 16 1 20 > 2.45 1 Concaua 2. 27 2. 3 I 5 5 V 342. 37 i5 -i 3° 2.58 Conueffo 3rl > ^•47 %%. r ( 2. 5 « 14 l6 i ^7 i. 5 5 1 Concauo 5 ' a. 45 5 a»^* 5 > 1. 5 3 i- 54 1 '' Li 175 JLi numeri della lunghezza del diametro del Vetro conuefsp rap. prelentano palmi, li quali fi fuppongonodiuifi in iz,oncie,e ciafcua oncia in 60. minuti, onde poi li numeri della lunghezza del dia^ metro del Vetro concauo fignificano le dette oncie, et i minuti 5 siche ad vn Vetro conuefso di diametro di vn palmo, corrifpoodQ vn concauo di diametro di oncie o. minuti $6, Doue fi fuppone, che tanto il Vetro concauo, quanto il conueflb fia lauorato d'ambe le partiima fé il concauo farà lauorato davna parte fola, e dair'altra refterà piano, all'hora il diametro della concauità dourà cflere l^^, metà mmore. Circa di che fi noti, che nulla importa che il concauo fia tale d'ambe le parti, poiché fa l'ifteflb effetto vn concauo di dia- metro dj vn oncia,Iauorato da vna parte foia, ed vn altro concauo di diametro di due oncie lauorato da tutte due le parti, non cosi riefce nel conueflb,poichc fé farà di due palmi il diametro della conueffità, cflendo lauorato da vna parte fola, porterà il cannocchiale lungo due palmi; ma fé farà lauorato da tutte due le parti porterà il cannochiale lungo fol vn palmo. Quinto. Si dee diligentemente auuertire,che le parti del can^ nocchialc, che s "inferifcono Tvna nell'altra, nel modo, eh t^ poi inregnaremo,fiano talmente ftrette,ed vnite infieme,che non vi redi feffura alcuna, per cui poffa entr:^re la luce; la quale non dourà poter penetrare per altra parte, che per l'apertura de i Vetri, altra- mente confonderà le fpecie deU*oggetto,che entrano per il Vetro, fucr cedendo il medcfimo, che in vna camera ofcurata,alla cui feneftra fia vn picciolo forame, per il quale entrino le fpecie degli oggetti, doue fé fi ammette altra luccjfubito fi confondono fimagini di detti oggetti . Sefto. Gioua molto per vedere l'oggetto chiaro,e diftinto met- tere nelPeftrema parte di ciafcuna canna del canocchiale va circo-» lo di cartone; e quefti circoli deuono effere aperti nel mezzo con tanta apertura, che riceuano folo i raggi dell'oggettoje le linee, che paffano per reftreme parti dell'apertura del Ve!;ro concauo, e del Vetro conueffo pailGno medefimamente per l'eftreme parti dell'aper- tura di tali circoli, si che dopo che hauremo detcrminate l'aperture del Vetro concauo,e del conueffo infieme con tutta la lunghezza del cannocchialcsinferiremo nelle canne dieffo gli altri circoli dimezzo con detta proportione, i quali fanno quefto effetto, che impedifco- no li raggi,e fpecie,che: dalle parti laterali entrano per il Vetro con- ueffo, acciò quefte non arriuino all'occhio, poiché confonderebbero le fpecie dciroggctto, che fi vede; Per quefto medefimo effetto gio- uerà '7» uerà che le canne fiano larghe » ancorché il cannocchiale fìa corco : poiché nell'ampiezza di effe fi debiliteranno, e fi perderanno le mede- Sme fpecie de gli oggetti ftranieri. Settimo,per impedire maggiormente tali fpecie de gli oggetti late- rali, acciò non entrino per il vetro conueffo, metteremo effo vetro non totalmenteinfinedella canna, ma alquanto più indentro, acciò i lati cfìremidi effa canna impedifcano d'ogn'intorno l'entrata a tutte le altre, fpecie, fuori che a quelle dell'oggetto che fi può fcoprire con tale can- nocchiale : ouero potremo ancora auanti al vetro conueffo ncll't iberna parte del tubo due, otre diti lontano da effo vetro mettere vn circolo di cartone con tanta apertura, che fia fufficicnte ad introdurre le fole-» fpecie dell'oggetto vifibile; nel qualcafo non faranno neceffarij altri circoli nel mezzo del cannocchiale, ma in ciò fare fi de'auuertire di non ofcurare troppo effe vetro cbbiettiuo, poiché non rapprefentareb- be l'oggetto chiaramente : onde all'hora fi porremo feruire di quella-, regola,quado vedremo che il cannocchiale rapprefenta l'oggetto trop- po chiaro, e con qualche luce colorita a modo di Iride j poiché per to- gliere queft'iride è vnico il rimedio predetto, non procedendo tal iride da altro che dalla luce colorata co la fpecie de gli altii oggetti che in- fieme fi confondono.,:o,-,i.r 1 Ottauo, il vetro concauo de' effer collocato in luogo ofcuro quanto più fia poffibile,* e l'occhio di chi rimira de' effere in luogo parimente ofcuro, altrimenti^ fé foffe cfpoflo al fole poco,o niente potrebbe dif- cernere deiroggetto, e quefta regola è di grande confideratione,& è vniuerfale per ogni forte di cannocchiale, e per ogni conditione di occhic, et anche per vedere le cofe piccole con il microfcopio; come.* vniuerfali parimente fono per ogni forte di cannocchiale le regole quinta, fefta,efettima precedenti. Giouerà dunque molto tingere di color nero tutta quella parte del tubo, che è intorno al vetro concauo, e vicina ull'occhio, e collocare effo vetro alquanto indentro nella can- na. Queft'ifteffo c'infegnò la natura nella fìruttura dell'occhiojpoiche intornoairvmor criftallino, che rapprefenta il uetro,pofe la tonaca.^ detca uuea di color fofco, e denfa, acciò in tal modo la uirtu uifiua,e gli fpiriti uiforij non fi diffipaffero:e farà meglio a nchora tinger di nero tutta la canna nella parte interiore. Nono, Si dèfapere,che con li cannocchiali breui fi fcopre inJ vnafola occhiata maggior fito a proportione della minore lunghez- za^ ma quanto più oggetto,c fpatio fi fcopre tanto minoreèladiftanza acuìpoffono diftinguere,e far comparire l'oggetto grande. Cosi di due cannocchiali vno di due palmije l'altro di quattro/c quello. difcerj la ragione è, perche per miraredavicino,comerièdetto,ri de allun- gare il cannocchiale; e queftoallungandofii raggi fanno angolo mi- nore,e perconfeguenzala punta del cono rad iofo,eirendo più picco- Ja,e riftretta,piccola anche de eflere l'apertura del Vetro perlaquale dee pafiare. Refta hora d'infegnare il modo di lauorare i Vetri, e formare le canne nelle quali fi deuono inferire; per il che diamo le fe^uenti re- gole, I. Si deue far fcicita di criftallo, il quale non habbia pori, nc^ bollc,ma fia denfo,e netto quanto farà poffibilejcome fuol eflere il cri- ftallo di Venetia, con cui fi lauorano gli Specchi, o altro fatto artificio- famente; Etauuertafi di pigliare crifhl!o,in cui non fiano certe vene, overoonde,le quali nai'cono dal difetto de gli artefici nello ftenderlo inlaftre; poiché tali onde molto più che i pori turbano le fpecie,^^ confondono le refrattioni; perciò fi pigli criflallo,che fialauorato, e luftro, per poter prima di fare la fatica conofcere {e inefla vi fono bolle,e vene, che impedifcano il buon' effetto del cannocchial^-j-: Alcuni adoprano il criftallo disiente, per efler più chiaro, ma però C^li ha yn altro difetto, che fa minore rcfrattione del criftallo di Ve- netia,dalla qual minore refrattionc nafce,che ingrandifce manco gl'- oggetti 5 oltreché non è facile il ritrouare criftallo di Monte,che fia fenza vene,ed inegualità; Altri fanno de! criftallo con arte partico- lare,e per farlo chiaro vi pongono molto di fale Alcalino foda; ma que- fti criftalli per l'ecceflo del Tale fogliono fudare,cd invmidcndo fi appannano,onde ogni volta che vogliamo adoperare il cannocchiale conuiene Icuare vìa 1 Vetri dalle canne,e nettarli; e per ordinario an- che quefti fogliono fare minor refrattionc, il qual fecondo difetto è molto coufiderabile; anzi perciò alcuni eleggono Vetro ordinario, benché alquanto fcuro, perche efllcndo più denfofa maggiore refrat- tione;c per confeguenza ingrolTa più l'oggetto. Si de* ancora auuer- tire che il vetro, o criftallo non habbia colore alcuno ; ne anche de* eficre troppo chiaro, poiché è inditio di non eflere molto denfo, oltre che rapprefenta gl'oggetti debbolmente,& alle volte con iride,de* dunque eflere di vna certa chiarezza, e nettezza denfa,e fé tira alquan- to al color d'aria, oceleftc farà buoniflìmo effetto, particolarmente nel vetro oggettiuo. Suol anche eflere ip.ditio di buon criftallo, che men- tre fi contorna con ferrOjO forbice (ì fpezzi in particelle minute; ma_* quando fi rompe in parti grofie,moft radi eflere imperfetto, e fi mani- fefta i8t fetta in cflc rofcurìtà, o il color verde del crifl:allo,o altro 5 che fé non appariranno tali colori, ma più tofto vna cerca ofcurità tenue, e rap. prefenterà le lettere fcrittefopra la carta viuacemence, con colore più nero di quello che fono, e con vn certo diletto dall'occhio, e vagherà, fappiafi che è criftallo ottimo per il noftro effetto. Auuertafiin oltre, che il criftallo per lauorareil cócauo nonhabbia alcun poro, o macchia nel mezzo j poiché iui concorrendo vnici tutti li raggi delle fpecie dell'oggetto, fi perturberebbero molto, facendo refrattione irrego!ata,e confufa; onde meglio farebbe il concauo ado- perare criftallo di Monte, o altro criftallo chiaro, ancorché non fofl'e molto denfo,poiche fé per tal ragione farà poca refrattione, fi potrà fare alquanto più concauo, onde non ne nafcerà altro inconue- nientt^ . Dopo, che hauremo fatto elettione di ottimo criftallo, con- uiene tagliarlo in parti quadre,e poi contornarlo, e rifondarlo perfet- tamente prima con vn ferro, o forbice fatta a tale effètto, poi fopra la moIa,o ruota, acciò venga ben tondo, incontrandolo con vna carta rondata con il compafso.Per tagliarlo in pezzi quadri fi fegna con fmeriglio,ocon vna punta di diamante,o altra pietra pretiofa j ma fé il Vetro toffe troppo groflb, e ciò non baftafìe per tagliarlo, dopo che rhauerai fegnato con la pietra, toccherai eflì fcgni, e righe con vn_. ferro infocato.Onero accenderai vn filoimbeuuto di fojfo, e difte- fofopra il Vetro, doue vuoi tagliarlo, e ciò farai più volte nel medtv fimo luogo, fino che h^bbia bene concepito il calore, poijvi ftenderai fopra vn altro filo bagnato di aqua fredda. IH. Il Vetro, particolarmente l'oggettiuo, non fia troppo fottile, anzi fia alquanto groflb, maflime quando dourà feruire pfer cannoc- chiale lungo; e più groflb fia quanto più è chFaro, e mcn denfo; poiché efsendo grofso h maggiore refrattione; onde fi può com^ penfare nel criftallo chiaro di Monte? o altro, la poca refrattione-* con la maggiore grc)fi*ezza. Il Vetro fia ben piano, in modo, che non fia più grofso dall'- vaa, che dall'altra parte ; anzi ne meno de cfsere più denfo in vn luogo, che nell'altro, acciò le refrattioni vengano ordinatamentc-^j perciò fi potranno fare alcuni anelli di ferro, o di rame, alti tanto quanto dourà efsere la grofsezza del v^etroji quali douranno efsere lauorati efsattainenie al torno, acciò vna parte non fia più alta deli% altra 5 in quefti anelli farai infondere da Vetrari il criftallo lique- fatto, e fubito lo premeranno di lopra con vns kftra piana, procu- rando che fia premuto vgualmente, acciò non rcfti più denfo, o qrof- fo x8» fo da vna parte che dalPaltra ; dal che ne rìfulta anche queftj commo- ditàjchefi fparamia la fatica di tondare il criftallo,venendo in tal for- ma perfettamente tondo : ma conuieneauuertirc cheli detti anelli fia- no alquanto più lirghi nella parte di fopra, per doue fi mette dentro il vetro, acciò fi poffa facilmente cauar fuori, e mettcruenc dell* altro j (imilmcnte per Ichifare la fatica di lauorare le lentijche fono vetri mol- to conueflì, come diremo appreflb, potremo fare anelli, che nel fon- do fiano alquanto concaui, acciò il uetro, che ui s'infonderà prenda_* forma conueffa. Auuertafi finalmente di far infondere il criftallo molti giorni dopo, che il criftallo è Lìazo nella fornace, acciò fia ben cotto, e purgato. V. La maggiore difficoltà di tutte le altre confitte nel lauorare i piat- ti,ouero forme, fopra le quali fi lauoranopofciaiuetri, dandoli figura conuefl^a fopra li piatti concaui, e la figura concaua fopra li piatti con- ueflì, ouero fopra palle, o mezze palle rotonde : li uetri conueffi,e par- ticolarmente quelli, che hanno poca conuefiìta, cioè una piccola por- tione di una gran sfera fono più difficili da lauorare che gl'altri: onde perciò fi richiedono piatti molto perfettive fappiafi che dalla pcrfct- tione del piatto nafce la perfettione del uetro, poiché fé il piatto non-, ha forma sferica perfetta, non la può communicare al uetro, che fo- pra lui fi lauora ; per quefto pongafi fomma induftria nel lauoro di detti piatti. Alcuni li lauorano in quello modo. Prendono vna pertica, o afta di- ritta di tanta lunghezza, quanta vogliono che fia quella del cannoc- chiale jvn capo di effa formano in modo che l'altro fi pofia girare, e muouerc per ogni lato, fi che fcrua come di compafio. In quefta parte mobile fermano vna punta di ferro, con la quale girandofi come fa la punta del compaffodifegnano fopra vna lamina di ferro, odi ramc^ vna portionediarco,qualetagliano,econlalimalo riducono in modo, che fia perfettamente sferico j pofcia quellurco medefimo, o vero vn-^ altro di ferro tagliato all'ifteffo modello formano a modo di lima ; eoa quefta lima danno la forma ad vn modello di piatto fatto di legno,con il qual modello fanno poi la forma di creta, nella quale fi fa il gitto del siietallo,e queftoè il piatto concauo, fopra cui fi lauorano i vetri con- uedijò vero conueflb fé fia per i vetri concaui i ma prima con la mede-f fima lima di ferro fatta a modo di arco sferico, fi perfettiona toglien- do da eflb ogni inegualità, che hauefle contratto con il gitto. Qual me- tallo fia migliore per quefto effetto l'infegnerà adognVno la propria-, ifpericnia, ordinariamente fi adoprano di bronzo, ouero di rame j e fi fiolTono fere anche di ferro ; Io nel lauorare le lenti ? perche in tal fat- tura turafi de* lograre molto vetro, onde fi logrerebbc molto anche la for- ma, con pericolo di perdere la perfetta (uà figura, perciò le difrozzo prima in vna forma di piombo, e pofciale finifcodi perfettionare in-, vn altra fimile di bronzo, o di rame, la quale quando mi auucdo chs_^ habbia pcrfa la figura, glie la dò con l'arco di ferro fatto a limale quefli* arco fatto a lima io adopro folo per le piccole forme da lauorare le-» lenti: nelle quali forme non vi è molta difficoltà, ne fi ricerca fom- ma efattezza, come nelle forme grandi, e di molto diametro 5 ne il predetto modo della fagma tagliata con la pertica, riefcc ficura ed efatta. Perciò meglio farebbe fare in quell'altro modo da me taluolta vfato felicemente, Attaccafivna pertica diritta al uolto di una camera.*, ouero ad un traue, o altra cofa immobile, e uuole attaccarfi non con., una fune, ma con anelli di ferro, acciò non fi pofsa allungare, ne fcor- tare : All'altro capo della pertica metto vn ferro fatto à modo di pic- colo fcalpello tagliente nella punta j ciò fatto prendcfi il piatto di mc- ta|lo,acui vuolfi darela forma concaua, e fi colloca direttamente fot- to la pertica pendente in aria in tal modo, chela punta dei ferro pofta in capo alla pertica ferifca il centro del piatto, il quale vuol' efler fer- mato ftabilmentc incaftrandoloin vnatauola,o incollandolo fopra_. vna pietra sì, che nonfipoffa muouere^airhorafivà mouendo intorno la pertica in modo, che la punta di ferro vada rodendo il piatto, fino che gl'haurà data la portione di quella sfera, di cui la pertica viene^ ad effereil femidiametrojSt accioche fi polla meglio girare la perti- ca fenza che fi alteri la di lei luughezza, meglio farà fare, che in capo habbia vna palla,© mezza palla rotunda, e quefta s'inferirà in vn anel- lo tondo, e concauoamodo di vn' altra mezza palla coricaua sì, che quella in quella mouendofi la pertica faccia il fuo effetto, ^_^ la palla fia come il centro, da cui prende il moto la medefima pertica.^ • Ma lafciando ogn'altro modo come laboriofo, impetfetto,& efpofio a molti pericoli di errore ;paleferò in cuefto luogo vnmodo ficuriffi- mojcfattiffimo, e facile, con cui potremo fare piatti per cannocchiali di cento, e più palmi fenza pericolo di errore alcuno: Quello artificio tenuto fin bora fegreto, non voglio tralafciaredipalefarloper publico vtilc J benché forfi a tal* vno non piacerà che io l'habbia palefato; ma fc alcuno il quale forfiè flato il primo inuentore di quello artificio, l'ha voluto tenere nafccftojiochefenza faperlodalui,o da altri l'ho ritrouato, poflb publicarlo come cofa mia propria : deuo benfi però darne anche lode a chi mi ha aiutato a perfettionarloj e ridurlo facil- % z mente i8z Hicntealhpratticajcioè al Sig. Francefco Simonetta Ingegnere, «_, matematico molto intendente del Sereniflìmo Sig, Duca di Parma, il quale nel mcdefimo tempo che io in Roma ; haueua penfato in Parma_. quello artificio fenza che Tvno fapeire nulla dell'altro^ onde poi l'anno 1660, giontoioinparmaje difcorrendoìconefib lui,rJtrouai che il •enio conforme hauea portati ambidue ad vna medefima inuentione? Quale hora è pratticata da quefto gentilhuomo con ogni perfettione, facendo egli piatti per ogni forte di cannocchiale con ogni eccellen- za, e maeftria. E so elfer hoggidì pratticata ancora da altri,© efli Thab- biano ntrouatadafcmedefimi,o l'habbianorifaputadaalcunia quali io rhocommunicatajnel che mi dichiaro di non volere pregiudicare ad alcuno nella gloria di tale inuentione, effendo cofa frequente cho-» piudVno s'incontri a ritrouarQ fpecolando,o prattic^ndo vna, cofa_r. medefima.^ « Prendafi il piatto di metallo rotondato, e piano, overo alquanto battuto, $r incauato, conforme al maggior confano, che fé li vuol dare, e per finirlo di perfettionare,e darli perfetta figura fi incaftra fortemente in vn capo di vn legno tondo, e cosi fermo fi fta- bilifce fnpra vn torno in aria, in modo che fi giri nel fno centro; e per farlo girare feguitamente fempre da vna parte fi potrà ac- commodare vna ruota, che girandofi col premere di vn pierr nr ^nr^fy "*f o^JÌ X. Il vetro oggiettiuo de' eflère groflb, o fottllc conforme la lun- ghezza del cannocchiale, e eonucflìtà,che fé li vuol dare 5 e quanto più lungo farà il cannocchiale, tanto più groffo de* eflere il vetro ^ rna_, %, è difficile il determinare qual regola, e proportione s'habbia da ofler- uarej poiché non ogni vetro è vgualmente denfo, o chiaro, e perciò vno fa più refrattione, e l'altro meno j onde i vetri meno denfi deono pigliarli anche più groflì, acciò la poca refrattione, che nafce dalla_, rarità, fia compenfata dalla groflfezza. lotenendo vna viadi mezzo of- feruo quella proportione j piglio dodici gradi di quel circolo (che fi fuppone diuifo al folito in $ 60, gradi ) di cui effer dee la conuclTìtà del vetro ; come nella portione di circolo A D B, fimile al quale cfler dec«* la conuellìtà del vetro; piglio dodici gradi cioè da A fino a B,e vi tiro fotto vna linea ACBjpoi faccio che la groffezza del uctro fia_, tanta, quanta è la diftanza CD duplicata, cioè tanta quanta è la Imea ig'-vv^T DE in modojche fé il uetro nella conuellìtifofìe 12. gradi, e filano- - raffe d'ambe le parti, nell'cllrcma circonferenza refterebbe confumata dall'arena tutta la fua groflfezza, e finirebbe in un taglio. XI. Sopra tutto fi de' hauer riguardo alla grandezza del uetro; poi- che fé bene poca parte di eflb de* reftare fcoperta per riceuere i ra"^. gi de gli oggetti ; nulladimeno moftra Tifperienza che facendoli pic- coli non prendono perfettamente la figura del piatto, onde fi deono fare molto più grandi di quello che porti l'apertura loro nel cannoc- chiale ; poiché lauorati, e luftrati che fiano,fe non li vorremo sì grandi potremo poi impiccolirli; e non rincrefca ad alcunola maggior fatica, che fiproua inlanorare,e luftrare i vetri più grandi, poiché verrà ri- compenfata dalla perfettionedel vetro che riufcirà fenza paragone^ megliore : come ho imparato dall' efpcrienza: Io non faccio vetro di 12. palmi che non fia largo almeno 4. oncie,cioè vn terzo di palmo, ed i vetri di 20. palmi li tengo larghi mezzo palmo; che peròadopro piatti affai grandi, doucndo quelli eflere tre in quattro volte più lar^^hi del vetro nel loro diametro; onde anche auuiene che meglio confer- uinola loro figura concaua perfetti^ . Dopo che fono lauorati, e puliti li vetri fi deono inferire nelle canne; circa le quali oltre lecofe già accennate difopra fide'auuerti- re di farle leggieri, acciò non fi pieghino facilmente perii pefo ; ma nondeuono però eflere tanto fottiIi,che vi penetri, e trafparif- ca la luce; di più non folo conuiene in ogni maniera impedire ogni adito alla luce, facendo che vna canna vadiben ftretta con l'altra»,, ma »>» ina anche gìoucrà per di dentro darle color neroi Giouerà ancora^ fare le canne in modo che fiano alquanto più Jarghe nella rvl cima che nel fondo, poiché cofi Icorrerano facilmen^ te, e diftcfe che fiano la parte larga, vnendofi con la ftrctta fi ftringeranno forrement^^ fenza pericolo che fi pieghino, o vacillino. !Oìt)nt)n; : ^tlli céinnocchìali dì due^ o fin 'vetri conuef/f. I fogHono fare cannocchiali fenza vetro concauo,ponen- do vicino all'occhio, o poco da eflb lontano come di- remo vna, o più lenti, cioè vetri conueflì di poca sfera ; e benché li cannocchiali con vna fola lente vicina all'- occhio rapprefentino gl'oggetti riuoltati al contrario; fi vfano però per mirare le macchie della luna, del fole, e le altre ftelle, quali nulla rileua che la parte deftra comparifca dalla finiftra. Per tan- to fi fanno con quefte regole. I. La lentefcèconuelTa d'ambe le parti dceftarc dentro la canna_. vicina all'occhio quanto è ilfemidiametro di effa lente ; ma fé è con- ueflada vna parte fola dee fìare lontana dall'occhio il doppio, cioè quanto è tutto il diametro. IL Al diametro del vetro oggettiuo dee corrifpondere quello della lente; poichei vetri obbiettiuì di maggior diametro richiedonoanche vna lente di diametro maggiore con vna tal quale proporrione; nel che fi de* fapere, che tanto più grandi fi rapprefenteranno gl'oggetti, quanto la lente farà di minor sfera, e di più breue diametro; ma quan- to più grandi farà gl'oggetti, tanto più ofcuri compariranno, et all'in- contro la lente di maggior sferali rapprefenterà più chiari,ma più pic- coli. La ragione di queftoè perche ciò che apparifce più grandc,app2- rifce tale perche fi mirafottovn maggior angolo, come dimoftra Top- tica;ma quelle cofé che fi vedono fottomaggiorangolo, fi vedono più ofcuramente, perche eflendo l'angolo grande, i raggi vifuali che_» deuono riempire eflo angolo, fi diffipano troppo, onde perdono della fua forza, viuacità, e vigore, che riteneuano e&ndo vniti in vn angolo minore-^. Quale debba eflere la proportione della lente con il vetro cbbietti- uo non fi può facilmente determinare, poiché quanto più perfetta farà la figura sferica deirobbiettiuo, tanto più gagliarda, cioè di minori;^ sfera potrà cflcre la lente, onde anche da ciò fi conofce la perfettiono del vetro obbicttiuo, che fi poifa accompagnare con vna lente gagliar- da, e nulladimeno con ingrandire maggiormente roggctto,lo rappre- fenti però affai chiaro. Quando vn vetro obbiettiuodi cannocchiale-^ C e e lungo »54 lungo 1 o. palmi fi pofTa accompagnare con vna lente che fia di femi- diametro vna fefta parte fola diva palmOjfide'ftimare molto perfet- to, ed io ne ho lauorati alcuni di que/h natura 5 fi che rapprcfentano l'oggetto fefianta volte più grande di quello che comparifca all'occhio nudo. Poiché fi de* fapere che la grandezza apparente dell'oggetto lontanomiratocontalecannocchiale, paragonata alla grandezza ap- parente del medefimo mirato fenza cannocchiale, ha la medcfima pro- portione, che è tra il diametro dell'obbiettiuo, ed il diametro della len- 5e,fi che efiendo vna fefta parte di vn palmo, a io. palmi come i.a 6q, tuie èfimilmentela proportione dell'ingrandimento. Quindi èche fé vn cannocchiale il doppio più lungo cioè di 20. palmi fi accompagnaf- fe con vna lente di diametro pirimence al doppio cioè di vna terza par- te divn palmo, quefto cannocchiale benché il doppio più lungo, non_* rapprefenterebbe niente più grande Toggecto di quello che faccia l'al- tro; che però non deecrefcereil diametro della lente a quella propor- tion,checrefceil diametro dell'obbiettiuo, ma molto meno. La ragione poi per la quale l'iftciTa lente, che ferue bene ad vn ob- bicinuodi lo.palmi nonferuaad vn altrodi 20. palmi, è perche di quanto più lungodiam.ctro,e i! vetro, tanto piuingrandifce a propor- tione gl'oggetti, i quali non comparifcono grandi per altro fé non per- che fi vedono fottovn angolo maggiore; e confeguentemente conmi^ nor quantità di raggi in ciafcun ponto dell' imagine,!a quale quanto più grande fi forma, fi forma parimente più debbole, e meno viuace, come fi vede nelle imagini tramandate da tali vetri obbiettiui,poftiad vn forame di vna feneftra in camera ofcura: Quindi èche fefiaccom- pagnafle conTobbiettiuo di 20. palmi l'iftefla lentcchc ferue perl'ob- bieitiuo di lo. palmi fi formerebbero l'imagini delli oggetti troppo dtbboli,& ofcure; che però fi accompagna vna lente di maggior dia- metro, la quale formi Timagini più chiare benché più piccole ; conuie- neperò notare che l'imagini più grandi formate da vn vetro obbicttiua U.g.di 10. palmi non fono il doppio più debboli di quelle che fi for- rnano da unuetro obbiettiuodi io. palmi, perche la maggior quantità di ra^^ich' entrano per l'apertura maggiore del vetro di 20. palmi compcnlala debbolezzajonde fé l'apertura del vetro di 10. palmi po- tefle eflcre il doppio più grande di quella del vetro di io. palmi sì,che tutti iraggsche entra{reroperefl3,fi vnifl'ero a formare l'imagine, co» me fi vnifcono quelli eh' entrano per l'apertura il doppio minore del vctrodi lo. palmi, l'imagine fi formerebbe il doppio più grande, c-^ nuUadimeno ritenerebbe l'iftcfla chiarezza, e viuacità jonde fi potreb- be adoperare l'ifteifa lente, che ferue per il vetro di 10. palmi j ma_. per- Ii>5 perche non fi può dare tant' apertura al vetro, che tutti h" raggi che per cfla entrano vengano ad vnirfi nella formatione dell'imagine, perciò fi deecompenfarela minore apertura, con la lente di maggior diametro: Pertanto fi dourà ofleruare quefta regola, che nel cannocchiale più lungo quanto l'apertura del veftro è minor di quello che dourebbe effe. re a proportione della lunghezza, tanto maggiore fia il diametro della_, lente à proportione del diametro della lente del cannocchiale minore, v.g. fia vn vetro di cannocchiale di i ©.palmi, con apertura di vn oncia, C con vna lente di due oncie di diametro, il quale riefca perfetto : oc vn altro vetro di 20. palmi non pofl'a vnire perfettamente i raggi con aper- tura maggiore di vn oncia è mezza, fi che manchi vna mezz'oncia alla proportione della lunghezza, la lente dourà efiere di 5, oncie. Nel che però fi auuerta che quando dico vn oncia,o vn oncia,c mez- za di apertura del vetro non fi de' intendere vn oncia di diametro in lunghezza,ma in ampiezza difuperficie, eflendoche la fupcrficie non crefcc con la proportione del diametro, ma con proportione ma^aio- re,cioè con la proportione de' quadrati del diametro ; come dimoftra Euclide. Ciò che fi detto del diametro della lente s'intenda ancora del diametro delconcauo, quando quefl:o fi adopra invece di quella. Didì che la proportione della grandezza apparéte con il canocchia- le, alla grandezza apparente fenza cannocchiale, e la medefima ch?_-» quella del diametro del vetro obbiettiuo al diametro della lentejil che fide'intendere quando l'oggetto ftia lontano dal vetro obbiettiuo del cannocchiale foltanto,quanto è il diametro, onero fcmidiametrodeija conuefiìtà del medefimo vetro, cioè quando l'oggetto è lontano dal ve- tro quanto è il foco delvetromedefimo^nel qual cafo il cannocchiale fa l'effetto di microfcopio : ma in maggiore dilhnza l'oggetto non com- parifce ingrandito con la medefima proportione, ancor che cale fia la proportione de gli angpli,che fanno i raggi, li quali vengono dall'eflire- me parti dell'oggetto al punto della villa, la ragione è perche la gran- dezza apparente dell'oggetto, non fi de'mifurare dall'angolo, de i rag^^i efì:remi dell'oggetto formato nell'occhiojma dal angolo, de'medefimi « raggi dopochefi fono refratti da gli umori dell'occhio medefimo i il che per non eifer fì:ato auuertito da molti, è fl:ato occafionedi errore nel determinare la grandezza apparente de gii oggetti ; fia v. g, l'oggetto r-- AB prima vicino all'occhio C, l'angolo che determina la grandezza ;f^_J^^* apparente non è l'angolo AC B,- ilchefi prouamanifeftamcntecon-, l'ifperienza.-poiche pofto rifieflb oggetto AB al doppio più lontano dall'occhiojcioè in GH,farà necefìariamente TangoloGCH il dop- pio minore dell'angolo A C B, onde dourebbe l'oggetto medefimo com- pa- 196 parire il doppio più piccolo ^ e pure rifpenenza moftra, che Ce io miro vg.vn vetro di vna fencftra prima in diftanza dicinquepaffijC poi in diftanza di dieci paflì, in quefta feconda diftanza non mi comparirà ildoppjo più piccolo j anzi mi comparirà poco minore di prima-. • La grandezza dunque apparente fi dcEermina,da gl'angoli de'mcdefimi raoc^i dopoché fi fono refratti nell'occhio, cioè dall'angolo F CE for- mato dalli raggi A CE, BCF, dopo che fi fono decufifati, e refratti, e dall'angiolo DCI formato dalli raggi C CI, HCD, fimiimente de- cufTsti, e refratti ; e perche l'angolo F C E, non è il doppio maggiora-» dell'angolo DCl,benchefia formatoda raggi, che vengono dall' og- oettoil doppio più vicinojperciò l'oggetto ancorché più vicino al dop- pio non comparifce al doppio più grande 3 La ragione poi per la quale quell'an^olojchedourebbe efiere al doppio più grande non Io fia, de* pende da varie cofe,quali farebbe cofa lunga il fpiegarlejOnde mi rifer- uo a parlarne nell'optica. i Per bora bafìii fapereche laproportionedegli angoli fatti da raggi eftrcmi deiroggetto,ed vniti fenza refrattione all'occhio, non èia me- defima con la proportione della grandezza apparente, e per confe- ouenxa è falfa la regola vniuerfaie jche anche nell'ingrandimento óeK- oggetto fatto dal cannocchiale fia la medefima proportione tra Ia-appIicheremo effo cannocchiale con il Ve- tro cbbiettiuo al forame della feneftra,e porremo al fuo luogo la terza lente fola,facendopafl3re per il Vetro obbiettiuo, et per cfla lente le imagini de gl'oggetti pofti incontro alla feneftra, e collocheremo die- tro alla lente vna carta,laquale fé farà vicina alla lente, riceuerà ì^l^ imagini rouefciate ; ma fé fi andrà allontanando, il cerchietta delle imagini fi andrà impiccolendo, fino chela carta fia lontana daeffa lcnte,tantoquancoè ildi lei femidiamctroj, ed in qucfta dif- tanza farà vn piccioHffimo cerchietto, e quafivn punto di luce vi-*. i E e e uif- 202 uifsima,ch'è quel punto, in cui fi colloca l'occhio, mirancio per dee-' to cannocchiale di vna fola lente. Allontanando poi maggiormente. la carta,di nuouo s'incomincierà ad ingrandire il cerchietto, con den- tro l'imagini radrizzate.- fegno euidente,che fi radrizzano in quel punto di luce intenfa,ouefivnirconoiraggi,efidecufl'anoj e quanto più fi allontanerà la carta, più longo fi farà il cerchietto,e s'ingrandi- ranno le imagini,ma perderanno ancora della fua chiareiz,a,c viuacirà; punque collocheremo la feconda lente in quella diflanza dalla ter- za, ncìla,'quale diitanza comparifcono le imagini radrizzate in vn_* cerchietto di competente grandezza, nel quale fiano aflai chiarc,e viuejlat]ualediftanza farà il duplicato femidiametro della terza lente, o alquanto meno. Di nuouo poi collocheremo la carta dietro a ^'■^"'.^.quefta feconda lente,e vedremo in cfìa le imagini parimente radriz- " ^''zate con quefta varietà peròjche in vicinanza alia detta feconda lente,comparirannochiare»maconfufe;nia in maggiore diftanza di quello,chefia ilfemidiametro della lente, compariranno difìiinte, t_j qui doue fono più diftinte, e chiare fi de collocare la prima lente ocu- lare di quella grandezza, che farà il cerchietto di.efìefopra lacarca, dietro alla quale prima lente collocando la cartaio diftanza del femi- diametro, vedremo vn altro piccolo punto di luce, doue fide'col- locare l'occhio, vncndofi ini le imagini. Ciò fi dichiara nelia^ prefente figura 5 nella quale il Vetro oggettiuo AB, riceue le ima- gini con i raggi CE, DF, iqualifidecufsano,cfirouefcianonel- Tentrare per l'apertura dicfso Vetro sì, che roggetto deliro vedeCi alla parte finiftra,comc è manifefto nelle imagini, che fi vedono rap- prelentate nella carta pofta dietro ad elfo Vetro, quando quefì:a fi applica iolo al forame della camera ofcurata ; fi riccuono dun- que le imagini rouefciatc nella terza lente FÉ, e perciò met- tendo la carta vicina ad efla lente tra il punto G, e la medcfir ma lente fi vedono rouefciate,fino a tanto, che vnendofi tutti li raggi di efi^ nel punto G, fi raddrizzano, e fi riceuono diritte-» nella lente H I, e perche i raggi di cfle fi dilatarebbero in L, et M, perciò la feconda lente HI, li reftringe in N, et O, doue parimente dirizzate fi riceuono nella prima lente NO, e quefta le finifce di vnire nel punto P, poco auanti al quale fi colloca l'occhio, il quale le vede, come fé fofsero nella fuperfi^ eie della lente NO, e perciò le vede diritte 5 so che altri altra- mente fpiegano il modo, con cui operano quefti Vetri nel cannoc- chiale, ma qui non voglio prendere, ed impugnare l'altrui opinioni, poiché io non procedo con dimoftrationi geometriche, il che mi ri^ feruo 205 feruodi fare nella mia optica; ma folo con le ragioni fìfiche cauate^ dairifperienza che cofi m'infegna. Chi bene intende queft* effetto de i detti vetri ( e l'intenderà più facilmente chi gli applicherà al forame della feneftra come fi è detto) potrà difporre le lenti non a cafo, come fanno la maggior parte ài quelli che fabricano cannocchiali, ma con arte ed in modo tale, che faranno gì oggetti molto più grandi, con vedere infiemc molto fito . Poiché auuertirà prima che la lente F E vuol cfìer collocata lontana.^ dal vetro obbiettiuo in quel fito, e diibnza poco maggiore, nella quale i'imagini cheentrano per eff^ vetro obbiettiuo applicato al forame, fi vedono più chiarc,ediftintej il che farà il femidiametrodi elfo vetro obbiettiuo. Dourà parimente effer larga acciò riceua I'imagini di mol- ti oggetti, poiché cofi il cannocchiale vedrà maggior quantità di o^;- getti,cioè tutti quellijdelli quali fi riceuonoleimagini m ella tcrz,a_. lente F E j purché tutte venghino tramandate alle altre lenti ; e perche fé la lente F E fofie troppo conuefìa ingrandirebbe ben sì, ma non rra- mandarcbbe tutte le imagini alla feconda lente, ma folo parte di elle, e quefte affai ofcure; perciò fi de' fare di minore conueflìtà, cioè di maggior diametro delle altre, acciò i raggi FI, EH non fi dilatino troppo in modo, che non fi poffano riceuere tutte le imagini nella fe- conda lente MI, la quale vuole efler pofta difiante dal punto G,in_. cuifiriuoltano,e fi raddrizzano I'imagini, tanto, quanto è il proprio femidiametro, e dourà effere tanto larga, quanto è il cerchietto delì l^ imagini in quella diftanza, acciò non fi perda niuna imagine di quella che riceue la terza lente, ma tutte fi tramandino raddrizzate alla fe- conda, e quefta feconda lente HI, de' effere conueffa tanto, quanto bafta perrefì:ringere i raggi GH,GI (i quali andrebbero a termina- re inL,&i\'f,) e portarli nella prima lente in N,& O,onde neanche dourà effere troppo conueffa altramenteli rellringerebbe troppo, ^^ per confeguenza impiccolirebbe le imagini, fi che de'cffere taie,chei raggi H O, IN fi vadano più tofto dilatando che reftringendo, e ter- minino in vna lente O N, tanto larga quanto bafta a riceuere tutte le dette imagini, acciò ne anche queih ne perda alcuna; e perche,come fi è detto più volte 5 gl'oggetti comparifcono comefefoffcro in quefta prima lente oculare, perciò dourà effere molto più conueffa delle altre; poiché in tal modo vnirà i raggi in maggior vicinanza cioè inP,e per confeguenza l'angolo OPN farà maggiore; onde anche maggior^»^ comparirà l'oggetto, il quale tanto più grande rafìembra, quanto è maggiore l'angolo fotte cui fi vede. Nclchefipuò ofseruare che I«^ due lentivicine all'occhio fanno l'effetto del microfcopio,ingranden-;^ do 204 do le fpecie,che fi riceuono nell.i terza lente. • Auuertafi finalmente che le lenti fiano di criftallo chiariilìmo, e» candido^e più fottilechefia poffibilcje particolarmente )a lente ocu- lare de'hauere quefteducconditioni j ma la lente di mezzo potrà efiere alquanto meno chiaraje di colore leggiermente auuinato, par- ticolarmente quando il criftallo dell'obbiettiuo fofle aflai chiaro, ma quando quefto fofle, come de'efìcre di colore auuinato, tutte le lenti deuono eflcre di criftallo chiariftìmo,come quello di monte. Oltre alle tre lenti fé ne poflbno aggiongere delle altre, e ciò in_. vari) modi, ma perche dalla moltitudine di efie poca vtilità fi può ottenere; perciò io non ftimo, che fia bene l'vfarle particolar- mente,perche incorreremo facilmente in alcuni difetti difficili ad eui- tarfi nella moltiplicatione delle lenti : Ben sì io ho efperimentato mol- lo gioueMoleTaggiongereyn fecondo Vetro obbiettiuo poco lontano dal primo sì,chefiano due Vetri obbiettiuij&vna lentc,ouero anche tre lentijpoiche quefta difpofitione di cinque Vetri abbreuia il can- nochiale,ritiene in gran parte la mcdefima grandezza l'oggetto, c-^ comparifce più chiaro: Dcuefi dunque fare vn Vetro obbiettiuo, il quale fia di minor diametro de!ralrro,ela difterenia de'efterelaquin^ ta,ola quarta parte; per cfempio fei'vno è di cinque paimi,raitro fi de* fare di quattro in circa; poi quello di cinque fi de' mettere neireftre-. mo del cannocchialcjche miri l*oggetto,e l'altro di quattro palmi 11 de' collocare più dentro nel cannocchiale, o meno 5 conforme li di- uerfi efifetti,che pretendiamo, poiché fé defideriamo vedere l'oggetto chiaro, e piccolo auuicineremo maggiormente edì due Vetri obbiet-' tiuijfe vorremo che rapprefenti l'oggetto grandc,e meno chiaro, gli allontanaremo;auuercendojche quando allontaneremo vn obbiettiuo dall'altro, douremo auuicinarelelcntiad eflì obbicttiui,& all'incon- troquando auuicineremo gl'obbiettiai tra di loro, douremo allonta- nare da edile lenti. Auuertafi anchcjchcla lunghezza del cannocchiale farà motto mi- nore di quello che farebbejfe vi fofle il folo primo obbiettiuo,che mira l'oggetto. Di più, tal hora due Vetri cbbiertiui lauorati fopra vn medefimo piatto fono atti a quefto effetto,quando dal modo di lauorarli vno rie-. fce di alquanto maggiore diametro dell'altro. Notoancora,chequeftj due obbiettiui fanno belliffìmo effetto nei cannocchiali aflTai lunghi, poiché il difetto de' Vetri, che hanno afsai lungo diametro, confifte in non vnire bene i raggi ;& vn tale difetto viene corretto dall'altro Vetro di minore diametro,come fi vedrà me-» olio 205 Balle le cofe, che fi diranno apprefso. Finalmente deuo auuertire,che nelli cannocchiali di molti Vetri fi vfi molta diligenza in fare, che la faccia di vn Vetro riguardi dirit- tamente Taltra, e non fiano ftorte, ma Tvna efattamente parallela-, all'altra ; altrimenti il cannocchiale rapprefenterà l'oggetto ofcura- mcnte per la confufione delle refrattioni. Refta difcorrere de* cannocchiali ditrce più Vetri, parte de qua- li fiano concaui,e parte conueflì; e primieramente fappiafi, che Ia_, inedefima inuentione poc * anzi accennata di feruirfi di due Verri conueflì obbiettiui, fa ottimo effetto anche nel cannocchiale ordina- rio con il Vetro oculare concauo^ siche qual fi voglia cannocchiale ordinario di due Vetri,vno concauo, l'altro conuefso fi può molto per- fettionare con aggiongere vn altro conueflb poco lontano dal primo, edi alquanto minore diametro j poiché in tal modo il cannocchiale^ riufcirà afsai più breue,e farà Toggetto più chiaro,abbracciando mag- gior fico 5 e fi può allongare, et accorciare, conforme defideriamo vedere gl'oggetti grandi, e meno chiari, overo più chiari, e pic- coli. 2. Mi piace di riferire in quefto luogo vn altra inuentione, che confifte in fapere collocare vn Vetro concauo circa il mezzo de! can- nocchiale ordinariosì, che fiano due Vetri concaui jauertendo, che il concauo,che fi mette no dal capo,ma più dentro nella canna de'cfsere disferaalsaigrande, cioè, poco concauo ^poiché in tal modo non di- uaricarà li raggi trafmefseli dal Vetro obbiettiuo, ma folo impedirà chefivnifcano troppo prefto,e portandoli più lontani gli vnirà tutti infiemej ladoue prima quelli,che entrauano perle parti eilreme del Vetro fi vniuano troppo prefto,e prima de gl'altri, e nella mcdefima maniera potremo feruirfi di fimili Vetri concaui anche ne gl'ahri can- nocchiali con le lentijO con due Vetri obbiettiui^ e di più porremo cor- reggere il medefimo difetto, che hanno le lenti di non vnire tutti i rag- gi nella medefima diftanxa, con metterui auantio dopo alcuno di quefti Vetri concaui, auuertendo, che vuole efsere proportionatifsi- mo alla conuefsità di auellojdi cui vogliamo correCTocre il difetto, nel che anche fi de'«faperc,che collocando quefto concauo dopo il Vetro obbiettiuo, il cannocchiale riefce notabilmente più lungo j e fé nt«> può facilmente intendere la ragione dalle cofe predette. ponendo la fuperficie conuefli verfo l'oggetto vnirà i raggi in diftanza diuerfa da quello, che farà ponendo verfo l'oggetto la_, fupcrfìcie concaua, o meno conuefsa, o piana». ; Quindi riefce difficile il determinare precifamente la diftanza del foco dei Vetri sferici 5 aggiongafi, che i Vetri piu denfi, e b:n_, cotti fanno maggiore refrattione, si che vnifconoi raggia minore di- ftanzajonde non effendo tutti li Vetri vgualmente denfi,non fi può fa- pere precifamente la quantità dell'angolo della refrattione, potendo eflere in alcuni piu, in alcuni meno della terza parte dell'angolo dell'-^ incidenza . Quanto è maggiore la refrattione,tanto megliore riefce il Vetro, poiché minore fuario di refrattione vi ètra i raggi vicini al- rafse,edi raggi da efso lontani, si che poi tutti fi vnifcono quafiaU'if- tcfsa diftanza, Hor per fapere pratticamente la diftanza del foco di ciafcua Vetro fi pofsono ofseruare varie maniere. 11 primo modo affai co- mune perii Vetri conuefsi è,efporli alla luce del Solere facendo paf- farepereflìifuoi raggi,ofreruare a qual diftanza fi vnifcano in vn mi^ nor cerchietto di viuitfima lucej poiché tal vnione di raggi la dous fi fi, quiui fi dice efler il foco del Vetro conueffo; fi de* però notaresche ne'Vetri di grande sfera riefce difficile il difcernere qual fii quel fico piu,o meno diftante,nel quale fi faccia la maggior vnione,poiche tali Vetri non vnifcono tutti i raggi in si piccol cerchio, come fanno li Vetri di sfera minore, 2. Pongafi vn lume dietro al Vetro in tal diftanza, che i raggi di elfo penetrando per il Vetro efcano dall'altra parte paralleli, termi- nandofi in alcun piano oppofto ne riftretti,ne dilatati, ma con vn cer- chio di luce vgualea'la grandezza del Vetro j percioche tal diftanza del lume del Vetro, fé quefto farà conueflo d'ambe le parti, farà il fe- mìdiametroj e fé conueflbda vna fol parte dall'altra piano, farà il diametro, e comunque fia farà fempre la diftanza del foco; Quefto modo parimente riefce piu efatto nelle lenti, et -altri Vetri di non molta sfera; e fi de'auuertirejcheriufcirà meglio,fe illumefarà molto pìccolojouero applicato ad vn piccolo forame. 3. Si metta l'occhio lontano dal Vetro conueflo pofto dirimpetto ad oggetti lontani; e quando l'occhio farà arriuaco a tal lontanan- za dalVetro,che mirando perefib gl'oggetti lontani fé gli confondano: totalmcnte,fappiafi che tal diftanza è fito dell'occhio e quella del focoj Que- io8 Quefta regola però non fcrueper i uìiopi, poiché quefti ponendo in^ tal fico, o poco da eflb lontano l'occhio fenza altro vetro concauo, ^^ fcnza lente, vedono gl'oggetti diftinti ed ingranditi, come altri li vedo- no con il cannocchiale perfetto di due vetri, cofa offeruata nouamente, e deonad'efiere notata come nuoua,efinfjolare, 4. Si efponga al fole il vetro, e fi faccia riflettere il lume in vn pia- no oppoftocheftiatràil vctro,edilfo!ejfi vadaauuicinando,o allon- tanando il vetro da elfo piano fin tantoché i raggi rifleflì dalla fuperfi- cie di dietro dal vetro fi vnifcano in detto piano in vn cerchietto di luce, più piccolo che farà podìbile, poiché la diftanza del vetro dai piano farà la quarta parte del diametro della fuperfìcie di dietro al ve- tro, che riflette tal lume, come fé fofl'e fpccchio concauo,onde fé il ve- tro haurà rifìefl'acenueflìtà, anche dall'altra parte tal diftanza farà la metà della diftanza del foco, ma fé dall'altra parte farà piano, farà folo la quarta parte. Nella lenteèpiu facile conofcere quanta fia la diftanza del foco non folo con le regole infegnate di fopra, particolarmente con efporlc a rag8;i del fole, ouero ad vn lume lontano acciò i raggi fiano paralleli fé non perfettamente almeno proflìn5amentc,& offeruarea che diftan- za gli vnifcCjCcon por l'occhio in fito in cui fi confondono gl'oggetti lontani: ma di più con por l'occhio aflai vicino alla lente, e quefta fo- pra vn libro allontanandola da efibfmo che i caratteri fi vedano più ingranditi, e più chiari che fia poflìbile; poiché tal diftanza del!a_. lente da quei caratteri, e la diftanza del foco. Secondo fi ponga vn lu- me tral'occhio, e lalente,ed il lume fi vada auuicinando allalcntc_j, fintantoché fi veda riflettere dalla fuperfìcie concaua oppofta deila_» lente, vn lume rouefciato che fporga fuori della lente quafi in aria_^ verfo l'occhio, et arriui fino al lume vero, poiché tal diftanza del lume dalla lente, farà la metà del femidiametrocioè del foco. Per faperpoiil foco, o come altri Io chiamano il contrafoco de' ve- tri concaui fi miri con l'occhio vicino per il vetro vn oggetto fino che comparifca il doppio minore, per efempiofino che due vetri di vna feneftra comparifcano in tanto ipatio, quanto vn folo a loro vi- cino jimpercioche la diftanza del vetro dall'oggetto farà quella del foco . La feconda regola aflegnata di fopra per i vetri conueflì vale an- cora per i concaui. 5. Vn altra inuentione molto vtile nel lauoro deVetri obbiettiui per cannocchiali afìfai lunghi, è il congiongerein eflì la figura conca- ua conia conuefla,in modo tale, che eflendo la conueftìtà portionc-» di minor sfera, e la concauità di sfera maggiore facciano Teftetto di vetro Io9 vetro conueflfo, con il quale artificio noi potremo lauorarc vetri (opra piatti di pochi palmi di diametro, li quali con tutto ciò feruano per cannocchiali longhidìmijcome fé foflerolauorati fbpra piatti di grà- diflìmo diametro: e con ciò euitaremo quella grande difficoltà, che fi ritrouanel dare la figura perfetta conuefla alli vetri di lungho dia- metro : oltre che fé la concauità di vna faccia del vetro haurà vna_j conueniente proportioneconla conuefifìtà dell'altra faccia, partorirà ottimo effetto di vriire i raggi molto meglio, che fé fofle conueflfo dall' vna, e dall'altra parte. Nel che accade, che quanto minore farà la_. differenza de'diametnY purché il concauofia fempredi maggior dia- metro ) tanto più lungo riufcirà il cannocchiale,come fé il vetro foiT?^ lauorato fopra piatti di lunghiflìmo diametro. Quefti vetri conuellb concaui,foggiaciono però ad vna imperfettione notabile, et è ch«_/ non fé li può dare apertura maggiore di quella, che porterebbe fé foflfe folo conueffo con l'ifteffa conue{Iìtà,onde riceuono pochi raggi a proportione della lunghezza del cannocchiale,onde fimagini fi ingran- difcono ben sì, ma reflano debboli 5 feruiranno nulladimeno per li og- getti celefli, quando il uctro ricerca poca apertura, Refla per fine di quello capo di dire alcuna cofa delli cannochiall, con i quali fi mirano gì* oggetti con tutti e due gl'occhi che per ciò adimandiamo binoculi. Elfendo dunque cofa certa che quando noi miriamo alcun* oggetto con ambi gl'occhi lo vediamo più chiaro, particolarmente in molta diftanza, feguita che facendo noi vn can- nocchiale con il quale fi poffa rapprefentare Toggetto a tutti due gl'- occhi, non folo ci comparirà più chiaro, ma faremo meno fa— tica_j . Si farà dunque in quefta, o altra fimil forma -, fabricheremo vn tubo di cartone di figura ouata, e di tale larghezzasche applicato a gli oc- chi gli abbracci ambidue j nel margine della parte fuperiore fi ta^li vn arco che copra, e fi adatti allafronce,e nel margine inferiore fi fcaui in modo, che fé li pofìTa comodamente addattarc il nafo j e gl'occhi re- fl:are nel fuo fito fempre immobili, riguardando direttamente i verri obbiettiui 5 Pofcia collocherai nell'altro cflremo del tubo,o cannoc-. chiale due vetri obbiettiui, li quali deuonoeflfere di vna mcdefima lun- ghezza di diametro, e l'vno totalmente fimile all'altro nella fua fi^^ura conueflfajfimilmente collocherai vicino a grocchi due vetri concaui ; ouero due lenti, o anche fei come ne cannocchiali di quattro vetri, Ci che fiano come due cannocchiali in vnoj ma quefti vicini a gli occhi dcuono effere collocati con taldifl:anza,che il centro loro coirilponda G g g efat- N efattamente al centro della pupilla de gli occhi j ali* incontro li due vetri obbietti dcDono eflere tra di fé al quanto più vicini, o meno conforme la lontananza del l'oggetto, e he vogliamo guardare ^ poiché in maggiore uicinanza dell'oggetto^anch'eflì deuono eflere più uicinì tra dì fé ; acciò in tal modo i raggi uifuali d'ambidue gl'oc-? chi ipaffando per li uetri obbiettiui,uadano a termina? re nel mcdefimo oggetto; onde douremo addat- tare li detti uetri obbiettiui in modo, che conforme al bifogno fi poffano auuici» nare più, e meno tra di loro, . ^n qual modo ft pojfa cono/are fé i/// Vetro fiA perfetta^ mente lauorato, etiandio fen'^a farne l*ifùerien7a con il Cannocchiale* \A perfetdone del Vetro, e del fuo efatto lauoro, meglio fi conofce con Tifperienza del cannocchiale mede- fimo j nulladimeno potremo conofcerla affai bent-^ anche fenza cannocchiale, che però accennerò come fé ne potiamo certificare nellVnOjC nell'altro modo. Primieramente la perfettionc del Vetro, ( parlo deli obbiettiuo per eflcrc in elfo la difficoltà maggiore^ fi conofcerà congiongendolo in vn cannocchiale con vn Vetro concauo al modo ordinario, poiché quanto più acuto comporterà il detto concauo,tanto più perfetto farà il Vetro ì l'ifteflo fi può far con vna lente, la quale quanto farà più ga. gliarda,cioè,di minor diametro, fegno farà che il Vetro fia migliore, purché non perda di chiarezza j il concauo però dà inditio più cer- to della bontà del Vetro. Di più, nel far quefte proue non douremo contentarfi di mirare oggetti grandi,benche lontani ; ma douremo pia toftodirizzare il cannocchiale verfo vn foglio di carta Rampata, con diuerficaratteri,altripiu grandi, altri più piccoli, e pofta in vna mo- derata diftanzadi 80. overo 100. o più pafsi,& offeruare fé tali ca- ratteri fi poffano leggere diflintamente, e fé comparifcano ben ter- minati,fenza confufione verunajpoichedaciòfiha ini^allibilmciite la bontà del Vetro, e del cannocchiale. Terzo, fi conofce ancora la detta bontà del Vetro,fe li potremo dare vna apertura grande sì, che entrando per effo maggior quantità di raggi rapprcfentino l'oggetto più chiaro, e nulladimeno dif^into, e senza abbagliamento di luce_j; poiché l'eccessiva chiarezza fi può fempre mai temperare con adoperare vna lente più gagliarda, che imgrandirà maggiormente l'ogetto, ma quell'abbagliamento nato dalla coniufion^? de'raggi, ch^ non fi vnifcono all'ifteflo punto, nó fi può leuare fcnoucó refì:ringere l'apertura del Vetro, impedendo l'ingreffo alli raggi più lontani dal centro del Vetro, i quali facendo refrattione maggiore degl'aitri, non fi vanno ad vnirc inficmc con eflì, onde più tolto li confondono, con pregiuditio dell'occhio. Si de’notare che nelle proue, e paragoni de’cannocchiali, più ageuolmente con vn cannocchiale leggeremo vn carattere grosso mezzo dito in diftanza di mezzo miglio, che vn carattere grosso vn dito in diftanza di vn miglio, e ciò per due capi. Primo, perche la rarefatatione de raggi delli comi radiofi di ciascun punto dell'oggectOj cresce non a proportionc della diftanza, ma a proportione della superfìci^ delle sferCj di cui le diftanze fono i diametri, si che i raggi in doppia diftanza faranno quattro volte più rari, mentre fi diuaricanojonde ancorché l'ingrandimento cresca a proportione della miaore diftanza, cresce però più reciprocamente la chiarezza. Secondo, perche ia_* niaggior distanza fifrapongono più vapori dell'aria, che impediscono la vista distinta; e particolarmente nell’uso de’cannocchiali lunghi, i quali ingrandendo molto ogni piccolo oggetto, fanno che comparifcino ancora nell'aria di mezzo i vapori, i quali perche stanno in vn continuo moto, e bollore, come fi vede in effetto, perciò eoo», tale agitatione perturbano molto la vista distinta, e tranquilla degli oggetti. Chi poi volefse conofcere fé alcun Vetro obbiettiuo fia ben lauoratOj fenza farne prona con il cannocchiale, ciò potrà ottenere in uarij modi. Primo, faremo paflare per il Vetro oppofto al Sole li di lui raggi sjjche l'unione di efli uada a terminarfi in un piano pofto a dirimpetto, e fé a proportione della diftanza del foco questi faranno uniti in tal modo, che formino un cerchietto di luce piccolo nel piano, il quale cerchietto sìa perfettamente rotondo, e di più le parti eftreme fiano ben contornate, e terminate, fenza penumbra, ed in tutto il cerchietto la luce ha ugualmente viva, farà segno della bontà del vetroj che fcpoi fi vede fte il cerchietto di luce con le conditioni predette, ma non fofle nel mezzo dell'ombra cagionata dal Vetro, mapiu tofto da vn lato, ciò è segno – NOTE THAT TERZI USES “SEGNO” WITHOUT BURDENING THE PROSE WITHOUT ANYTHING TO DO WITH -FY, as in SIGNI-fy -- che il vetro sia ben lauorato, ma che lalaftra del Vecro è piu groiTa da una parte, ch5_-»dall'altra, il che fa peftìmo effetto. Secondo, si ponga il vetro incontro a gli oggetti lontani, poi si metta l'occhio nel foco del vetro tra effo, e gl'oggetti, e fi uedranno le imagini di tali oggetti assai piccole, le quali quando il vetro farà ben lavorato, compariranno diftinte, e con la loro douuta proportione, senza storcimento, o altro difetto. Terzo, fi fermi il vetro incapo di un assé sì, che fi poffa girare in torno, come fopra un torno in aria, ft^ poco lontano da eftb fi stenda un filo sottile, che corrisponda al centro, e diametro del vetro j poi con Tocchivo alzato, & abbaffato fi oflerui 1’ombra, o iraagine del detto filo nel vetro, la quale sé si manterrà sempre parallela al filo medesimo mentre il vetro si gira farà buon segno, Finalmente ottimo, e sicurissimo è il modo seguente. SI accenda vn lume in vna camera oscura, e pofto il vetro in alcun luogo dirimpetto al lume, fi tenga rocchio vicino al lume medefimoj e fi vada allontanando il lume insieme coll'occhio dal vetro fin tanto, che corrifponda al foco della superficie concaua jche riflette il lume dalla parte di dietro al vetro all'occhio ifteflb, che farà la diltanza di vna quarti. parte di tutto il diametro, © poco più, in tal fito fi oflerui il vetro con., il lume rifleflbed vniconel punto dell'occhio, che però fi de'tener fermo ed immobile in quel punto deUVnione de'raggi riflefiì j poiché fé vedraflì il vetro tutto ripieno, e pregno di vna luce viua, ed vniforme, che non ondeggi, ncfia mescolata con ombre, farà ottimo inditio INDIZIO – again use of SEGNO or INDIZIO without the need to qualify with -fy -- della perfetta figura del vetro da quella parte che riflette il lume, che è la, parte di dietro, la quale in tal refleflione fa l'effetto dello fpecchio concavo: mafemouendo al quanto il lume, e l'occhio si vedrà ondeggiare quella luce nel vetro, ovvero reftarui qualche ombra con luce ineguale, e non vniforme, © fenza riempire tutto il vetro, farà – SARA non FARA -- segno chiaro che non fia lauorato bene da quella parte j l'ifteflofi farà dell'altra parte: cdin tal modo non folo conofceremo fé il vetro abbia la figura perfetta: ma di più s'accorgeremo fé fia stato ben spoltigiiato, e ben pulito, percio che comparifce in eflbimbeuuto in tal modo di luce, ogni minimo segno d’asprezza, (3i righe, di onde, & altri difetti, ofiano dell'artefice, o della natura – cf. GRICE SEGNO DELLA NATURA O NATURALE, SEGNO DELL’ARTEFICE -- , epafta del vetro, a tal segno, che si conosce fé fia ftato lavorato con arena grossa, o confpokiglio fino, dalle righs.,», e ruidezzeche fempre piu, o meno comparifcono, ancorché fia finiffimamente lauorato 3 cofa veramente degna da sperimentarsi, e di non-a poca vtilitàe. Ddli mtcrofcofu. l come con il cannocchiale fi aiuta l'occhio a vedere gl'oggetti, li quali auuegnache grandi, non però fipofono chiaramente difcernere a cagione della loro lontananza, cosi è ftato ritrouato vn altro ftrumento, che chiamano microfcopio, il qualifiche l'occhione gli oggetti vicini pofla difcernere moltiflìmecofe, le quali per la loro picciolew^ fuggono la vifta ordinaria. Quindi è>chc facendo effetti fimilijma oppofti a quelli del cannocchiale, fi fabrica anche in modo fimile, ma contrario» Primo, Il cannocchiale rapprefenta maggiori gli oggetti lon- canijqu^ntQ maggiore è il diametro della conueffità del Vetro obbiettiuo; et airoppofto il microfcopio rapprefenta maggiori gl'oggetti vicini, quanto è minore il diametro della conaeflità delle lenti, delle quali è comporto, 2. Li lente obbiettlua del microfcopio non de'efìere pia lontana dall'oggetto di quello, che fia il femidiametro della conueflìtà di effi ientej ladoue il cannocchiale dc'hauerc l'oggetto affai lontano Nelli cannocchiali di due Vetri conueffi, cioè, dell'obbiettiuo con vna lente oculare fi pone il Vetro più conueflb, cioè la lente vicina all'occhio, ed il Vetro meno conueflb lontano dall'occhio 5 nel microfcf>pio,che fuol efiere di due lenti, fi colloca la lente meno conuefi"a vicina all’occhio, e la più conuefla, e di minor sfera lontana dall’Occhio, e vicina all'oggetto. 4. li cannocchiale fi pone incontro all'oggetto 5 il microfcopio fi, pone fopra l'oggetto. Venendo dunque alla prattica di formare quefto ftrumento fi de’fapcre, che Cebeneli mic'rofcopij più perfettifi fogliono fare di due Ienti, vna lente fola però fa l'effetto, che noi cerchiamo d'ingrandire le cofe picciole j e tanto maggiormente le ingrandifce, quanto la lente è più conuefla, cioè parte di minor sfera j anzi anche vna intiera sfera di cristallo, overo vn'ampolla rotonda piena d'aqua chiara fa il medefimoj ma Ih qucftp cafo l'oggetto vuol porfi immediatamcntc fotto la palla, o sfera sì, chc Ja tocchi^la doue la lente de’ftare lontana dall'oggetto tanto, quanto è il fcmidiametro della fua conuefiìtà? Volendofi dunque feruire di vna fola lente potremo fabricarc^lo ftrumento in vno delli due modi leguenti, Faremo vna piccola cannetta di lamina di ottone, o cofa fimile, tanto ìarga, che vi entri dentro la Jente, cioè quanto è l'iride dell occhio noftrOjO anche più piccola, e lunga quanto ? il femidiametro della medefima lente. Quella cannetta farà chiufa da vna parte, in modo però che vi refti nel mezzo vn picciol foro, fopra il qualc pofi immediatamente la lente, dall'altra parte vicina all'occhio reitera apertii, e farà loftentata da tre, o quattro piedi, in tal modo però, che fi pofla alzare, & abbalfare, cioè auuicinare, o allontanare dall'oggetto, che fi pone direttamente focto quel piccol foro, fopra cui pofa la lente,come fi vede nella figura,nella quale A B, rapprefenta la cannetta CD, i piedi chela foftenca no B, il piccolo forame fopra cui dentro la canna fi pofa la lente, in modo tale, che l'oggetto E, pofto fotto alla lente, la lente mede- fima, e l'occhio pollo in A, ftiano in retta linea . Poiché all'hora/^'/V^r* fi pone l'occhio in A5& auuicinafiapocoapoco,overoallontanafila^-^^-^' cannetta dall'oggetto E, pofto fopra il piano di vna tauola, fino che fi difcerna l'oggetto chiaro, e grande pliche fuccederà quando la_* lente farà tanto lontana dall'oggetto, quanto è il femidiametro della medefima . Il fecondo modo di accommodare vna fola lente, che ferua per microfcopio è quello, che fi vede nella figura, in cui fi rapprefentayr^v^^- vn piccolo piede di legno con vn cerchietto, overo forame nella_»XLll. parte fuperiore, nel qual forame fi colloca la lente: per il piede forato nel mezzo paflfa vn legnetto a trauerfo, il quale eflendo parimenti^ forato da vn capo pafsa per il foro vn altro legnetto nella cui fommità, è vna morfetta fatta di filo di ferro, o di altra materia atta a ftrin- gerc,& afferrare vna mofca, vna fogIia,o altra fimile materia, che fi mira coll'occhio pofto dall'altra parte della lente, Quefti microfcopij di vna fola lente ingrandifcono l'oggetto mol- to meno di quello che facciano i microfcopij formati di due,o più lenti nel moclo,che diremo appreffojma hanno però vn'auuantaggio fopra gl*altri, che fi pyò vedere in vna occhiata vn'intiera mofca, ra- gno, o altro fimile oggetto, ladoue con i microfcopij di due,o più Vetri appena fi può vedere tutto il capo di una mofca, ouero un'intiero pulice 3 fé pure la lente oculare non è grandifiìma . I mi- 11^ I nnicrofcopij di due lenti fono però ftimatl megliori, perche rap* prefentano gl'oggetti di gran lunga maggiori sì, che vn capello tali*» Fiora comparifcecome vnagrofla funere fì fabricano in c^uefto modo^ ripigliano due lenti di crifìallo Iauoi'ate,e pulite come fi è infegnato di fopra 5 vna de' efler piccola, e conuefìa sì, che il femidiametro della conueflìtà fia poco più, 0 meno della groflezza di vn dito j e quefta fi accomoda immediatamente fopra l'oggetto che vogliamo rimirar^-;, ponendola invn picciol tubo, q cannetta, come è la defcritta poc'an- zi 5 l'altra lente de* effere affai più larga, et anche meno conueffa,ia^ tal modojchc ii femidiametro fia di einquc,fei, o più dita in groffezza 5 e quefta fi mette invn altro tubo di cartone, il quale fi connette infie" mecon l'altra cannetta piccola in modo però,che fi poffa alzare, et abballare, acciò fia più, o menolontana dalla lente piccola pofta nella parte inferiore j finalmente nella parte fuperiorc dei tubo è vn piccol buco tanto lontano dalla lente grande, quanto è il femidiametro delia medefima : al qual forame fi auuicina l'occhio, che perle due lenti mira l'oggetto poftoui fotto : ma quefto forame ancora de* poterfi hof più hor meno allontanare dalla lente. Deuono dunque effere almeno quattro tubi conneffì infieme, come Fioura^^'O^^s. la figura. Il primo B C piccolo, nel fondo del quale fta la lente XJLIII. piccola, et ha vn piccol forame B fopra l'oggetto A. Il fecondo è C D conneffo immobilmente con il primo, ma molto più largo, e lungo : Il terzo E F inferito fopra il fecondo C D in modo, che fi poffa alzare, et abbaffarc, fopra del quale fi colloca la lente FF: Il quarto è GH inferito fimilmente fopra il terzo, e mobile 2 nella fommità del qual^-» vi è il forame I a cui fi applica l'occhio per vedere l'oggetto A. circa il che fi de' auuertire. Primo, che l'oggetto fi rapprefenta all'occhio rouefciatOje la ragio- ne è perche nella lente oculare FF fi riceuonoi raggi con le immagini dell'oggetto dopo che già fi fono decuffati dalla lente B ; onde fé defi- deriamo di vedere l'oggetto radrizzato, conuienc aggiongere vicino all'occhio vn altra lente nella medcfima forma, che fi ò detta delli can- nocchiali di più lenti: e cofi potiamo aggiongere anche la quarta, e la quinta, a noftro piacere. Secondo, quanto più conueffa,e di minor diametro farà la lente infe-^ riore vicina all'oggetto, tanto piq piccola parte di effo oggetto fifcorgej ma altretanto comparifce più grande j la ragione è manifefta, perche-» /"iffamcome fi vede nella figura,la lente A di minore diametro de' /lare mena XUV.loritana dall'oggetto BC di quello che fij la lente D dall'oggetto E F, cffendochc la difianz,a de'^ffertanta,quantoèilfemidiametro-.Quindi è ^^7 è che la lente A non può tramandare alla lente G le imagini dell^.^ parti eftrcmcB,& C delloggetto BC^ poiché tali imagini cadono fuori della lente G come moftra la linea I L. doue che la lente D e(ren> do più lontana dall'oggetto E F, e refrangendo meno i raggi rappre- senta tutto l'oggetto EF, e ne porta le imagini nella lente H vicina», all'occhio ; efìTcndo chejcome fi è detto altroue,tanto oggetto fi vede^ quanto è quello, l'imagini del quale fi rapprefentano nella lente vicina all'occhio j dal che auuiene, che quando fi vedono poche parti dell'og- getto, quelle comparifcono più grandi, perche occupano tutta Tarn-. piez.za della lente oculare; ma quando nella medefima ampiezza della ftefia lente fi reftringono l'imagini di tutte le parti deH'oggettOjnecelTa- riamente comparifcono più piccole. 5. Si de' fapere,chc tanto più grande comparifce ToggcttOjquan- topiu fi allontana vna lente dall'altra; ma fi vede meno chiaro,e fé ne fcoprc minor parte : la ragione è, perche la lente oculare efscndo più lontana dall'altra riccue lefpecie più diuaricate,e confeguente- mente più ingrandite ; ond* è, che anche minor parte di oggetto rap- prefentinoj valendo fempre quella regola vniuerfale, che quando in vna lente medefima fi vedono l'imagini di molte parti dell'oggetto, cife compaiono più piccole,& all'incontro grandi, quando fono po- che 5 impercioche invn medefimo fpatio,& ampiezza della lente, non fi pofl'ono dipingere molte cofe,e tutte grandi. Quindi fi deduce inqual modo fi pofla accrcfcere o la grandezza, o la moltitudine de gl'oggetti . Si accrefce la grandezza in due modi. Il primo con adoperare lenti di minore sfera . Il fecondo con allon- tanare maggiormente vna lente dall'altra; ma perche in quefto allon- tanar delle lenti l'oggetto comparifce men chiaro, perciò farà meglio feruirfi del primo modo. La moltitudine de gli oggetti,© delle parti di vn folo oggetto, acciò fi fcopra tutta in vna fola vifta,fi accrefce con feruirfi di lenti di maggior sfcra,e meno tra fé diftanti; ma perche, come fièdetto,quanto più fi auuicinano le lcnti,overo queftefonodi maggior sfera, tanto minore comparifee l'oggetto; perciò volendo vedere molte parti dell'oggetto,'ed infieme grandi non v'è altro ri- mediojche feruirfi di vna lente oculare affai grande, in cui fi pollano riceucre molte imaginijc quelle grandi; ma fi de'auuertire,che non fi poifono fare lenti molto larghe, le quali fiano di poca sfera, onde conuiene farle di sfera maggiore, e perche l'oggetto comparifca gran- de, fi deuono collocare lontane dalla lente obbiettiua, la quale anch'- cfla dourà efiere di sfera non troppo piccola, poiché fi de'auertire, 4. Che vuolfiofferuare vna certa proportione,tra la diftanza del- I i i le ii8 le due Ienti,c la grandezza delle mcdcfimej impcrcioche quanto faja minore il diametro della lente obbicttiua,tanto più vicina douràefìere alla lente oculare,poicheeflendo lontanai raggi troppo diuaricandofi dalla lente obbiettiua di poca sfera,cadercbbero fuori della lente,e rap prefentarebbero l'oggetto ofcuro. 5. Per ingrandire l'oggetto, fenza ofcurarlo fi potrà aggion- gerevna terza lente vicina airocchio,laqualefia di maggior sfera del- la fecondajpoiche in tal modo non folo (i radrizzeranno le imagini, ma compariranno anche maggiori, con allontanare le lenti oculari dall*- obbiettiuajoueroconfare,che quefta obbiettiua fia di minore sfera. Anzi dicojche l'ottimo modo di fare ilmicrofcopio, e ofiTeruare Hf- teffe regole, che habbiamo date nella fabrica delli cannocchiali di molte lentiimaalrouefciojcioè fare che nel microfcopiole lenti più vicine all'occhio vadano crefcendo non folo io ampieiza, ma anche in grandezza di sfera con la medefima proportione, con la quale nel cannocchiale habbiamo detto, che deuono andarfi diminuendo, et ef- fere di minor sfera quelle che fono più all'occhio vicine j fi che per nor- ma dclIi microfcopij potranno feruire le regole medefime, che habbia- mo dato nelli cannocchiali di più lenti : Auuertp folo in ordine alla-. proportione,che de' hauere la lente obbiettiua con la lente oculare > efler ottima quella di i, à i o, cioè fé la lente obbiettiua è nel fuo diamc*^ tro di (re tninuci di vn palmo la lentQ oculare farà di 30. minuti. . 21$ % ^'ofidt n^fcano le imperfettioni àeU cannoechUUjedinqttal modo (ì fo^a Untare II rimedio. IVali fiano le imperfettioni, che neccflariamcntc nafcono ne*cannocchiali compoftidi vn obbiettiuo conuello sfe- rico, e di vn'oculare concauo, ouero di vn* obbiettiuo fimilmente conueflb sferico con vna,o più lenti oculari fi fono potute ofleruare dalle cofc dette di fopra.Primic- ramente al vetro obbiettiuo non fi può dare fé non vna certa determi- nata apertura, ond'è che entrando pochi raggi, fé noi vogliamo ado- prare vna lente gagliarda, ouero vn concauo molto acuto,mentre que- ftiingrandifconoroggetto,lorapprefentanolanguidamente,perlafcar- fezza de i raggi. Secondo dando ali* obbiettiuo apertura maggiore en- trano ben sì molti raggi, onde rapprefentano l'oegecto chiaro, anche con lente gagliarda, ma abbagliato,e confufo,perche non tutti que'rag- £;i, ch'entrano perii vetro, vanno ad vnirfiordinatamente.Terzo quan- do vogliamo far comparir grande l'oggetto, con vfarevna lente più gagliarda, ci fi rapprefenta più ofcuro : ne lo potiamo hauer più chiaro, che non ci compaia più piccolo vQuartoadoprando vn cannocchiale il doppio più lungo dell'altro, non perciò potiamo vedere l'oggetto co l'iftefla chiarciza,&al doppio più grande. Quinto li cannocchiali più lunghi benché ingrandifcano maggiormente l'oggetto, nulladimeno non lo rapprefentano mai sì diftinto, e ben terminato come fanno i pic- coli. Sefto li cannocchiali con le lenti fanno che fi fcopra molto cam- po in vna fola occhiata, ma non terminano sì bene la vifta^come fan- no i cannocchiali ordinari] con il concauo femplice. In fomma 1«-» perfettioni del cannocchiale, che fono ingrandire l'oggetto, farlo ve- der chiaramente, farlo comparire diftinto, e precifo fenz,a confufione, o abbagliamento di luce, e fcoprirein vna fol vifta molti oggetti,fono perfettioni tali, che riefce impofTìbileil congiongerle infieme in gra- do eccelente, non che perfetto, nelli cannocchiali, che nel modo hog- eidì vfatofifabricano. Quindi acciò ogn*vno pofsa tentare qualche ftrada di ridurli a mag- gior pcrfettione, e sfuggire ifudetti difettijèneceffario prima conof- cere quale ne fiala prima, e nera origine, quale procurerò di moftrarc tanto più volcntierijqaatttOjche nonèftatafe non in parte oflferuata^ da altri ;&:a/jiche acciò meglio fi pofTano intendere le ragioni dellt-* cofegià lopra accennate; siche dopo hauer fcopcrto l'origine del ma- f'.'1e,potr£mo additarnieglio laftrada per ifcanfarlo.Si debbono dun- que prima fapere alcune cofe comunemente riceuutejC che da noi fi di- moftreranBo nella fcicnza optica. Primo, Si fiippone comunemente, che i raggi pafì'ando dall*- >F;^«r da ciafcun punto deiroggetto,non vengono realmente paralleli, ne (i polTono prendere per tali, come fi fuppone nella quinta fuppoficione; poiché fé bene l'angolojche fanno nel punto deiroggetto,dacui{ì pir- tono,èpiccoli{Iìm;),&acutiinni,&infe ftelTo non è confiderabile-», cagioni però fenfibiie.e notabile varietà ne'fuoieff.-tcijciò fi proui manifeftamentej poiché mirando con vn medefimo cannocchiale, vicino al qual punto N, benché alquanto più lontano fi termina- ranno ranno ancora i raggi più vicini all'aflfe tra AB, (la dunque AB la metà dell'apertura del Vetro nel cannocchiale ordinario,siche li rag- gio BN con tutti gì' altri, che cadono tra AB vadano ad vnirli quafiadvn medefimo punto N, che però come vtili fi ammettono, ma gl'altri CH, DL, come inutili, anzi noc'ui fi efcludono co- prendo la parte BD del Vetro. Per fare, che ancor quefti, li quali andando in L, et H farebbero nociui,fiano vtili, e vadano con_. gl'altri in N collocheremo vn Vetro KM conueflb-concauo poco auanti all'vnione di edì raggi CHjDL, ilquale fia forato nel mez- zo, acciò per tal forame padì liberamente il raggio BN, con gl'altri tra AB, i quali per efl'er vtili, ed vnendofi tutti quafi in vn fol pun- to N, uon fi deuono alterare. La conueflìtà del Vetro KM, per fuggire le molte refrattioni farà riuoltata verfo il Vetro obbiettiuo,e farà di tanto femidiametro, che li raggi CG, DI, vi cadano fopra^ perpendicolarmente 5 ma perche facendo diuerfo angolo non tutti ponno cadere perpendicolari, fi faccia almeno che vi cada perpen- dicolarmente il raggio CG, poiché gl'altri, che faranno tra FG, e tra Gì, pochiffimo fi fcofteranno dal cadere perpendicolari fo- pra la conue/Iìtà IcM, che però penetreranno fenza refrattiont-* per il Vetro, fino all' altra fuperfìcie concaua in S, e Q^ Per fare, che il raggio CG cada perpendicolare,fi notidoue vada ad vuirfi con rafse,cioè, in H, polche HG daurà efifereil femidia- metro della conuellìtà K M, La concauità poi RT dourà effer tanta, che il medefimo raggio CGS, il quale fenza refrattione andrebbe in H, vfcendo dalla detta toncauità vada a terminarfi in N, infieme con gl'altri, ììchti fi otterrà, fé tirata vna linea da S in N mifureremo l'angolo HSN, e faremo vn altro angolo H S V, tirando la linea SV, il quale fia il doppio maggiore di eflb HSN, poiché VS farà il femidiametro del- la concauità RT. Ma forfi farà meglio far vn altro concauo-conueflb, ilquale fi pon- ga con la parte concaua verfo il Vetro obbiettiuo, e conia conucfsa.^ verfo la lente, e collocato fimilmente auanti airinterfecatione d«^ raggi CH, DL. fi determinerà la conueflìtà KM dalla diftanza dd^'^^'''^ Vetro dal punto N, poiché quanta farà efla diftanza V, g. NV,^^^* altretanto dourà efiere il diametro della conueflìtà KM, la conca- uitàpoi fi determinerà dalla dif>anza del punto H doue il raggio CG s'interfeca con l'afse j onde quanta è la diftanza HV, aJtretanto farà il diametro della concauità RT. Poiché in. quefto modo il rag^ |io CG,per la lo.fuppofitione^refrangendofi nel vetro fi farà conia N n n pri- 254 prima rerattionc parallelo airaffc A N, fi che poi arriuando alla fuper- ficie conuefla K M, nel vfcire farà la feconda rcfratcione, con la qua- le perla fefta fuppofitione verrà a tcrminarfi in JNjj eflendoche N V, e il diametro della conaellìtà K M- H ragie poi DI3 cadendo nel ve- tro in I con maggior angolo d'inclinationcj farà ancora maggiore^ refrattione di quelloche faccia il raggio CG, conforme è neceflario acciò vada a terminarfi anch' egli in N. vero è però che non ne farà tanca che bafti per arriuareprecifamcntc fino in Nj nulladimeno vi arriuerà fi vicino, che ancor tal raggio potrà e0er vtile, y.. Da ciò fi vede che potiamo far guadagno di tanti raggi quanti fono l-Xll ^wellijche penetrano per la parte concaua del vetro ABCD, la>* doue prima fole quelli erano vtilij che penetrauano per il fora- me E, Vn altro modo per ottenere Ti ftefla vnione de" raggi laterali con i _.. raggi ch'entrano vicini al'aife, può eflere il feguente. Sia il vetro ob-, £,J''bicttiuokD,ildi cuifocofia inGjCioèil punto doue vanno ad vnirfi tutti li raggi che cadono tra A, B con l'iftefio raggio AG perchedun- que i raggi laterali CFjDEjfi vnifconocon l'afle AG lontano dal foco G> verfo Tobbiettiuo cioè in E, et F, faremo che ancora il ng- gioBG inficmecon gl'altri, li quali cadono tra AB, et andrebbero ad vnirfi in G50 poco più lontano, faremo dico che vengano ad vnirfi più vicinij cioè tra E, et F infieme, con i laterali. Ciò fi potrà ottener^--» per mezzo di vn vetro conuefloHlsil quale riceuafoloi raggi di mez- zo tra LjC B, recando libero il paflb a gl'altri laterali d'intorno, e per- ciò fare cingeremo all'intorno il vetro H I con vna fottilifiìma laminet- ladi ftrrojin cuifiano fermati tre, o quattro altri filetti fottili di ferro AjBjCjCon i quili fi appf>ggi fopra vn cerchietto dentro \^ canna del cannocchiale sì, che refti fofpefo, rimanendo libero il vano ABC, tra, » il vetro 5 et il cerchietto fopra cui fi appoggiano que'tre ferretti :f flf^il vetroHIj douendo far pochiffima akeratione de' ra^gi per por- ' tarli da Gjin Ejdourà perciò hauerevnaconueflìtà di grandidìma-* portione disferaja proportione deirobbiettiuoj onde per più facilità fi potrà vfare vn piano conueflb,^ouero anche unconMefso concauo, in modo però chela conueJ(Iìtàfia alquanto maggiore della concauità, cioè portione di sfera minore, conforme le regole di fopra noratej ne alcuno tema cheque* filetti, e cerchietto di ferro,che fi frapongono irà rocchio, e robbiettiuo,fiano perturbare punto la uifta 5 poichc-» cflendo lontani dal foco della lente oculare, ne pur fi potranno difcer- nere, e chi noi crede ne taccia meco l'efperienza. Della fgf^ra de' Vetri Iperbolica, ^liptica, e Parabolica. A ciò che fi è detto fin hora, e da quello che fi dirà nella parte Optica deirArteMaeftra,con il confenfodi tutti li Matematici fi deduce, che la figura sferica ne* Vetri,non è tanto atta per vnire i raggi come è la figura Ipf'rbolica,rEplitica,e la Parabolica j poiché queftc.^ vnifcono i raggi in vn folo punto, o fia fpatio menomiflìmo j dal che_^ fi raccogIie,cheli Vetrijiquali hanno alcuuadi quefte tre fioure,fono opportuniflìmiperil noftro intento di fabricare i cannocchiali j poi- che dalla figura sferica molti raggi fi vnifconOjC fi decuflano prima^ di arriuare al Vetro oculare, onde quefti invece di giouare allavifta le apportano nocumento confondendo le fpetie degliogaecti; All'- incontro i Vetri lperbolici,Eliptici,o parabolici vnifcono tutti i ra^oi di vn medefimo punto dell'oggetto in vn minimo punto nel cannoc- chiale sì, che iui la luce vnita riefce viuaciflìma.j dal che fe^uitajche lavifta dell'oggetto fia molto chiara,e non folo nonviealcunrapojo ^he la perturbi, ma tutti fono vtili,e coneorrono. a perfettionarla . AggioDgafi,che potiamo lafciar apertole fcoperto tutto, quanto è am- pio il VetrO} che haurà fimile figura,e far\o grande in modo, che pofla riccuere molte fpecie deiroggetto,poic|5,e ninno ài quefti raggi impe- difce TaltrOjma tutti afiìeme concorrono in vn medefimo punto, il che gioua grandemente non folo a far vedere l'oggetto, più chiaro, e più grande,ma anche a (coprire molto maggiore fpatio con vna fola oc- chiata; in tal modo che fefipotefle forrxiare vn Vetro obbiettiuo con la perfetta figura Iperbolica, o fimile, farebbe effetti marauicrliofi ed incomparabilmente meoliori di quello, che fanno i Vetri sferici ordinarli. So che alcuni hanno condannate quefte figure delle fetrioni co- niche} dicendo primieramente efier difficiliffimo, e quafijmpofifìbile il lauorare i Vetri con simili figure, le quali fé non si fanno esattiflmainente, confondono ì raggijC le specie degl’ooggetti 5 poiché tali figure hanno infiniti centri, ed infinite circonferenze, e l'errare in vilj folo, èvn perdei e tutta l'opera. Aggiongono, che nelli vetri obbiet»tivi ^$6 tiui 4i cannocchiale, che non sia piccolifTìmOj è insensibile la ó'y verfità j che è tra la figura sferkajC le altre nominate, che nascono dalla settione del cono 3ondcconfiftendo Ia cosa in un picciolifsimo fuario, riefce imposibile nella pratcica toccare il punto, A questi rispondocfler tanta la perfettione della figura iperbolica – H. P. Grice IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor --,  e altre sirnilij che una di esse di un sol palmo di  diametro, farà megliore effetto di un altro vetro obbiettivo di dieci, e quindeci  palmi j  Hor una figura iperbolica – H. P. GRICE: IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor -- di un sol palmo di diametro, è notabilmente diversa da una figura sferica similmente di un palmo, e per conseguenza non farà impossibile a farla, purché noi fiserviamo di perfetti ihumenti, quali descriuerò appre(ì'oj & ancorché non fofle perfettissima, dico che non perciò fi confonderanno  le specicj ficome no si confondono dal vetro sferico in modo, che impedisca la vistaj – cf. H. P. GRICE and W. J. WARNOCK, ‘VISA’ -- benche il vetro sferico confondai raggi decufiati, con quelli che non sono ancora decufsati. Certo è che alcuni vetri lavorati in piatti sferici, perche talvolta nel lavorarli prendono alquanto della figura iperbolica – H. P. GRICE IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor -- ,© simile, perciò riescono molto megliori, e contrasegno n'è il richiedere un altro vetro oculare piu concavo, il quale con la maggiore divaricatione de’raggi ricompensi la maggior unione fatta dal vetro obbiettivo 3 ed in oltre si prova che tali vetri, i quali s’accofìano alquanto alla figura iperbolica – H. P. GRICE IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor -- si  pofibno lasciar più aperti, a ricevere maggior quantità di raggi, senza pregiudicio jil che non avviene nelii vetri semplicemente sferici – come gl’occhi di Grice – “spherical like Grice’s eyes.” – THE SENSES OF THE MARTIANS – THE VISION OF THE MARTIANS – Four eyes, with no exactly spherical eyes -- Secondariamente oppongono, che tal unione di raggi in un sol punto non solo non può esser utile, ma di più è nociva all'occhio – o gl’occhi di H. P. GRICE --, -- For eschatological problems I will have to consider BOTH eyes as one simple organ -- il quale non può soffrire una luce cosi intensaj e che perciò noi poniamo vicino all'occhio o gl’occhi di H. P. Grice il vetro concavo per difunire, e difgregare que’raggi unitij che pròdunqucjdicon'efsijunirli in un punto, fé poi necessariainente si devono difgregare. A questo rispondo prima indirettamente, dicendo che nel canchiale di piu lenti, senza alcun vetro concavo, si fa dalla lente vicina all’occhio o gl’occhi una fohissima unione de’raggi, e pure tal unione non solo impediffc la vista – H. P. GRICE and G. J. WARNOCK, VISION --, ma anzi l’aiuta molto. Di più, i cannocchiali piccoli – think John Lennon -- sono megliori de’cannocchiali lunghi, parlando a proportione, cioè, a dire un cannocchiale di sei palmi dovrebbe ingrandire l'oggetto al doppio di un altro cannocchiale di tre palmi, e pure non lo fa, il che non procede d’altro, fe non perche i vetri di cannocchiale piccolo essendo piu convessi uniscono meglio i raggi; onde chi potesse far un vetro di trenta palmi di diametro, il quale unifcei raggi SÌ perfettamente come vn vetro di un palmo, esso vetro in un cannocchiale di trenta palmi ingrandirebbe l'oggetto trenta volte più di quello che fa il cannocchiale d’un palmo j la dove per ordinario un canocchiale di 50 palmi  ingrandisce l'oggettOj solo cinque, o sei volte più di queIlo, che faccia un altro cannocchiale di un palmo. Finalmente, come ho  accennato di sopra si vede per isperienza che di due vetri lavorati sopra il medesinio piatto concavo sferico felVno prenderà alquanto di figura iperbolica – H. P. GRICE IPERBOLE: Every nice girl loves a sailor --,ed unirà meglio i raggi di quello che faccia l’altro, ingrandirà molto più l'oggettojC lo farà più chiaro – GRICE: “So ‘clear’ is essentially PHYSICAL – cf. my remarks on ‘grow --,e scoprirà maggior paefcjcon tutto ché il cannocchiale non fia, piu longo; onde, che quello cannocchiale, che unifce meglio i raggi richieda poi un vetro oculare più concavo, per maggiormente divaricarlijciò non fa ehe con quella forte unione de’raggi non renda 1'effetto megliore; e perciò devesì ritrovare altra ragione per la quale riadoperai! vetro concavo vicino all'occhio, la  quale non è precisamcnte per difgregare i raggi, altrimenti non riuscirebbero i cannocchiali con le lenti, ne’quali l'unione de’raggi è molto maggiore, e pure non vi è vetro concavo, che li diradi. Siche rispondendo direttamente dico che si adopra il vetro concavo vicino all'occhio per far si che i raggi non si uniscano fuori dell’occhio, ma dentro di esso in quella parte dove prodìmamente  si forma la uiilaj come s'intende meglio nel trattato dell’optica – H. P. GRICE and G. J. WARNOCK, VISION, VISVM, and the EYE. Resta dunque manifesto quanto sia per ^iouare l'inventione delle figure fudctcc, mentre anche la figura sferica, sole alquanto aceoftandolì ad esse fa effetto notabilifiìmamente mogi iorcj Pere io tra molti strumenti da me a questo fifle inventati, ne descriucrò due solij come più facili, e che pollbno ridurfi utilmente alla prattica. Sii vn afta dirittifsima AL, che neliVftrema parte A hjbbia vnitovna palla tonda di ferro, o di legno Cj Sia inoltre vn le^no/'^v^y;.  DE, formato immobilmente in luogo altoj ed in mezzo a queffoLXI v' Icgftofia vn buco per il quale entri Tedrema parte A dell'afta, c«» nella parte di sopra ila incauato  sfericamente si, che vi pofi sopra la palla C, la quale insieme con l'asta pendei ntc Ci possa girare, nvintenendofi sempre nel medesimo centro, nel quale stando immobile, l'altra parte estrema L descriuerà una portione di figura sferica. NH; direttamente sotto l'asta, sia collocato un piatto sferico concauo, sopra il quale si fogliono laborare i vetri ma sia il diametro della concavità con  debita proportione minore del diametro dell'asta, come e la concauiti sferica PQO, il di cui centro è in R, nell'estrema parte L dell'asta lì atcachi il vetro IL, in modo tale che il centro di cfso corrirpcnda al centro del piatto, il quale si dourà collocare in (Ito piano orizontalc, vfando ogni diligenza, che non pieghi piii da vna partCj chc dall'altra, ma sia posto perfettamente in piano, e  direttamente a perpendicolo sotto il centro della palla Cj poiché in quelle due cofe confifte tutta la perfettione j ciò fatto fi vada girando, e mouendo l'afta con il vetro sopra il piatto sottoposto, il quale coll'arena s'anderà logorando j e perche nell’accostarsi alle parti estreme, P, ed O del piatto, cioè alla circonferenza quefte faranno piu eleuate, essendo detto piatto di minor diametro  dell'asta, perciò il vetro nella circonferenza refterà più logorato, che nel mezzo, prendendo figura atta al nostro fine, cioè, di sectione conica; come potrei dimostrare con i fondamenti della geometria. E perche di mano in mano, che il vetro si va logorando fi de'andare accoftando al piatto, acciò confricandofi con efib fi finifca di logorare, t* prendere la fiigura douuta; per qucfto faremo  entrare nella partc»^ìuperiore A dell'afta vn ferro fatto a vite vnito alla palla, siche riuolgendo efsa vite 1'afta fi vada abbafsando quanto farà di bisogno. Il secondo modo di dare alli vetri la figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR --  è il feguente. Si pianti immobile in vn luogo alto vn piatto conveflb ABC jnmodo che ftia infito orizontale, fotto a quefto  piatto direttamente ^i^fene ponga vn altro parimente in fitoorizontale, il quale abbia figura concava, e quanto più fi può simile alla DEF, che è figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR; la quale per farla perfetta, si prenderà vn afta BGE, la quale fia tonda, e paffi per vn forame tondo e fottile in modo che lo riempia conia fui groflezza, e quefto forame fia  non nel mezzo dell'afta, ma nella parte superiore in vna proportionata distanza, conforme alla diversità della figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR, che desideriamo più, o meno concava; Sia dunque quello forame in G formato immobilmente in, modo che ftia in retta linea col centro B, del piatto convesso ABC, e col centro E dell'altro piatto, che de’ ricevere la figura iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR: nell’estrema parte dell'asta B fia vn bottoncino di ferro, che entri a vite nell'afta, acciò fi pofìfi allungare, ed abbreuiare; nell'altro estremo E fia vn altro bottoncino intagliato a modo di lima atto a rodere il piatto sottoposto jftando le cose dispofte nel detto modo fé noi moveremo l'afta girando la lima E  fopra il piatto DEF, e facendo che Teftrema parte fuperiore B rada fempre il piatto conueflb ABC, il detto piatto inferiore prenderà perfettamente la figura iperbolica, come si vede dalle linee CD, BE, IM, LN,  AF, le quali rappresentano l'asta, secondo i varij fitiche prende nel mouerla intorno, e per ogni parte del piatto. Altri ftrumentl fi pofsono fare, defcritti da altri Autori, e particolarmente da CARTESIO jC dal Reità per lauorare i vetri iperbolici, nia perche con effinófi poflbno lavorare fé no con mantenerli sempre in vn medefimo centro, il che riefce difficiliffimo, e la forma perde predo la fua figura j perciò ho ftimato di tralafciarli, ed appigliarmi alli due modi fudetti. Deuo folo auuertire che il Vetro fé haurà da vna parte figura Iperbolica – GRICE EVERY NICE GIRL LOVES A SAILOR -- dall'altra dourà efler piano, acciò riceuendo nella parte piana i raggi paralleli gii vnifca in vn fol punto; ma fé da vna parte haurà figura Eliptica – cf. GRICE ELLISSI --,  dall'altra parte dourà efler concauo con tale concauità sferica, che il centro fia nel foco dell'Elipfi – GRICE ELLISI ED IMPLICATURA --, acciò i raggi paralleli entrando  pella parte eliptica, dopo la refrattione, nell'vfcire pella parte concaua, non facciano altra refrattione, e concorrano tutti ad eflb centro. Finalmente fi auuerta, che, come fi difse di fopra, ! raggì, che vengono da punti dell'oggetto, fanno angolo in eflb punto, onde non vengono paralieli, e per confeguenza, il vetro iperbolico, o eliptico non li potrà mai vnire perfettamente in vn fol punto  nuiladimeno perche dagl'oggetti assai lontani i raggi fanno sì poco angoio, che poco pregiudica all'effetto defiderato, e dall'altro centro viene rimediato al difetto principale del vetro sferico conueflb, mentre in quefto gl'angoli d'inclinatione non fono vguali, come fono nel vetro eliptico, o iperbolico, Quindi segue che tali vetri siano per giouare grandemente, benchc non arriuino a tutta  la perfettione di queircffetto, che si cerca, cioè, di vnire i raggi ad vn fol punto; Quefìia totale perfettione non e poflìbile ad ottenerfi in quaHi voglia distanza dell'oggetto, poiché dipendendo da rmaggiorej O minor angolo, che fanno i raggi del punto obbiettiuo piuvicino, o più lontano, fevn vetro vnirà tutti i raggi di vn punto lontano, non potrà vnire tutti i raogi del medefimo punto  vicino, ed all'incontro, fé vnirà quelli di vn punto vicino non potrà vnire quelli del punto lontano, che perciò dobbiamo contentarfi di haoer rimediato al difetto principale nato dalla diversità dell'angolo d'inclinatione, che fanno i raggi più vicini, e più lontani dall’afse. DeH^'vfo dei Cannocchiali, e dn Micro fcopij.  j^EllilTima è Tempre  ftara ftimatar inuentione dcl Cannocichiale, non  tanto perii dilettOjquamo per l'vtilitàj che apporta, e che può apportare, le quali perche confiflono nei faperio vsare, tratterò in questo luogo in qual modo si adoperi, mostraiìdo varie cose, alle quali può feiuire, non tutte considerate dagl'altri. Egh è dunque vtile si nella guerra, come nella pacej e primieramefite nella guerra serve per osservare tutti gl'andamenti dell’inimico,  €fpiareleattioni, e le perfoncj cosi per  mezzo del cannocchiale effendo ftato riconofciuto il Duca Francesco di Modena, che fi era in»citrato sotto la città di Cremona gli fu tirato un colpo col cannone, da  cui rcftòvccifo il marchese Villa, che gli stava a lato. Può anche servire per leggere di notte lettere di segreto nella piazza assediata, o fuori, come ricfpiegato nel terzo capo di queft'Opera. Di più, non  iblo lì potrà numerare quanti fianoi pezzi di alcuna batteria scoperta, qu3nti i soIdati, ma anche fi potranno vedere quelli che dinafcofto fi auuicinano per riconofcere i posti: e questi all'incontro senza mettersi a pericolo con troppo auuicinarfi  li potranno riconofcere da lontano con il cannocchiale. In oltre dico, che con il cannocchiale noi potremo misurare l'altezza delle  mura, le  distanze de’baluardi, la lunghezza delle Joro faccie, e delle cortine, c5 tutto ciò che prattica la trigonometria; il che potrà servire anche in altre occasioni, quando vorremo sapere le altezze, o diftanae d'alcune cafe, ofiti a quali non fi potiamo accodare. Questa cosa che da altri ch'io sappia non è stata osseruata/i potrà facilmente pratticare in quello modo. Fabricato, che avremo il  noftro cannGcchiale, che fé farà di quattro vetri farà megliore, perche scopre piu spatio osserveremo quanto spatio scopra in vna fola occhiata, mirando alcun'oggetto lontano venti pafsij e questa misuri^» dello spatio, che si vede in vna fola occhiata la noteremo fopra la canna del cannocchiale, tirandoui fopra vna linea, e diftinguendola con li fuoi numeri; l'iftefso faremo ofseruando quanto  fpatio fcopra in diftanza di trenta pafsi, poiché come fi è detto, fcoprirà maggiore fpatio, e quefto pure lo noteremo fopra il cannocchiale, facendo il medefimo delle dirtanze maggiori, cioè, di 50. di 40. di 50. di cento pafsi &c. et in tal modo haueremo preparato vn cannocchiale geo-metrico; del quale quando fi vorremo feruirc per fapere per cagione di erempio, raltezza di vna Torre, delIa quale ci (la nota la diftanza_,j in tal diftanza la mireremo con il canocchiale, et oiTerueremo quanta^ parte fi fc opra diefla invna occhiata, dal che raccoglieremo quanto lìa alta. Sia per efempio vn cannocchiale^he in diftanza di cento pafsiicopravno fpatio di venti piedi, e mirifi la Torre in tal diftanza di cento pafsi; fc dunque fi fcopre in vna fola occhiata tutta la Torre, e non  piu, fcgnoè, chequefta è alta venti piedi foli, ma fé non fi fcopre tutta lì ofìTerui quante occhiate vi vogliano per fcoprirla tutta; e fé in due fi fcopre farà alta 40.piedi, fé in tre 60. ma fé in mezza occhiata Ci fcoprilfe, farebbealtafolo dieci piedi jrifteffo fi deue intendere della diftanza tra vn luogo e l'altro, i quali fiano lontani da noi, come farebbe la lunghezza  di vna cortina, © diftanza tra  due baluardi. Quando poi ci farà nota l'altezza di alcuna cofa, o diftanza tra due cofe lontane; Quindi conofceremo ficeuerfa la lontananza, che hanno da noi dalli numeri che haueremo notati nel cannocchiale. Ma quando noi dcfideraflìmo di fapere l'altezza di airi cuna cofa, quale non potiamo fapere, quanto fia diftante da, noi; ed infieme la diftanza di vna cofa, quale non fappiamo  quanta fia grande; e io conofceremo con fare due offeruationi in due diihnze vna maggiore dell'alcraj come fi fuol fare con gl'altri ftrumcntÉ altimetri. Sia V. g. la Torre AB, mirata dalluogo D, con vn Cannocchiatc, che in diftanza di joo.pallìfcopravno fpatio di 6©. piedi; c»> fupponiamo che in vna occhiata fi vedano due terze parti della Torre, cioèjda B, fino a C, fi ritiraremo lontani  fin tanto, che il cannocchiale fcopra tutta la Torre, il che fuccedcrà nel fito E, ciò fatto mì-Fi^ura fureremo la diftanza, che è tra il fito primo D, et il fecondo Eyf-XVj. quale fupponiamo che fia 100. palli: Se dunque cento paffi di maggior diftanza ci fanno fcoprirevn terzo di più della Torre, fecrno €, che la diftanza tutta fia di tre volte centopa{lì, e perche nelli numeri  fegnati fopra il cannocchiale ritrouo che in diitanza di^oo.paffi  fcoprò lo fpatio di lontane; e quefto modo non più pratticato, ne auuertito da altri, ch'io fappia, è fondato nel principio vniuerfale acuì s'appocroi-i rurta la Trigonometria, cioè, nella propordone de' lati delli due triangoli Ooo: EBA, BBA, e DBC, poiché tale è la proportione del lato DB, al lato BC, quale è quella del lato EB, allato BA,  come dimoftra Euclide. Ciò che fi è detto dell’vfo Trigonometrico del cannocchiale fi può incendere di qualunque maniera cgli fia fabricato;  rna quando fm fornito di vna, o più lenti in vece del concauo oculare,  riufcirà molto più efatto il modo, che qui foggiongo. Si formi di metallo vn cerchictto, ed in eflbfifaccjavn foro, o  più tofto vna fenellrella quadra ABCD, tagliandone tutta la  laftra di Eucl. che li due triangoli ABR, di. HGR fono proportionali, e per confeguenza anche li triangoli SBR, e TGR, onde farà come R,S, diftanza dell'oggetco dall'obbiecciuo a S B mecà dell’oggecco, cosi TR diftanza. dell'obbiettiuo da fili del cerchietto a TG metà della diftanza de' fili niedefimi, e per confeguenza come RS,  ad  AB, ciocia diftanzau deiroggetto, alla grandezza di  tutto l'oggetto, cosi la diftanza TR a tutta la diftanza GH de*fili. Diuidafi dunque tutta la diftanza TR in parti vguali alli gradi notati ne' lati del cerchietto, e poniamo, che quefta diftanza del cerchietto dall'obbiettiuo fiano looo.dique'gradi, delli qaali HG, cioè, la diftanza de'fili nel cerchietto fia folo 5. farà dunque come looo. a 5. così la dìftanza nota RS, qualt-j» fuppongaii di ^ooo.  paffi alla grandezza AB, che fi cerca, cioè, paffi 10. et all'incontro fé hanremo nota la grandezza dell'oggetto AB di paffi 10. faremo come GH, a TR, cioè, come 5. a 1000, cosi AB IO. ai RS 2000. Che fé poi non ci farà nota ne la diftanza ne la grandezza dell'oggetto, douremo o0eruare l'oggetto medefimo in due diihnz^ diuerfe, poiché in maggior dìftanza 1'ifteifo oggetto manderà i  raggi cftremi tra due fili paralleli del cerchietto, li quali faranno meno diftantì tra difcjche quando era in minor diftanza; onde dalla.^diffjreH^La delle due diftanze de'fili nella prìma, e feconda ofleruatione, e dalia diftania de' luoghi, ne' squali fi fono fatte le due olferuationi deiroggcttoj conforme le regole della Trigonometria hauremo la diftanza dell'oggetto, ed infieme la fua grandezza,  T vna, e l'altra delle quali prima erano ignote. In particolare potremo mifurare l'altezza di alcun Monte, con vna fola oìleruatione, purché in cima di effovi fu vnoggettodi nota grandezza, poiché mirandolo fapremo la diftanza di elfo nella lìnea, che chiamano Ipotenufa, dalla quale infieme con l'angolo, che è facile a prendcrfi con l'inclinatione del cannocchiale medefimo hauremo ambii  lati del triangolo, vno de*quali è la diftanza del Monte j e l'altro l'altezza perpendicolare. Quefta inuentione riufcirà diletteuole, ed vtile, non folo per mifurare Je diftanze, e grandezze de gli oggetti terreni j ma molto più psr deterrr\inare efattamente li diametri de'Pianeti, quando (oao. apogei, o quando fono perigei j benché ài ciò io mi riferuo a parlarne altroue, doue fpiegarò alcuni  nuoui modi dirinueniriJ^ con maggiore accuratezza tutte le fudette mifure per mezzo dei cannocchiale. Ma fingolarmente ci giouerà per determinare la grandezza deU le macchie del Sole, e della Luna, il fitOjC la lontananza, che hanno. Tvna dall'altrajovero dal Limbo del Pianeta, le diftanze de'fatelliti di Gioue da Gioue medefimo, e tra fé fteflì, et altre cofe fimili j per il quir le effetto  ci giouerà lofccndere nel vano del cerchietto fudetto molti fili tutti equidiftantì, e tra di fé paralleli, intrecciandoli poi con altri fili di trauerfo sì, che formino come vna rete di molti quadretti, per li quali paflando i raggi vifuali nel mirare, V.g la Luna, quefta., ci comparirà reticolata in quel modo, che fi fogliono reticolare da’Pittori le imagini, di cui vogliano cauare il difegno onde  formando poi in carta vna fimile figura reticolata, ci farà faciliffimo il collocare ciafcuna macchia a iuo luogo, e iicauarc vn perfetto difegno della faccia lunare. Deuefi però auuertire che a cagione della maggiore o minore diftanza deiroggettOj che firimiraj quefto tramanda i fuoi raggi al V^etro obbicrtiuo, piu o meno proffimi all' cflere parallelo, e perciò fanno maggiore, o minore  refrattionc nel Vccro mcdefimo, dal chenafcejchc non crefca la dilatatione dell'angolo HRG, a proporcione della maggiore vicinanza dell'oggetto j siche la regola fopradctta è foggetta a qualche diffetto; ma quefto è si leggiero ne'cannocchiali Junglii, particolarmente quando fi ofleruano oggetti molto lontanijche fa può facilmente auere in conto di nulla, particolarmente perche.  alJaproportionc, che và diminucndo(ì la refrattione, e la dilatation« dcirangolo R del triangolo HRG, fi abbreuia ancora il cannocchiale per vedere diftintamente i medefimi oggetti lontani; si che la bafe HO del triangolo, che è la diftanza de'fili, riafcirebbe maggiore del douere, ma accoftandofi all'angolo R, con lo raccorciamcnto del cannocchiale, riefce proportiouata. Quando però per  maggiore ficurczza, & efattezza noi voleflìmo conservare iempre Tif-  tcfsa lunghezza del cannocchiale, cioè, l'iftefla diftanza delì'obbiettiuo dal cerchietto, si potrebbe correggere quel poco di fuario della maggioreje minore refrattione, poiché tal refrattione va diminuendofi nelle maggiori, e mag{»iori diftanze a quel modo, che fi vanno diminuendo ifeni de gl'archi a proportione del  feno totale. Finalmente auuertafi che nellVfo di quefto cerchietto fi de'vfare grandiffima diligenza nel mifurare le diftanze delli due fili paralleli, per i quali padano i raggi eftrcmi dell'oggetto j onde i gradi, ne’quali fono diuifii lati del cerchietto douranno elTere per^tramentc vguali, efegnaticon ogni diligenza; e perche lo piu delle volte accadere, che ofieruando li diametri de' Pianeti, o  grandezze di altri oggetti, li fili tra quali ci comparifce tutto 1’oggetto non cadano precifamént?_> fopra il finc, o fopra il principio di alcun grado, ma fopra vna piccola partedieflo; douremo certjficarfi quanta fia quella parte a proportione di tutto vn grado intiero; il che non fi può fare con quella efattez;, Che nell'Aceto vi è vn buHicame di Vermi, i quali fi vedono chiaramente con  quefto ftrumento guizzare come piccole anguille; come parimente nel latte quando incomincia ad inacidirfi, ed anche lìcl formaggio,  -"'i Nel sangue corrotto,© infetto per qualche malatiafi fono offeruati fimili Vermi con modo particolare; poiché fi vedono gl'occhi de'Vermi medefimi, li quali fé fono neri, fi è prouato perifperienza., che il male è mortale  j Dalle quali oflferuationi fi  può probabilmente arguirc che non fi corrompa, © putrefaccia alcuna cofa, che infiema«» non fiano fimili vermi nella cosa putrefatta; onde anche nell'aria corrotta per cagione di pelle ilima il noftro Kirchero, che vi fiano tali vermi, i quali riceuuti in noi, mentre refpiriamo quell'aria ci cómu," nichinovna fimile infettione. In vn piccioliffimo granello, © femenza ài papauero'ton il m^i  croicopiofi fono numerate 48.faccie fatte tutte a fei angoli. In alcuni femi di cedro, e di Limoni tagliati per mezzo io ho ol-T  feruato non senza stupore vn intiera pianta di cedro col tronco, f(}-j glie, e frutti; onde. fi può credere, che in tuttele femenze vi fia com 'j: 7 n  Moltiffime altre ofieruationi fi poffono farc-nonfiDlo-nellé* parti dei gl'Animali, ma anche nell'Erbe^ nelle piante, nei  minerali, daiie quali) potrà riceuere gran lume la naturale filosofia, come fi vedrà nella...  noftr'Arte Maeftra.,  raa. sopra ogaalir.a. cof^  ci può gionafi^jaiìnedi;, C,fe vorremo tirare due alere linee, che abbiano tra di sé la medesima proportionc, e fianofolo v, g.  vna_. cinquantcfima parte di effe linee date applicheremo le punte del coni- paffo fotto il microscopio, e parallele alla linea  AB fin tanto che cora- parifchanp ftcfe quanio è la medesima line», qucft'apcrtura, di cotnpaiTo farà vna Iineaj l'iftefìTo fi faccia con la linea  CD5&  haurcmo l'altra linea: con la medefima proportione tra loro, c'hanno le due linee date^ma ac^ cioche la maggiore delle date alla maggiore, che fi cerca, e la minore alla minore abbiano la proportione di 50. a i.fi dourà allontanare, o vero  auuicinare vna lente del microscopio airaltra, fin tanto, chc Toggetto s'ingrandifca precifamente cinquanta volte.  Ma molto più facilmente potremo ottenere le medesime cose dette di sopra, ed altre, che s'accenneranno appr€Ìro, fe aggiongeremo al microscopio vna reticella Ornile a quellajche fi è spiegata di sopra nell’uso del canocchialej. Quefta fi farà in vn cerchio tondo tanto largo  nella fua apcrcurajche i raggi visuali estremi tocchino l'orlo interno di cfia sì, che egli termini la grantjezza del campo apparente, e si collocherà dietro alla lente oculare nel foro di eflarln quefto modo fchifaremo quella difficoltà che s'incontra (^maflìme da quelli che non fono molto auuezzi) nel mirare con gl'occhi due oggetti diuerfij vno reale con l'occhio fuori del microfcopio, e  l'altro apparente coll'occhio sopra'l microscopio. Sia v.g. la linea, ovvero un grado piccolo AB di alcun quadrante, ed in efìo vna parte piccolifTima  AC, e  fi  defideri fapere quale proportione abbia efìa particella AC con tutto il grado, o linea A85V,g. quante fcf-  fantefime parti, overo minuti di tutto il grado. Si accomodi il microscopio con tali lentisC con tale diftanza traloro, che  ingrandifca  Icliìiee  fefsantavokejC  fi faccia la reticella divisa in sei parti, si che ad vna corrifpondano lo.minutijoueroin  i2.siche ad ogn'vna  ne cornfpondano cinque. Posto il microscopio sopra quel grado AB, e particella di efso AC, fi oiTerui  in quanti fili della reticella venga compreso tutto il grado F'tgura^j^^Q^ in quanti la particella AC, & hauremoia proportione, clie fi  cer-  J.XXII^2.  y^g^  Cg  jytjQ  ]| grado  AB  prenderà tuico il campo di 1 2. partijcicè, ii fi  c J l\'''M||Ultll|l'|li,ll,|l|lllll..l,|l" 1 ^  I oì:z  22.,i,iu^i"  ii4iT!>itUii|iiiiiuii;»ii  l'^V'i  'I  '"l 'Miiinj  W'T^  Da  ì. jf  \Mm\\\mé'My  y:A\H\\\\mm[mmmmm  m^  ''"'v    XXIII,^x*-    %.  ;^ V^'^Vi^   s   E     J :^S9«i=s^_-:    A    ì E    •i}ij^\    O Q O O C O   m\   0 O Q 0 0 0 O O O 0  Q Q 0 O o  O O O 0 Q <0 O O o lì^iiSiiiÌM^ nkM    jSt  i  ^-'fOlfKt^i^- D  SE A XXXV / XXXVI   A  rO  I. K XXXVII Q XXXIX f  D^ ^-B^ 1 Cu    XL -  r'.~  XLII Cv-    XLII T  r  I H G  D  k'    #t'.''    r^    I 1 'tStt-t    l-t- V   L   !   i   Hi  4 à'.  s  f  I  -«.vf- ."^p. Francesco Lana conte de’Terzi. Keyword: lingua universale, grammatica ragionata. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Terzi.”Terzi.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tessitore: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Vico di Tessitore – filosofia campagnese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Napoli). Abstract. Keywords: Cuoco. Grice: “Cuoco argues that Plato is really an Italian!” -- Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano.  Napoli, Campania. Grice: “If there’s Oxonian dialectic and Athenian dialectic [la scuola d’Atene], there is, to follow Tessitore, the ‘scuola napoletana.’” Si laurea in giurisprudenza -- la sua tesi ricevette dignità di stampa -- a Napoli, allievo di PIOVANI -- è libero docente per meriti eccezionali in filosofia del diritto, e professore. Insegna storia delle dottrine politiche; quindi, in poi, storia della filosofia. Preside della facoltà di magistero dell'università degli studi di Salerno. Preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università Federico II di Napoli, della quale è stato anche rettore. Socio dell'Accademia dell'Arcadia col nome di Echione Cineriano. È inoltre socio nazionale dell'Accademia dei lincei e di numerose altr’accademie. Diregge il Centro di studi vichiani del CNR e fa parte del consiglio scientifico dello stesso centro. Presidente della Fondazione  Piovani per gli studi vichiani e del consorzio inter-universitario Civiltà del mediterraneo. Presidente del comitato tecnico scientifico della fondazione Amato onlus; socio dell'Istituto per l'Oriente Nallino di Roma; vicepresidente della fondazione Cortese. Siede inoltre nel consiglio direttivo dell'istituto italiano per gli studi storici fondato da CROE. È stato componente del consiglio scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Membro del consiglio universitario nazionale, in cui è stato presidente del comitato di lettere, lingue e magistero, vice presidente della Fondazione teatro di S. Carlo, componente del consiglio generale della fondazione Banco di Napoli, del Consiglio direttivo e vice presidente della CRUI, la Conferenza permanente dei Rettori delle Università italiane; cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica. Senatore della Repubblica italiana nelle file dei Democratici di Sinistra L'Ulivo e deputato nelle file del L'Ulivo. Medaglia d'oro della Scuola dell'arte e della cultura e della Scienza e della cultura. Autore di molti saggi --  ai quali sono stati assegnati numerosi premi. Saggi: Aspetti del neo-guelfismo napoletano, Morano, Napoli; Crisi e trasformazioni dello STATO: recerche sul pensiero gius-pubblicistico italiano, Morano, Napoli; Fondamenti della filosofia politica, Morano, Napoli, La storia dell’idee, Monnier, Firenze, Profilo dello storicismo politico, POMBA, Torino, Lo storicismo, Laterza, Roma, Meinecke, Laterza, Roma; Filosofia, storia e politica in CUOCO (si veda), Marco, Lungro); Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Storia e Letteratura, Roma; Interpretazione dello storicismo, Scuola Normale, Pisa; Contributi alla storiografia arabo-islamica Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); La mia Napoli. Frammenti di ricordi e di pensieri (Grimaldi, Napoli); Letture quotidiane, Editoriale scientifica, Napoli, che raccolgono articoli di giornali quotidiani. Trittico Anti-hegeliano da Dilthey a Weber. Contributo alla teoria dello storicismo (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; Da CUOCO (si veda) a Weber. Contributi alla storia dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma. Fonda il “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, Archivio di Storia della Cultura, Civiltà del Mediterraneo, pontaniana. unina. Curriculum su filosofia. unina. Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Fulvio Tessitore. Tessitore. Keywords: Cuoco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tessitore,” per H. P. Grice’s gruppo di gioco, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Testa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della nemica fortuna – la scuola di Tidone – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Tidone). Abstract. Keywords: implicatura, nemica fortuna. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Tidone, Piacenza, Emilia-Romagna. Rifiuta la cattedra filosofica a Pisa e prefere lavorare a Parma, divenendone presidente dell'area filosofica. Deputato al parlamento sabaudo. T. Storia di un povero pretazzuolo di Fausto Chiesa, pubblicato dalla libreria Romagnosi di Piacenza. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Alfonso Testa. Testa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Testa” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Thaulero: la ragione conversazionale e il problema d’una antropologia filosofica; o, l’implicatura conversazionale dell’autorità ed il risentimento – la scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: autorita e risentimento. Grice: “We loved Strawson’s “Freedom and resentment,” since it spoke to a generation – not exactly mine!” -- Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Abruzzese, figlio del barone Carlo, nobile di Chieti e patrizio teramano. Consigue la maturità classica al liceo Massimo di Roma. Si iscrive alla Sapienza di Roma, dove si laurea a pieni voti con una tesi in filosofia del diritto, “Una metodologia del diritto”, sotto VECCHIO come relatore, e ottenne il diploma di perfezionamento con lode in filosofia del diritto nella scuola di perfezionamento di filosofia del diritto a Roma, con la tesi “La ‘fictio juris’ in Bartolo da Sassoferrato”, con SFORZA come relatore. Assistente volontario di PERTICONE, ordinario di storia contemporanea a scienze politiche, usufruì di una borsa della Humboldt-Stiftung che gli consente studiare in Germania per approfondire sulla problematica del valore. STURZO gli affida insieme ad Addio la direzione del “Bollettino di Sociologia”, poi divenuto “Sociologia”, divenendo uno dei maggiori collaboratori dell'istituto creato dal fondatore del partito popolare italiano. Inviato al congresso di sociologia di Amsterdam e fra i fondatori della Società italiana di scienze sociali.  Consigue la libera docenza in filosofia morale e ricopre vari incarichi presso Salerno. Vince il concorso a cattedra per filosofia morale del magistero di Salerno.  Muore in un incidente automobilistico.  Gli è stata intitolata la scuola di Cologna Spiaggia a Roseto degli Abruzzi. Altri saggi: “Società e cultura” (Giuffré, Milano); “Il mare ha voce, ha voce il vento” (Storia e Letteratura, Roma); “Il darsi dell'origine nell'esperienza sociale e religiosa” (Studium, Roma); “Intorno al concetto di sociologia generale”, “Sociologia: Bollettino dell'Istituto Sturzo” (A. Giuffré, Milano); “Il problema del risentimento” – “Sociologia: Bollettino dell'Istituto Sturzo” (Giuffré, Milano); “Scienze sociali e sociologia” – “Sociologia: bollettino dell'Istituto Sturzo” (Giuffré, Milano); “La Sociologia storicista” – “Sociologia: bollettino dell'Istituto Sturzo” (A. Giuffré, Milano); “Razionalità e storia” (Civitas); “L'autorità” (“Sociologia”); “Il problema dell'autorità” -- Convegno di Cultura Europea, Bolzano; “Conoscenza e sociologia” -- in “Rivista di Sociologia”, Appunti per la settimana sociale dei cattolici d'Italia, in Rivista di Sociologia; “Sociologia religiosa”, in “Rivista di Sociologia,” “Cristianesimo e storia”, in “Rivista di Sociologia”, “Pregiudizio e religione”, “Rivista di Sociologia”,  Roma, “Metafisica della scienza e sociologia” – “Rivista di Sociologia”, Roma, “Analisi culturale ed ecumenismo” – “Rivista di Sociologia”, Roma, Religione e pregiudizio” (Cappelli, Bologna); “Il problema di un'antropologia filosofica”, Rivista di Sociologia,  Guida, Napoli, Corso di lezioni ciclostilate, con la traduzione, in appendice, di un saggio di Scheler. Religione e pregiudizio. Analisi di contenuto dei libri cattolici di insegnamento religioso in Italia (Cappelli, Bologna); “Nota introduttiva a Hartmann”, Etica -- Fenomenologia dei costumi, in Esperienze’ “Osservazioni in margine ad una ricerca su pregiudizio e religione”, in Rivista di sociologia; “Prospettive culturali e sociologiche dell'impegno sociale” -- relazione tenuta alla Consulta dei Movimenti Effettive e Seniores della Gioventù di Azione Cattolica; “Un nuovo indirizzo storiografico nella analisi della struttura socio-economica” -- relazione tenuta in occasione del convegno Rozzi e l'agricoltura, Teramo, promosso dal Centro di Studi Storici Abruzzo Teramano, in Rivista di Sociologia; Riflessione sull'Università televisiva, in Informazione Radio TV. Studi, documenti e notizie, Speciale Televisione e Istruzione, RAI, Sociologia ed esperienza religiosa e politica Ricerche di Storia sociale e religiosa. Discendente del beato Johannes Thauler. Il Tempo, V. Mathieu, Salerno, Rosa, Seconda Attesa, Vicenza, Rosa, La storia che non passa: diario politico, Mannelli, T. Vincenzo Filippone-Thaulero. Thaulero. Keywords: autorita e risentimento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Thaulero” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tiberiano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del mio tutore Priscilliano – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: Storia della filosofia italiana. Priscilliano’s followers. Filosofo italiano.  He moves to Baetica. He is a follower of Priscilliano, writing a number of essays in defence of Priscilliano’s extremely weird views!

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Tiberio: la ragione conversazionale del filosofo principe – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. Philosophers whose name began with TH in Latin but changed the TH to T in Italian. Filosofo italiano. Principe. He takes a serious interest in philosophy, and is especially drawn to the Scesi, as he calls it. His tutors are Teodoro and Trasillo. Grice: “What surprises me is that both Tiberio, Teodoro, and Trasillo bear names that start with a T. But Strawson knows better: ‘The T in Theodoro is vulgar Italian, not Latin, or Greek!”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tiberio: la ragione conversazionale della filosofia e l’implicatura conversazionale dell’anti-filosofia – Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: not the prince. Not the prince. This one writes on philosophical subjects. Grice: “It would have been a good thing if the OTHER one did!” – Luigi Speranza, “Grice e Tiberio”. Tiberio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tilgher: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’orecchie dell’aquila -- il relativismo filosofico –  la scuola di Resina -- filosofia campagnese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Resìna). Abstract. Keywords: le orecchie dell’aquila, lo spccio del bestione trionfante. Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Resina, Ercolano, Napoli, Campania. Nato da padre vetraio Tedesco, vive a Roma dove e amico e collaboratore di BUONAIUTI, studioso di storia del cristianesimo ed esponente del modernismo italiano. Lavora come bibliotecario ad Alessandrina e collabora ad alcuni giornali -- tra gli altri, Il Mondo e il Popolo di Roma -- molti dei quali vennero poi soppressi dal regime fascista (“unsurprisingly” – Grice). I suoi principali saggi sono: “La crisi mondiale”, “Estetica”; e “La filosofia delle morali”, nella quale delinea la sua originale visione individualistica. Collabora al giornale satirico “Il Becco giallo”. E tra i firmatari del manifesto degli intellettuali – o filosofi -- anti-fascisti, redatto da CROCE (“or his secretary, rather – full of typos!” – Grice). Da ricordare, anche, tra i suoi diversi saggi anti-fascisti, “la stroncatura di GENTILE”, che, soprattutto nell'ironico e irriverente sotto-titolo, esprime un dissacrante giudizio sulla propaganda con l'eloquente frase, di ascendenza bruniana – si veda: BRUNO -- “Lo spaccio del bestione trionfante”. Opera anche come critico letterario e teatrale. E tra i primi a notare l'originalità del teatro pirandelliano (PIRANDELLO, si veda), nonostante i tentativi di contestazione da parte del regime fascista.  In ambito filosofico, afferma che non esiste una scienza morale unica bensì una pluralità di morali che emergono da un fondo caotico in virtù di un'iniziativa che in parte è creatrice di valori e in parte effetto di coincidenze casuali, anche se fortunate. In lui ri-affiora il dualismo manicheo di bene e di male, ribelle a ogni composizione dialettica propria a ogni comodo, quanto illusorio e superficiale ottimismo. Considera mitico, utopistico, il concetto del progresso che non considera come altrettanto reali "il regresso, la caduta e la colpa".  Nella nota “Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra”, oltre a suoi saggi include brani tratti dai saggi di ALIOTTA, BUONAIUTI, EVOLA, MARTINETTI, MIGNONE, NOBILE, E RENSI. A Ercolano gli è stato intitolato l'istituto d'istruzione superiore, non inferiore, -- “as Gentile would have preferred” – Grice. Altri saggi: “Arte, conoscenza e realtà” (Torino, Bocca); “Teoria del pragmatismo trascendentale” – alla APEL (Torino, Bocca); “Filosofi antichi” (Todi, Atanor); “La crisi mondiale”, “Saggi di socialismo e marxismo” (Bologna, Zanichelli); “Voci del tempo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Relativisti contemporanei” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Studi sul teatro contemporaneo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Ricognizioni, Roma, Libreria di Scienza e Lettere); “La scena e la vita” – cf. Shakespeare: for all the world’s a stage -- (Roma, Libreria di Scienza e Lettere); “Lo spaccio del bestione trionfante: stroncatura di GENTILE. Un libro per filosofi” – GENTILE: SI VEDA (Torino, Gobetti); con un saggio di Negri, La Mandragora, prefazione di Turi (Roma, Storia e Letteratura); “La visione greca della vita” (Roma, Libreria di Scienza e Lettere, Giordano); “Saggi di etica e di filosofia del diritto” (Torino, Bocca); “Homo FABER” – cf. APPIO (Roma, Libreria di Scienza e Lettere, col titolo “Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale, Firenze Libri); “La poesia dialettale napoletana” – “typical work of a German, as he was!” (Grice) (Roma, Libreria di scienza e lettere), “Estetica” (Roma, Libreria di scienza e lettere); Etica di Goethe, (Roma, Maglione); Filosofi e Moralisti – Grice: For Nowell-Smith, philosophers ARE moralists! --, Roma, Libreria di Scienza e Lettere); “Studi di poetica” (Roma, Libreria di Scienza e Lettere); Cristo e Noi, Grice: “His real name wasn’t Christ, but Jesus” (Modena, Guanda); “Critica dello storicismo” (Modena, Guanda); Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra (Modena, Guanda) – si veda: EVOLA, MARTINETTI, ecc. ; “Filosofia delle Morali” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Moralità: punti di vista sulla vita e sull'uomo” (Roma, Libreria di scienza e lettere); “Le orecchie dell'aquila: studio sulle fonti dell'attualismo di Gentile” (Roma, Religio); “La filosofia di LEOPARDI [minore]” (Roma, Religio); Raoul Bruni, (Torino, Aragno) -- con l'aggiunta di altri scritti leopardiani mai riuniti in volume;  “Il casualismo critico” (Roma, Bardi); “Mistiche nuove e Mistiche antiche” – cf. SCUOLA DI MISTICA FASCISTA (Roma, Bardi); “Tempo nostro” (Roma, Bardi); “Diario politico” (Roma, Atlantica); “Marxismo, socialismo borghesia (Firenze Libri); Carteggio CROCE-T., Tarquini (Bologna, Mulino); “PIRANDELLO, con testi di GRAMSCI” (Pisa, Scuola Normale Superiore); Einstein, Trappetti e Secci, Dalia Edizioni, La Stampa di Torino. Redazione,  “Spaccio della bestia trionfante” è un saggio del BRUNO, costituita da III dialoghi di argomento morale, pubblicata a Londra. Le “bestie trionfanti” sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali -- è necessario ‘spacciarle’, ovvero cacciarle dal cielo in quanto rappresentano vecchi vizi che occorre sostituire con moderne virtù. Una nota dell'OVRA su un presunto tentativo di contestare PIRANDELLO (si veda) nella tournée in Argentina si riferisce una grave dichiarazione confidenziale fatta dal noto letterato anti-fascista a CASSINELLI, dichiarazione che rileva non solo l'animosità biliosa di T. contro PIRANDELLO ma anche e soprattutto un piano pre-stabilito da oltre III mesi da rinnegati contro degl’italiani che si apprestano a far conoscere ai nostri co-nazionali in Argentina, le ultime novità letterarie degli autori italiani. Sedita, “PIRANDELLO, l'a-politico spiato” (Belfagor), che riproduce la nota, sottolinea l'enfasi negativa con cui in essa si presenta il noto letterato anti-fascista T. e con cui ci si sofferma soprattutto sul suo perdurante odioso atteggiamento di sfida e di ribellione al fascismo. E significativo, alla luce degli studi di CANALI, che il tramite tra la polizia politica e T. sia stato CASSINELLI. CASSINELLI divenne amico di PIRANDELLO, che ne parla con deferenza in due lettere all’Abba. Dizionario Biografico degli Italiani  Rensi, Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte” (Napoli, Orthotes); Istituto d'Istruzione Superiore T., su tilgher Grana, T. critico, in, Letteratura italiana. I critici,  V, Marzorati, Milano; R. Laz., Enciclopedia ItalianaII Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, T. com'era, Napoli, Edizioni del delfino, Buonaiuti Modernismo teologico Manifesto degli intellettuali antifascisti Traccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Adriano Tilgher. Tilgher. Keywords: le orecchie dell'aquila, lo spaccio del bestione trionfante. Refs.: Luigi Speranza, ‘Grice e Tilgher’ – The Swimming-Pool Library. Tilgher.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timagora: la ragione conversazionale dell’orto di Roma e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Grupo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: Orto. Grie: “I lay the cause of the emergence of Reealism at Oxford – with Cook, Prichard, and company – as a reaction to Walter Pater’s infamous Epicureanism!” Filosofo italiano. Orto. Cited by CICERONE. Grice: “I would say that Cicerone should every sign of being a closet Epicureian. He knew them ALL!” Keywords: Orto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Timagora.” Timagora.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timagora: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tutelage in Italian philosophy – Roma – la scuola di Gela -- filosofia italiana -- Grice italo – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Gela). Abstract. Keywords: tutelage in Italian philosophy. Grice: “In Ancient Rome, it was mainly emperors who had a philosophy tutor; I was happy to have a Scotsman, Hadie, as mine!” Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Gela, Caltanissetta, Sicilia. A pupil of Teofrasto and Stilpo. Grice: “Not a good pupil, apparently, since he needed TWO tutors. I rather would die than having to endure my four years at Oxford under TWO tutors: Hardie was MORE than enough!” – Keywords: tutelage in Italian philosophy

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timarato: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della legislazione di Locri – principe filosofo – Roma – la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: Cuoco. Grice: “Cuoco was fascinated with Southern Italy, and called Plato a Southern Italian, almost!” -- Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico, pupil of Pythagoras himself. T. achieves great eminence as a law-giver at Locri. However, Giamblico says exactly the same thing about a *Timares* of Locri, which is either a remarkable coincidence or a mistake (“but can’t be both” – Grice). The latter is perhaps more likely, as on both occasions Giamblico links Timares with Zaleucus – implying (“or implicating” – Grice) they are the same person. Keywords: Cuoco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timare: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della legislazione di Locri – il principe filosofo -- Roma – la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: justice, moral justice, political justice, politico-LEGAL justice. The legal and the law. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorean, cited by Giamblico – and an important law-giver in Locri. Some scholars think that Giamblico or someone else made a mistake and that ‘Timares of Locri’ should read ‘Timeo of Locri.’ As Plato nowhere describes Timeo specifically as a law-giver, the identification is at best inconclusive. However, Timares does seem to be the same person as *Timaratus* of Locri – “if you’ve heard of him.” Grice. Keywords: the laws of Locri. Timare.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timarida: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della provvidenza divinamente decadente -- Roma – la scuola di Taranto -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Taranto). Abstract. Keywords. il providente. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A pupil of Pythagoras himself, as cited by Giamblico. He is mentioned in a work by Androcide in which Timarida is shown as a strong believer in divine providence. Grice: “Which is possibly the source for Vico – the ONLY *OTHER* philosopher *I* know who believes in ‘provvidenza divina’ – Keyword: provvidenza. “Note that the ‘divine’ is decorative, since pro-videnza has more to do with fore-sight!” – Grice. Keywords: Cuoco, la filosofia italica.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timasio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei sibariti – Roma – la scuola di Sibari. filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Sibari) Abstract. Keywords: Sibarian dialetic. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Sibari, Cassano, Calabria. A Pythagorean – cited by Giamblico – “‘Check other references,’ Strawson told me. I ignored him!”. Grice: Giamblico – although not an Italian his self, knew his Italy, since Sibari is hardly considered a philosopical centre – as Oxford is – but Timasio made one of it!”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timeo: la ragione conversazionale di Crotone e l’implicatura conversazionale dei suoi filiali -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Crotone). Abstract. Keywords: Crotone. Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Giamblico knew his Italy; he refused to call Sicily part of Italy – but then he referred to Grosse Griechland, as the Germans call it, not as Italy, either! Anyway, this Timeo was Italy-born, in Crotone, which the old Italiots called ‘Crotona,’ since a city must end with an -a, not an -e. Grice: “Timeo should not be confused with Timeo, Plato’s tutor – nor with Timeo, Empedocle’s – or Girgenti’s – pupil! Keywords: Crotone e i suoi filiali.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timeo: la ragione conversazionale a Roma e l’implicatura conversazionale della filosofia italiana – la scuola di Locri -- filosofia calabrese -- Grice italo-- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Locri). Abstract. Keywords: Cierone. Grice: “At Oxford, philosophy is not taught as an independent subject, but towards the completion of your B. A. Lit. Hum. with philosophy being offered upon completion of your first five terms. That was when I was introduced to Tully!” -- Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Locri, Reggio Calabria, Calabria. T. is the lead character in a dialogue by Plato, named, of course after him. T. is described as rich, a sometime holder of high office, and a philosopher of considerable accomplishment – “which, by Plato’s standards, means a lot” – Grice. According to CICERONE, Plato meets Timeo and studies with him – “or *under* him, as the Greeks have it.” – Grice. In the dialogue, Timeo expounds a theory of how the natural world came into existence – “even if nobody asked him!” – Grice. CICERONE describes Timeo as a Pythagorean – “But everybody except himself was a Pythagorean for Cicerone!” – Grice. Giamblico in fact describes two men named Timeo as Pythagoreans (“But he wasn’t wearing glasses!” – Grice. His works are considered apocryphal – “but that is a complimentary epithet at Oxford, as Strawson well knows!” Grice: “Timeo puts Locri on the philosophical map!” Grice: But of course Cuoco is right and Pythagoras himself was possibly from Locri!” – Grice. Keywords: CICERONE.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Timeo: all’isola -- la ragione conversazionale dell’Etna e l’implicatura conversazionale della filosofia -- Roma – la scuola di Taorimina -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Grice italico -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Taormina). Abstract. Keywords: Girgenti. Grice: “Philosophers don’t call William of Ockham William; they call him Ockham. Similarly at Bologna, they don’t call Empedocle di Girgenti Empedocle, but ‘Girgenti’! – I argued back that there were probably more Williams at Ockham than Empedocles at Girgenti, but the Bolognese are too logical to be dissuaded so easily!” -- Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Taormina, Sicilia. (“Or should we say Sicilian?” – Grice). A historian, and a source used by Diogene Laerzio in his account of Empedocle di Girgenti. Grice: “If Diogene used Timeo as a source, it means that Diogene was two-steps removed from the Etna, whereas Timeo almost fell into it!”. Keywords: Girgenti.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Timossi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della prammatica del ragionare – la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Genova). Abstract. Keywords: ragionare. Grice wonders what is ‘to reason’. He argues that the reasoner, usually an utterer, must believe that p, and must believe that c – where p and c stand for premise and conclusion. He must further intend that c follows from p, in an almost causal way. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Studia a Genova. Svolge attività di ricerca e di insegnamento seminariale presso l'ateneo genovese. I suoi principali interessi sono rivolti alle cosiddette questioni di frontiera, che riguardano la filosofia, la teologia, la storia della scienza, l'epistemologia e la religione. In questo ambito, si propone di dimostrare la possibilità di una metafisica cognitiva e in particolare di una rinnovata teologia naturale o filosofica che proceda dai rivoluzionari risultati e dalle conoscenze della scienza contemporanea.  È inoltre noto, come l’alievo di Grice, A. G. N. Flew, per i suoi studi critici sull'ateismo. Studioso di logica, ha pubblicato uno dei manuali introduttivi più letti in Italia: "Imparare a ragionare. Un manuale di logica", Marietti).  Presidente del Consiglio scientifico della scuola internazionale superiore per la ricerca inter-disciplinare; membro del comitato di gestione della fondazione Compagnia di S. Paolo di Torino. Academia ligure di scienze e lettere.  Altri saggi: “Dio è possibile? Il problema dell'esistenza di un'entità superiore” (Padova, Muzzio); “Dio e la scienza moderna: il dilemma della prima mossa” (Milano, Mondadori); “Prove logiche dell'esistenza di Dio d'Aosta a Gödel: storia critica dell'argomento ontologico” (Milano, Marietti); “L'illusione dell'ateismo: perché la scienza non nega Dio” (Cinisello Balsamo, S. Paolo); Imparare a ragionare: un manuale di logica” (Milano, Marietti); “Decidere di credere: ragionevolezza della fede” (Cinisello Balsamo, S. Paolo); “Nel segno del nulla: critica dell'ateismo” (Torino, Lindau); “Perché crediamo in Dio: le ragioni della fede" (Cinisello Balsamo, S. Paolo); “Credere per scommessa: la sfida di Pascal tra matematica e fede” (Bologna, Marietti, Centro Editoriale Dehoniano. Timossi. Keywords: ragionare, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Timossi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tincari: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del ivstvm qvia ivssvm – Roma -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. IVSTVM. Filosofo italiano. Persio. Philosopher of law, Bergamo. When it comes to moral Justice δίκαιον and Scepticism, the claim that what Grice is presenting is a reconstruction of Socrates' original defense of moral justice δίκαιον rests on my utilisation of some of Socrates' leading ideas, notably on the idea that the presence of moral justice δίκαιον in a subject x depends upon a feature or features of components of x, that the relevant feature or features of the components is that individually each of them fulfills its role or plays its part, whatever that role or part may happen to be (or, perhaps better, taken all together, their overall state is one which realizes most fully their various separate roles), that in satisfying this condition, they, the components, enable x to realize the special and peculiar virtue of excellence ANDREIA or virtvs of the type to which x essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as a good or well-conditioned T (where "T" refers to the type in question), and this in turn, if membership of T, or U, for universalia, if you wish to forget about Russell,consists in being a soul, ensures that the life of x is happy, in an appropriate sense of "happy." Grice’s account also resembles the original account given by Socrates in that it deploys the notion of analogy which is a prominent ingredient in Socrates' story, though it seeks to improve on Socrates' presentation by making it clear just why the notion of analogy should be brought into this discussion, and by making its appearance something more than an expository convenience. Grice’s presentation seeks also to link the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely with the concept of moral injustice non δίκαιον but more centrally and more directly with the more widely applicable concept of what one might call "health." This change carries with it an increase in the number of stages to be considered from two (the political and the moral) to three (the PHYSIOLOGICAL, the political, and the moral). Grice’s presentation also introduces the suggestion that the very same factors which determine whether a particular entity x, belonging to a certain type T, merits the accolade of being a T which is healthy, well-conditioned, or in good shape, also by their presence (in lower degrees) determine the difference between the existence or survival of x, rather than its non-existence, or non-survival, or lack of operancy. The same features, for example, which at the physiological stage determine whether a body is or is not well-conditioned, also determine by their appearance or non-appearance in lower degrees whether that body does or does not exist or survive, i. e. collapses instead. This example in fact calls for a more careful formulation. Grice proceeds to a more detailed discussion of the three stages recognized in his account. The complications are considerable, and intelligibility of presentation may call for omissions and convenient distortions. At Stage 1, the physiological stage, there appear a number of different items or types of item, viz.:  physiological things, such as human and animal bodies -- ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs. These will include both distinct types of d-component or organ, like the Liver and the Heart, and distinct instances or tokens of these types, like GRICE’S liver and  GRICE’S heart, or GRICE’s liver and STRAWSON’s heart. Entry will distribute a number of different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For these purposes, sets of teeth and pairs of human legs will have to count as each a single organ. Functional properties of physiological components or organs. These correspond to the jobs or functions which the various organs crucially fulfill in the life of the -thing or body to which they belong, such as walking, eating, achieving, and digestion. For convenient  oversimplification I assume that each organ has just one functional property, which will be variable in degree.  (d) Certain properties of -things (bodies) ("global properties") which will be dependent on the functional properties exhibited by the arrays of physiological components or organs which belong to the things in question. The properties under this head which presently concern me are two in number: one, which will not be variable in degree, will be the property of existence or survival, which will depend on the array of physiological components belonging to a particular d-thing achieving a minimal level with respect to the functional properties of the members of the array, that is to say, a level which is sufficient to ensure that the array of physiological components continues to exhibit some positive degree of the functional properties of that array. The other -thing property which concerns Grice is one which will be variable in degree; it is the property of well-being, or well-being as a -thing of the sort to which it belongs. Maximal well-being will depend on an optimal combined exemplification of the functional properties of a -thing's physiological components. The higher levels of this latter property are commonly known as "bodily health" (with-out qualification), or as "bodily healthiness." At all levels the phrase  "bodily health" may be used to signify the dimension within which variation takes place between one level and another.  (3) Before I embark on a consideration of the details of subsequent stages, perhaps I should amplify the account of my intended proce-dure, including the general structure of my strategy for the characterization and defense of moral justice. The items involved in the stage 1 (physiological entities or bodies, their components or organs, the functional properties, and certain overall features of bodies, such as existence and being in good shape, which are dependent on the functional properties of organs) exist or are exemplified quite naturally and without the aid of analogy at this level. The stage therefore may be regarded as providing paradigms which may be put to work in the specification of related items which appear in subsequent stages and into the constitution of which analogy does enter.  (b) Those members of the list of items, mentioned in 3(a) as appearing in later stages, which are properties as distinct from things, may be specified in two different ways. One way will be to make use of abstract nouns or phrases which are peculiar and special to properties belonging to that stage, and which do not incorporate any reference to more generic properties specifications of which are found also at stages other than the one to which the property under discussion itself belongs. The other way is to build the specifications from what at least seem to be more generic properties, together with a differentiating feature which singles out the particular stage at which the specified properties apply. Leaving on one side for a moment the second mode of specification, I shall comment briefly on the first. This may be expected to yield for us, at the political stage, such properties as those expressed by the phrases "political justice" and "political existence," and by whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this or that part of a state on which the global properties of political justice and political existence will depend.  Again, at the psychological stage, the first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions for the psychological properties of moral justice and psychological existence, and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may be) on which the presence of moral justice and psychological existence will depend. It will be noted that more than one important issue has so far been passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice might be different specifications of a more general feature for which the name "justice," without added qualification, might be appropriate; I have left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded, as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way, perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the question of the objects of reference of the phrase "parts of the soul." Such matters obviously cannot be indefinitely left on one side.  (c) I turn now to the considerably more complicated second mode of specification of the relevant range of properties. As already re-marked, this mode of specification will incorporate references to seemingly generic properties the appearance of which are not restricted to just one stage, a fact which perhaps entitles us to talk here about "multistage" epithets (predicates) and properties. Examples of second-mode specification will be such epithets as "is in good shape as a body" and "is in good shape as a state," both of which incorporate the more generic epithet "is in good shape" which seemingly applies to objects belonging to different stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such "holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different stages, there will also be "meristic" epithets, like "part" itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main suggestions is that the multistage epithets which are characteristically embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly important in view of the fact that it is also one of my contentions that there will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second mode.  It should be observed that although I have claimed that there are two different modes of property-specification, I have not claimed that for each individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen of each mode of specification will be available for use; it may be that in certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode specification, or that a first-mode specification can be made available only via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode specification. Since in my view most of the difficulties experienced by philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode and first-mode specifications might make a substantial contribution to two distinct philosophical questions, namely:  (i) whether it is sometimes true that description presupposes valuation (since second-mode specification seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to go);  whether it is sometimes or always true that valuation presupposes Teleology or Finality, since second-mode specifications characteristically introduce references to functions and purposes.  (d) I shall now recapitulate the main features which I am supposing to attach to first-mode and second-mode specifications, with a view to raising some further questions about the two modes: Properties which will be specified, when one uses first-mode specifications by single-stage epithets (properties like bodily health, political justice, and, perhaps controversially, moral justice) may also be specified by the use of second-mode specifications which will incorporate references to seemingly multistage properties such as wellbeing and existence. The property of bodily health, for example, may also be referred to as the property of well-being as a physiological entity, the property of political justice as the property of well-being as a political entity (or state), and the property of moral justice (perhaps) as the property of well-being as a psychological entity or soul. The global properties of well-being as this or that type of entity will depend on a maximal (or optimal) degree of fulfillment, by the various parts of the subjects of those global properties, of a sequence of meristic properties associated with the jobs or functions of those  (iii) The very same meristic properties on which the various forms of well-being depend will also determine, at a lower degree of realiza-tion, the difference between the existence and the nonexistence of the entities which inhabit a particular stage.  (iv) It might be possible, by a move which would be akin to that of  "Ramsification," to redescribe the things which inhabit a certain stage, their components or parts, the jobs or functions of such com-ponents, the property of well-being and the property of existence as being just those items which, in a certain realm, are analogical coun terparts to the prime items, in the physiological realm, respectively, of bodies, organs, bodily functions, health, and life (survival).  (v) These proposals might achieve a combination of generalizationand justification (validation) of the items to which they relate, given the assumption that the proposed redescriptions are semantically and alethically acceptable.  Among the questions which most immediately clamor for consideration will be the following:  Question 1: How are we to validate my intuitive judgment that second-mode specifications which involve multistage epithets will always, or at least sometimes, be analogical in character?  Question 2 is: How are we to elucidate the phrase used in (iv) "in a certain realm"?  (Question 3: How is it to be shown that the proposed redescriptions are not merely semantically but also alethically acceptable?  I will take these questions in turn.  Question 1 calls for the justification of a thesis which, without offering arguments in its support, I suggested as being correct, namely that if there are multistage epithets, that is to say, epithets which apply sometimes to objects belonging to one stage and also sometimes to objects belonging to another stage, the application of such an epithet to one, and possibly to both, of these segments of its extension must be analogical rather than literal. It seems to me that, before such a thesis can be defended or justified, it needs to be emended, since as it stands it seems most unlikely to be true. Consider first the epithet "healthy"; there would, I think, be intuitive support for the idea that when we talk, for example, of "a healthy mind in a healthy body," at least one of these applications of the epithet  "healthy" must be analogical rather than literal, since only a body can be said to be literally healthy. But if we turn to the epithets  "sound" and "in good order," though I think there will be intuitive support for the idea that both bodies and minds may be said to be sound or to be in good order, and indeed for the idea that bodies and minds can truly be said to be sound or in good order just in case they can truly be said to be healthy, there will not, I think, be intuitive support for the idea that the application of the epithets "sound" and  "in good order" to either bodies or minds, or to both, is analogical rather than literal. I would in fact be inclined to regard the application of each of these epithets to both kinds of entity as being literal. I would suggest that the needed emendation, while it allowed that the literal application of epithets may straddle the division between its applicability to subjects that belong to one stage and to subjects that belong to another, would insist that, when such literal cross-stageapplications occur, they depend upon prior cross-stage applications of some other epithet, where one or even both of the segments of application are analogical rather than literal.  How should the emended thesis be supported? My idea would be that the barriers separating the applications of an epithet to objects belonging to one stage from its application to objects belonging to another will in fact be category-barriers, and that there are good grounds for supposing that objects which differ from one another in category cannot genuinely possess common properties, and so cannot ultimately, at the most fundamental level, be items to which a single epithet will literally and nonanalogically apply. If objects x and y are categorically debarred from sharing a single property, then they are also debarred from falling, literally and nonanalogically, within the range of application of an epithet whose function is to signify just that property. There is nothing to prevent a body and a mind from being, each of them, literally in good order, provided that the condition needed for being literally in good order is that of being either literally healthy (in the case of a body) or (in the case of a mind) (analogically speaking) healthy. Perhaps the first matter to which we should attend in an endeavor to form a clear conception of (for ex-ample) the place of being (analogically speaking) healthy, a feature which may attach to minds, within a generalized notion of being in good order, or (perhaps) of being healthy, is the consideration that the question whether the application of a certain epithet to certain things is literal or analogical, is by no means the same question as the question whether its application to those things is or is not to be taken seriously. It may, for example, remain an importantly serious question whether Mill is properly to be regarded as a friend of the working classes long after it has been decided that, if the epithet  "friend of the working classes" does apply to Mill, it applies to him analogically rather than literally; it does not apply to him in at all the same kind of way as that in which the epithet "friend of Mr. Gladstone" may have applied or, perhaps, failed to apply to him. The question whether a particular person is in good shape may be a question an important aspect of which is expressed by the question "Is his mind (analogically speaking) healthy?"; if so, given that the first question is, as it may be, one to be taken seriously, the same would be true of the second question.  A second consideration, which we should not allow ourselves to lose sight of, is one which has already been briefly mentioned in thefirst part of this essay. We are operating in an area in which, not infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle would have called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of seemingly distinct kinds of items, and by a number of features each of which is special to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed the way we talk —we shall be led to suppose that these features are all specifications of some more general feature which is manifested, with specific variations, throughout the range formed by the kinds in question, a putative general feature for which ordinary language may even provide us with a candidate's name.  Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to suppose that the members of this range of special features have a common explana-tion, a further general feature which accounts for the first general feature, and also, with the aid of specific variations, for the original range of special features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which the world lays before us. In the present case, the application of this method would be to a range of items which includes bodies, states, and, perhaps, souls and also to such special features of these items as, respectively, bodily health, political justice [dikaion, ivstvm], and (perhaps) moral justice [dikaion, ivstvm].  Unfortunately, at this point, we encounter a major difficulty. The items which are the subjects to which the members of the range of special features attach, namely bodies, states, and souls, insofar as they are genuine objects at all, seem plainly to belong to different categories from one another. These categorial differences would be such as to preclude, if widely received views about categories are to be accepted, the possibility that there are any properties which are shared by items which differ from one another with respect to the kinds to which they belong. It looks, then, as if the possibility that there is a ‘generic’ property of which the special properties are differentiations, and the possibility that there is a further ‘generic’ property which serves to account for the first generic property, have both been eliminated. Grice in fact does not attempt to set out a theory of categories which would carry this consequence, and it would certainly be necessary to attempt to fill this lacuna. But the prospects that this undertaking would remove the difficulty do not at first sight seem encouraging. If, then, we are not to abandon all hope of rational solution, we shall be forced to do one of three things. Relinquish the idea of applying here procedures for descriptionand explanation which are operative in examples which are not bedeviled by category difference. Argue that the category differences which seem only too prominent on the present occasion are only apparent and not real. Devise a less restrictive theory of the effect of category differences on the sharing of properties. In the light of these problems, we should obviously be at pains to consider whether attention to the notion of analogical application would have any chance of providing relief. Grice proposes to leave this problem on one side for a moment, returning to consideration of it at a later point; immediately, Girce then addresses himself to a possible response to the suggestion that the question whether the possible application of a given epithet to a certain subject is an issue which it is proper to take seriously, is quite distinct from the question whether such application, if it existed, would be analogical or literal. The response would be that the distinction between the two questions does not have to be a simple black-or-white matter. It might be that, while the fact that, if such application existed at all, it would be an analogical application is not a universal obstacle to the idea that the application is one which should be taken seriously, it is also not true that there is no connection between the two questions. If the inquiry into the application of the epithet is one of a certain sort or one which is conducted with certain purposes in view, then the idea that such application would be analogical stands in the way of the idea that the application is one to be taken seriously. If, however, the character and purposes of the inquiry are of some other sort, the two questions may be treated as distinct. It might, for example, be held that if the inquiry about the application of an epithet is one which aims at reaching scientific truth, at laying bare the true nature of reality, the fact that the application of the epithet would be analogical conflicts with the idea that it should be taken seriously. If, however, the inquirer's concern is not with scientific truth but rather with the acceptability, either in general or in a particular case, of some practical principle, or principle of conduct, the two questions may be treated as distinct. Something like this "halfway" position is perhaps discernible in Kant. In, for example, his claim that an idea of pure reason, with regard to which no transcendental proof is available, Kant admits of a "regulative," but not of "constitutive" employment, a suggestion which is perhaps repeated in his demand for a non-dogmatic kind of teleology, a teleology which somehow guides our steps without adding to our stock of beliefs. The situation, however, is vastly complicated by the fact that the notion of what is "practical" is susceptible to more than one interpretation. On a wider interpretation, any principle or PRECEPT would count as practical, provided that it relates to questions about how one should proceed. On a second interpretation of "practical," only those examples of a principle or precept which is "practical" in the first sense will count as "practical" which relate not just to some form of procedure, but to procedure in the world of action OR WILLINGNESS as distinct from procedure in the world of thought OR JUDGINGS. An imperative which is practical in the second and narrower interpretation or sense will, as Kant himself seems to have thought, include this or that imperative which tells us how to act. Such interpretation of an imperative will not include an imperative which tells us how to think – or judge – cf. virtue etpistemics. Such an imperative will be concerned with the conduct of the business of life, but not with the conduct of the business of thought. This ambiguity leaves a principle or precept which concerns conduct of the business of thought in a somewhat indeterminate position. Such a principle or precept will be practical in the wider sense, since it is concerned with questions about how we should conduct ourselves. However, what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other, when we observe that the conduct such a principle or precept prescribes is conduct which is specifically involved in arriving at this or that decision about this or that scientific truth and the nature of reality. For Grice, the issue is made even more complicated by the fact that he has instinctive sympathy toward the idea that a so-called transcendental proof should be thought of as really consisting in the reasoned presentation of the necessity, in inquiries about knowledge and the world, of thinking about the world in certain very general ways. This view-point would introduce interconnections between what we are to believe or judge and how we are to proceed – or will -- which will be by no means easy to accommodate. Grice returns ten to discussion of the quandary which he propounded a little while ago, and the severe limitations on explanation seemingly imposed by category-differences between features which need to be explained. As he sees it, Grice’s task is to provide a somewhat more formalised characterisation of the phenomenon of analogical application than has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical or ‘semantic,’ in termsof the ‘modes of signifying’ -- characterization, which will at the same time be one which both preserves those category-differences and their consequential features, and at the same time avoids undue restrictions on the application of standard procedures for the construction of an eschatological explanation. This may seem like a tall order, but Grice thinks it can be met. Let us first look at the notion of instantiation and at one or two related notions. If one is informed that x instantiates y -- that x is an instance of y --, and also that y specifies z --that y is a specification of z, that being y is a way of being z, that y is a form of z --, one is entitled to infer that x instantiates z. If, however, instead of being informed that y specifies z, one is informed that y instantiates z, the situation is different. One cannot infer from the information that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z. The relation of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue, and blue specifies colour, it looks as if azure must specify colour. Let us now define a relation of "sub-instantiation"; x will sub-instantiate z just in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y, then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x instantiates y, x belongs to a level which is one step lower than that of y, and that if x sub-instantiates y, x belongs to a level which is now TWO steps lower than that of y. Now it seems natural to suppose that, when a number of more specialized explanations are brought under a single more general and so more comprehensive explanation, this is achieved through representing the various features, which are separately accounted for in the original specialized explanations, as being different specifications of a single more general feature. If, however, we were entitled to say that the crucial relation connecting the more specialized explicanda with a generalized explicandum is not, or at least is not in those cases in which the specialized explicanda are categorically different from one another, that of specification but rather of sub-instantiation, we shall be able to avoid the uncomfortable conclusion that the admissibility of generalized explicanda involves the admissibility of the idea that categorically different subject items may be instances of common properties. An item need not, indeed perhaps cannot, instantiate that which it sub-instantiates.  To conclude his treatment of the quandary, Grice feels he needs to show, as best as he can, that a systematic replacement of references to the relation of specification by references to the relation of instantiation would have no ill effect on the standard procedure for generalizing a set of specialized explanations, with which we have provided ourselves, of the presence of discriminated specialized properties. To fulfill this undertaking, Grice considers two cases. One involves the application of a procedure for generalization which is characterized in terms which involve reference to the relation of specification, and the other in which all references to specification are replaced by references to additional and "higher-level" occurrences of the relation of instantiation. In the first, case, Grice starts with a group of particulars -- x, through x, --, with regard to each of which we are informed that it possesses property D; and with two further groups of particulars -- y, through Ym and z, through z, -- instantiating, respectively, properties E and F. The generalization procedure begins when we find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and z, through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. We next find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way 1, respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and C and F, specify in way 3, respectively, P and Q  (iv) We are now, it seems, in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in a corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has in fact been achieved.  Case I1. Case Il begins to differ from Case I only when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q; and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase "first-group instance" either the phrase "second-group instance" or "third-group instance" will be made in what we say about properties B and E and properties C and F.  Though I would not claim to have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of legitimacy of the procedure for generalization with which Grice is currently concerned. The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be quite un-affected. If he is right in this suggestion I shall, I think, have succeeded in providing what was mentioned in Part I of this essay as a desideratum, namely a development of a concept of affinity, which would be less impeded by category-barriers than the more familiar notion of similitude. Grice then turns briefly to question Q2. This is the question how to interpret the expression "in respect to a certain realm" within such phrases as in "an analogical extension, in a certain realm, of the property of health – SANITAS --, in the primary physiological realm to which animal and human bodies are central." Grice should make clear the problem of ambiguity which prompts this question. There is one way of looking at things, one conception, according to which there is a certain realm, which is that to which souls are central, and into which there is projected an analogical extension of the property of health or SANITAS. In this conception the notion of a soul is logically PRIOR to the notion of the psychological realm to which souls are central, and both are logically prior to the property which is the analogical extension of the property of health or SANITAS, which in the primary physiological realm is the property of bodies. But there is another conception which might particularly appeal to those who regard a soul as being, initially at least, somewhat dubious entity, according to which a soul is introduced into the psychological realm to be the subjects or bearers of a property in that realm which is an analogical extension of the property of health, or SANITAS, which in the physiological realm belongs to the body, not the soul. According to this conception, fairly plainly, the conception of a soul is logically POSTERIOR both to the notion of the psychological realm and to the analogical extension of the property of health, SANITAS, which exists in that realm. MENS SANA IN CORPORE SANO. Question 2 is in effect an accusation. It suggests that the two conceptions are mutually inconsistent, since a soul cannot be at one and the same time both logically prior to and logically posterior to both the concept of the realm to which it is  supposedly central and to a certain property, analogous to bodily health – CORPUS SANVM -- which exists in that world. It further suggests that Socrates (or neo-Socrates) need both of these conceptions, but, of course, cannot have both of them. To meet this objection, Grice suggests that a promising line to take would be to deny that we start with a certain realm, the psychological realm, the nature of which is determined either by the subject-items, namely a soul, which is central to it, or by the properties, such as a certain analogue of bodily health, or SANITAS – CORPUS SANVM -- which characterize things in it; and that we then proceed at a later point to add to it the remaining members of these two classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of the elements in the primary physiological realm, a soul which is analogue of a body, and a class of properties one of which is an analogue of bodily health, SANITAS, CORPVS SANVM -- and call the realm to which these analogues belong the psychological realm. In this way the incoherence covertly imputed by question Q2 will be dissolved, since neither of these psychological elements – a soul and properties like the analogue of bodily health, SANITAS, CORPUS SANVM --  will be logically prior to the other. What in fact has been done is to introduce, first, a double analogical extension of two types of items which belong to the primary physiological realm and, second, the notion of a psychological realm for use in a convenient way of talking about what has initially been done. No doubt more than this will need to be said in a full treatment of the topic. But perhaps for present purposes, which are primarily directed toward defusing a certain criticism, what has been said will be sufficient. When it comes to the prospects for ethical theory, Question 3 might be expanded in the following way. We can imagine ourselves encountering someone who addresses us in the following way: "You have certainly achieved something. There is one class of philosophers who would be inclined to deny that the notion of moral justice, δίκαιον, can be regarded as an acceptable and legitimate concept, because there is no way in which the intuitive idea of moral justice, δίκαιον, can be coherently presented in a rigorous manner. What you have said has shown that such a philosopher's position is untenable; for you have shown that if we allow the possibility of representing moral justice, δίκαιον, as a certain sort of analogical extension of a basic notion, namely health, which is a property of bodies, items which belong to a basic or primary realm of objects, you have succeeded in characterizing in a sufficiently articulated way the possession of moral justice, δίκαιον, to which the philosopher in question is opposed on the grounds of its incoherence. That is no small achievement, but it is not, nevertheless, from your point of view, good enough. For there will be another class of philosophers who find no incoherence in the notion of moral justice, δίκαιον, but claim that lack of incoherence is a necessary condition but not a sufficient condition for accepting moral justice, δίκαιον, as a genuine feature of anything in the world. The uses that we make of our characterizations of moral justice, δίκαιον, and other such items must be as part of an as it were encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents of the rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one contains everything which the other contains together with something which the other does not contain, while the other account contains nothing beyond a certain part of what the first account contains, it will be rational, in selecting the optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger volume, unless it can be shown that what is contained in the larger volume but omitted in the smaller one is something which should be present in a comprehensive picture of the rational world. To be fit for inclusion in an account of the rational world, a contribution must be not only coherent but also something which is needed. This demand you have not fulfilled." To this critic Grice should be inclined to reply in the following manner. "I agree with you that more is required to justify the incorporation of moral justice, δίκαιον, within the conceptual furniture of the world than a demonstration that the notion of moral justice, δίκαιον, is one which is capable of being coherently and rigorously presented; and I agree that I have not met this additional demand, in whatsoever it may consist. But I think it can be met; and indeed I think I can not only say what is required in order to meet it but also bring off the undertaking of actually meeting it. The required supplementation will, I suggest, involve two elements. First, a demonstration of the value, in some appropriate sense of "value," of the presence in the world of moral justice, and second, a demonstration that it is, again in the same ap. propriate sense, up to us whether or not the notion of moral justice does have application in the world." I shall now enlarge upon the two ingredients of this proposed response.  First Supplementation. A person who is concerned about the realization in the world of moral or political justice, δίκαιον, will encounter at a number of points alternative options relating to such realization which he may have to take into account. The number of such options will vary according to whether a "two-concept" view or a "one-concept" view is taken of justice, δίκαιον; the number will be larger if a two-concept view is taken, and I shall begin with that possibility. On a two-concept view, there will be two properties the realization of which has to be considered, moral justice δίκαιον and political justice δίκαιον. One who is concerned about the application of these properties, and who is unhampered by any sceptical reservations, will have to consider the application of each of these properties to a particular individual, standardly himself, and also to a general subject-item, such as a particular totality of individuals each of whom might consider the application to himself as an individual of each of the initial properties. There will also be a variety of distinct motivational appeals which the application of one of these forms of justice, δίκαιον, has to a particular subject-item, the consequential appeal of that realization (e.g. its payoff), or both. If we go beyond Plato, we might have to add such forms of motivational appeal as that which arises from subscriptions to some principle governing the realization of the initial property. On a one-concept view the initial array of options will be considerably reduced, though it is perhaps questionable whether such reduction will correspond to any reduction in genuinely distinct and authentic options. On the assumption that it would not, Grice temporarily goes along with the idea that a one-concept view is the correct one. On this view a distinction between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will reappear as the difference between concern for the application of a single property, that of justice, δίκαιον, when it is motivated by the intrinsic appeal of its realization in a given subject-item (one might perhaps say its moral appeal) or alternatively, when it is motivated by the idea of the consequence of such a realization (one might say by its political appeal). One should perhaps be careful to allow that the idea that a single concept or property may exert different forms of motivational appeal does not carry with it the idea that one and the same body of precepts will reflect that concern, regardless of the question whether the motivational foundation is moral or political.  It is crucially important to recognize that situations which are only subtly different from one another may exert quite different forms of motivational appeal. Nothing has so far been said to rule out the possibility that while Socrates and other such persons may each be concerned that people in general should value the realization of justice, δίκαιον,in themselves because of its intrinsic appeal, that is to say, for moral reasons, nevertheless their concern that people in general should value for moral reasons the realization in themselves of justice, δίκαιον, is based at least in part on consequential or political grounds rather than on any intrinsic or moral appeal. It is possible to be concerned that people be sensitive to the moral appeal of being just, δίκαιον, and at the same time for that concern to be at least partly founded on political rather than on moral considerations. If that is so, then the concern for a widespread realization of moral justice, δίκαιον, might itself have a non-moral foundation, as Prichard attempted at Oxford with his duty and interest, repr. by Urmson. Such considerations as these might be sufficient to ensure that the realization of moral justice in a community is of value to that community. This value might consist in the fact that if themembers of a community are morally concerned for the realization of justice, δίκαιον, in themselves, their manifestation of socially acceptable behavior will not be dependent on the real or threatened operations of law-enforcers, to the advantage of all.  Second Supplementation. If we were to leave things as they are at the end of the first supplementation, though we should perhaps have shown that the realization of moral justice in the world was of value to inhabitants of the world and possibly also absolutely, we should not have escaped the suggestion that this alone is not adequate to our needs; it would leave open the possibility that all one could do would be to pray that moral justice, δίκαιον, is realized in the world, and then when we have found out whether this is or is not the case, to jubilate or to wail as the case might be. To make good our defense of moral justice, we should need to be able to show that in some sense the realizability of moral justice in the world is up to us. At this point it seems to me we move away from the territory of Socrates and Plato and nearer to the territory of Kant; it also seems to me that at this point the problems become immensely more difficult, and partly because of that, I shall not attempt to devise here a solution to them, but only to provide a few hints about how such a solution might be attained. As we have been interpreting the notion of moral justice, δίκαιον, its realizability is an idea which is very close to that of the validity of morality; and if we were to follow Kant's lead, we should be on our way to a supposition which is close to his idea that the validity of morality depends upon the self-imposition of law, an idea which, though obscure, seems to suggest that what secures the validity of Morality is something which, in some sense or other of the word "do," is something that we ourselves do, and so perhaps in some sense or other "could," we could avoid doing. What kind of "doing" this might be, and how it might be expected to support Morality, to my mind remain shrouded in darkness even after one has read what Kant has to say; there seems little reason to expect that it would closely resemble the kind of doing with which we are familiar in the ordinary conduct of life. There is also important uncertainty about the proper interpretation of the word "could"; it might refer to some kind of psychological or natural possibility, something which some would be inclined to call a kind of causal possibility; or it might refer to some kind of "rational" possi-bility, the existence of which would require the availability of a reason or possible reason for doing whatever is said to be rationally possible.  Not everything which is psychologically possible is also rationallypossible; and I think it might be strategically advantageous if it could be held that the Kantian view assigns psychological possibility but not rational possibility to the avoidance of the institutive act which underlies morality; but whether this is Kant's view, and how, if it is his view, it is to be made good, are problems which I do not know how to solve. When it comes to The Republic and Philosophical Eschatology, Grice presents what he sees as the background to the reconstructed debate between Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps between neo-Thrasymachus and neo-Socrates. Neo-Thrasymachus is a Minimalist and a Naturalist who has affinities with Hume – and his name is Nozick; he rejects the concept of moral justice, δίκαιον, on the grounds that it would be at one and the same time a non-natural and psychologistic feature and also an evaluative feature. At this point we may suppose that neo-Socrates, who is not committed to any form of Naturalism, will have retorted to neo-Thrasymachus that a blanket rejection of psychologistic and evaluative features will totally undermine philosophy. This part of the debate is not recorded, but we may imagine neo-Thrasymachus to have responded that neo-Socrates is in no better shape; for he can make sense of the notion of moral justice, δίκαιον, only by representing it as a special case of a favourable feature, namely well-being, which spans category-barriers between radically different sorts of entities, such as a body, a political state, or a person. But neo-Socrates himself will be committed to holding a view of universals which will prohibit any such crossing of category-barriers by a single universal. To this charge neo-Socrates may resort to two forms of defense, one less radical than the other. The less radical form would involve the claim that while there have to be category-barriers, these do not have to be as severe and restrictive as the accusation suggests.  The more radical form of defense would refrain from relying on a more permissive account of category-barriers even though it allowed that such increased permissiveness would be in order. It would rely rather on a distinction between concepts which may span category-barriers, whether these are more or less severe in nature, and universals which may not span such barriers. A closely parallel distinction between  an expression's having a single meaning and its being used to ‘signify’ a single universal can, Grice thinks, be found in Aristotle. Vide Grice, “Aristottle on the multiplicity of being” and the three modes of unification of universalia via recursion – the logically developing series, the focus, or the analogy or proportion. This distinction would be made possible by making concepts rest ona foundation of affinities as distinct from the foundation of similarities which underlies universals; affinities may, while similarities may not, be characterizable purely in analogical terms. The working out of such a distinction would be one of a variety of concerns which would be the province of a special discipline of philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion would permit generalization and explanation to cross category-barriers and would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against neo-Socrates and his favored notion of moral justice, δίκαιον. At some level of reinterpretation, then, Socrates's appeal to an analogy between the soul and Mussolini’s Italian state, say, would be at least partly aimed at showing that the concept of Moral Justice, δίκαιον, which Thrasymachus would like to banish as theoretically unintelligible, is analogically linked with the concept of bodily health, admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate concept, in such a way that, despite radical categorial differences between the two concepts, if the concept of bodily health is intelligible, the concept of Moral Justice, δίκαιον, is also intelligible.  However, to exhibit Moral Justice as a feature which is really applicable to items in the world, such as persons and actions, more is needed than to show that its ascription to such items is free from incoherence. It will be necessary to show that such ascription, if it were allowed, would serve a point or purpose, and also that it is in some important way up to us to ensure that such ascription is admis sible. The fulfillment of the last undertaking might force us to leav the territory of Socrates and Plato and to enter that of Kant, or even worse, if we follow Gentile, Hegel! Persio Tincari. Tincari. Keywords: iustum quia iussum, Bergamo, Pergamo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tincari” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tirannio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del lizio di Roma – Roma – HIRSVTVS -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. categorie sintatiche – categorie morfo-sintatiche – Brutus said that Cato’s dog, Fidus, is hirsutus, meaning ‘hairy-coated.’ NOMEN ADIECTIVVM.  Etymology From Middle English adjectif, adjective, from Old French adjectif, from Latin adiectivus, from adiciō + -īvus, from ad- (“to, towards, at”) + iaciō (“throw”). Grice: Brutus used the adjectival hirsutus to refer to his friend Cato’s dog. The Latin word adiectivus in turn was a calque of Ancient Greek ἐπιθετικόν, “added, a derivative of the compound verb ἐπιτίθημι, from which also comes epithet. Filosofo italiano. Primarily a grammarian. Friend of CICERONE – he held the seminars in his own house. He made copies of a number of works of Aristotle which might otherwise have been lost. Grice: “Cicerone found it boring that everytime he would pay a visit to Tirannio, he was copying some old Greek manuscript!” Grice: “I wouldn’t call Tirannio a sophist: his at-homes were, like mine, free of charge!” Keywords: grammatica filosofica, lizio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tirseno: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tesi di Cuoco – Roma – la scuola di Sibari -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo -- By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Sibari). Abstract. Keywords. Cuoco. Sibari, Cassano, Cosenza, Calabria Filosofo italiano. Pythagorean according to Giamblico. Grice: Giamblico knew his Italy. But he didn’t know what Cuoco knew. If Tirseno was philosophising in Sibari, it means there was an atmosphere for philosophical inquiries in these parts of Italy way before Pythagoras called himself an Etrurian! “Grice e Tirseno” -- Keywords: Cuoco. Tirseno.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tisia: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’argomento del probabile e del desirabile – Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Siracusa). Abstract. Keywords. probability and desirability. Etimologia di probabile – probabile – Latin probare – provare – che puo provarsi Cicerone – probabile – probabile est id, quod fere fieri solet, aut quod in opinione positum est, aut quod habet in se ad haec quandam similitudine, sive id falsum est, sive verum – Cic. Inv. Siracusa, Sicilia. Filosofo italiano. (“Or should we say, Sicilian?” – Grice). A pioneer of rhetoric, T. emphasises the importance of an appeal to the probable in an argument. He was the tutor of Gorgia di Leonzio. Grice: “I took my inspiration for my Prob. vs. Des. – probability versus desirability – not so much from Davidson (that’s boring!) but from Tisia di Siracusa. As a tutor, I can identify, because at Oxford, I was always regarded as Strawson’s tutor – as Tisia was Gorgia’s one! Only that Gorgia travelled all the way from Leonzio to Siracusa to get tutored, whereas Strawson met me on common ground! Keywords: probability, the probable, argument. Tisia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tito: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della clemenza del principe filosofo – Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords: clemenza, la clemenza del filosofo re. L’imperatore Tito, famoso per la sua clemenza (Mozart, La clemenza di Tito). Il suo filosofo favorito e Musonio – il principe filosofo.  INTERLOCUTORI TITO Vespasiano, imperatore di Roma TENORE VITELLIA, figlia dell'imperatore Vitellio SOPRANO SERVILIA, sorella di Sesto, amante d'Annio SOPRANO SESTO, amico di Tito, amante di Vitellia SOPRANO ANNIO, amico di Sesto, amante di Servilia SOPRANO PUBLIO, prefetto del pretorio BASSO Chorus: Senatori, Patrizi, Legati, Pretoriani, Littori, Popolo. Luogo: Roma. Epoca: Impero. Atto primo La clemenza di Tito ATTO Ouverture Allegro (do maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. Scena prima Appartamenti di Vitellia. Vitellia, Sesto. Recitativo, continuo VITELLIA Ma che? sempre l'istesso, Sesto, a dirmi verrai? So che sedotto fu Lentulo da te; che i suoi seguaci son pronti già; che il Campidoglio acceso darà moto a un tumulto. Io tutto questo già mille volte udii: la mia vendetta mai non veggo però. S'aspetta forse che Tito a Berenice in faccia mia offra d'amor insano l'usurpato mio trono, e la sua mano? Parla, di', che s'attende? SESTO Dio! VITELLIA Sospiri? SESTO Pensaci meglio, oh cara, pensaci meglio. Ah, non togliamo in Tito la sua delizia al mondo, il padre a Roma, l'amico a noi. VITELLIA Dunque a vantarmi in faccia venisti il mio nemico? e più non pensi che questo eroe clemente un soglio usurpò dal suo tolto al mio padre? Che mi ingannò, che mi sedusse, (e questo è il suo fallo maggior) quasi ad amarlo? E poi, perfido! e poi di nuovo al Tebro richiamar Berenice! Una rivale avesse scelta almeno degna di me fra le beltà di Roma: ma una barbara, Sesto, un'esule antepormi, una regina! SESTO Ah, principessa, tu sei gelosa. VITELLIA Io! 4 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo SESTO Sì. VITELLIA Gelosa io sono, se non soffro un disprezzo? SESTO Eppur... VITELLIA Eppur non hai cor d'acquistarmi. SESTO Io son... VITELLIA Tu sei sciolto d'ogni promessa. A me non manca più degno esecutor dell'odio mio. SESTO Sentimi! VITELLIA Intesi assai. SESTO Fermati! VITELLIA Addio. SESTO Ah, Vitellia, ah, mio nume, non partir! Dove vai? Perdonami, ti credo, io m'ingannai. [N. 1 ­ Duetto] Andante (fa maggiore) / Allegro Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Come ti piace imponi: regola i moti miei. Il mio destin tu sei; tutto farò per te. VITELLIA Prima che il sol tramonti, estinto io vo' l'indegno. Sai ch'egli usurpa un regno che in sorte il ciel mi diè. SESTO Già il tuo furor m'accende. VITELLIA Ebben, che più s'attende? SESTO Un dolce sguardo almeno sia premio alla mia fé! VITELLIA E SESTO Fan mille affetti insieme battaglia in me spietata. Un'alma lacerata più della mia non v'è. www.librettidopera.it 5 / 38 Atto primo La clemenza di Tito Scena seconda Annio, detti. Recitativo, continuo ANNIO Amico, il passo affretta, cesare a sé ti chiama. VITELLIA Ah, non perdete questi brevi momenti. A Berenice Tito gli usurpa. ANNIO Ingiustamente oltraggi, Vitellia, il nostro eroe: Tito ha l'impero e del mondo, e di sé. Già per suo cenno Berenice partì. SESTO Come? VITELLIA Che dici? ANNIO Voi stupite a ragion. Roma ne piange, di maraviglia, e di piacer. Io stesso quasi no 'l credo: ed io fui presente, o Vitellia, al grande addio. VITELLIA (Oh speranze!) Sesto, sospendi d'eseguire i miei cenni. Il colpo ancora non è maturo. SESTO E tu non vuoi ch'io vegga!... ch'io mi lagni, oh crudele!... VITELLIA Or che vedesti? Di che ti puoi lagnar? SESTO Di nulla! (Oh dio! chi provò mai tormento eguale al mio!) [N. 2 ­ Aria] Larghetto (sol maggiore) / Allegro Archi, 2 flauti, 2 fagotti, 2 corni. VITELLIA Deh, se piacer mi vuoi, lascia i sospetti tuoi; non mi stancar con questo molesto dubitar. Chi ciecamente crede, impegna a serbar fede; chi sempre inganni aspetta, alletta ad ingannar. (parte) 6 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo Scena terza Annio, Sesto. Recitativo, continuo ANNIO Amico, ecco il momento di rendermi felice. All'amor mio Servilia promettesti. Altro non manca che d'augusto l'assenso. Ora da lui impetrarlo potresti. SESTO Ogni tua brama, Annio, m'è legge. Impaziente anch'io questo nuovo legame, Annio, desio. [N. 3 ­ Duettino] Andante (do maggiore) Archi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. ANNIO E SESTO Deh, prendi un dolce amplesso, amico mio fedel; e ognor per me lo stesso ti serbi amico il ciel. (partono) Scena quarta Parte del foro romano magnificamente adornato d'archi, obelischi, e trofei; in faccia aspetto esteriore del Campidoglio, e magnifica strada per cui vi si ascende. Coro, Publio, Annio, Tito, Sesto. [N. 4 ­ Marcia] Maestoso (mi bemolle maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. Publio, Senatori romani, e i Legati delle province soggette, destinati a presentare al senato gli annui imposti tributi. Tito, preceduto da Littori, seguìto da Pretoriani, e circondato da numeroso Popolo, scende dal Campidoglio. www.librettidopera.it 7 / 38 Atto primo La clemenza di Tito [N. 5 ­ Coro] Allegro (mi bemolle maggiore) Archi, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. CORO Serbate, oh dèi custodi della romana sorte, in Tito il giusto, il forte, l'onor di nostra età. Nel fine del coro suddetto, Annio e Sesto da diverse parti. Recitativo, continuo PUBLIO (a Tito) Te «della patria il padre» oggi appella il senato: e mai più giusto non fu ne' suoi decreti, oh invitto augusto. ANNIO Eccelso tempio ti destina il senato; e là si vuole, che fra divini onori anche il nume di Tito il Tebro adori. PUBLIO Quei tesori, che vedi, all'opra consacriam. Tito non sdegni questi del nostro amor pubblici segni. TITO Romani, udite: oltre l'usato terribile il Vesuvio ardenti fiumi dalle fauci eruttò; scosse le rupi, riempié di ruine i campi intorno e le città vicine. Le desolate genti fuggendo van; ma la miseria opprime quei che al foco avanzar. Serva quell'oro di tanti afflitti a riparar lo scempio. Questo, o romani, è fabbricarmi il tempio. ANNIO Oh, vero eroe! PUBLIO Quanto di te minori tutti i premi son mai tutte le lodi! TITO Basta, basta, oh miei fidi. Sesto a me s'avvicini; Annio non parta; ogn'altro s'allontani. (si ritirano tutti fuori dell'atrio, e vi rimangono Tito, Sesto ed Annio) N. 5 ­ Coro, ripresa CORO Serbate, oh dèi custodi della romana sorte, in Tito il giusto, il forte, l'onor di nostra età. 8 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo N. 4 ­ Marcia, ripresa Recitativo, continuo ANNIO (Adesso, o Sesto, parla per me.) SESTO Come, signor, potesti la tua bella regina?... TITO Ah, Sesto amico, che terribil momento! Io non credei... basta; ho vinto; partì. Tolgasi adesso a Roma ogni sospetto di vederla mia sposa. Una sua figlia vuol veder sul mio soglio, e appagarla convien. Giacché l'amore scelse invano i miei lacci, io vo', che almeno l'amicizia li scelga. Al tuo s'unisca, Sesto, il cesareo sangue. Oggi mia sposa sarà la tua germana. SESTO Servilia! TITO Appunto. ANNIO (Oh, me infelice!) SESTO (Oh dèi! Annio è perduto.) TITO Udisti? che dici? non rispondi? SESTO Tito!... ANNIO Augusto, conosco di Sesto il cor. Ma tu consiglio da lui prender non déi. Come potresti sposa elegger più degna dell'impero, e di te? Virtù, bellezza, tutto è in Servilia. Io le conobbi in volto ch'era nata a regnar. De' miei presagi l'adempimento è questo. SESTO (Annio parla così? Sogno, o son desto!) TITO Ebbene, recane a lei, Annio, tu la novella; e tu mi segui, amato Sesto; e queste tue dubbiezze deponi. Avrai tal parte tu ancor nel soglio, e tanto t'innalzerò, che resterà ben poco dello spazio infinito, che frapposer gli dèi fra Sesto, e Tito. www.librettidopera.it 9 / 38 Atto primo La clemenza di Tito SESTO Questo è troppo, oh signor. Modera almeno, se ingrati non ci vuoi, modera, augusto, i benefici tuoi. TITO Ma che? (Se mi negate che benefico io sia, che mi lasciate?) [N. 6 ­ Aria] Andante (sol maggiore) Archi, 2 flauti, 2 fagotti, 2 corni. TITO Del più sublime soglio l'unico frutto è questo: tutto è tormento il resto, e tutto è servitù. Che avrei, se ancor perdessi le sole ore felici ch'ho nel giovar gli oppressi, nel sollevar gli amici, nel dispensar tesori al merto, e alla virtù? (parte con Sesto) Scena quinta Annio, Servilia. Recitativo, continuo ANNIO Non ci pentiam. D'un generoso amante era questo il dover. Mio cor, deponi le tenerezze antiche. È tua sovrana chi fu l'idolo tuo. Cambiar conviene in rispetto l'amore. Eccola. Oh dèi! Mai non parve sì bella agli occhi miei. SERVILIA Mio ben... ANNIO Taci, Servilia. Ora è delitto il chiamarmi così. SERVILIA Perché? ANNIO Ti scelse cesare (che martir!) per sua consorte. A te (morir mi sento), a te m'impose di recarne l'avviso (oh pena!), ed io... io fui... (parlar non posso)... augusta, addio! SERVILIA Come! fermati. Io sposa di cesare? E perché? 10 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo ANNIO Perché non trova beltà, virtù che sia più degna d'un impero, anima... oh stelle! Che dirò? Lascia, augusta, deh lasciami partir. SERVILIA Così confusa abbandonarmi vuoi? Spiegati; dimmi: come fu? per qual via?... ANNIO Mi perdo s'io non parto, anima mia. [N. 7 ­ Duetto] Andante (la maggiore) Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti. ANNIO Ah, perdona al primo affetto questo accento sconsigliato: colpa fu del labbro usato a così chiamarti ognor. SERVILIA Ah, tu fosti il primo oggetto, che finor fedel amai; e tu l'ultimo sarai ch'abbia nido in questo cor. ANNIO Cari accenti del mio bene. SERVILIA Oh mia dolce, cara speme. SERVILIA E ANNIO Più che ascolto i sensi tuoi, in me cresce più l'ardor. Quando un'alma è all'altra unita, qual piacere un cor risente! Ah, si tronchi dalla vita tutto quel che non è amor. (partono) Scena sesta Ritiro delizioso nel soggiorno imperiale sul colle Palatino. Tito, Publio. Recitativo, continuo TITO Che mi rechi in quel foglio? PUBLIO I nomi ei chiude de' rei che osar con temerari accenti de' cesari già spenti la memoria oltraggiar. www.librettidopera.it 11 / 38 Atto primo La clemenza di Tito TITO Barbara inchiesta, che agli estinti non giova, e somministra mille strade alla frode d'insidiar gl'innocenti! PUBLIO Ma v'è, signor, chi lacerate ardisce anche il tuo nome. TITO E che perciò? se 'l mosse leggerezza; no 'l curo; se follia, lo compiango; se ragion, gli son grato; e se in lui sono impeti di malizia, io gli perdono. PUBLIO Almen... Scena settima Tito, Publio, Servilia. SERVILIA Di Tito al piè... TITO Servilia! Augusta! SERVILIA Ah! signor, sì gran nome non darmi ancora. Odimi prima. Io deggio palesarti un arcan. (Publio si ritira) TITO Parla... SERVILIA Il core, signor, non è più mio. Già da gran tempo Annio me lo rapì. Valor che basti, non ho per obliarlo. Anche dal trono il solito sentiero farebbe a mio dispetto il mio pensiero. So che oppormi è delitto d'un cesare al voler; ma tutto almeno sia noto al mio sovrano: poi, se mi vuoi sua sposa, ecco la mano. TITO Grazie, o numi dei ciel! Pur si ritrova chi s'avventuri a dispiacer col vero. Alla grandezza tua la propria pace Annio pospone! Tu ricusi un trono per essergli fedele! Ed io dovrei turbar fiamme sì belle! Ah, non produce sentimenti sì rei di Tito il core. Sgombra ogni tema. Io voglio stringer nodo sì degno, e n'abbia poi cittadini la patria eguali a voi. 12 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo [N. 8 ­ Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. TITO Ah, se fosse intorno al trono ogni cor così sincero non tormento un vasto impero, ma saria felicità. Non dovrebbero i regnanti tollerar sì grave affanno, per distinguer dall'inganno l'insidiata verità. (parte) Scena ottava Servilia, poi Vitellia. Recitativo, continuo SERVILIA Felice me! VITELLIA Posso alla mia sovrana offrir del mio rispetto i primi omaggi? Posso adorar quel volto, per cui d'amor ferito, ha perduto il riposo il cor di Tito? SERVILIA Non esser meco irata; forse la regia destra è a te serbata. (parte) Scena nona Vitellia, poi Sesto. VITELLIA Ancor mi schernisce? Questo soffrir degg'io vergognoso disprezzo? Ah, con qual fasto qui mi lascia costei! Barbaro Tito! Ti parea dunque poco Berenice antepormi? Io dunque sono l'ultima de' viventi. Ah, trema ingrato! Trema d'avermi offesa. Oggi il tuo sangue... SESTO Mia vita. VITELLIA Ebben, che rechi? Il Campidoglio è acceso? è incenerito? Lentulo dove sta? Tito è punito? www.librettidopera.it 13 / 38 Atto primo La clemenza di Tito SESTO Nulla intrapresi ancor. VITELLIA Nulla! e sì franco mi torni innanzi? SESTO È tuo comando il sospendere il colpo. VITELLIA E non udisti i miei novelli oltraggi? D'altri stimoli hai d'uopo? Sappi, che Tito amai, che del mio cor l'acquisto ei t'impedì; che se rimane in vita, si può pentir; ch'io ritornar potrei (non mi fido di me) forse ad amarlo. Or va', se non ti muove desio di gloria, ambizione, amore; se tolleri un rivale, che usurpò, che contrasta, che involar potrà gli affetti miei, degli uomini 'l più vil dirò che sei. SESTO Quante vie d'assalirmi! Basta, basta non più, già m'inspirasti, Vitellia, il tuo furore. Arder vedrai fra poco il Campidoglio; e quest'acciaro nel sen di Tito... VITELLIA Ed or che pensi? Dunque corri; che fai? Perché non parti? [N. 9 ­ Aria] Adagio (si bemolle maggiore) / Allegro Archi, 2 oboe, clarinetto solo, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Parto; ma tu ben mio, meco ritorna in pace; sarò qual più ti piace, quel che vorrai farò. Guardami, e tutto oblio, e a vendicarti io volo; a questo sguardo solo da me sì penserà. Ah, qual poter, oh dèi! donaste alla beltà. (parte) 14 / 38 www.librettidopera.it Mazzolà MozartVitellia, poi Publio ed Annio. Recitativo, continuo VITELLIA Vedrai, Tito, vedrai, che alfin sì vile questo volto non è. Basta a sedurti gli amici almen, se ad invaghirti è poco. Ti pentirai... PUBLIO Tu qui, Vitellia? Ah, corri: va Tito alle tue stanze. ANNIO Vitellia, il passo affretta, cesare di te cerca. VITELLIA Cesare! PUBLIO Ancor no 'l sai? Sua consorte ti elesse. ANNIO Tu sei la nostra augusta; ed il primo omaggio già da noi ti si rende. PUBLIO Ah, principessa, andiam: cesare attende. [N. 10 ­ Terzetto] Allegro (sol maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. VITELLIA Vengo... aspettate... Sesto!... Ahimè!... Sesto!... è partito?... Oh sdegno mio funesto! Oh insano mio furor! Che angustia, che tormento! Io gelo, oh dio! d'orror. PUBLIO E ANNIO Oh come un gran contento, come confonde un cor. (partono) www.librettidopera.it 15 / 38 Atto primo La clemenza di Tito Scena undicesima Campidoglio, come prima. Sesto solo, indi Annio, Servilia, Publio, Vitellia. [N. 11 ­ Recitativo accompagnato] Allegro assai (do maggiore) / Andante / Allegro assai Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Oh dèi, che smania è questa! Che tumulto ho nel cor! Palpito, agghiaccio: m'incammino, m'arresto: ogn'aura, ogn'ombra mi fa tremare. Io non credea, che fosse sì difficile impresa esser malvagio. Ma compirla convien. Almen si vada con valor a perir. Valore! E come può averne un traditor? Sesto infelice, tu traditor! Che orribil nome! Eppure t'affretti a meritarlo. E chi tradisci? Il più grande, il più giusto, il più clemente principe della terra, a cui tu devi quanto puoi, quanto sei. Bella mercede gli rendi in vero! Ei t'innalzò per farti il carnefice suo. M'inghiotta il suolo prima ch'io tal divenga. Ah, non ho core, Vitellia, a secondar gli sdegni tui: morrei prima del colpo in faccia a lui. Si desta nel Campidoglio un incendio che a poco a poco va crescendo. SESTO S'impedisca... ma come, arde già il Campidoglio. Un gran tumulto io sento d'armi, e d'armati; ahi! tardo è il pentimento. [N. 12 ­ Quintetto con coro] Allegro (mi bemolle maggiore) / Andante Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. SESTO Deh, conservate, oh dèi, a Roma il suo splendor, o almeno i giorni miei coi suoi troncate ancor. ANNIO Amico, dove vai? SESTO Io vado... lo saprai oh dio, per mio rossor. (ascende frettoloso nel Campidoglio) ANNIO Io Sesto non intendo... ma qui Servilia viene.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto primo SERVILIA Ah, che tumulto orrendo! ANNIO Fuggi di qua mio bene. SERVILIA Si teme che l'incendio non sia dal caso nato, ma con peggior disegno ad arte suscitato. CORO in distanza Ah!... PUBLIO V'è in Roma una congiura, per Tito ahimè pavento; di questo tradimento chi mai sarà l'autor. CORO in distanza Ah!... SERVILIA, ANNIO E PUBLIO Le grida ahimè ch'io sento mi fan gelar d'orror. Scena dodicesima Vitellia entra. Allegro (do minore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. CORO in distanza Ah!... VITELLIA Chi per pietade oh dio! m'addita dov'è Sesto? (In odio a me son io ed ho di me terror.) CORO in distanza Ah!... ah!... SERVILIA, ANNIO E PUBLIO Di questo tradimento chi mai sarà l'autor. CORO in distanza Ah!... ah!... VITELLIA, SERVILIA, ANNIO E PUBLIO Le grida ahimè ch'io sento mi fan gelar d'orror. (Sesto scende dal Campidoglio) www.librettidopera.it 17 / 38 Atto primo La clemenza di Tito Scena tredicesima Sesto. SESTO (Ah, dove mai m'ascondo? Apriti, oh terra, inghiottimi, e nel tuo sen profondo rinserra un traditor.) VITELLIA Sesto! SESTO Da me che vuoi? VITELLIA Quai sguardi vibri intorno? SESTO Mi fa terror il giorno. VITELLIA Tito?... SESTO La nobil alma versò dal sen trafitto. SERVILIA, ANNIO, PUBLIO Qual destra rea macchiarsi poté d'un tal delitto? SESTO Fu l'uom più scellerato, l'orror della natura, fu... VITELLIA Taci forsennato, deh, non ti palesar. Andante (do maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. VITELLIA, SERVILIA, SESTO, ANNIO E PUBLIO Ah dunque l'astro è spento, di pace apportator. TUTTI E CORO Oh nero tradimento, oh giorno di dolor! 18 / 38 librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo ATTO  SECONDO Scena prima Ritiro delizioso nel soggiorno imperiale sul colle Palatino. Annio, Sesto. Recitativo, continuo ANNIO Sesto, come tu credi, augusto non perì. Calma il tuo duolo; in questo punto ei torna illeso dal tumulto. SESTO Oh dèi pietosi! oh, caro prence! oh, dolce amico! Ah, lascia che a questo sen... ma non m'inganni?... ANNIO Io merto sì poca fé? Dunque tu stesso a lui corri, e 'l vedrai. SESTO Ch'io mi presenti a Tito dopo averlo tradito? ANNIO Tu lo tradisti? SESTO Io del tumulto, io sono il primo autor. ANNIO Sesto è infedele! SESTO Amico, m'ha perduto un istante. Addio. M'involo alla patria per sempre. Ricordati di me. Tito difendi da nuove insidie. Io vo ramingo, afflitto a pianger fra le selve il mio delitto. ANNIO Fermati; oh dèi! pensiamo... incolpan molti di questo incendio il caso; e la congiura non è certa finora... SESTO Ebben, che vuoi? ANNIO Che tu non parta ancora. www.librettidopera.it 19 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 13 ­ Aria] Allegretto (sol maggiore) Archi. ANNIO Torna di Tito a lato: torna, e l'error passato con replicate emenda prove di fedeltà. L'acerbo tuo dolore è segno manifesto, che di virtù nel core l'immagine ti sta. (parte) Scena seconda Sesto, poi Vitellia. Recitativo, continuo SESTO Partir deggio, o restar? Io non ho mente per distinguer consigli. VITELLIA Sesto, fuggi, conserva la tua vita, e 'l mio onor. Tu sei perduto, se alcun ti scopre, e se scoperto sei, pubblico è il mio segreto. SESTO In questo seno sepolto resterà. Nessuno il seppe: tacendolo morrò. Scena terza Publio con Guardie e detti. PUBLIO Sesto! SESTO Che chiedi? PUBLIO La tua spada. SESTO E perché? PUBLIO Colui, che cinto delle spoglie regali agli occhi tuoi, cadde trafitto al suolo, ed ingannato dall'apparenza tu credesti Tito, era Lentulo; il colpo la vita a lui non tolse, il resto intendi. Vieni. 20 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo VITELLIA (Oh, colpo fatale!) SESTO (dà la spada) Al fin, tiranna... PUBLIO Sesto, partir conviene. È già raccolto per udirti il senato; e non poss'io differir di condurti. SESTO Ingrata, addio! Scena quarta Detti. [N. 14 ­ Terzetto] Andantino (si bemolle maggiore) / Allegretto Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Se al volto mai ti senti lieve aura che s'aggiri, gli estremi miei sospiri quell'alito sarà. VITELLIA (Per me vien tratto a morte: ah, dove mai m'ascondo! Fra poco noto al mondo il fallo mio sarà.) PUBLIO Vieni... SESTO (a Publio) Ti seguo... (a Vitellia) Addio. VITELLIA (a Sesto) Senti... mi perdo... oh dio! (a Publio) Che crudeltà! SESTO (a Vitellia, in atto di partire) Rammenta chi t'adora in questo stato ancora. Mercede al mio dolore sia almen la tua pietà. VITELLIA (Mi lacerano il core rimorso, orror, spavento! Quel che nell'alma io sento di duol morir mi fa.) PUBLIO (L'acerbo amaro pianto, che da' suoi lumi piove, l'anima mi commuove, ma vana è la pietà!) www.librettidopera.it 21 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito Publio e Sesto partono con le Guardie, e Vitellia dalla parte opposta. Scena quinta Gran sala destinata alle pubbliche udienze. Trono, sedia e tavolino. Tito, Publio, Patrizi, Pretoriani e Popolo. [N. 15 ­ Coro] Andante (fa maggiore) Archi, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. CORO Ah, grazie si rendano al sommo fattor, che in Tito del trono salvò lo splendor. TITO Ah no, sventurato non sono cotanto, se in Roma il mio fato si trova compianto se voti per Tito si formano ancor. Recitativo, continuo PUBLIO È tutto colà d'intorno alla festiva arena il popolo raccolto; e non s'attende che la presenza tua. TITO Andremo, Publio, fra poco. Io non avrei riposo, se di Sesto il destino pria non sapessi. Avrà il senato omai le sue discolpe udite; avrà scoperto, vedrai, ch'egli è innocente; e non dovrebbe tardar molto l'avviso. Va'! chiedi che si fa, che si attende? Io voglio tutto saper pria di partir. PUBLIO Vado; ma temo di non tornar nunzio felice. TITO E puoi creder Sesto infedele? Io dal mio core il suo misuro; e un impossibil parmi ch'egli m'abbia tradito. PUBLIO Ma, signor, non han tutti il cor di Tito. 22 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà  [N. 16 ­ Aria] Allegretto (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. PUBLIO Tardi s'avvede d'un tradimento chi mai di fede mancar non sa. Un cor verace, pieno d'onore, non è portento, se ogn'altro core crede incapace d'infedeltà. (parte) Scena sesta Tito, poi Annio. Recitativo, continuo TITO No, così scellerato il mio Sesto non credo. Tanto cambiarsi un'alma non potrebbe. TITO Annio, che rechi? L'innocenza di Sesto? Consolami! ANNIO Signor! pietà per lui ad implorar io vengo. Scena settima Detti, Publio con foglio. PUBLIO Cesare, no 'l diss'io. Sesto è l'autore della trama crudel. TITO Publio, ed è vero? PUBLIO Purtroppo; ei di sua bocca tutto affermò. Co' complici il senato alle fiere il condanna. Ecco il decreto terribile, ma giusto; (dà il foglio a Tito) né vi manca, o signor, che il nome augusto. TITO Onnipossenti dèi! (si getta sedere) www.librettidopera.it 23 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito ANNIO Ah, pietoso monarca... (inginocchiandosi) TITO Annio, per ora lasciami in pace. (Annio si leva) PUBLIO Alla gran pompa unite sai che le genti omai... TITO Lo so, partite! ANNIO Deh, perdona, s'io parlo in favor d'un insano. Della mia cara sposa egli è germano. [N. 17 ­ Aria] Andante (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. ANNIO Tu fosti tradito: ei degno è di morte, ma il core di Tito pur lascia sperar. Deh prendi consiglio, signor, dal tuo core: il nostro dolore ti degna mirar. (Publio ed Annio partono) Scena ottava Tito solo a sedere. Recitativo accompagnato Allegro Archi. TITO Che orror! che tradimento! Che nera infedeltà! Fingersi amico, essermi sempre al fianco, ogni momento esiger dal mio core qualche prova d'amore; e starmi intanto preparando la morte! Ed io sospendo ancor la pena? e la sentenza non segno?... Ah! sì, lo scellerato mora! (prende la penna per sottoscrivere e poi s'arresta) Mora!... ma senza udirlo mando Sesto a morir? Sì, già l'intese abbastanza il senato. E s'egli avesse qualche arcano a svelarmi? Olà! (depone la penna, intanto entra una guardia) 24 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo TITO (S'ascolti, e poi vada al supplizio.) A me si guidi Sesto. (la guardia parte) TITO È pur di chi regna infelice il destino! (s'alza) A noi si nega ciò che a' più bassi è dato. In mezzo al bosco quel villanel mendico, a cui circonda ruvida lana il rozzo fianco, a cui è mal fido riparo dall'ingiurie del ciel tugurio informe, placido i sonni dorme, passa tranquillo i dì, molto non brama, sa chi l'odia e chi l'ama, unito o solo torna sicuro alla foresta, al monte, e vede il core ciascheduno in fronte. Scena nona Publio e Tito. Recitativo, continuo TITO Ma, Publio, ancora Sesto non viene. PUBLIO Ad eseguire il cenno già volaro i custodi. TITO Io non comprendo un sì lungo tardar. PUBLIO Pochi momenti sono scorsi, o signor. TITO Vanne tu stesso; affrettalo. PUBLIO Ubbidisco. (nel partire) I tuoi littori veggonsi comparir: Sesto dovrebbe non molto esser lontano. Eccolo. TITO Ingrato! All'udir che s'appressa, già mi parla a suo pro l'affetto antico. Ma no; trovi il suo prence e non l'amico. (siede e si compone in atto di maestà) www.librettidopera.it 25 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito Scena decima Tito, Publio, Sesto e Custodi. Sesto entrato appena, si ferma. [N. 18 ­ Terzetto] Larghetto (mi bemolle maggiore) / Allegro Archi, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni. SESTO (Quello di Tito è il volto! Ah dove, oh stelle! è andata la sua dolcezza usata! Or ei mi fa tremar!) TITO (Eterni dèi! di Sesto dunque il sembiante è questo! Oh come può un delitto un volto trasformar!) PUBLIO (Mille diversi affetti in Tito guerra fanno. S'ei prova un tale affanno, lo seguita ad amar.) TITO Avvicinati! SESTO (Oh voce che piombami sul core.) TITO Non odi? SESTO (Di sudore mi sento oh dio bagnar! Non può chi more non può di più penar.) TITO E PUBLIO (Palpita il traditore, né gli occhi ardisce alzar.) Recitativo, continuo TITO (E pur mi fa pietà.) Publio, custodi, lasciatemi con lui. (Publio e le guardie partono) SESTO (No, di quel volto non ho costanza a sostener l'impero.) 26 / 38 www.librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo TITO (rimasto solo con Sesto, depone l'aria maestosa) Ah! Sesto, è dunque vero? Dunque vuoi la mia morte? E in che t'offese il tuo prence, il tuo padre, il tuo benefattor? Se Tito augusto hai potuto obliar, di Tito amico come non ti sovvenne? Il premio è questo della tenera cura ch'ebbe sempre di te? Di chi fidarmi in avvenir potrò, se giunse, oh dèi! anche Sesto a tradirmi? E lo potesti? E il cor te lo sofferse? SESTO (prorompe in un dirottissimo pianto e se gli getta a' piedi) Ah, Tito! ah, mio clementissimo prence! Non più, non più. Se tu veder potessi questo misero cor, spergiuro, ingrato, pur ti farei pietà. Tutte ho su gli occhi, tutte le colpe mie; tutti rammento i benefizi tuoi: soffrir non posso né l'idea di me stesso, né la presenza tua. Quel sacro volto, la voce tua, la tua clemenza istessa diventò mio supplizio. Affretta almeno, affretta il mio morir. Toglimi presto questa vita infedel; lascia ch'io versi, se pietoso esser vuoi, questo perfido sangue a' piedi tuoi. TITO Sorgi, infelice! (Sesto si leva) TITO (Il contenersi è pena a quel tenero pianto.) Or vedi a quale lagrimevole stato un delitto riduce, una sfrenata avidità d'impero! E che sperasti di trovar mai nel trono? Il sommo forse d'ogni contento? Ah! sconsigliato, osserva quai frutti io ne raccolgo; e bramalo, se puoi. SESTO No, questa brama non fu che mi sedusse. TITO Dunque che fu? SESTO La debolezza mia, la mia fatalità. TITO Più chiaro almeno spiegati. www.librettidopera.it 27 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito SESTO Oh dio! non posso. TITO Odimi, oh Sesto; siam soli; il tuo sovrano non è presente. Apri il tuo core a Tito; confidati all'amico. In contraccambio almeno d'amicizia lo chiedo. SESTO (Ecco una nuova specie di pena! o dispiacere a Tito, o Vitellia accusar.) TITO (incomincia a turbarsi) Dubiti ancora? SESTO Signore... sappi dunque... TITO Parla una volta: che mi volevi dir? SESTO Ch'io son l'oggetto dell'ira degli dèi; che la mia sorte non ho più forza a tollerar; ch'io stesso traditor mi confesso, empio mi chiamo; ch'io merito la morte, e ch'io la bramo. TITO Sconoscente! e l'avrai. Custodi! il reo toglietemi d'innanzi. (alle guardie, che saranno uscite) SESTO Il bacio estremo su quella invitta man. TITO (senza guardarlo) Parti; non è più tempo, or tuo giudice sono. SESTO Ah, sia questo, signor, l'ultimo dono. [N. 19 ­ Rondò] Adagio (la maggiore) / Allegro / Più allegro Archi, flauto, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. SESTO Deh, per questo istante solo ti ricorda il primo amor. Che morir mi fa di duolo il tuo sdegno il tuo rigor. Di pietade indegno è vero, sol spirar io deggio orror. Pur saresti men severo, se vedessi questo cor. Continua nella pagina seguente. 28 / 38 www.librettidopera.it Mazzolà / Mozart  SESTO Disperato vado a morte; ma il morir non mi spaventa. Il pensiero mi tormenta che fui teco un traditor! (Tanto affanno soffre un core, né si more di dolor!) (parte) Scena undicesima Tito solo. Recitativo, continuo TITO Ove s'intendesse mai più contumace infedeltà? Deggio alla mia negletta disprezzata clemenza una vendetta. Vendetta!... il cor di Tito tali sensi produce?... Eh viva... invano parlan dunque le leggi? (siede) Sesto è reo; Sesto mora. (sottoscrive) Ma dunque faccio sì gran forza al mio cor. Né almen sicuro sarò ch'altri l'approvi? Ah, non si lasci il solito cammin... (lacera il foglio) Viva l'amico! Benché infedele. E se accusarmi il mondo vuol pur di qualche errore, m'accusi di pietà (getta il foglio lacerato) non di rigore. Scena dodicesima Tito, Publio. TITO Publio! PUBLIO Cesare. TITO Andiamo al popolo, che attende. PUBLIO E Sesto? TITO E Sesto, venga all'arena ancor. www.librettidopera.it 29 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito PUBLIO Dunque il suo fato?... TITO Sì, Publio, è già deciso. PUBLIO (Oh, sventurato!) [N. 20 ­ Aria] Allegro (si bemolle maggiore) / Andantino / Allegro Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni. TITO Se all'impero, amici dèi, necessario è un cor severo, o togliete a me l'impero, o a me date un altro cor. Se la fé de' regni miei coll'amor non assicuro, d'una fede non mi curo che sia frutto del timor. (parte, seguìto da Publio) Scena tredicesima Vitellia, uscendo dalla porta opposta, richiama Publio, che seguiva Tito. VITELLIA Publio, ascolta. PUBLIO (in atto di partire) Perdona; deggio a cesare appresso andar... VITELLIA Dove? PUBLIO (come sopra) All'arena. VITELLIA E Sesto? PUBLIO Anch'esso. VITELLIA Dunque morrà? PUBLIO (come sopra) Pur troppo. VITELLIA (Ahimè!) Con Tito Sesto ha parlato? PUBLIO E lungamente. VITELLIA E sai quel ch'ei dicesse? PUBLIO No. Solo con lui restar cesare volle: escluso io fui. (parte) 30 / librettidopera.it C. T. Mazzolà / W. A. Mozart, 1791 Atto secondo Scena quattordicesima Vitellia, e poi Servilia e Annio da diverse parti. VITELLIA Non giova lusingarsi; Sesto già mi scoperse: a Publio istesso si conosce sul volto. Ei non fu mai con me sì ritenuto; ei fugge; ei teme di restar meco. Ah! secondato avessi gl'impulsi del mio cor. Per tempo a Tito dovea svelarmi e confessar l'errore. Sempre in bocca d'un reo, che la detesta, scema d'orror la colpa. Or questo ancora tardi saria. Seppe il delitto augusto, e non da me. Questa ragione istessa fa più grave... SERVILIA Ah, Vitellia! ANNIO Ah, principessa! SERVILIA Il misero germano... ANNIO Il caro amico... SERVILIA È condotto a morir. VITELLIA Ma che posso per lui? SERVILIA Tutto, a' tuoi prieghi Tito lo donerà. ANNIO Non può negarlo alla novella augusta. VITELLIA Annio, non sono augusta ancor. ANNIO Pria che tramonti il sole Tito sarà tuo sposo. Or, me presente, per le pompe festive il cenno ei diede. VITELLIA (Dunque Sesto ha taciuto! oh amore! oh fede!) Annio, Servilia, andiam. (Ma dove corro così senza pensar?) Partite amici, vi seguirò. www.librettidopera.it 31 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 21 ­ Aria] Tempo di minuetto (re maggiore) Archi, flauto, oboe, fagotto, corno. SERVILIA S'altro che lacrime per lui non tenti, tutto il tuo piangere non gioverà. A questa inutile pietà che senti, oh quanto è simile la crudeltà. (parte) Scena quindicesima Vitellia sola. [N. 22 ­ Recitativo accompagnato] Allegro (re maggiore) Archi. VITELLIA Ecco il punto, o Vitellia, d'esaminar la tua costanza: avrai valor che basti a rimirar esangue il Sesto tuo fedel? Sesto, che t'ama più della vita sua? Che per tua colpa divenne reo? Che t'ubbidì crudele? Che ingiusta t'adorò? Che in faccia a morte sì gran fede ti serba, e tu frattanto non ignota a te stessa, andrai tranquilla al talamo d'augusto? Ah, mi vedrei sempre Sesto d'intorno; e l'aure, e i sassi temerei che loquaci mi scoprissero a Tito. A' piedi suoi vadasi il tutto a palesar. Si scemi il delitto di Sesto, se scusar non si può, col fallo mio. D'impero e d'imenei, speranze, addio. librettidopera.it C. T. Mazzolà Mozart, Atto secondo [N. 23 ­ Rondò] Larghetto (fa maggiore) / Allegro / Andante maestoso Archi, flauto, 2 oboe, corno di bassetto, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. VITELLIA Non più di fiori vaghe catene discenda Imene ad intrecciar. Stretta fra barbare aspre ritorte veggo la morte ver me avanzar. Infelice! qual orrore! Ah, di me che si dirà? Chi vedesse il mio dolore, pur avria di me pietà. (parte) Scena sedicesima Luogo magnifico, che introduce a vasto anfiteatro, da cui per diversi archi scopresi la parte interna. Si vedranno già nell'arena i complici della congiura condannati alle fiere. Nel tempo che si canta il coro, preceduto da' Littori, circondato da' Senatori, e Patrizi romani, e seguìto da' Pretoriani, esce Tito, e dopo Annio e Servilia da diverse parti. [N. 24 ­ Coro] Andante maestoso (sol maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. CORO Che del ciel, che degli dèi tu il pensier, l'amor tu sei, grand'eroe, nel giro angusto si mostrò di questo dì. Ma cagion di meraviglia non è già, felice augusto, che gli dèi chi lor somiglia custodiscano così. www.librettidopera.it 33 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito Recitativo, continuo TITO Pria che principio a' lieti spettacoli si dia, custodi, innanzi conducetemi il reo. (Più di perdono speme ei non ha: quanto aspettato meno, più caro esser gli dée.) ANNIO Pietà, signore! SERVILIA Signor, pietà! TITO Se a chiederla venite per Sesto, è tardi. È il suo destin deciso. ANNIO E sì tranquillo in viso lo condanni a morir? SERVILIA Di Tito il core come il dolce perdé costume antico? TITO Ei s'appressa: tacete! SERVILIA Oh Sesto! ANNIO Oh amico! Scena diciassettesima Tito, Publio e Sesto fra Littori, Annio e Servilia, poi Vitellia. TITO Sesto, de' tuoi delitti tu sai la serie, e sai qual pena ti si dée. Roma sconvolta, l'offesa maestà, le leggi offese, l'amicizia tradita, il mondo, il cielo voglion la morte tua. De' tradimenti sai pur ch'io son l'unico oggetto; or senti. VITELLIA (entrando frettolosa) Eccoti, eccelso augusto, (s'inginocchia) eccoti al piè la più confusa... TITO Ah sorgi, che fai? che brami? VITELLIA Io ti conduco innanzi l'autor dell'empia trama. TITO Ov'è? Chi mai preparò tante insidie al viver mio? VITELLIA No 'l crederai. TITO Perché? librettidopera.it Mazzolà / Mozart, VITELLIA Perché son io. TITO Tu ancora! SESTO E SERVILIA Oh, stelle! ANNIO E PUBLIO Oh, numi! TITO E quanti mai, quanti siete a tradirmi? VITELLIA Io la più rea son di ciascuno; io meditai la trama; il più fedele amico io ti sedussi; io del suo cieco amore a tuo danno abusai. TITO Ma del tuo sdegno chi fu cagion? VITELLIA La tua bontà. Credei che questa fosse amor. La destra e 'l trono da te sperava in dono, e poi negletta restai due volte, e procurai vendetta. [N. 25 ­ Recitativo accompagnato] Allegro (re minore) Archi. TITO Ma che giorno è mai questo! al punto stesso che assolvo un reo, ne scopro un altro! E quando troverò, giusti numi! un'anima fedel? Congiuran gli astri, cred'io, per obbligarmi a mio dispetto, a diventar crudel. No! non avranno questo trionfo. A sostener la gara già m'impegnò la mia virtù. Vediamo se più costante sia l'altrui perfidia o la clemenza mia. Olà! Sesto si sciolga: abbian di nuovo Lentulo e suoi seguaci e vita, e libertà. Sia noto a Roma ch'io son lo stesso, e ch'io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio. www.librettidopera.it 35 / 38 Atto secondo La clemenza di Tito [N. 26 ­ Sestetto con coro] Allegretto (do maggiore) Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani. SESTO Tu, è ver, m'assolvi, augusto; ma non m'assolve il core, che piangerà l'errore, finché memoria avrà. TITO Il vero pentimento, di cui tu sei capace, val più d'una verace costante fedeltà. VITELLIA, SERVILIA E ANNIO Oh generoso! oh grande! E chi mai giunse a tanto? Mi trae dagli occhi il pianto l'eccelsa tua bontà. TUTTI E CORO (senza Tito) Eterni dèi, vegliate sui sacri giorni suoi, a Roma in lui serbate la sua felicità. TITO Troncate, eterni dèi, troncate i giorni miei, quel dì che il ben di Roma mia cura non sarà. C. T. Mazzolà Mozart  Interlocutori Atto  Ouverture Scena  Duetto Scena  Aria Scena Duettino Scena  Marcia Coro Aria Scen Duetto Scena  Scena  Aria Scena  Scena  Aria Scena  Terzetto Scena Recitativo accompagnato]. .16 [N. 12 ­ Quintetto con coro Scena Scena Atto Scena ­ Aria Scena  Scena  Scena Terzetto Scena Coro Aria Scena sestaScena Aria Scena Scena Scena Terzetto RondòScena Aria Scena Scena Aria Scena Recitativo accompagnato Rondò Scena sedicesima Coro Scena Recitativo accompagnato Sestetto con coro Brani significativi La clemenza di Tito BRANI   SIGNIFICATIVI Deh, conservate, oh dèi (Sesto e Annio) Non più di fiori (Vitellia) Parto; ma tu ben mio (Sesto) 14Tito Vespasiano. Tito. Keywords: principe filosofo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tito: la clemenza della clemenza” -- Tito.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Toderini: la ragione conversazionale di Roma e l’implicatura conversazionale dei sue colonie – la scuola di Venezia – filosofia veneziana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming Pool Library, Villa Speranza (Venezia). Abstract. Keywords. filosofia coloniale -- Flosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Discende dai conti palatini Gagliardis dalla Volta. Letterato, pubblica “Letteratura turchesca” (Venezia, Tosti), frutto della sua permanenza a Costantinopoli, la prima trattazione occidentale di storia della letteratu turca.Tra gl’altri scritti, in particolare di erudizione e di filosofia morale, si ricordano la filosofia frankliniana delle punte preservatrici dal fulmine, particolarmente applicata alle polveriere, alle navi, e a Santa Barbara in mare e “L'onesto uomo; ovvero, saggi di morale filosofia dai principii della ragione”. È ricordato in “I Dogi di Venezia nella vita pubblica e private” di Mosto, Giunti Martello. La Dogaressa Pisana muore con gran dolore del Doge circa le hore ventidue colta da una gagliarda convulsione al petto et abbattuta dalla lunga penosa malattia sofferta. Per tutti i tre giorni di esposizione si conserva così fresca e rubiconda nel volto che sembrava anziché morta assorta in un dolce riposo. È solennemente tumulata ai S.S. Giovanni e Paolo nella tomba comune dei Mocenigo. Il doge la segue dopo IX giorni di malattia in seguito a un’infezione determinata da una risipola alla gamba sinistra. Ai solenni funerali fatti alla sua statua ai S.S. Giovanni e Paolo venne commemorato da Berti ed a quelli fattigli dalla scuola di S. Rocco, cui apparteneva, da T.. Cfr. Le sue opere registrate dal «Sistema Bibliotecario Nazionale». Giambattista Toderini. Toderini. Keywords: filosofia coloniale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Toderini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tocco: la ragione conversazionale di Hardie -- e l’implicatura conversazionale dei rendiconti della ragione conversazionale – la scuola di Catanzaro -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Catanzaro). Abstract. Grice used to say that he admired Hardie’s masterpiece on Plato but had to WORK with Hardie’s notes on Aristotle. The implicature is that you cannot do both. In Italy, he who does Plato is Tocco! Keywords: Grice, Hardie, Tocco, ragione teoretica o alethica, ragione prattica – Grice’s aequi-vocality thesis – the uni-vocality of an expression – “or, if ‘multi-vocal’ or ‘pluri-vocal,’ it is so across the divide – STILL ONE SENSE!  Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Catanzaro, Calabria. Studia a Napoli con SPAVENTA (si veda) e a Bologna, con FIORENTINO (si veda). Insegna a Roma, Pisa e Firenze. Si pose nelle sue “Ricerche platoniche” (Catanzaro) il problema della cronologia degli scritti platonici. Nella sua monografia su BRUNO (si veda) nega che il filosofo di Nola potesse essere considerato un martire del libero pensiero, quanto piuttosto l'interprete dei nuovi bisogni di razionalizzazione delle teorie filosofiche, in linea con l'impulso delle ricerche scientifiche in atto ai suoi tempi. Contribuisce alla pubblicazione dei saggi di BRUNO, individuandone tre fasi di sviluppo: una fase neo-platonica, una fase pan-teistica e una atomistica. Sostenitore del neo-kantismo, rifiuta ogni costruzione metafisica e privilegia le esigenze della ragione pratica. Altri saggi: “L'eresia nel Medioevo” (Firenze); “BRUNO” R. Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze; “Le fonti più recenti della filosofia del BRUNO”, "Rendiconti della R. Accad. dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche", “Le opere inedite di BRUNO” (Accademia di scienze morali e politiche della Società Reale, Napoli); Studi francescani (Napoli); Studi kantiani (Palermo). Ferrari, I dati dell'esperienza. Il neo-kantismo nella filosofia italiana” (Firenze, Olschki); Raio, Lezioni su Kant” (Napoli, Liguori); Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. | al A | A f È pe°, al tea” \ | i A | Ca ù | A; |, & ‘| } ; È Pa ALÌ P | SI Ì ro Adi K | s° î, n 9 ù, '# è _ LI PR ù lio Ma LI TL? o I, "N A VI da i - I P air" d La È ala alt | Ù " » i S/N = i = j ef da à \ ì - X ) & artt" |, 4 Î di (l A - (fa CI ì Pabha S sa LAP Li | e ' o” f A 3 | DÀ x MI ; | ki L) Pala A = i è Barvard College Librarp From the CONSTANTIUS FUND Bequeathed by | Evangelinus Apostolides Sophocles Tutor and Professor of Greek 1842-1883 For Greek, Latin, and Arabic Literature FELICE TOCCO PROFESSORE DI STORIA DELLA FILOSOFIA NELL'UNIVERSITÀ DI Pisà CATANZARO i STADILIMENTO TIPOGRAFICO DI V. ASTURI | PIAZZA CAVOUR NOMENO 3. 18706. sd by \a1O0OLIC O. RICERCHE PLATONICHE. T. PROFESSORE DI STORIA DELLA FILOSOFIA © NELL'UNIVERSITÀ DI PISA CATANZARO STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI ASTURI PIAZZA CAVOUR. ARD COLI LitsnagN gx. Il Sofista, il Parmenide ed il Filebo sono senza alcun dubbio i dialoghi più oscuri ad intendere, e più difficili a classificare. I due primi sopratutto offrono notevoli differenze dagl’altri dialoghi, non solo per la novità della dottrina, ma benanehe per la sottigliezza del pensiero e l’aridità della forma. Alcune volte ti abbarbagliano lampi di una dottrina profonda; ma il più sovente trovi deduzioni così artifiziose, che mal sai comprendere come il severo castigatore del Sofisti accolga in sè tanta parte dei loro errori. Di quì nacque spontaneo il dubbio non sleno apocrifi questi scritti, in cul non resta traccia delle splendide forme del Fedro, del Convito, della Repubblica. Molti critici di valore sostennero questa opinione, e chi negò l’autenticità al solo Parmenide, chi al Parmenide ed al Sofista insieme, e non mancò infine chi comprendesse nella condanna perfino il Filebo. Ma queste negazioni non furono accettate dalla maggior parte dei dotti, e ben presto sorséro difese vigorose, e si escogitarono varie ipotesi pet colmare le lacune, e conciliare le discrepanze. Se non che a parer mio mentre la difesa fu felice, e riuscì a mettere fuori di dubbio l’autenticità di questi dialoghi, non toccò pari fortuna alle ipotesi esplicative, che tutte offrono difficoltà gravissime. Epperò io ardisco di esporre un'ipotesi nuova, che patmi sfugga gli ostacoli, in cui ruppero le precedenti. Se essa sia da adottare, o almeno meriti l’onore di una severa di- scussione, giudichi il Lettore. Catanzaro. ESPOSIZIONE DEL SOFISTA. Socrate ') dimanda allo straniero interlocutore se nel suo paese per Sofista, Politico e Filosofo s' intenda la stessa cosa, ovvero se questi tre nomi corrispondano a tre oggetti diversi. Non è molto facile rispondere a questa dimanda, perchè sebbene tutti ammettano correre molta differenza tra il Sofista, il Politico e il Filosofo, pure non è age- vole il determinare ove la differenza stia, stantechè uno dei termini, il Sofista, ha natura sì diversa e mutevole e si mostra sotto tanti aspetti, da richiedersi abilità non comune ad afferrare e fissare il valor suo. Che cosa è dun- que il Sofista? Lo straniero pregato da Socrate si mette a questa ricerca, e innanzi tutto descrive il metodo che 4) Il Sofista, com’ è noto, fa seguito al Teeteto. In questo. dialogo, dopo.una lunga ed intraleiata discussione sul concetto. della scienza, Socrate tronca il discorso colle parole viv pèu où armavtartov por, cis Thv. tav faerdéws arodv ini. thv Meditov ypaphv, du pe yeyparmta:: dndtu di, dè Sebdwps, despo radcv araviduev. E Teodoro e Tee- teto tengono l’ invito, e l'indomani vanno da Socrate, menando seco. per giunta uno straniero. Nel principio del Sofista FTeo- doro, ‘alludendo. alle uliime pargle del Teeteto dice: nerd riv xi duodogiav, db. Zabipareg, Muoten aùrol; re nogpiros. Al Sofista poi tien dietro il Politico, il quale ultimo dialogo ricorda il primo 6 s' ha da seguire. Per definire una cosa, sia pure l’arte del pescatore all’ amo, bisogna riaddurla ad un genere, e per via di accurate suddivisioni percorrere tutta la serie delle specie che nel genere sì racchiudono, per trovare quella in cui è compresa la cosa da definire. Così diremo dell’ arte del pescatore all’amo, essere ella tra le arti acquisitive, acquìsitiva non per contratto ma per violenza, e con violenza non aperta ma subdola, ed esercitata non su oggetti inanimati, ma sugli animali; e propriamente sugli animali acquatici. E questi animali non si prendono senza offenderlì, eome nella pesca alle reti, ma ferendoli; non di giorno ma di notte, alla luce delle fiaccole; e non percuo- tendoli dall’alto in basso, come sì usa coi tridenti, ma solle- vandoli dal basso in alto con un gancio, che s' infigge nelle mascelle. In simil guisa sì può trovare una buona definizione del .Sofista. Perchè la Sofistica anche essa è una specie di caccia, come la pesca all’amo, caccia di animali terrestri e per giunta addimesticati, e propriamente della specie u- mana e, tra questa, dei giovani più ricchi e nobili, cuì il Sofista alletta colla lusinga della scienza per ricavarne il proprio vantaggio o la mercede in denaro.) Ma se per questa parte la Sofistica ci sembrava doversi annoverare tra le arti acquisitive per violenza, risguardata da un al- nelle parole 258. A Searrite pèv odv abrés te cuvimfia ydts did I6yon ec, In tutti e tre questi dialoghi intervengono in parte gli stessi interlocutori, Teodoro, Teeteto, Socrate. Nel Sofista vi si ag- giunge uno straniero di Elea, e nel Politico, oltre a questi Socrate juniore. È netevole che in questi ultimi due dialoghi Socrate fa da spettatore, e }a parte principale invece è soste- nuta dallo straniero d' Elea, il quale parla in tone dommatico, e lungi dal ricavare dalla mente stessa del suo interlocutore la verità (nel che consiste la majeutica socratica del Teeteto) gliela presenta bella e trovata, perchè all’interlocutore resti solo l'assentire o dissentire Grote. Nate . . ù tro aspetto par che si alluoghi meglio tra le arti, che con- quistano per mutuo consenso. Il Sofista ora ci apparisce come un trafficante a minuto, che compra discorsi e co- noscenze per rivenderle di città in città al migliore offe- rente '). Ma ecco di nuovo il Sofista mostrare un’ altra fac- cia, e secondo questa non dobbiamo più classare la sua arte tra le acquisitive per mutuo consenso, ma tra quelle che acquistano per forza, forza non adoperata di soppiatto, come ci pareva nella prima definizione, ma palese ed aperta. Se- nonchè le armi di cui il Sofista si vale sono le parole, e la lotta a cui si esercita è la disputa, fatta privatamente non innanzi ad un tribunale, e sempre collo scopo di pro- cacciarsi danaro #). Secondo le diverse analogie adunque il Sofista talvolta sembra un cacciatore, talvolta un merciaio ambulante, tal- volta infine un lottatore. Ma non sono con questo esauri- te le forme che può prendere questo Proteo. Qual’ è il ri- sultato che ottiene il Sofista nelle sue dispute? Quello di confondere l’ avversario, e di mostrargli come fosse vana la pretesa di sapere quello che in fatto non sa. Que- sta presunzione dell’ ignoranza è il peggior male che vizii l’anima, soffocandone il bisogno della seria ricerca. Ed in questo senso la Sofistica, che ne libera da sì gran male, può rassomigliarsi all’ arte del crivellatore che cerne il grano dal loglio , e Platone di mal animo è costretto a confessare essere il Sofista per questo verso una specie di purificatore , sebbene presto soggiunga corrervi tra l’ uno e l’altro la stessa analogia e la stessa differenza, che in- tercede tra il cane ed il lupo).. v. 2390 D xa cò Deyygov Mexréoy ds dea peylera xo KUPLOTATA Tv ua Fhpaeoy tomi. 3 Considerata a tal guisa l’ arte dei Sofisti non differisce gran | fatto in fondo della famosa ironia socratica !), ma Platone. s° affretta a ritogliere loro l'onore concessa. I Sofisti nella lorp disputa non tralasciago nessuna scienza od rie. ‘cominciare dalle cose divine ed invisibili sino alle cause del nascere e del perire, alla legislazione, alla morale, alla politica, tutto presta argomento ai loro di- scorsi. Ma egli è mai possibile che un uomo possa nel con- tempo essere parimenti esperto in scienze così disparate? L'apparenza d del sapere, non la scienza vera essì posseggono, e la Sofistica. per tal guisa entra nel novero dejle arti imita- tive, ma ‘di quelle che non riproducono esattamente le co- se, ‘eopiandole come sono, sibbene guastandole e trasfor- mandole in fantasime “i; (t%v dh pàvtagpa dI oùa cixéva ars p- Tagopnma rigva . Ma qui ‘sì presenta una grave difficoltà, che tocca i più astrusi problemi della metafisica di ‘quel tempo. Che cosa È il ‘simulacro? È T apparenza bugiarda d'un 0g etto ve- ro. Il simulacro dunque è tutt'altro dell'oggetto che rap presenta , e rispetto a questo può benissimo dirsi che non sia). In generale ogni discorso falso, essendo ’ lo opposto della verità, racchiude in sè i il non essere (non vero). Ma” come è possibile pensare il non essere 9 Non ci ricor- diamo i° versi del divino Parmenide, che vietavano di pen- sire al non essere, ‘come impossibile a concepire? E Par- menide non avea torto , perchè la mente, quando pensa il non essere, vacilla e sì confonde. Da ‘una parte al non essere non possiamo attribuire nessun predicato, neanco il più generale; non la realtà, non il numero; € per. questo verso il non essere è impensabile: ed inesprimibile. 2) 232 C— 236 D. 2 V. Hegel. Geschichte der. Philos, II. in SUA | è Da ut’ altra pirte diderido il non esséré, gli attribuiamo purè l’unità; e nei medesimi giudizii surrifériti è impensa- bile è inesprimibile gli predichidino puré una entità #. Non è questa una contraddizione ? Ma sébbene il idheetto ‘del rion essere sia così oscuro, dobbiamo tuttavia studiarlo me- glio, perchè tolto di mezzo il non-essere, è tolta, lo ri- petiamo, la possibilità dell'apparenza, dell’ingaritio e dello errore ; ed un Sofista, al quale voi ritiproveraste la sua ante mensognéra, vi potrebbe accusare di noh sapere quel che diciate’, perchè non è fattibile pensare ed e- sprimeré il falso. Oecorre duntjue rifarsi da capo, ed industriarsi a provare contro li sentenza di Parmenide, che il rion essere per certi rispetti sia al pari dell’es- sere, e per certi altri non sia?) Ma per comprendere la natura del non essere fa d' uopo studiare |’ altro terrilinè correlativo, l'essere. Che cosa è l'essere, o megliò qual’ è il sostrato, che permane costante nell’ incessatite movi- mento delle cose? Se ci fatciamo a studiare le risposte. che dettero i filosofi antisocratici; scorgeremo di leggieri che l'essere non offre minori difficoltà, ed è un ednccettò non meno oscuro del non essere *). Vi. sono alcuni che ammettono, i principii di tutte le cose essere ot tre, br due come il caldo ed il freddo, ovvèro l’umido e l’asciutto. Ma a costoro possiamo dimandare: il caldo ed il freddo sbno entrambi i veri esseri, oppure è tale uno solo di essî? Se sì atttmette questa seconda ipotesi, allora l’ essere non è duplice, ma uno. Se sono entrambi, si può: dimandare: l’esseré che loro si predica è tutt'uno con essi,’ o ne è . 76v toù rarpòs Mappévidov \6yov avayuaior npiv dpuvopivo fora Pacaditivv rad fabea dar té te uh dv ds fori vato ti xai tè dv aù mal dg ob fari mo. | 3) 243 C. 40 separato-? Se separato, abbiamo tre principii non più due, vale a dire l'essere, il caldo, ed il freddo; se poi è tutt'uno, il caldo ed il freddo si uniffeano in un concetto superiore, quello dell'essere, e così l'essere è di nuovo uno '). Vediamo ora se mieglio s' appongano quelli che, core Senofane e Parmenide, sostengono l’unità dell’ essere. In- nanzì tutto è strano che mentre voi ammettete l’unità del- l'essere, -lo chiamiate poi con due nomi Essere ed'uno?). Dippiù l'essere, secondo la stessa testimonianza di Parme- nide, sì può considerare come una sfera od un tutto. Se è tutto, ha in'sè parti, come a dire, il principio, il mezzo, il fine, e la sua unità non è pura, come quella del sem- plice,.ma derivata. Il tutto, unificando le parti, partecipa dell'unità, ma nòn è l’unità stessa. Di quì l'essere non è uno. Se poi si negasse il tutto, si negherebbe la genera- zione , perchè le cose nascono quando le parti divise sì riuniscone in un tutto 3). Ma se si contraddicono tanto quelli che in grazia della moltiplicità negano l’unità, tanto gli altri che in grazia dell'unità negano la molteplicità, vediamo se meglio rie- scano quelli che, conciliando le due posizioni, ammettono insieme e l'uno e i molti, o per dirla più ‘chiaramente, quelli che ammettono molte unità originarie. ‘.Fra costoro bisogna distinguere quelli che, come gli Ato- misti, tengono queste unità primitive per atomi materia- li, e quelli che le hanno per entità o forme ideali. I primi non conoscono altro se non la materia, e tutto quello che non si-può percepire coi sensi, lo negano affatto. Ma 1) 243 D — 244 B. 2) 244 GC. 3) 245 D. Quest’ argomento non colpirebbe gli Eleatici, i quali non temevano per fermo di negare la generazione e GUAS siasi movimento. di " dimandiamo a costoro l’anima, la giustizia non sono pur qualcosa di reale? E passi per l’anima, ma la'giustizia si può considerare come qualcosa di corporeo? E frattanto si può dubitare che la giustizia sia, mentre per la sua pre- senza l'anima nostra acquista un dato abito, che smette affatto quando ella s’allontana? 1). Se la giustizia è quella appunto che rende l’anima giusta, è certo una realtà, imperocchè ciò che ha la po- tenza o di fare o di patire qualche cosa, esiste in verità, anzi l'essere non è altro se non la potenza stessa ?). Da questa definizione lo straniero trae partito per com- battere l’altra scuola -di filosofi, che riconoscono alle unità primitive un’entità ideale, ma, per opporle al mondo della generazione, negano loro la facoltà di agire o di patire 3). Se la cosa stesse così, queste idee non potrebbero neanco essere conosciute, perchè il conoscere e |’ essere conosciuto non sono anch'esse un’ azione e passione? Ed anche negato che l'essere conosciuto sia un patire, non cessa per questo l’assurdo di rifiutare alle idee, che sono le vere realtà, la vita, l’anima, il movimento e l’ intel- ligenza 4). Affermando l’esistenza delle idee abbiamo -conciliato la prima opposizione dell'uno e dei molti, affermando ora che sono vive ed operose, concilieremo un’ altra : opposizione, che ebbe pur luogo nella filosofia antesocratica, vale a dire tra coloro che negavano 11 movimento, ed attribuivano all’ Essere l’assoluta quiete, e coloro che negavano la quie- te, e sostenevano che tutto si muova eternamente senza posa. Entrambi, Eraclito e Zenone, rendevano impossibile 1) 247 A. 2) 247. E cidepar yàp 6pov dpikev tà dvra, dg fer oÙx &Mlo te iv duvapuc. | 3) 248 C. 4) 248 E. 12 la conoscenza, la quale non può stare senza l’' intreccio del» moto e della quiete. Se tutto fosse in continuo moto, il conoscere non avrebbe nessuna stabilità, ad ogni istante il vero diverrebbe falso e reciprocamente. Se d'altra parte non ci fosse punto movimento, non ci sarebbe nessuna attività, e di conserto neanco la conoscitiva 1). Resta dunque fermo che tanto il riposo quanto il mu- vimento sono. Ma qui si riaffaccia la stessa difficoltà, che | facevamo a coloro, che ammettono due principii delle cose, quali il caldo ed il freddo. L'essere è tutt'uno col movi- mento o col riposo, o pure è un concetto più largo, che entrambi li abbraccia, senza confondersi con nessunos dei due? Egli è chiaro che l'essere non può confondersi col movimento, perchè in tal caso il suo opposto, la quiete, non sarebbe. E parimenti non potrebbe confondersi colla quiete , perchè a tal modo non esisterebbe il movimento. Non resta dunque se non ammettere l’altra ipotesi che entrambi, il riposo ed il movimento, partecipino dell'essere senza confondersi con lui. Paragonando l’idea dell’essere con quella del movimento e del riposo, vi scorgiamo adunque un rapporto di comunanza. D'altra parte dallo studio dei due concetti di movimento e riposo raccogliamo che si escludono, vale a dire l'uno non è l’altro, e l’altro non è l'uno. Epperò il rapporto, che corre tra queste due idee, non è quello di comunanza sib- bene di esclusione ?). E se di queste tre idee alcune co- municano fra loro, ed altre si escludono, quello che noi diciamo di queste tre, possiamo dirlo di tutte le idee. Se si ammettesse una esclusione assoluta fra le idee, l'una non si potrebbe predicare dell’altra, e cadremmo nell’ er- rore dei Megarici, ì quali negavano la possibilità del giu- 1) 249 B. 2) 249 E — 250 E. 13 dizio. Imperocchè non si potrebbe dire secondo loro « So- crate è buono »; « Socrate è giusto »; ma solo Socrate è Socrate, il buono è buono. Ed in tal caso non potremmo parlare nè pensare. Per lo contrario se s’ ammettesse che tutte le idee co- munichino fra di loro, ne seguirebbe potersi il movi- mento predicare della quiete e viceversa, il che è as- surdo. Resta dunque che ci sieno parziali rapporti di co- munione, e parziali rapporti di esclusione. Le idee più ge- nerali, abbracciando le specifiche, si predicano di queste; ma le idee specifiche tra loro si escludono. È ci vuole una scienza non comune per iscoprire questi rapporti, scienza che Platone, come è noto, chiama dialettica, e che in questo luogo definisce per il dividere per generi 1). Potremmo applicare questo processo dialettico a tutte le idee, ma per non perderci, soggiunge l’ Eleatico, nella loro moltitudine, scegliamo i generi sommi (peliotwv iefoptvwv) vale a dire quelli che finora abbiamo discusso: l'essere, il moto, e la quiete, e le altre non meno necessarie, il me- desimo e il diverso. Il medesimo non può essere la stessa cosa dell'essere, perchè in tal caso siccome il movimento e la quiete partecipane entrambi dell'essere, così pure par- teciperebbero del medesimo, vale a dire sarebbero la stessa cosa. E tanto meno l’ idea del medesimo potrebbe confon- dersi con quella del movimento e del riposo. Bisogna dunque considerarla come una idea a parte. Dite lo stesso del diverso. Il diverso non sì può confondere col- . l'essere, perehè in tal caso al di fuori del diverso, in cui si esaurirebbe tutto il concetto dell'essere, non ci sarebbe nessuna altra realtà, mentrecchè il diverso si dice sempre rispetto a qualche cosa, che stia fuori di lui. dr 41) 253 D. roùro d'iarw, f te xorvevsiv fvaora divara al dn ud, dra- xolvev vatà qivos enioraagdta. li 14 . Le cinque .idee generali trattate nel Sofista sono dunque l'essere, il movimento, il riposo, il medesimo ed il diverso. Esaminiamo ora ciascuna di queste idee in rapporto con tutte le altre. Togliamo ad esempio 1l movimento. Per una parte, il movimento partecipando dell’essere, possiamo dire: egli é; dall’altra, non essendo tutt'uno coll’essere, diciamo non è. Del pari in quanto è uguale a sè stesso partecipa dell’ idea del medesimo, e in quanto l’idea del movimento non è tutt'uno con quella del medesimo, non è il mede- simo. In qnanto non è le altre idee è diverso, e in quanto l' idea del movimento è tutt'altra di quella del diverso, si può dire: il movimento non è diverso. E non bisogna, dice lo straniero, meravigliarsi di questo discorso, perchè i predicati contradittorii non si attribuiscono nello stesso senso. În generale possiamo dire che ciascuna idèa è e non è, è per rapporto a sè medesima, non è per rapporto a tutte le altre da cui essa differisce. Ciascuna idea dun- que racchiude in sè l'Ente che è unico (la sua propria entità) e il non-ente, che è infinito, cioè di tanto si di- larga, per quante sono le altre idee da cui quell’ una è distinta '). Qual è. il risultato di sì lungo ragionamento? È questo solo di aver conosciuto in che consista il non essere. Il non essere non è l’opposto assoluto dell'essere, il nulla; no, è un altro essere, che, in quanto si distingue dal primo, non è quello. Il non-ente, secondo Platone, è il diverso ®). Di quì non c'è nulla di strano che il non essere esista, e che esista per conseguenza il brutto, l’ ingiusto ed altrettali. Non perchè queste idee sieno una negazione 1) 256 E. mepì inaotov Apa tiv eidiv mo)d pév dari td dv, drapov di riad 6 pù dv. 2) 257 B. orérav cò pù dv dt oUx dvavtiov ti Myopev où vros, &Il' èrepov puòvor, 45 rispetto alle altre come il bello, il giusto, non per questo cessano di avere una propria entità: Possiamo dunque ar- ditamente conchiudere contro Parmenide: il non essere è. E questo non essere, che. in fondo non è se non il diverso, esiste dappertutto, ed anche i discorsi ne accol- gono una buona parte. Il discorso non ha luogo se non quando ad un nome s’ accoppia un. verbo. Or quando noi riuniamo violentemente insieme un nome ed un:..verbo che ripugnano fra loro, come nel caso di Teeteto vola, ovvero il circolo è quadrato, facciamo un discorso non corrispon- dente alla realtà delle cose. (Questo discorso non è vero. E lo stesso possiamo dire del pensiero, il quale non è altro se non un discorso parlato internamente '). Dopo questa lunga discussione, che. sembra fatta per intramessa, mentre è la. parte principale del dialogo, Platone ritorna al. concetto del Sofista. La sofistica, dice- vamo va collocata tra le arti imitative, e l’arte imitativa. è una specie dell’arte del fare. Ma l’arte del fare a sua volta si bipartisce nell'arte divina e nell’umana. La divina . può fare che sia ciò che prima non era?), l’umana poi sta nel comporre di queste cose create. prodotti artificiali. Ciascuna di queste due arti si suddivide di nuovo in due altre, vale a dire nella produzione delle cose é. in quella dei simulacri. L'arte divina crea le cose, minerali, piante, animali ,. e produce i simulacri, come adire i fantasmi che ci appariscono in sogno, le ombre che sì veggone nel. fuoco quando vi si projetta l'oscurità, ed infine le imma- gini che si riflettono negli specchi *), Ed anche nell'arte umana st-ha da distinguere pure quella che produce le 41) Tedvora piv abrîie repàs dauràv Yuyfic'dadoyos., 263 E. 2) 266 B. 3) Il passo 266 C. intorno agli specchi è questo: durdoùv d° ivin’ dv gig oiueidv te xa &Iidrpiov Tepi tà dmurpà nad deîa cis dv 16 cose, da quella che produce le immagini; come ad esempio l'architettura serve a fabbricare le case, e la pittura ritrae in tela l'immagine della casa reale (266 C.). Quest arte produttrice delle immagini era stata suddivisa di sopra in quelle che fa copie esatte, e nell'altra che produce pal- lidi simulacri. Quest'ultima anch'essa sì divide in quella in cuì ci serviamo di strumenti esterni, e nell’ altra, in cuì adoperiamo il nostro corpo, come quando ci ser- viamo della nostra stessa voce per contraffare quella di un altro. Quest’ arte l’addimanderemo mimica. E questa mimica può esser «fatta o conoscendo bene l'oggetto da imitare o non conoscendolo punto. (Quest ultimo caso ac- cade ad es. a coloro che cercano d'imitare la giustizia, e si danno per maestri di virtù senza conoscerne l'essenza. La prima imitazione, cioè quella fatta con scienza la chiameremo istarica (rv dé per imcaripins iotoperiv ta uiunow). l’altra fatta per ignoranza la chiameremo imitazione secondo l'opinione (Setopupneertv). E in quest'ultima arte ci sono gl imitatori semplici o di buona fede, e gli altri che sono ben conti della loro ignoranza, ma sanno dissimularla, e che possiamo ben dire imitatori ironici. Degl' imitatori iro- nici alcuni esercitano la loro arte in pubblico e in lunghi discorsi indirizzati alla moltitudine, gli altri |’ esercitano EuveXSòv tic fumposdev eitdulas èpaws ivaviiav aladImaw mapiyov etdoc d- mepyatara.. ll Cousin Sofista p. 318 dice questo passo molto o- scuro. Ma il Martin, fondandosi sulla teorica platonica, svolta nel Timeo, dei due fuochi, l'uno proprio del nostro occhio o luce interna, e l'altro fuori di noi o luce esteriore, lo spiega netta- mente. così: « Quando la luce propria all'organo (otxstov) s'in- contra sovra una superficie pulita o levigata colla luce esle- riore, talchè le due luci formino una sola, nasce un'immagine che produce un'impressione contraria a quella della visione ordinaria. » Cousin ha malamente interpetrato l’ oèxstov tradu- cendo propre a un corps, errore che confonde tutto il senso del passo. Martin Etudes sur le Timée II. 158 (nota). 17 privatamente, con discorsi a dialogo, e costringono l’inter- locutore a contraddirsi. Se 1 primi si chiamano oratori. pubblici, gli altri si hanno a dire. non saggi, ma imitatori in falso del saggio, in una parola Sofistì 1). 1) 267. 3. 268. D. La tavola seguente riassume questa mi- nuziosa classificazione: ARTE DEL FARE x_oenLvogy YP9©z<9z°=z—Ò“_Òè_—>2—2—» DIVINA è UMANA N inn —_r — in? — _asg TC : ì . _|produttrice prcautzice DIORIUEETICE produttrice |"g: imagini di cosc d’ imagini di Cose che sono: e copie | simulacri vere prodotti: in re ue cono- igno- scendo | randolo l'oggetto per ST in Tn ignoranza |ignoranza semplice | ironica: iroia -| ironia csercitata|esercitata in in pubblico | privato e per e per dicorso | dialugo. 48 CAPITOLO II. CRITICA DEL SOFISTA. Ecco la trama del Sofista, divenuto celebre per le qui- stioni che vi si aggruppano. Questo dialogo è autentico, ovvero s' ha da annoverare tra quelli che falsamente si attribuiscono a Platone? Qual'è lo scopo principale di esso? E forse la definizione del Sofista, o piuttosto la dottrina del non Ente, o infine la cosidetta xowovsie delle idee? Quale rapporto ha il Sofista cogli altri dialoghi platonici, o meglio qual posto conviene al Sofista nello svolgimento del pensiero platonico? Per ora mi restringerò alla prima quistione, a quella dell'autenticità, e toccherò delle altre quel tanto che si riferisce ad essa. In seguito, quando avremo esposto ed esaminato gli altri dialoghi dialettici, il Frlebo-ed il Parmenide, ci verrà fatto di discutere a fondo gli altri problemi. . L'autenticità del Sofista venne negata prima dal Socher ') alle cui dimostrazioni nessuno prestò fede. Lo stesso Ueberweg, che nella memoria sugli scritti platonici com- batteva vigorosamente l’ autenticità del Parmenide, dimo- strava con egual forza la schiettezza del Sofista e del Po- litico 2). Ma di lì a poco la tesi del Socher venne ripresa e sostenuta con maggior copia di ragioni dallo Schaar- schmidt in due numeri del Rheinisches Museum ?). A que- sta critica rispose l’ Hayduck, le cui censure vennero re- 4) Socher Ueber Platon’ s Schriften. Minchen 4820 p. 258-278. 2) Untersuchungen ùber die Echtheit und Zeitfolge platoni- scher Schriften von Fr. Ueberweg. Wien. 41861. 3) Neue Folge. XVIII. 1-28; XIX 63-96. i ! 19 spiàte dallo Schaarschmidt nel lavoro di maggior lena che pubblicò sulla « collezione degli scritti platonici » 1). Lo Schaarschmidt incomincia la sua critica dalle testimo- nianze aristoteliche, che sono di tanto peso nella quistione dell’autenticità. Nel sesto della Metafisica Aristotele dice: Platone in un certo senso non a torto stima che la Sofî- stica tolga ad obbietto 1 non Ente. Perchè i discorsi dei Sofisti si aggirano tutti intorno all’accidente..... e l'acei- dente sembra non molto si dilunghi dal non Ente. ?) Questo passo di Aristotele collima a capello col 264. A del Sofista in eui è detto « .....il Sofista s’invola nella tenebria del non ente, e vi ci si- adatta, perchè riesca impossibile il diseoprirvelo stante l'oscurità del luogo » 3). Questo passo di Aristotele è tra quelli, in cui sì adduce il nome di Platone, tacendo il titolo del dialogo. .Ma è sta- bilito come un criterio saldo, che allerchè in un passo di questa natura sia ricordata un’ opinione o una dottrina svolta solo in un determinato dialogo e non in altri, que- sto dialogo si possa tenere come citato autenticamente da Aristotele, sebbene non venga nominato. E nel caso nostro non e’ è altro dialogo platonico, del Sofista in fuori, in cui si discuta la teorica del un dv e .si stabilisca esser questo l’ oggetto della Sofistica. Si può invero osservare che Aristotele nel riferire la sentenza platonica usa i pat- sati drafev, tipe, il che vuol dire non avere egli pre- sente il dialogo, che cita, nel qual caso suole sem- 4) Die Sammlung der platonischen Scriften von C. Schaar- schmidt. Bonn 1866. 2) Atò IMaray cpérmov tivà où nane Thy coporizdo mepi cò pù dv tra- Eev. elor qip ot tiv Foprariv Idyor mepi tò cuuBefnuds... paiverai Yi prò cup- BeBnxdg Fppie n roù pò évros — Met. VI. 2. 1026. E più chiaramente nella Met. XI. 8. 1064. B. Aeò' Mary di'xanéòé eîpniie pid tiv go- piethv Tept tò pù dv diarpifieto. 3) ‘0 iv &fodepiorv ele chv 1ov pù dvros oxorevimita, voiBn rpoda- medpevos avre, did tò Guoremòv ToÙ térov xarevoiéa: valends. i 2 20 pre usare il presente. Ma ciò non importa che Aristotele non conosca il dialogo, bensì che citi di memoria, come fa altre volte della Repubblica e del Timeo 1). Lo Schaarschmidt non crede che il passo di Aristatele si possa riferire al Sofista, e adduce molte ragioni, tra le quali io presceglierò questa che mi pare più grave: Ari- stotele interpetra il pò èv platonico come identico al eu Bea, determinazione che è affatto ignota ‘all’ autore del Sofista 3). Ma egli è noto che Aristotele traduce sem- pre «nel suo linguaggio il pensiero platonico , e non parrà strano che anche in questo caso si valga della sua consueta libertà. Nè mal s’ appose di scambiare il non Ente del Sofista coll’accidente, come ora dimostreremo. Nel So- fista il non Ente non è tolto in senso assoluto, ma esprime il rapporto di diversità tra un concetto ed un altro. Così ad esempio il concetto dell'ente, differendo dal concetto di moto, non è quello, o per dirla alla platonica, è non ente rispetto all’altro ®). Il concetto del non ente nasce dunque dal rapporto di esclusione di ciascuna idea da tutte le altre. Ciascuna idea riguardo a sè stessa è quello che è, è un ente, riguardo a tutte le altre si distingue da esse e le nega, è quindi non ente. E come queste altre. idee sono infinite di numero, così Platone suol dire che ciascuna idea come Ente è una, è lei e non altra; come non ente poi si trova in tanti rapporti di esclusione, per quante sono le altre idee da -cui s1 separa, o per dirla col linguaggio 5) V. Ueberweg. op. cit. p. 153. 2) Schaarschmidt. op. cit. p. 100 e p. 196. 3) 258 D. ‘Hpeîs dé Yodù pévov dg fon tà pù évra dmdetapo, ddià uz tò ctdos è Tuygavei Gv toù pù bvros atepava eda Thy Y%p Sarkpov qu- ou amodeltavtes ovadv te xat ARTAREREPATLI pevav inàù mavra tà dvra mpòc @\nXa. Il Grote giustamente mette in evidenza questo passo del Sofista che riduce il concetto del non-ente a quello del. diver- so — Opera citata II. 446. | . A platonico « in ciascuna idea vi ha di molto essere e d’ in- finito non essere » 1). Secondo la mente di Platone dunque ciò che determina l'idea è l'elemento positivo che in essa si racchiude; perchè l'elemento negativo, il rapporto di eselu- sione da tutte le altre idee, non aggiunge nè toglie nulla al suo contenuto. Epperò. questo rapporto poteva benis- simo essere considerato come accidentale. Io sono un de- terminato individuo, quali che siano le altre persone con cui per fortuna mi trovi a contatto *). ‘Ammettiamo per poco che il Sofista non sia platonico, ma con qual diritto, possiamo -dimandare, Aristotele attri- buisce a Platone la sentenza che il Sofista si occupi solo del pù è? Schaarschmidt dà due risposte. La prima che Aristotele abbia potuto ricavare questa sentenza dal vivo insegnamento del suo maestro, e non bastandogli que- sta supposizione, congettura abbia potuto altresì rica- varla dal VI. della Repubblica (492, A 494, B). Ivi è detto che ciascuno di questi privati mercenari, che i più chiamano Sofisti, e pimano loro rivali, non insegnano al- 4) V. passo citato, pag. 14 nota 1. 2) Il Ragnisco nella sua pregovole Storia Critica delle Ca- tegorie 1, 206 risolve in altro modo questa difficoltà. Secondo lui il non-essere del Sofista è precisamente la materia, che è mutabile ed accidentale. Vedremo a suo luogo che il non-ente del Sofista non sia la stessa cosa della materia — Qui solo. dirò che a parer mio il Ragnisco esageri alquanto il valore della dialettica platonica nel Sofista e nel Parmenide, e la raccosti molto alla dialettica eghelliana. Per Hegel la negazione è in- tima al concelto, e senza essa non se ne potrebbe determinare il contenuto. Omnis determinatio est negatio — Per Platone la negazione è affatto esteriore, ed Aristotele poteva benissimo soggiungere accidentale. Platone dichiara espressamente che uando parla dell'ente e del non-ente di ogni idea lo, intende in due sensi diversi e rimprovera colui che dicesse étev qé tu dtepov Sv my radriv tiva pa nad drav ravrdv dv Erepov, ixetva nad rar dxeivo, (Sophista 259 D.) Allusione che si deé certamente riferire ad Eraclito. 22 tro se non le stesse opinioni della moltitudine; e questa chiamano seienza.... Il vero filosofo all’ incontro, che giu- dica il vero hello, ad es., star da sè e non potersi eonfori- dere colle cose belle, ed in generala l'essenza trovarti nell’uno e non nel molti, non può a meno di essere frari- teso e schernito dal popolo '). Il Sofista adunque, segue lo Sehaarschmidt, in opposizione al filosofo, nen guarda se non all'apparenza, secondo il costume del volgo, e come l'apparenza è un non ente rispetto alla vera rbaltà, qual meraviglia che dal passo della Repubblica Aristotele abbia inferito che l’ arte del Sofista si. versi sul ndan ente? Ma questa, come si vede, sarebbe stata uria deduzione fatta da Aristotele, mentre il passo dice chiaramente che Pilar torie stasso si sia servito di questa caratteristica ?). . Ueberweg al passo citato della Metafisica ne aggiunge un altro .tolto dal de partibus animalium, il quale con molta probabilità sì può riferire al Sofista, In questo passo è detto « non conviene spezzare un. genera upico, comp a dire gli uccelli, in mado cue una. parte di esse si collochi in una divisione, ed un'altra in una tutta differente. Er- rano così le Ys7pappévar diaipioss Ove una parte degli uccelli è posta cogli acquatici, ed un altra in un genere di- verso 3). » Questo passo di Aristotele si .accomoda bene ad una delle classificazioni del Sofista, secondo la quale ta caccja si divide in due categorie, quelle degli animali pe- destri e l’altra dei nuotatori. E quest'ultima sì suddivide in altte due, l'una dei nuotanti nell’arià o volanti, e l’al- 4) VI. 493 E. | 2) Zeller, Philosophie der Griechen Dritte Auflage 1874 II. 339. 3) ‘Er dè rrpocsua pù digoràv sxaotov givos, ‘otov tTode Opvdag Tove pév ev Rin, tods d'év Rig dioupioci, xaddmsp èyovaw gi peypappivar dar pérers' Eusî yop toùs puiv perà ov ivod tv ovpbaive Tegpnna. ar, toùe d' dv CINI qivei — De part. anim. Lib. i Cap. o. 23 tra dei nuotanti nell'acqua 1). A questa etassificazione si può in parte muovere il rimprovero aristotelieo, perchè le due sottospevie di rriviv xeì vodpor non si escludéno così, che una parte del genere rrvvòv, vivendo nell'acqua, non entri nel genere &uipu». Molto più calsanti sarebbero questi rinp- preveri per la classificazione data nel .Politicus 264 D; ma il risultato perla quistione che ora ei socupa; torna sem- pre le stessa, petehà l'autenticità del Palitieua kyae dom sè quella del Sofista, che nel primo dialogo, come dicezamo è testualmente citato ?). Sfortunatamente però. questo pesto aristolelico non cos- tiene nessuna indicazione sull’autere delle #iassiou ep però solo can qualche probabilità si può sospettare vhe Aristotele intenda -parlare di Platone a del Safiata. Molto più chiaro è un altro passe della Metafisica, citato dall’ Ueberweg e dallo Zeller, passo che per giunte spande molta luse. sugl’iatendimenti del Sofista. « Parve a taluni, diee Aristotele, che tutte le cose si debbano gidurre alla unità — vale a dive all’ Ente. uno ++ se non si nelolga D resista all’argomentare di Parmenide « non mai ti venrà 4) ZuoIupeio È ap'eò Fardetw dida du Mporeo dv dixp;, cò pelli mezed Finuc...., Td d' &repgv vevenpoli;... Nevorizp) priv Td piv srsavdp sguign dep pev, tò d' tvudpov; 220, A. 2) Ueberweg. 153 e segg. Ychaarsctimidt (Op. cit. 102) sa trarre partito dall'asserzione di Alessandro Afrodiseo, il quale, sull’autorità di Filopono, dice essersi le yeypappétva: diarpirers ma- lamente attribuite a Platone. Se dunque, soggiunge, sono spurie queste yrypappivar Baiptraz, dev'essere sputio eziandio il Sofista, nel quale sono inserite. A quest’argomento rispose l'Hy duck, ta di cuìè membdria non m'è riuscito di procacctarmi. Ma so- spetto che TÎà risposta dett'Hayduck sà.k Stata ‘di Questo tetto= re: Postò ànchè che sià verà l'àsserzione del’Afrodiséo, que- GIGA vuol dire altro se non che non esista come dire di one ‘utr trattato speciate cot titolo’ ytyp. Uaip. Ma Cid non importa che le diapidtt del Sofista, e con esse tutto Il dialggo noti sta -pratenico. 0 © | vi AU fatto di comprendere che il non-ente sia. » Di qui dicevano esser necessario si dimostri che il non ente sia; co- siochè gli esseri constino dell'essere e di qualcos’ altro, se pur si voglia an mettere che ne esistano molti. » E più appresso soggiunge Aristotele: Si pretende anche che il falso sia la stessa .cosa del non ente, del quale poi insieme all'essere sono costituite le molte enéità. Per lo che biso- gnerebbe presupporre il falso, a quel modo che i Geometri presuppongono sia un piede ciò che non è tale 1). Come questo passo riproduca quasi colle stesse parole alcune profonde considerazioni del Sofista, il lettore lo può argomentare dall'esposizione che abbiam fatto del dialogo. Nel 244 D. lo straniero chiede a Teeteto « .di grazia non lo tenga per parricida, ove egli ardisca di discutere la sen- tenza parmenidea {riferita nel 237. A.) e dimostrare contro quella che il non ente in certo qual modo esista, come per converso che.anche l'ente per un rispetto non sia ?). » Che l’altro passo Aristotelico corrisponda a capello col 240 A del Sofista, da noi già riprodotto nel corso della nostra esposizione, non bisogna di altra prova 3). Lo Schaarschmidt a torto crede che questo passo non sì debba riferire al Sofista, fondandosi sulla speciosa ragione che Aristotele non intenda parlare di Piatone, bensì dei pla- tonici, come risulta chiaro dalla parola wes che egli a- dopera 4). Ma Aristotele in tutto il libro XIV. esamina 4) Met. XIV. 2. Su questo passo ci..accadrà di tornare in altro lupgo. * 2) Mé pe olov marpadota» Urodaftgc Yipperdai ca. Ti di; 161 cod ra- tpéc Tappevidov Abyov dverpuaior muiv Guvvopévors dora facavitay xaù fd Cerda c6 te pù sòv We Teri natd ci val TÒ dv aù mad dg oÙx for Ta. 3) V. anche il 240 C. in cui è detto chiaramente, essere la mescolanza dell'ente e del non-ente, che si trova nel simula- cro, un forte motivo per le negazioni della sentenza parme- nidea, secondo la quale xwvduste roreurnv tivà merdiyda: cova ONÀI tò pù dv cò bvrr val più &roroo. 4) Op. cit. p. 105-6. | n TR “a 5 una nuova fase della dottrina platonica, secondo la quale le idee si accostano ai numeri pitagorici, e come quelli racchiudono in sè medesime l’unità e la molteplicità. Non intende dunque parlare solo dei discepoli, ma dello stesso maestro !). Una sola osservazione si potrebbe fare coll’ Ueberweg 3 ed è la seguente: mentre nel passo aristotelico la molte- plicità delle idee sarebbe una conseguenza dell'esistenza ‘ del ua s»; nel Sofista l’esistenza del pa sv è tratta dalla mol- teplicità delle idee. Ma l’ Ueberweg stesso non mette molto peso a quest'osservazione , perchè Aristotele ol- tre al riferirsi al Sofista, avrà potuto benanco far tesoro delle discussioni, che avean luogo in seno della scuola, secondo le quali dalla critica del sistema di Parmenide si traeva l’ esistenza del non-ente, e da questa poi la plura- lità degli enti ideali, e la xowevrie fra di loro. Tutte queste testimonianze aristoteliche, che a vicenda si rafforzano, mettono fuor di dubbio l'autenticità del So- fista. E questa dimostrazione basta da sè sola; imperocchè quando l'autorità del più grande discepolo di Platone ci assicura dell’autenticità di uno scritto platonico, tutti gli argomenti in contrario, che sì possono ricavare dal suo con- tenuto, non hanno alcun valore. Poniamo pure che sia riu scito al Socher o allo Schaarschmidt di dimostrare che le dottrine del Sofista ripugnino alle altre racchiuse nei .mi- gliori dialoghi platoniei, non dovremmo per questo inferire che il dialogo sia spurio, ma solo che Platone non sia sempre rimasto fedele alle sue dottrine. Per non citare che un esempio solo io mi varrò di due dia- loghi che sono tenuti entrambi autentici dallo Schaarschmidt, 3, Su questo punto ritorneremo a suo luogo. V. Zeller IL pag. 400. 2) Op. cit. p. 158. 16 voglio dire..ta Repubblica è le Leggi '). Non sono forse pro- fonide le divergenze tra questi due dialoghi? Mentre nella ‘Repubbkiea l'ideale del governo è V’assolutismo intedligente, ‘in ewi governa seconde la ragione il vero filosofo , nelle leggi il miglior governo è quello, in cui vengano contem- perati gli elementi monatchiei e democratiei. Lì i suprémi gorematori, essendo la personificazione del vero filosofo, nen hanno bisogno nè di controllo, nè di leggi scritte; qui si richiede che i varii peteri dello stato s' invigilino a vi- cenda, e che le leggi, la sola autorità che non muta mai, sieno così minutè, che le autorità non debbano campletàrle di testa loro, e non facciano altro se non eseguirle. Nella Repubblica le parti delle virtù, corrispondenti alle tre parti dell'anime, sono la sapienza, la foriezzà, la temperanza e la giustizia; nelle Leggi alla sapienza, alla vera virtù filosofica, è sostituita la prudenza; a questa segue la temperanza , poscia la giustizia, e solo nell’ ultimo luogo è posto il coraggio, che è considerato piuttosto come una dote naturale, anzichè una virtù. Il posto che nella Re- pubblica éra tenuto con tanto onore dalla Filosofia, nelle Leggi viene usurpato dalla Religione, e nedlo stésso inten- dimento l’ onore che vien fatto nella Repubblica alla Dia- lottica, si trauferisce. nelle Leggi alla Matematica. Nelle Leggi non c'è più traceia di quelle classi sociali che ri- spondevano alle tre parti dell'anima. La classe dei filosofi o governatori dello stato è ‘abolita di netto, e vieh sosti tnita -da vari consigli sdelti per suffragio. Il popolo 0 Stub non è più quella massa inerte ed inorganica, che nella Repubblica nom ha altio ufficio se non di lavorare. pet le 4) Op. cit. p. 5 Nur neun Dialoge als unzweifelhaft echt hetraghtat werden dirfen, nàmlich Phaedrus, Protagoras, Ga- stmahl, Gorgias, Republik und Timaeus, Theaetet, Phaedo, Geselze, i 27 classi superiori piorédoras. E si è nobilitato, poichè, af- fidate agli schiavi l'agricoltura e le arti più vili, eser- cita una parte attiva nella costituzione dello stato, scegliendo da sè i giudici, e i vouogudexes e i membri del Senato. Nelle Leggi non si conserva nè la comunanza dei beni, nè quella delle donne, e invece sono indette pene severe per le in- frazioni contro il dritto di proprietà e della famiglia. Che più ? Nelle Leggi si dichiara espressamente esservi due sorta di spiriti quello del bene e quello del male, mentre secondo l'antica dottrina platonica l’anima era intrinseca- mente buona, e, fra tutti gli esseri, quello che più sì ac- costava alla natura delle eterne idee. E non la finiremo più, se volessimo addentrarci in maggiori particolari. Ma che perciò? Basta forse un così aperto contrasto per mettere in dubbio l’autenticità delle Leggi? Non dobbiamo piuttosto inferire che la dolorosa esperienza della vita avesse tarpate le ali all’audace fantasia di Platone, egli fosse venuta meno la robusta fede nell’onnipotenza della Filosofia, e nella sua attitudine a governare gli Stati? E che ci vieta di am- mettere del pari nel Sofista e nel Parmenide uria parziale trasformazione della dottrina platonica? Ma noi non vogliamo valerci di queste buone ragioni, e volentieri seguiremo lo Schaarschmidt nella critica in- gegnosa, che ei trae dal contenuto del dialogo, sicuri che questo studio ci fornirà una più intima conoscenza della opera platonica. Noi non metteremo molto peso ai dubbi che attinge lo Schaarschmidt dalla stessa introduzione del dialogo. Se- condo lui, Socrate in questo dialogo è muto spettatore, e rinunzia alla sua usata arte majeutica, che fa sprigionare il concetto dalla vivace e drammatica discussione dei casi particolari. Ei si rassegna ad ascoltare la pesante esposi- zione dell’ Eleate, pel quale la forma dialogica è affatto 28 n. esteriore #1 suo discbrso, e destituita del valore e dele l' iiteresse che Platone le attribuisce nel Fedro. Ed ariché Teeteto in und mitté è affatto cangiato. Mentre nel dialogo del suo nome ci si mostra comé giovane di pronto ingd» gno, che colle sue acute osservazioni e risposte conferiscé allo sviluppo del dialogo, qui parla a monosillabi, è not fi permette la più lieve opposizione. Ma chi ci assicura chè Platone non abbiti voluto a disegno dare a Sotraté tin fiosto secondario in questo dialogo, ove si éntra nei più riposti penetrali della Metafisica astratta, ed bve si discutono pre+ blemi eosì lontani dal fare socratico? Anche nel Timeo Socrate è un muto ascoltatore, è non muove néssuna opposizione al discotso del filosofo pitago- rico. E nel Tiineo stesso balla forma dialogica sottentra l’espositiva, il the non sembra fatto a éasò, perché tanto in questo come nell'altro dialogo sono introdotti filosofi di polso i quali, nél coricetto di Platone, debbono parlare alla lorò maniétà. Ammessi questa fofma tra meéessario chè Teésteto rispondesse a quel modo per accomodarsi al de- siderio dello straniero, al quale facea di bisogno di un interlocutore docile € non molesto '). Nè maggior casò mi sembra debba farsi dell’altrò argomento dello Schaurschifiidt tratto dalla trivialità © dalle incorigruenze delle diarési, 0 classificazioni contenute hel dialogo. Non dirò col Suse- fvihl che queste classificazioni siero fatte da burla e per ironia, ma non perchè esse non stieno a fil di logica, nè perchè coritéàgano gravi errori, giù rilevati da Aristotele, non pet questb dobbiamo drederle indegne di Platone. In questi giudizi, che portiamo noi moderni sulle opere an- tiché, dimentichiamo molto facilmente le éondizioni parti» 4) Lo straniero stesso dice 247 C. Tò pé, è Suupers, @ivroe te val cinviws mposdialezopivo faov ovrw, Tè repòs AMow ei di pù, rò xad' aurdv. eolari del tempo in cui furono scmtte. Certamente queste classificazioni a noi moderni, educati per così lunga pezza al pensiero astratto, sembrano affatto puerili. Rià che sulla ri- gorosa e severa analisi dei concetti esse par che poggino su vaghe analogie, ed or si contraddicono trg loro, ed pra imirodueone nelle divisioni elementi estranei, che ne seon- volgono Vinterna economia. Tuito questo è vero, ma te- niamo bene a mente, che la ricerca esatta delle forme logiche, lo studio minuto delle loro leggi e del loro mec- camsmo naeque con Aristotele. In Platone troviamo vaghi aceenni, che potremmo addimandare piuttosto preparazioni ad una scienza dì là da venire. È così per ciò che riguarda la classificazione, Platone non solo nel Sofista, ma benaneo Rel Fedro vuole che sì raccolgano tutti i particolari in una idea generale, di cui sì possa dare una definizione precisa, e che ottenuto queste concetto, si degcomponga negli elementi suoi, o per cesì dire, nelle sue membra, ponendo ben mente di nom mutilarne una parte, come farebbe uno scalco inesperto '). E questo lavoro di scompesizione non deve cessare fino a che ner si arrivi all'indecomponibile ?). Be gli preme dunque di definire che arte sia la Sofistica, non risparmia nessuna fatica di scomporre da diversi lati -il concetto dell'arte, per trovare #ra le :molte specie che essa racchiu- de, quella ehe meramente merita il nome di Sefistica. Egli forse: più volte fallirà all’ intento suo, ma ghe monta? Se wolessimo tenerci a questo criterio rigido, e rifiutare tutte le opere platoniche in gui accada di scoprire gual- che menda o sdi logica o di stile, ben pochi dialoghi 1) Fedro PI E. tè Foly xar sidn divasda riprsw, xay &pdpa, n mipuia, pd pù drugenpaty seen Hspos pndiv vauali porgeipay pd» APPAIA. 2) Fedrg 277 B. Geiaduefig ge mean ag’ aida pipi rod arms ci- rica i abiti: | 30 si salverebbero dal naufragio. A questa stregua non sa- rebbe platonico neanco il Protagora, in cui Socrate fa una lunga e sofistica interpetrazione di una poesia di Simo- nide '), ed ove campeggia una aperta contraddizione tra lo scopo del dialogo che è 11 dimostrare, la virtù non essere insegnabile, e il concetto della virtù, che ivi si confonde affatto colla scienza ?). Questa contraddizione verrà più tardi risoluta nel Menone, in cui Platone abbandonerà la schietta dottrina socratica, ed introdurrà una distinzione importante tra la virtù filosofica e la popolare; ma certo il Protagora, risguardato come un tutto a-sè, non dovrebbe secondo i criteri dello Schaarschmidt, essere annoverato nella schiera privilegiata dei nove dialoghi autentici. Facciamoci ora a discutere le ragioni che lo Schaar- schmidt trae contro il Sofista dalle contraddizioni che cor- rono tra questo e gli altri dialoghi di Platone. Il Sofista, già dicemmo, par che si riannodi al Teeteto, per ragioni non solo di tempo, ma benanco di concetto. Nel Teeteto Platone traccia con mano maestra i confini tra l'opinione e la scienza. L'opinione può essere o vera o falsa, la scienza O è vera, o non è punto. In.altre parole la possibilità del- l'errore è esclusa quando si arrivi alla dimostrazione ri- gorosa. Per questo werso il possesso della scienza è stabile e sicuro, mentre quello dell'opinione è incerto e mutevole. Nella scienza la verità si acquista colla prova severa, nel- l'opinione (quando anche si colga nel segno) colla fede, che rampolla dall’abito o dal sentimento 3). Ma come è 4) Protagora 342 B. — 347 A. 2) Ivi 361 B. 3) Teet. 187 B. Nel Timeo 54 E. è detto che la scienza si acquista per via dell’insegnamento, l'opinione mediante la per- suasione. E questa s’ingenera mediante la rettorica, la quale non sì rivolge solo alla ragione, ma a tutte le parti affettive dell'anima, e dei sentimenti, dei pregiudizi e degl’ interessi si fa una leva potente per convincere gli uditori. V. Gorgia 458 E Teet. 201 A. 3 possibile l’opinione falsa? Colui che opina falsamente non sostituisce ciò che non è a ciò che è? E come può venir fatto di pensare ciò che non è, mentre chi pensa ciò che non è non pensa punto? !). Socrate scioglie questa difficoltà col trasformare il concetto dell’opinione falsa. L'opinione falsa non sta nel pensare il non ente assolutamente, ma nello scambio di un ente per un altro. Nell’anima nostra ci sono alcune tavolette di cera, nelle quali si conservano impresse le immagini delle cose vedute. Or quando io vedo venire da lontano Socrate e Teeteto, e non li distinguo bene l'uno dall’altro, e l'immagine della tavoletta che ri- produceva Socrate la riferisco a Teeteto e viceversa, allora m'inganno nella ricognizione e scambio l'uno per l’altro *). Secondo questa spiegazione l'errore non sta nè nella pura sensazione, nè nel pensiero puro, ma nel rapporto dell'uno coll'altro 8). Ma non possiamo ingannarci anche nel puro pensiero, per esempio nel calcolo dei numeri? Certo di sì, e l'errore quì nasce per altra via. Imperocchè l’anima u- mana può essere paragonata a un colombajo, in cui invece di piccioni sì conservino le conoscenze, e quando come | un cacciatore inesperto, si scambia una colomba per una altra, o una conoscenza per un'altra, allora nasce lo errore *). Nel Sofista si ritorna di nuovo sulla tormentosa quistione della possibilità dell'errore, ma a mente dello Schaarschmidt se ne dà una soluzione differente da quella del Teeteto. Mentre nel Teeteto il pù avra dotaze si trasforma nell’aXo 1) Teet. 189 A. ‘O &pa pù 6v dofator oUdiv dolditer — où palvera — dida pùv è ye pndiv dordtor tè rmaparav oùdi dotkka. 2) 193 C. xa... rapalidbac rpoofkào tv inatipov dfuv mpòs Taddd- Tprov onpetor ... tavriv radwv diaudpro. 3) 195 C. Oir' dv raîs atoHicssiv... oUr'iv taîs Siavotare, dI dv Ta cuvepe. aio ticene npòc dedvocav. - o 4) 199 A B. R dokgzen, NR Sofista si concede al pò sv una gerta realtà. Nel Teeteto il pè é» (l'errore) lo s'intende nel senso lo- gicg, cioè come (reale) separazione dei congetti, che nel giudizio (falao) sono pensati insieme; nel Spfista al confrariò è mesa metafisicamente, come nen esistenza ‘del pensgto, e di quì la necessità di ammettere ls del pò «ba !). Ma, se mal non erro, parmi lo Schaarschmidt in guasto. raffronto. del Teeteto col Sofista ineorra in due errori. I} primo nel tenere: che la soluzione data nel Teeteto sia intera, e che Platone se ne accontenti; il secondo che la soluzione del Spfista non rigyerghi cop quella del Tee- teto. E in quanto al primo punto basta selo leggere il 192. D. e seg. per convincersene. Ivi Socrate a ragione osserva che tutta la spiegazione, data dell'errore, che può aver luogo nel pensiero, sta in questo: che, presuppasta già come . posseduta la conoscenza, si sbagli solo nell'adoperarla nel caso conereto *). Or non è assurda, soggiunge Sograte, che l’anima pas» segga già in sè la scienza, e che fraitanta nqn conosca nulla e ‘ponfanda tutto??) e Teefeto risponde ingenua» mente; ghi ci impedisce di ammettere ghe nell'anima pra- sigta ngn solo la scienza, ma anche l'ignoranza, e che in quella caccia di cui si è parlato si colga l’una per l'altra e l’altra per l'una? Allora sì che il: problema è risoluto, ma presppponendo come dato quello stessa che si fdewga ri- salyere, E Socrate, aggprtosi della vanità di questa scap- CE Pag | 1) Op. cit. p. 199. 2) Per Platone. che ammetteva came preesistente nell’ gni- ma la cognizione dell'eterna idee, è nabtrale. ehe l'errore nan. possa cadere Rella cognizione stegsa, nea aglla ricognizione, cioè nel riferimentò, di ciò che cade satto.la coscienza, col tipa.ideale, che + anima, pegulta. pel fapdo pacase della gua peminiscenga. 3) 199 DI. eroripns rapayevontns quangi pi tai dvacho padie, dpi ca dè mavra; 8 patoii, rificàlza il gibvitibtto: ma mb mai essendo noi in possesso tanto Uella stienza quanto dell'ighotanta, non | s$ippiamo discerierlà l'una dàll’altta, è scambitino la prima bolla seconda? Non torna più inestricabile arnitora la diffi- coltà di prima? 1). Ed il giovinètto, vinto, si confessa Hi: sadatto à sgroppare questo hodo. Né Socràle ti si provà neanche lui, ima toòna di nuovo alla dèfirizione deltà scienza. Nel Teetéto adurque la Soluzione della difficoltà intorho all'érrorè non è tcothpitta, 0 per lo manco, sè purè questa soluzioné sia quella che Platonè tiéhe pet vera, è che meglio risponda alle sue dottrine metafisiche, tuttavia non sorio tmosse le dubbiezze, e lo scrittore non ihtendé, per fermo di dissimutarle. Esartiniamo ora l’altro punto. Abbiarno già dettò ché nel Sofistà il non ente ron è tolto in serbo assoliltò; Hà behsì in quello di d'fferente, di Glito*). Infeso così il ndr ente itriefviené hut purè nel regno del sensibile, da ditthe ih quello dellè idée; imperocchè anthé le ide vetigéinò tàpprésentatò comé tàrite monddi, lè une-fuott delle hltie. Sè non ché non tutte si escludono ad egual modo, fha albunté in verità ripugnanò trà lorò, altre si subordinanò èòbrté specie a geritré. E questa relatività è ld sorgente dello èritte, perchè noi possiamo unitt quelle idéè che si esétu- dbhé, ò separàre lè altre che s'inchiudono. E lb #t6896 actade dei discorsi. A quel modb ché delle lette det lalfabtto alcun si adattano benè, cerit le véedli bllée din- sotadti éd altre no; riella Stessa guisa delli parole altiò eh. pusnattié fra lotd, dd altre concordano da forshità uh di- scorso 3). E che in e’ riposta la falsita o la verità dei di- 1) Morspov apgporipas is sidic, èruoripiiv TE Hel dvertataposimi; dv sidev èrspriv tn oîerai tuv'eivea div cidev; 200 B. 2) Y, sopra pag. 20 nota 3.2 3) 262 D. 34 scorsi? Quando nel discorso o diciamo meglio nel giudizio si attribuisce ad un soggetto un predicato che gli con- venga, il giudizio sarà vero, e falso quando al soggetto si attribuisce un predicato che gli ripugna '). Non è qui espressa in altre parole l’aModéra del Teeteto? Possiamo dunque tener per fermo che la voluta opposizione del So- fista al Teeteto non è vera, che anzi il Sofista per questa parte compie la dottrina del Teeteto, perchè trova nella relatività delle idee la fonte dell’errore, che può interve- nire anche nella cerchia del puro pensiero ‘ Ma se in questo punto non possiamo convenire collo Schaarschmidt, siamo pienamente d'accordo con lui intorno alle altre opposizioni, che egli con molta finezza scorge tra il Sofista e il resto dei dialoghi platonici. Le idee pla- toniche sono le ipostasi dei concetti, che Socrate avea posto come fine supremo dell'attività scientifica, e che per fermo non poteano avere stanza nel mondo sensibile, sot- toposto all'eterna vicenda del divenire eracliteo ?). In quella penombra tra la. poesia e la speculazione, che è il carattere proprio del filosofare platonico, i concetti si trasformano in entità ideali, le quali, staccate dalla mente che li pro- duce, e dal mondo che governano, non albergano nè in cielo nè in terra, non nell'anima nostra, e neanco nello spirito divino; ma sono in sè medesime, esistono da per sè, sempre uguali a sè medesime, immutabili ed immu- tate ®). Il politeismo ellenico non è vinto, ma rinasce nella dottrina platonica sotto una forma più astratta. Ogni idea è una divinità a sè, chiusa e compiuta in sè medesima; 1) 263 D. 2) Vedi il passo di Aristotele Met. I. 6. 9841 citato le cento volte degli storici della Filosofia. 3) Il Convito 211 A. dice non essere l’idea del Bello avdi tu Idyoc, oUdé ris imoriun, ovdi mov dv èv stepw tu, oiov dv ao È dv PM Î Ev odpavò, i Ev To ida, all'abrò rad'aùrò ped'aitoi povosidà; del Gv. 35 e nessuna dì esse ha maggior valore delle altre. Ed a ra- gione alcuni storici della Filosofia 1) han paragonato le idee platoniche alle monadi del Leibnitz e dell’ Herbart, ciascuna indipendente dalle altre, è ricalcitrante ad ogni comunicazione con ‘esse ?). Secondo questa posizione, di ciascuna idea non si può dire altro se non « è ciò che è » e quando togliamo l idea come soggetto di un giudizio, diremo che a questo soggetto non si possa attribuire un predicato diverso da lui. Così non ci restano se non i giu- dizi identici « il bello è bello, il bene è bene » e simili 8), Ma d'altra parte le idee platoniche emerse dal concetto socratico, sebbene vengano rappresentate come entità ideali uniche ed indivise, le quali ben si potrebbero dire indi- vidui intelligibili, pure, conservando sempre il carattere del concetto socratico, sono l’universale. Ed in ciò, secondo il Teeteto, si distingue la conoscenza scientifica dalla per- cezione, che quella è ristretta a ciascuna delle smgole im- 4) Strùmpell Die Geschichte der theoretischen Philosophie der Griechen p. 124. i 2) Timeo 52 A. tò xarà ravrà eidos #yov, dytrmator nad &vasdedpov, oUte ero faurò siodeybpevov &llo &llodev ovte aUtò cis &Xlo rar idv, &6pa- tov ecc. Rep. VI. 507 B. INalw aò xeridiav uiav dudetov de peg oÙ- ong tSivtes d fam Exastov rposayopevoper. 3) Questa dottrina è accennata nel Sofista 251 B. sùdù yàp avriafbicdar mavri mpoysipov dic &d'ivarov TÀ TE mollà iv nad tò îv rro)da siva: nai dirov yaipovamv cÙx d@vtes dyadov Vega dvipuror..... xaù Urrò mesviag hic mmepi gqpomon xriceos rà tabte tedavparier. In questo passo Platone parla dell’impossibilità di attribuire al soggetto un predicato diverso da sè, come d'una dottrina non sua, ed in- degna di essere tenuta in quel favore, che incontrò presso uo- mini, che per povertà di mente ammirano, come verità profon- da, una arguzia infelice. Questo tono di disprezzo è ta migliore provà che Platone qui intenda parlare di altri filosofi , i Me- garici per esempio, tra i quali s'ha da ricordare Stilpone, di cui dice Diog. L. II. 119. #eys, tèv Afyovra &vSporov siva: (sèretv?) padiva obre ydp cévde Mfjero odre révde. Ma non si può negarè che a questa stessa conseguenza debba menare la sfessa feorica di Platone delle idee considerate come unità indipendenti. 36 pressioni con esclusione delle altre, questa le raccoglie tutte in un fascio,- e scoprendone l'elemento comune, pe- netra addentro nell’essenza della eosa!). Se dunque le idee sono gli universali, e se gli universali non hanno eguale estensione, egli è necessario he nelle idee inter- venga un rapporto di subordinazione. Così togliendo ad esempio le tre idee del Sofista, l’es- sere, la quiete, il movimento, la prima è al certo più universale delle altre due, perchè tanto la quiete che il movimento sono; le due seconde poi, come meno generali, non potendo subordinarsi l'una all'altra, si escludono. Di qui nelle idee interviene quel rapporto, che nel Sofista vien detto xorvovsia rav ?Yevov, la cui dimostrazione forma, se- condo il Bonitz, l’ intendimento principale del dialogo. Se vogliamo riassumere in poche parole l'opposizione tra questi due modi di considerare le idee, diremo: dall’aspetto on- tologico le idee debbono essere tenute come individualità, o monadi ideali separate le une dalle altre, dall’ aspetto logico al contrario sono gli universali, che comunicano e si subordinano fra di loro secondo la maggiore o minore estensione *). Ma non soltanto nel Sofista Platone ammette una su- bordinazione delle idee; chè anche in altri dialoghi, come a dire nella Repubblica, il mondo ideale è ordinato gerar- chicamente. Se nonchè in questo dialogo il motivo dell’or- 4) Teet. 185 B. oùre yap dr'axotie osta di dewg vi6v Te tò xorvòv dap- Bavarw rep aùriv. 186 D. 'Ev piv &pa toîs madipacwv od, în imeripa dv dè to mepi txgivov ovidogiopò: ovelas yip xad aindela: svravda pòv, de sorxs, duvariv tlacFa, iusi d adivarov. Fedro 249 B. «idos ix rodlay idv aloFiaeav sic sv Vogiopò Euveporpevor. 2) Quest'oscillazione del platonismo suggerisce ad Aristotele una delle sue gravi obbiezioni Met. XIII. 9. 1086 dare ovpfai- ve oyediv tds ara: quaes siva. tds xadéiov val TdG ad’ ixaotov. « Si corre il pericolo che le idee sieno al contempo universali (co- me concetti) ed individuali (come sostanze). » 37 dinamento non è più logico, ma teolologico. Platone, fido discepolo di Socrate , parte nelle sue ricerche filosofiche da un motivo etico. I dialoghi del primo periodo, che vengono detti socratici, come il Liside, il Carmide, il La- chete, 1’ Eutifrone, l’ Ippia minore, il Protagora trattano argomenti etici, e tutta la filosofia platonica, fino nelle più ardite speculazioni, è penetrata da un elevato sentimento morale. Il disprezzo del mondo sensibile; la finezza nel deridere la volgarità della vita, e il disdegno nel flagel- larne le brutture; l’inquieto desio nel vagheggiare l'ideale, e l'arte squisita nel colorirlo, sono tratti spiccati della filo- sofia platonica. E quest’ indirizzo etico ed idealistico separa nettamente la filosofia di Socrate e Platone dalle prece- denti. Chè se in queste dove più, dove meno predomina l'intuizione meccanica del mondo, in quelle per contrap- posto la vince di gran lunga la teolologica. E così profonda è questa differenza, che nel Fedone Socrate non intende risparmiare nessuno dei filosofi anteriori, neanche Anassa- gora, il quale non sapendo cavare quel partito, che dovea, dal concetto del fine, non lo adoprava se non in quei casì disperati, in cui non gli riesciva di determinare le cause effi- cienti ').. Platone non merita certamente questo rimprovero, che anzi, dove gli si porga il destro, s’ industria di svelare la finalità della natura, a grave discapito della spiegazione scientifica. Così nel Timeo vi dice che la forma del mondo debba essere sferica, perchè a questo immenso animale, che deve in sè contenere tutti gli altri, la figura più conve- ‘ niente sembra essere quella che racchiude in sè tutte le figure. E questa è la forma orbicolare, la più perfetta e la più eguale a sè stessa di tutte le forme. E parimenti .la testa dell’uomo è pure un corpo sferico ad imita- zione della forma dell'universo *). Il collo poi rassomiglia 4) Fedone 97 B. 99 D. 2) Tim. 33 Be 44 D. 98 un istma, che serve ad unire la sede dell’anima razionale con quella dell'anima mortale, ed essendo quest'ultima divisa in due, in una parte superiore o Svpòc e in un' infe- riore 0 teSupyrizò», gli Dei frapposero fra le dimore di en- trambe il diaframma, pari a quello steccato ché serve a dividere gli appartamenti delle donne da quelli degli uomini 5). Secondo questa intuizione il mondo è adunque una eatena continua di mezzi e di fini, fatto ad immagine delle eterne idee, che ora vengono considerate come i supremi mo- delli o paradimmi delle cose ?). E come in questa catena non tutti i fini hanno lo stesso valore, perchè alcuni sono mezzi per fini superiori e così di seguito, lo stesso certa- mente deve accadere per gli eterni archetipi. E per tal guisa si spiega come nella Repubblica Platone abbia messo a capo di tutte le idee, quella dell'ultimo fine, o del sommo Bene, che a simiglianza del Sole, non solo illumina ma riscalda e vivifica tutte le cose ?). Per dirla con Platone, la ragione della supremazia del Bene è raechiusa tutta . nel celebre passo del Timeo. « L'autore di tutte le cose, essendo buono, e non potendo perciò accogliere invidia di sorta, volle che tutto rassomigliasse, per quanto era pos- sibile, a lui medesimo *. » Ma certamente la subordinazione delle idee, presupposta dalla Teolologia, non può essere la stessa di quella, che ri- chiede la Logica. Considerate le idee dell'aspetto logico, 4) Tim. 69 E. Il fegato serve a riflettere in sè, come in uno specchio, i pevsieri dell'anima razionale, e così nascono le im- magini, secondo le quali si governa la concupiscenza (71 B). La milza serve per raccogliere nel suo tessuto spugnoso tutte le impurità che appannano il cristallo del fegato (72 C). 2). Tim. 29 A, ci piv dà xadé; deri dda è xéepoc d te Inpuevpyò; d- yatdc, Îhiov, cis mpòs tè didtor (mapadsiyue) #Piemev. 3) Rep. VI 508 A e segg. 4) Tim. 29 E. 3) il primo posto spetta ‘all’ idea più generale ed indetetmi- nata, a quella dell'essere; considerate dall'aspetto teolologico, spetta invece all’ idea del fine ultimo, al Bene. E giu- sta adunque l' opposizione, che lo Schaarschmidt scopre tra la Repubblica ed il Sofista. Nella Repubblica l’idea del Bene « supera per vetustà e per potenza quella di essere »; nel Sofista le parti sono invertite!) e l'idea dell’es- sere è detta la maggiore e precipua fra tutte *). E ben più grave opposizione corre tra il Sofista ed il Fedone. In un luogo molto notevole del Sofista lo stra- niero, battute le dottrine materialistiche, si rivolge agli amici delle idee e dimostra loro che alle idee non si potrebbe negare nè il patire, perchè, come conosciute, su- biscono l’azione del soggetto conoscente, nè l’agire, per- chè sono il principio della vita e del movimento 3). Chi sono ora questi eifav più? Schleirmacher per il primo e poi l’Ast, 11 Deyeks, il Brandis, l’' Hermann, lo Stall- baum, il Suscmihl, lo Steinhart, il Prantl e lo Zeller 4 4) Rep. VI. 509 B. oùx oùoia; dvros toù ayadol, il tr drrtxeva tig obotas mperfeia xa duvaper Urrepéyovros. cfr. col Soph. 243 C. rep de où peyiorov te nel dpynyod mpotor di exertiov. Tivos Th Mya; i) die dov, OT TÒ dv pù rposrov Îeiv dispevvisacia.. 2) Il Bonitz aggiunge quest'altra opposizione. Secondo l’ori- gine storica del platonismo le idee dovrebbero avere un de- terminato contenuto (bontà, giustizia, bellezza ecc.) che è lo slesso dei nostri concetti universali. Ma un'idea senza un con- tenuto determinato, (ein was) come quella dell'essere, non po- trebbe silare da per sè, avrò xa9' abrò. Nel Sofista dunque Pla- tone «berschreitet selbst den Bereich dessen, was aus seinen Pramissen sich ergiebt. Ma con la tendenza che ha Platone ad obbiettivare i concetti non parrà strano, che in quel dia- logo, in cui egli esamina da per ogni verso l'idea dell'essere, se la rappresenti come qualcosa di staccato ed indipendente dalla mente. Per questa stessa specie di miraggio non si per- viene nella Repubblica (X. 596 A.) all’ idea del letto? 3) Il passo 248 A e segg. incomincia così wpòs dà toùs itipov imper, toùs tb «idv piove. 4) Zeller Geschichie der Griech. Phil. I. 214 e segg. AO credono che Platone intenda parlare dei Megarici; il che vien negato dal Ritter, e dall’ Ueberweg, il quale, insieme allo Schaarschmidt ed al Socher, sostiene che qui l’autore del dialogo intenda parlare della dottrina stessa di Pla- tone. E da questo fatto trae partito lo. Schaarschmidt per addurre novella prova contro l’ autenticità del So- fista. Se il dialogo fosse di Platone, come mai.egli par- lerebbe di una sua antica dottrina con l’ironia amara e pun- gente che ivi s'adopera? Ma dello stesso argomento si serve Zeller non per infirmare il dialogo, anzi per dimostrare. che l’allusione debba riferirsi non alla dottrina platonica, bensì alla megarica; imperocchè, esclusa la platonica, non si conosce altra scuola se non la megarica, che abbia par- lato delle idee, come principii delle cose. (Quest argomen- tazione di Zeller rompe contro una difficoltà gravissima, che è la precisa testimonianza di Cicerone, il quale dice dei Megarici « id bonum solum esse dicebant quod esset unum et simile et idem semper » ') testimonianza confermata an- che da Diogene Laerzio *) e resa credibile dall'origine sto- rica di questa dottrina, la quale, come è noto, è una tra- sformazione della dottrina socratica fatta nell’ interesse del puro eleatismo. Per ritenere, non ostante queste testimo- nianze e probabilità, che il passo platonico si riferisca ai Megarici, bisognerebbe concedere allo Zeller un' ipotesi sussidiaria, vale a dire che gli Eleatici nel combattere il materialismo antisocratico si sieno serviti della dottrina “delle forme ideali, e che in seguito abbian ridotto tutte queste forme all’unica suprema del Bene. Comunque stia la cosa, se anche Platone in quel passo sì riferisce ai Megarici, egli è certo che la sua antica dottrina non si CIUDERVO molto da quella che combatte 5 Ac. Il. 19. 129. 2) II. 106. oùroc iv tè dyadàv san moddoîc ivipari xa)odpevov are uiv yàp ppévacw, drè de SFeòv, xat &ilore vovv xal Td dorrrà, 4 nel Sofista. Non solo gli eiduv giler, ma anche lui stesso un tempo credeva che le idee fossero immobili , e sot- tratte a quella eterna vicenda di distruzione e rigene- razione in cui sta la vita, e sempre eguali a sè mede- sime. Il passo del Fedone che riportiamo in nota è molto esplicito '). Anche qui dunque c’è un'opposizione tra la antica e la nuova dottrina platonica. Sccondo l'antica le idee, come opposte alle cose sensibili, doveano accogliere predicati affatto contraddittori a quelli, che convengono alle cose , e se queste, travolte dal flusso perenne, nascono e muoiono con infaticata vicenda, quelle sono sempre eguali a sè medesime, e come gli Dei di Epicuro, beate della loro immobilità. Ma d'altra parte le idee non sono semplicemente i paradimmi delle cose, anzi le forze vive, che producono nel sensibile quell’ordine ed armonia, di cui esso è capace. Di qui non potendo venir considerate come inerti, all’ intuizione puramente ontologica deve so- stituirsi una dinamica. E così nel Sofista il concetto dell'essere si trasforma, e l'essere non è più la sostanza immobile, ma tutto ciò che ha la potenza di produrre un” effetto quale che sia ?). Certo questo nuovo concetto non è scevro di difficoltà, ma neanco il primo ne andava esente; perchè secondo l’intuizione ontologica le idee, come inerti, non potrebhero aver neanche la virtù di trasfondersi in parte alle cose sensibili. Di qui il rimprovero di Aristo- tele che alle idee manchi la causa efficiente 3). Egli è ben vero che Platone nel Timeo ripone questa causa motrice in Dio, il quale, ispirandosi nelle eterne idee, trae dalla 4) Fedone 78 D. # de avriv inaorov, è tor, povosidàe dv aùrò rat abitò, v9aitws xa xatà taurà Fysr vat oùdi mor ovdapi oùdapie &À- Motway ovdepiai evdéygera:; 2) V. Capitolo precedente, pag.-11 nota 2°, 3) Met. I. 9. 991, 42 materia eterna un mondo fatto a simiglianza di quelle; ma lasciamo da banda che questa esposizione è così mitica, che mal si potrebbe dire ove cessi la rappresentazione, e dove cominci la schietta speculazione; non è pure inconce- pibile che mentre si dice esser le idee il vero e solo reale che stia da sè, si ammetta poi un altro essere, che abbia una realtà diversa ed una potenza maggiore di quella delle idee medesime? (Questo Dio non sarà lui stesso una idea, e la suprema, come a dire il Sommo Bene? La dottrina dunque ontologica delle idee mena di certo a gravi difficoltà, ma non minori son quelle che suscita la dottrina dinamica. Secondo quest’ ultima le idee sono forze o principii efficienti; ma in tal caso non potrebbero essere più staccate del mondo, come esige la teorica stabilita. Queste incertezze e difficoltà spiegano benissimo l’oscillazione del pensiero platonico. Riassumiamo. Il Sofista è autentico. I passi di Aristo- tele non possono riferirsi ad altro dialogo. Gli argomenti contro l'autenticità, ricavati dal contenuto, in parte non ten- gono, ed in parte più che dimostrare la falsità del dialogo, servono a provare piuttosto una successiva trasformazione della dottrina platonica. In che consista questa trasforma- zione, e quali sieno le ragioni che la promossero, esami- neremo più tardi, quando avremo esposto il contenuto ed assicurata l'autenticità del Filebo e del Parmenide. CAPITOLO III. ESPOSIZIONE DEL FILEBO. L’intendimento del Filebo è di provare che il sommo bene non s’ abbia a porre nè nel piacere, nè nella sola saggezza, ma in siffatto intreccio dell’uno e dell'altra, che questa predomini su quello. Degli interlocutori del dialogo Protarco e Filebo tolgono a somme bene la voluttà, So- crate la saggezza, intesa in un largo senso !). La disputa ferveva già pria che incominciasse il nostro ‘dialogo, e Filebo vigorosamente incalzato da Socrate, perdutosi d'a- nimo , avea lasciato il suo posto all'amico Protarco. Ed a costui Socrate rivolge una dimanda in apparenza molto semplice, se cioè ei creda che ci sieno dei piaceri opposti; ovvero se il piacere, che prova l’uomo temperante, po- niamo, si confonda con quelli dell’ intemperante, e il pia- cere, che trae lo stolto dalla sua ignoranza, sia tutt’ uno con quello, che al saggio deriva dalla scienza. Protarco per tema, che nella dimanda si nasconda un' insidia, risponde risolutamente di no; imperocchè , egli dice, per quanto i piaceri, di cui parlate, sieno prodotti da cause diverse, pure hanno tutti la stessa natura, e son tutti piaceri ad un modo. Questa risposta, per salvare l’unità del genere, negava le opposizioni, che possono intervenire nella specie. E Socrate, rilevato opportunamente questo errore, osserva che non solo il piacere, ma benanco la scienza possa rompersi in alcune specie opposte fra loro, (come a dire scienze spe- 4) Tò ppovsîv, xal tò vosîv xa tò pepvioda: xod tà covrisv aù Euyyevi, Sebav t'dpdthv naî &InIets Voqpiopods. Fil. 11 B. d 44 culative e scienze pratiche); il ehe egli, se domandato, non avrebbe esitato a constatare, essendo convinto non cor- rere per questo alcun pericolo l’unità della scienza stessa. E da questa considerazione particolare, levandosi a più alto cielo, Socrate osserva essere tale la natura meravi- gliosa dell'uno, di accogliere anche nel suo seno i molti, il che non accade solo nel mondo sensibile, ove è am- messo da tuttij ma benanco nel regno delle idee '). Quì le. dispute sono più gravi, perchè alcuni meftono in dub- bio l’esistenza stessa di queste monadi ideali; altri diman- dano come possa accadere, che queste monadi, non am- mettendo in sè nè nascita nè morte, sì conservino pure sempre identiche a sè stesse ?). Altri infine dubitano se queste monadi debbano dividersi o moltiplicarsi, quando. penetrano nel mondo sensibile, ovvero se abbiano a con- servare la loro unità, sebbene escano di sè stesse; il quale ultimo partito sembra assurdo, perchè l’identica cosa dovrebbe essere ad un tempo ed in sè ed in molti 5). Checchè ne sia di tali duo questo è certo, che il rapporto dell'uno e dei molti s' incontra dappertutto 4), ed il giovane, quando per la prima volta lo scopre, sì crede in possesso di un tesoro, e non si stanca di sottoporre ogni cosa a questo processo di scomposizione nelle molte - 1) 14 C. 5) Il'senso di questo passo sarà forse questo, che la mede- simezza della sostanza si riveli in mezzo alle continue muta- zioni. Così io riconosco la mia identità personale dal sentirmi uno attraverso la vicenda dei miei pensieri, o desiderî. 3) 15 B. si twas Tel rorautas civar povidas Urodapavaw anti odaac. sita roq «ù rastac, piav iudotav ovaav del Tùv aUThY xRè pie yfuest prr'6- Medpoy npoadexopévar, ops sivar BeBarbrata piav taimv perà di covr iv toîg ‘“pepvopévore al xoù Gmelpore sica deoraspivav xoù To))k peyovviaey Fe- zéov, sid 0inv avTthv avtic goupis, d dh ravtov aduvatestarov palvorr'kv, taù- mò nel du au'tv ivi ite nat oddeic Yipverda., 4) 15 D. Postate » 1% x 45 parti e di ricomposizione nell'unità del tutto, e non ri- sparmia nè i suoi parenti, nè gli amici, e non solo gli uo- mini esamina a tal guisa, ma gli esserì tutti quanti. Gli antichi, che valevano meglio di noi, come più vicini agli Dei, dicevano parimenti ogni cosa esser composta di uno e di molti, ed accogliere in sè il finito e l'infinito. E questo processo di determinare prima l’idea nella sua unità e poi le infinite specie in essa racchiuse, sì chiama la dialettica, prezioso regalo fatto agli uomini dagli Dei, ed apportato col fuoco da qualche Promoteo '). Ma quando si studierà bene la dialettica, si rileverà questo: che ciò che dicesi l’ infinito, o la moltiplicità , nonchè disordinata , è anzi sottoposta a leggi fisse numeriche. Così ad esempio il suono che esce dalla nostra bocca è uno, (vale a dire è sempre suono) ma non sì rompe pure in una varietà, che a prima giunta sembra infinita? Eppure questa infinita va- rietà si riadduce a pochi suoni elementari, ì quali si distin- suono in tre serie, le vocali, le consonanti e le mute. E dal diverso intreccio di questi elementi nasce poi la prodigiosa varietà delle sillabe, e delle parole. Non v' ha una legge in questi aggruppamenti ? Non sappiamo che le consonanti non possano pronunziarsi se non accoppiate colle vocali? Stabilita l’unità, è d’uopo adunque determi- nare le relazioni numeriche, prima di saltare a piè pari alla moltiplicità infinita ?). Seguendo questo metodo, noi possiamo convenientemente dividere il piacere nelle sue specie, e studiare se corra fra queste qualche opposizione. Ma per il problema che ci occupa non occorre neppure questo; chè basta solo mettere a raffronto il concetto del sommo bene con quello del “ A Bey ud slo pr dio... modày ix Bey ippipa dà rivos MO paSiot due pavotdrà rin mupt. 16 C.. | 2) 7 B—18 D. 46 piacere e della saggezza per argomentare le loro discre- panze. E qui s' apre una serie di osservazioni psicologi- che acute ed ingegnose, che pel volgere di tanti secoli non han perduto ancora la nativa freschezza ed origina- lità. Il sommo bene dev’ essere tale che basti a sè mede- simo, vale a dire che, ottenuto questo, l'animo vi si acqueti e non desideri altro. Il piacere ha forse questi caralteri? Il piacere, divulso dalla saggezza, basta a sè medesimo? Non pare, perchè, intormentite le potenze conoscitive, non potremmo apprezzare i piaceri stessi del momento, nè ri- cordarci dei passati, nè congetturar nulla sullo avvenire. Saremmo in tal modo condannati a vivere la vita di quei molluschi, che non si svolgono mai dalla conchiglia, a cui sono attaccati. Ma d'altra parte neanche la saggezza, per sè sola, non sarebbe il sommo bene , perchè la vita spesa nell’ acquisto delle conoscenze, destituita di ogni diletto, arida, e non rinfrescata dal più leggiero soffio di sentimento, non è certo desiderabile '). ll sommo bene dunque non può stare nè nel piacere nè nella saggezza, perchè nessuno dei due basta a sè medesimo, anzr |’ uno deve compiersi nell'altro. Ma in questo intreccio a quale dei due spetta il primo posto? E se nè il piacere nè la saggezza hanno vinto il primo premio, a chi dei due ha poi da conferirsi il secondo? Ecco un'altra ricerca, alla quale non ci potremo mettere con speranza di buon successo, se prima non converremo sul valore di alcuni concetti, che occorreranno di frequente nella disputa. Questi concetti sono l’ infinito, il finito, la mescolanza di entrambi e la causa di questa mescolanza *), non occorrendo ‘ per ora trattare della separazione e della sua causa. L' ine 4) 21 E. Td raparav arnadàc (tiv)... oùdérepos è Pilos... aiperòs. 2) Tò pv areipov .. tò di ripac... tò di dupoîv tovrow iv ti Guppuoyé- per... the Fouplbiwe airia 23 CU. 4 finito non ha termine '). Le variazioni quantitative che intervengono nel caldo e nel freddo, nel più e nel meno, non possono aver limite, tornando impossibile che si per- venga a tal grado, che la nostra mente non possa rappre- sentarsene uno superiore, e così di seguito. Il finito come l'opposto dell’ infinito, accoglie in sè un termine, il quale serve a ridurre l' infinita varietà, e a circoscriverla se- condo una certa misura. Per esempio il doppio, l’eguale non possono accogliere se non una serie determinata di numeri e non più. ll terzo concetto, vale a dire quello, che risulta dal contemperare il finito e l'infinito, è ciò che dicesi misura, armonia; la quale per fermo produce nell’or- ganismo la salute, nei suoni l'accordo, nella natura la vi- cenda costante delle stagioni, nelle cose la bellezza e. la forza, e nell'anima la virtù ?). In altre parole l’ infinito è la ‘vafietà innumerevole, il finito è il numero determinato, la misura è la limitazione, apportata dal numero, in quella varietà disordinata. Così 1 mutamenti metereologici sareb- bero innumerevoli, ma nell'ordine della natura si succedono secondo una legge fisica, che è quella delle quattro stagioni. In altre parole l'infinito qui è rappresentato dai fenomeni metereologici, il finito dal numero quattro, l'ordine dal corso delle stagioni. Ma come. è possibile che 1’ infinito venga circoscritto per via del numero in una data misura? Il passaggio del disordine all’ ordine non presuppone una causa efficiente? Questa causa, che ricorda il demiurgo del Timeo, è il quarto concetto del Filebo. Stabilite queste definizioni preliminari, torniamo ora a discutere la quistione intorno al primato della saggezza 1) La dimostrazione del testo è un giuoco di parole 24 B. egevoptvas yAp Tedeviie nai avrò tetsdeurizerov. Accogliendo un termine cesserebbe (cioè non sarebbe più infinito). 2) 24 A —26 D. 48 sul piacere '). Non c’ è alcun dubbio che il piacere e il dolore appartengano al genere infinito, perchè non si può dare un piacere o dolore determinato, che non possa im- maginarsi un altro più intenso; e per tal guisa se il pia- cere fosse limitato, non sarebbe il sommo, vale a dire tale che non se ne dia uno maggiore. Dite lo stesso del do- lore. La ragione all’ incontro mostra una natura affatto op- ‘ posta al piacere, perchè non solo essa è compiuta in sè stessa, ed in tal senso finita ?); ma è altresì il principio di qualunque compiutezza. Anche qui, come nel Timeo, la ra- gione o le idee, investendo il mondo sensibile, recano ad ordine ciò che prima era disordinato. Epperò la ragione, 0 le idee appartengono al quarto genere, o all’ cirie *). Ma il piacere (una al dolore) può essere studiato nella 4) In questo punto Platone osserva che la vita beata, risul- tando dall’innesto della saggezza col piacere, appartiene al 3° genere, cioè al misto (27 D. xa pipoc y aùròv picopev siva où tpitov ivovs.) Questa determinazione non è senza diffitoltà. Im- -perocchè in tal guisa anche il sommo bene appartiene al ge- nere misto. Ma il Bene è anch'esso un'idea, anzi secondo la Repubblica, è la massima delle idee. Ora le idee, o la ragio- ne, come vedremo, non appartengono al terzo, bensì al quarto genere, cioè all’atria. Del resto una volta per tutte dobbiamo notare che queste determinazioni non sono tanto rigorose, che una analisi minuta non vi scopra molte incertezze. Così per dirne una, il répas, come ha dimostrato Zeller, non può essere che il numero. E Platone stesso più sopra ha notato, che tra l’ uno e l’infinito tramezza il numero. Ma il numero stesso, es- sendo nè più nè meno un molteplice limitato , circoscritto, apparterrebbe al terzo genere, eioè al genere misto. Di qui la linea che separa il répa; dalla fvpptÉ non è nettamente lrac- ciata. 2) È quasi inutile di avvertire, che qui i termini infinito e finito sono tolti nel senso pitagorico d' indeterminato od incom- piuto, e di perfetto o chiuso in sè medesimo. L'infinito quindi è l'elemento ribelle, cattivo, o che altro dir si voglia, ed il suo opposto è il finito; il rovescio, in una parola, di quello chie in- tendiamo noì moderni. 3) 30 D. dri vovs dert yivovs roù mavruv alciov deydvros riv cerrdpan. 49. sua sede, nella genesi, nel fine a cui tende, e da tutti questi aspetti svelerà ancor più chiaramente la sua oppo- sizione al bene. E prima di tutto, quali sono. gli esseri che vanno sottoposti al piacere e al dolore? Per fermo gli animali, i quali, al pari degli altri esseri, risultano così sag- giamente contemperati di finito ed infinito, che la salvezza della loro vita è tutta raccomandata a siffatto equilibrio. Supponiamo che l' equilibrio si guasti o per eccesso o per difetto, ed: ecco spuntare il dolore. Supponiamo all’ incon- tro che per poco si ristauri, ed ecco al dolore sottentrare il piacere. Così la vuotezza che si avverte nella fame; l’'ar- sura, che sì esperimenta nella sete; il congelamento dei li- quidi organici prodotto ‘dal freddo; la disgregazione degli ele- menti vitali, portata dal caldo, sono tutte condizioni dannose all'economia animale, che si avvertono con. uno speciale senso di dolore. Riparate le perdite, ed eliminate queste cause di mal essere, proviamo all’ incontro un vivace. com- piacimento '). Il dolore dunque ed il piacere, come sì racco- glie da questa discussione, sì avvicendano continuamente, ed al cessare dell'uno spunta l’altro e viceversa, o come dice -Secrate nel Fedone, sembrano due gemelli, saldati insieme pei loro vertici ?). Questo stesso intreccio di piacere e di dolore si nasconde negli altri fenomeni psichichi, che noi addimandiamo de- siderio, il quale, ove si aggiunga la fede nella sua prossima soddisfazione, sì tramuta in isperanza; se all'incontro vi s'in- nesti il dubbio, si converte in timore. Nello stato di deside-. 1) 31 B— 32 B. Platone aggiunge che la sede del piacere o del dolore, cioè l'essere, ncl quale si originano appartiene al 3° genere o genere misto. Ma si badi bene che nè il pia- cere stesso ‘nè il dolore ir; questo caso sono annoverati nel ge-. nere misto, ma solo quell’armonia, dal cui (urbamento o re- stauro nascono ì sentimenti dolorosi o piacevoli. 2) domep du ud xopupîis cumpptrw du'divre, 50 rio noi proviamo un sentimento determinato, il quale vor- remmo facesse luogo al suo opposto. Così siamo affamati e desideriamo il cibo; siamo in forzato riposo e desideriamo il movimento. Il desiderio è dunque tutto proprio dell’ani- ma, alla quale viene riaddotto dalla fida memoria l’oggetto dei suoì voti; ed è molto inesatto che si attribuisca al corpo questo stato di tensione, comecchè il corpo sia travagliato dal dolore presente, e nulla sappia del piacere futuro. Da queste considerazioni si raccoglie, essere il desiderio uno stato misto di piacere e di dolore, dolore per la sensazione presente che ci travaglia, piacere per la speranza di libe- rarcene !). Solo quando la speranza vien meno , il dolore s'aggiunge al dolore e si raddoppia. Questa serie di piaceri e di dolori, che accompagnano l’aspettazione di un evento futuro, e il ricordo di sensa- zioni passate, soggiace a tutte le incertezze dell'opinione. Quante speranze fallaci, e quanti vani timori! Non tutti i piaceri adunque sono veri, ed avvene buona parte di bu- giardi , cui provoca una falsa opinione. Nel che Protarco non può convenire, perchè il piacere è sempre vero, se- condo lui; sebbene l'opinione, che lo suscita, possa fallire. E Socrate, a meglio ribattere il suo oppositore, allarga la tesi, e sostiene che tutti i piaceri e dolori, non solo quelli che proviamo nel desiderio, talvolta mentiscono. Egli non sa capacitarsi come Protarco resista a questa verità. L'opinione resta pur sempre opinione, o vera o falsa che sia; ed al- l' istesso modo il piacere ed il dolore non vengono meno, perchè ora lo stimiamo verace ed ora bugiardo ?). Ma di 1) 36 B. 2) Platone qui non avverte, che la novità o la falsità ram- polla sempre da un giudizio, come lo provano gli stessi esem- pi, che Egli adduce in seguito. La sensazione nuda non è per fermo nè vera nè falsa. Solo nel riferire la sensazione al- l'oggetto che la provoca, o nel paragonarla ad altre sensazioni, può aver luogo il vero o il falso, 51 fallaci apparenze nell'estimazione dei piaceri o dei dolori ce ne sono pareechie. La prima nasce dalla natura stbésh del piabere, il quale, essendo infinito, atnmette innumerevoli gradazioni; epperò nel confronto, che noi sogliamo fare dei piaceri e dei doloti, spesso c’ inganniamo di grosso, sti- mando ad esempio i piaceri più intensi dei dolori, quando non sono; e per lo eontrario 1 dolori più deboli e dam- meno dei piaceri. Ci aceade quello che interviene a chi, guardando da lontano, non sappia apprezzare le distanze relative degli oggetti 1). Ed un'altra ragione di errore la troviamo in questo, che talvolta si scambia per un piacere vero e reale quello che non è. In verità se ik piacere e il dolore nascono, come dicemmo, dalla vicenda di vuoto e di pieno, che in- terviene nel nostro organismo; quando s’arrestasse ogni mo- vimento d'entrata o di uscita, non dovremo provare sen- sazioni di sorta. Egli è vero che non pochi sostengono intervenire nél nostro organismo un flusso continuo, nè darsi mai riposo alcuno. Ma ammessa pure per provata que- st' opinione, si potrà sempre affermare che quando questi movimenti non siano bruschi, ed il passaggio da uno stato ih un altro si faccia dolcemente, noi non l’avvertiamo, e non proviamo per conseguenza nè piaceri nè dolori. Coloro che sostengono il contrario son gioco ‘di un’ illusione, e danno corpo alle ombre, stimandò piacere vero il prodotto della loro fantasia ®). E tanta è naturale ed invincibile quest’ illusione, che v'ha filosofi i quali stimano che essa sia la sorgente non di alcuni, ma di tutti i piaceri; perchè i piaceri per costoro non sono nulla di positivo, ma sola- . mente la cessazione del dolore *). 4) 37 A-42 C. 2) 42 D 44 B. 3) Qui Platone chiaramente allude ai Cinici, che egli re- 4 99 E se noi non possiamo accettare del tutto questa dot- trina, pure v'ha nei loro ragionamenti molta parte di ve- rità, e lo studio di questa ci farà sempreppiù addentrare nella natura intima dei piaceri. In fondo essi sostengono essere il piacere qualcosa di relativo. I piaceri più intensi sono per noi quelli che in realtà non sono tali, comecchè con- tengano molta parte di dolori. Infatti i maggiori piaceri ci sembra di provarli, quando i nostrì desideri sono più acuti, come a dire nella malattia, nell’intemperanza, nell’ incom- posto agitarsi delle passioni. In queste condizioni il piacere c' investe così da tutte parti, da non poter resistere al suo impeto, e ci par quasi morire di voluttà. Ma questo stato violento d'agitazione, così contrario a quell’armonia, a cui è affidata la nostra salvezza, non è forse una con- dizione dolorosa? Dunque noi stimiamo il piacere di tanto più grande, di quanto più copiosa è la parte di dolore che in esso cape. E qui torna nuovamente a proposito l'osser- vazione che facemmo prima, essere il piacere più o meno misto di dolore. Epperò ci piacciono grandemente le rap- presentazioni drammatiche, o tragiche o comiche che sieno. Così ad esempio nelle commedie il ridicolo nasce dallo spettacolo d’impotenza e d’ inferiorità, in cui si trova colui, che si teneva falsamente per dappiù degli altri in forza, in bellezza, od in sapienza. Ma rallegrarsi dei mali altrui non deriva forse da un nascosto sentimento d'invidia? E l'invidia non è un sentimento doloroso, al pari delle altre malvage passioni? Nella commedia dunque il piacere s’ intreccia col dolore, e così dite della maggior parte dei piaceri umani '). puia come una specie di vati, i quali mossi dal disprezzo del pia- cere, non del tutto colpiscono nel segno; ma hanno un giusto presentimento della natura del piacere, o per meglio dire della sua relatività. V. 44 B-D, 1) 44 C-50 E, 53 In una parola il piacere è tutt'altro del bene, non solo perchè infinito, ma benanco perchè sempre mescolato al dolore, e sottoposto fatalmente all’ inganno. Ma Platone, dicevamo, non acconsente del tutto alla sen- tenza cinica, che il piacere stia solo nella negazione del dolore. E parimenti ei non crede che tutti ì piaceri sieno ‘ così mescolati di dolore, come quelli che ahbiamo ricor- dati; ma ammette eziandio una serie di piaceri puri, come quelli che hanno per oggetto i colori splendidi, le belle figure, gli odori soavi e delicati, i suoni armonici, in una parola tutti quei piaceri, la cui privazione non è dolorosa, ed in cui non si accoglie una parte qualsiasi di dolore '). Aggiungete a questi piaceri quelli che derivano al sapiente dall’amorosa ricerca e dalla felice conquista del vero, e così avrete una serie di piaceri, che non appartengono, come gli altri, al genere infinito, ma, essendo normali e compiuti in sè medesimi, vanno nella categoria del finito. Questi piaceri a ragione la debbono vincere sugli altri, i quali per fermo sono più intensi, ma meno puri dei primi. E chi voglia conoscere, ad esempio, la bianchezza, non deve cercare una gran copia di bianco, ma quella pur piccola quantità di bianco, la quale non abbia in sè nessuna mi- stura di estraneo colore ?). Questi soli piaceri possono accordarsi, come vedremo, colla saggezza. Gli altri, essendo infiniti, e soventi bu-. giardi e misti di gran parte di dolore, hanno proprio i ca- ratteri opposti della saggezza, e per questa proprietà ap- punto si distruggono da sè stessi. Inoltre sono sempre re- lativi, perchè nòn hanno lo scopo in sè medesimi. E non possono averlo, se nascono da quella vicenda di pienezza 1) xad doa cas ivdeta; duuodhrovs fyovra xad dlirove tds TINnpecss aiaSntàs nol hdetac mapadideci 51. B. 2) 53 B. dk e di vuoto che descrivemmo, ed appartengono quindi alla categoria del fenomeno, -di ciò che si fa di continuo, e il cui fine non è in sè medesimo, ma nell'essere verso cui tende. Il piacere adunque, non essendo scopo a sè mede- simp, non che confondersi col bene, lo ha al di fuori di sè, come. termine a cui s' indirizza !). Ma basti del piacere. Sottomettiamo. ora alla stessa ana- lisi, l’altro termine della quistione la saggezza o la scienza. Le scienze sì dividono in due classi, l'una che ha per og- getto le arti meccaniche, Valtra la coltura e l'educazione. Nella prima serie trovi, siffatta mescolanza di puro e d’ im- puro, che se si separano da tutte le arti quella del contare pesare e. misurare, ben poco resta di scientifico in tutte le rimanenti. Esse sì affidano piuttosto . alla perizia pratica, all’abito, ed alla verisimiglianza. Così per dirne una, nella musica c'è poco di certo; perchè le regole che governano gli accordi sono dovute piuttosto, alla consuetudine, che a uno studio scientifico. E lo. stesso dite della medicina, della agricoltura e della navigazione. Più certa di queste arti è l'architettura, che nella costruzione delle case, dei vascelli e simili segue le norme fornite dalla matematica, ed ado- pera strumenti precisi. In queste arti, che superano le prime per precisione, domina sovrana. la matematica, dicui una parte. principale è l'aritmetica. L'aritmetica anche essa, s può dividere in due, quella che non. sa astrarre il numero dalla cosa contata, e, quella che. studia il numero. astratto, in sè, medesimo. Quest'aritmetica scientifica la vince sull'altra, come il piacere puro conta, dappiù del misto. Ma ùna scienza, più pura ancora dell’aritmetica, è la dialettica, che ha per oggetto ciò che è realmente, e la cui natura resta sempre uguale a sè medesima. Questa scienza vince tutte le. altre, che intendono a ciò che muta di continup; 1) B4 D, 55 imperocchè come potrebbero queste pervenire a conoscenze ferme e sicure, se il loro oggetto stesso non ha punto sta- bilità? Ma la scienza, per pura che sia, neanche basta a sè medesima. E sebbene Platone anche qui, come nel princi- pio del dialogo, sorvoli su questo punto seabreso, pure è certo per lui, che la scienza austera e disdegnosa di qual- siasi piacere, per moderato. e puro che sia, non può co- stituire la vita perfetta. Forse, o ch'io m*inganno, dob- biamo connettere questi passi 60 D e 21. E del Filebo col discorso che Socrate racconta essergli stato tenuto da Diotima, secondo il quale l’ Eros o l’amore della bellezza è la via per cui ci solleviamo alla contemplazione delle eterne idee e della scienza '). Epperò non ogni affetto, e con, esso non ogni sentimento è condannevole; che anzi, tolto questo, sarebbe forse distrutta la molla più potente, che ci sollevi alla scienza. Ma non tutti i piaceri possono essere disposati alla sag- gezza, bensì quelli che non vi ripugnano del tutto, vo’ dire 1 piaceri puri ed onesti, o tali che per nessuna guisa tur- bino la serenità dell'anima. In quanto alle scienze ei giova conoscerle tutte; perchè le conoscenze divine non bastereb- bero, se non, venissero disposate alle umane #). Tale è il connubio del piacere e della saggezza, nel quale è, riposto il sommo Bene. E come esso è fatto secondo ordine e mi- sura, il bene ci si mostra quale bellezza; e dacchè la parte principale. in questo intreccio spetta alla verità, il bene ci sì svela eziandio come vero. Il bene adunque. non si può cogliere sotto una sola idea, ma ha tre facce la bellegza, la misura e la verità. E da tutti questi tre aspetta ci si. b-csni più affine alla dai e meno al piacere. 1) Convito 9206 B. e. «egg.. Fedro, 250, Dì e segg 2) Socrate fa passare senza risposta. questa. ardila frise di Protarco yeotav didSeow fipuiv, © Zaxpareg, év taîs Isla olaav pévoy imeriuas Myopev 62 B. CAPITOLO IV. DISCUSSIONE SULL’ AUTENTICITÀ DEL FILE BO Il Filebo sia per il suo valore intrinseco, come per la testimonianza di Aristotele, era tenuto per autentico dai critici. Ma lo Schaarschmidt, seguendo impavido nella via di demolizione, non fa grazia neanche a questo dialogo, la cui autenticità trarrebbe seco quella del Parmenide. Per questa ragione egli mette molto studio nell’ indebolire la testimonianza aristotelica, e nel trarre dal contenuto del dialogo una ricca copia di argomenti contro la sua auten- ticità. Anche qui noi discuteremo le ragioni dello Schaar- schmidt, e lo studio che faremo ci varrà come di com- mentario al dialogo che abbiamo esposto. Il passo, nel quale secondo tutti 1 critici Aristotele chiara- mente fa menzione del Filebo è tolto dal decimo libro della Morale a Nicomaco e suona così: « Di tale argomento si vale Platone per dimostrare non essere il piacere il sommo bene. Imperocchè la vita piacevole, accompagnata dalla saggez- za, è da preferirsi a quella che ne è scompagnata. Se dunque la mescolanza (del piacere e della saggezza) è da preferire, il piacere non sarà il sommo bene, perchè que- sto è tale, che sì debba preferire da per sè, senza altra aggiunta »'. Questo passo, come si vede corrisponde a capello col 20 E, 22 A, 60 B e 61 A del Filebo, di cui noi facemmo un fedele riassunto nella pagina 46 1) Totovrw dh A6yo xa Matw avaipsi dti cda far dovrà tayaSiv ai- perestepov qip civar tv Ndvs Biov pera ppoviosts n yewpic, si di rò puxtòv xpeittov, ox sivar tiv adoviv rayadòv oùdevòc Ap mpooteStvros abrò cà- gadòv aiperasespor qiveocda. Eth. nic. X. 2. 1172. 57 della nostra esposizione. (Qui aggiungiamo che anche le pa- role di cui si serve Aristotele sono tolte di peso da Pla- tone, così il pexròv «psirrov consuona col 22 A del Filebo AÎpetòse... #5 appotv cuppigdete xovvòs Yevipevos (Bios). Nello stesso capitolo vengono ricordate altre sentenze, che non sì tro- vano in altri dialoghi, dal Filebo in fuori. « Così, con- tinua Aristotele, alcuni dicono essere fl piacere infinito, perchè capace di accogliere il più e il meno, mentre il bene è determinato (compiuto in sè medesimo) » '). E più appresso: « dicono che il dolore nasca dalla mancanza ed il piacere all’ incontro dalla pienezza di ciò che se- condo natura si desidera, e che l'uno e l'altro sieno affezioni del corpo » ?). (Queste coincidenze sono così precise, da non capir dub- bio che Aristotele abbia sott'occhio il Filebo, tanto più che nel primo passo si serve del presente &vazei, tempo, che che ei suole adoperare per lo più, quando cita non di me- moria, ma secondo il testo dell’ autore. Che cosa esco- gita lo Schaarschmidt per sfuggire alle strette di que- sta argomentazione? Egli ammette che nel primo passo Aristotele parli di Platone, ammette che nello scrivere . quelle parole avesse davanti a sè un’opera platonica; ma quest'opera non sarebbe il Filebo; bensi il Protagora ?). Nel Protagora 353 C. 358 C e sopratutto 357 A. 358. A. C. Platone ammette che la vita piacevole (#90 Bios) sia il 4) Aégovar di tò pi» ayadòv piadar, Thv d'Ndovhv &bprator siva, dr diyeta tò pa)lov val tò frrov X. 2. 10 3. Riscontra il 27 E. del Filebo ndora xa. Num mipas dyerov, © tiv tò pallide te xat frroy dsyo- pévwv fot6v; 2) Loc. cit. Kak Afyovar di tiv piv Abrrav ivderav tod xerà qua siva, thv d'idoviv avaràipwew Riscontra Filebo 341 B— 32 B. per es. 341 E. ret pév rrov New rad Ivrn.'Edwdh di ripe quyvopém made ndova. z 3) Op. cit. p. 280-81, 58 sommo bene sotto la condizione che v' intervenga arche la sigm € l'ircoriza (cioè quell’ accorgimento pratico che Aristotele chiama ppévrow). Aristotele adunque, argomen- tando da questo passo del Protagora, in cui il piacere da per sè non basta, ma dev'essere governato dal sapere, perchè sia bene, potè dire che per Platone il bene fosse una me- scolanza. Questa parola « mescolanza » non c'è punto nel Protagora. Ma che importa? Aristotele suole sempre tra- durre col suo proprio linguaggio i pensieri platoniei, ed anche quì segue il suo costume antico. In tutto questo ragionamento dello Schaarsechmidt non solo la parte ipotetica e congetturale supera di gran lunga la positiva; ima quel poco di positivo, che c’ è, vale a dire il riferirsi a un luogo determinato del Protagora, è affatto fuor di posto. Lo Schaarschmidt non si fa scrupolo di sforzare il testo e d’interpetrarlo a rovescio, per accomo- darlo ai suoi fini. Che cosa dice Platone nel luogo citato del Protagora? Se il piacevole, ei dice, è il bene, nessuno al mundo che sappia o stimi altre cose migliori di quelle che fa o può, nessuno, dico, farà queste ultime, mentre può le migliori '). Da questo passo si raccoglie non avere quì Platone in mente di distinguere il piacere della sag- gezza, e di ricercare se ciascuno di essì o isolato o fuso coll’altro costituisca il sommo bene. Nulla di tutto questo ?). Egli accetta in questo dialogo la posizione che il bene stia nel piacere o diremo meglio nell’utilità; e da questa trae 4) Protag. 358 B. ci &pa tò ndù dyaSév torw, oddale obr'eidoy ob- m'olbpevor Ldda Pe)cico sivac n & morsi red Tovarà, imarà rowsi xira, diòv tà Be)zio, 2) V. Zeller Philosophie der Griechen II. 399. Sul modo co- me si debba intendere la dottrina etica del Protagora, e sul rapporto di essa colla moralé posteriore di Platone, vedi le a- cute osservazioni del Bonghi nel Proemio a questo dialogo Gap. IX. e sopratutto p. 247 e segg. 59 la conseguenza, che ciascuno nell’operare segue ciò che. ‘gli promette maggior copia di piacere, o meno di dolore. Ci possiamo benissimo ingannare in questo giudizio, ma l’error nostro è dovuto tutto all’ ignoranza; imperocchè se alla nostra mente apparisse chiaro il danno futuro, sarebbe impossibile che il piacere presente cì trascinasse e vincesse. Platone in questo luogo è ancora fido alle due massime socratiche « che il bene si converta coll’utile e « che nes- suno sia volontariamente malvagio » massime che Ari- stotele avrebbe discusse di proposito, se in quel capitolo della morale nicomachea avesse accennato al Protagora. La citazione dunque di Aristotele si riferisce senza alcun dubbio al Filebo, la cui autenticità è posta fuor di con- troversia. Ma a noi giova esaminare ancora la serie delle Fagioni in contrario, attinte dalla forma e dal contenuto del dialogo. i E prima di tutto lo Schleiermacher ha già notato che al Filebo manchi l’unità e la vivacità drammatica, propria di altri dialoghi platonici. Socrate anche qui ‘non adopera la sua arte majeutica e la fina ironia, per il cui magistero dalle contraddizioni dell’ interlocutore balza fuori il con- cetto della cosa '). Qui la tesi da dimostrare è posta net- tamente fin dal principio del dialogo, e in tutto il corso di esso vien dimostrata per diverse vie col sussieguo pedan- tesco del maestro che espone. Al Socrate del Filebo manca la spigliatezza di chi non avendo in serbo la verità già tro- vata, sì metta amorosamente alla sua ricerca. E quel calore, quell’entusiasmo, che in tutte le discussioni etiche non vien mai meno al Socrate platonico, qui fa lupgo ad una calma e freddezza non usate. Così pure gli oppositori di Socrate, che dovrebbero essere edonici convinti, oppongono alle ar- gomentazioni socratiche una fiacca resistenza. Filebo già 1) Quest’ osservazione già facemmo a proposito del Sofista. #» 60 dalla bella prima è posto fuori combattimento, ed è molto strano che s' infitoli da lui un dialogo che quasi senipre è sostenuto da Protarco. Ed anche costui si appaga delle ragioni più deboli, che si adducono contro la sua dottrina 1) e sostiene opinioni che ripugnano all'edonismo, come a dire che la conoscenza di sè medesimo sia il primo dovere del saggio (19 C) e che la ragione governi il mondo (28 E). E non solo le persone del dialogo sono sbiadite, ma il dialogo stesso procede lento ed impacciato; a volte s' ar- resta senza costrutto, a volte ritorna senza necessità su ar- gomenti già discussi. Nè la proposizione principale, che il sommo bene stia nell’intreccio della sapienza col piacere, è punto dimostrata; imperocchè se è provato da una parte che il piacere solo non hasti a sè medesimo, non c’è nes- suna ragione che conforti l’altra parte della tesi, vale a dire che la sapienza, spogliata dall’allettamento del piacere, non sia da preferire. Che anzi nel Filebo stesso è accettata apertamente l'opinione contraria: Chi preferisce, dice So- crate, la vita della ragione e della saggezza, non si attri- sta o si rallegra nè di poco nè di molto, e questa fra tutte, è la vita più divina, nè è verisimile che gli Dei provino la gioja o il suo contrario *). Questa opinione è una giusta conseguenza della dottrina sostenuta nel Filebo, che la ragione sia regina del Cielo e della Terra (28 c.) perchè Ella, causa di tutte le cose, (&iria) non può man- care di nulla, epperò ha da bastare a sè medesima, ed 4) Così ad esempio Socrate pretende di dimostrare che il piacere non poss scompagnarsi dalla scienza, perchè senza questa s'ignora perfino se si goda 0 no, nè si conserva la me- moria dei piaceri passati, nè ci è dato di contare sui futuri (sì yaipers 3 uh yalpes, vee dimov cs &yvoriv 2A B). E Protarco non s' oppone ad un argomento di tal fatta, che Schaarschmidt chiama infantile Op. cit. p. 293. 9) 33 B. Ù GI essere tutt'uno col sommo Bene. Ma per quanto ragione- vole sia l'elogio fatto nel 33 B della vita senza passioni, pure è in aperta contraddizione colla tesi stessa, che si vuol sostenere nel dialogo '). E non è questa la sola contraddizione che si nota nel- l'opera. Verso la fine di essa a pag. 66 A è detto: « Tu annunzierai dappertutto non essere il piacere nè il primo, nè il secondo bene, e doversi porre in sua vece la misura, l'ammisurato, l’opportuno e tutte quelle cose che s’' ha da tenere abbiano sortita una natura immortale. Il secondo bene è l’armionico, il bello, il compiuto, quello che basta a - sè medesimo e simili » ?). Ma come? ciò che hasta a sè medesimo non è dunque il sommo Bene, come s'era detto in tutto il dialogo? come mai non gli spetta più il primo posto, ma il secondo? E che cosa si sostituisce in sua vece? Fra gli altri un elemento estraneo, il suipiov, del quale non si era tenuto conto in tutto il dialogo, in cui la disputa s'agitava solo tra la saggezza e il piacere, E come c'entra questo concetto, e con qual dritto usurpa il luogo del yo0? ln una parola l’ infelice pittura degl’ interlocutori, lo andamento impacciato ed inestetico del dialogo, la frivolità di alcuni ragionamenti, ed infine le contraddizioni mani- feste tra varie sentenze, tutto questo tradisce una mano inesperta, che non è certamente quella di Platone. Molte di queste accuse sono giuste, ed un recente tra- duttore di Platone il Jowett le nota anche lui nell’ intro- duzione a questo dialogo. « In esso, osserva il Jowett, lo « stile incomincia ad alterarsi, e l'elemento drammatico e 1) Op. cit. p. 285. 2) GIA mpiorov pév o ttepì puerpov vai tà pérpiov nel nelkpiov nad trevi” ò- mica taaita yph vopitev Thv dîdiov Mpioda puo. Atittpov uhv mepì cò cdpperpoy xa nadòv xai Tò rèiebv xai inavdi ol avi’ ordoa tic pevedis aù ravene torto. 66 A. o 62 « poetico cede il luogo allo speculativo e filosofico. Nello « svolgimento delle idee astratte c'è un gran progresso « sul Protagora e sul Fedro, e forse anche sulla Repub- « blica. Ma v'è una corrispondente diminuzione di abi- « lità artistica, una mancanza di caratteri nelle persone, un andamento faticoso nel dialogo, e una certa confu- sione ed incompiutezza nel disegno. » Ma che cosa in- ferisce il Jowett dalle stesse premesse dello Schaarschmidt? Null’altro se non che il Filebo debba essere uno degli scritti posteriori di Platone, che peri difetti di stile spesso cio richiama a mente le Leggi !). Con che non intendiamo di accettare tutte le osserva- zioni dello Schaarschmidt, alcune delle quali ci sembrano o infondate affatto, o almeno non poco esagerate. Ed in quanto alla contraddizione del 33 B colla tesi stessa del dialogo, notiamo che Platone lì a disegno parla della vita divina, cioè della vita del puro spirito, il quale, essendo tutt’ uno colla ragione, è scevro affatto da passioni. Ma «questa vita apatica non può essere quella dell'anima umana, in cui com'è noto alla parte razionale si collega 1l Sspog e l'irmSvpnrezio 8). Certamente Platone, come ha dimostrato lo Zeller 3), mosso dall’ alto disprezzo, in cui tiene il sen- sibile, sembra talvolta inchino ad una morale ascetica, il cui supremo sforzo stia nello svellere dalle radici 'le pas- sioni, o buone o cattive che sieno. Ed a questa tendenza si riferisce quel passo del Teeteto, in cui è detto che non potendo la vita terrestre essere mai spoglia affatto dalla malvagità , occorre fuggire il più presto che si possa dal. mondo di quaggiù, coll’ avvicinarci alla Divinità me- z R 1) The dialogues of Plato translated into English by B. Jo- wett. Oxford 18741. III. 129. | 2) Tim. 69 D. 70 C. Rep. 436 A, Fedro 246. 3) Op. cit. II. 736 e segg. 63 diante le opere buone e sante '). Così pure nel Fedone più volte è ripetuto esser riposta l'attività del Filosofo nel liberarsi al possibile dal corpo, il quale offre infiniti osta- coli alla serena contemplazione delle eterne idee. E que- sto stacco violento dal sensibile è una morte anticipata, o meglio una preparazione al morire, talchè il filosofo con lieto animo udrà lo scocco dell’ora suprema, come annun- zio della vicina liberazione *). Secondo questa intuizione il corpo è un carcere), come dicevasi nei misteri orfici, e le anime imprigionate in esso sono come gl’ infelici de- scritti nel VII. della Repubblica, condannati a vivere nel fondo di una caverna, ove non penetra se non il pallido riflesso di una incerta luce. Con questa morale ascetica, il cui indirizzo è affatto negativo, va certamente di accordo il 33 B del nostro dialogo, e se l’etica platonica sì ridu- cesse al filosofico resvéva del Fedone, sarebbe in quel passo espresso il pensiero intimo di Platone, al quale il resto del dialogo manifestamente ripugnerebbe. Ma questo in- dirizzo etico, che ebbe poi tanta importanza nel Medio Evo, se pure trasparisce da qualche dialogo platonico, non è svolto in tutta la sua conseguenza così che escluda un altro indirizzo affatto opposto, il quale risponde meglio alle intui- zioni elleniche. Platone, che ha un senso così squisito del- l’arte, non poteva al certo condannare del tutto il corpo, 4) Teet. 176 A. dò rad rapaoda yph dvitid’ iusice peiyev du td- gesta. 2) Fed. 67 D. odxotv yedotov dv cin devdpa raparssvatov9 iauràv èv tw Biw dt èopperdro èvra toù teSvAVAI IT Civ, xkrsii’, ixovros aùrod toù- tov, Gyavantetv; 3) Vedi nel Cratilo 400 B. l'etimologia di c@oua da oèpa; se non che è da notare che anche nel Cratilo è addotta pure una etimologia, che accenna ad un indirizzo etico affatto diverso. In questo secondo senso il corpo vien detto cwpa perchè l’ a- nima per esso si manifesta xa dior ad tovrò ‘ompalva dv onpolva h puyà. bi | ove pur traspare luminosamente l’eterna bellezza‘). Qui per fermo si riproduce quell’oscillazione, che, secondo lo avviso dei critici, è il vizio intrinseco del Platonismo. Da una parte le idee sono la vera e sola realtà, e tutto ciò che loro si oppone, la materia, il sensibile è come se non fosse, è il non ente; d'altra parte in questa materia così tenebrosa, in questo caos così disordinato penetra il rag- gio della suprema idealità, e tutta la illumina e la trasfi- ura ?). E nella Psicologia interviene lo stesso giuoco della Ideologia. Anche qui l’ opposizione tra la parte razionale e la concupiscibile dell’ anima 8) è così profonda, che mentre l'una è principio di ogni vita, non nasce nè perr- sce, o come dice Fedone, preesiste e sopravvive al corpa, e, in una parola, è 1’ Entità che più si raccosta alla natura delle eterne idee *); l’altra all’ incontro , fornita di earat- teri affatto opposti, è mortale, ed agitata da affetti vio- lenti e fatali; dapprima il piacere, esca del male; in seguito il dolore, cagione della fuga del bene; dappoi l’audacia ed il timore improvvidi consiglieri; per giunta la passione sorda al saggio consiglio; finalmente le speranze, facile giuoco di ogni sensazione irragionevole e dell'amore di tutte - le 4) vuv dè xaddoc pévav Tasrav foye poîpav, der' txpartorarov tivo sal spaspustatov. Fedro 250 D. 2) II mondo è secondo il Timeo 29 A xalliatos tiv yeyovérav e nel 92 C. vien chiamato un Dio sensibile Seds alodatà, pérn- aotos xal &protos x&iliatis te xal Telecitatos YHyovev. 3) Nel Fedra 246 B. questa dottrina è miticamente epressa nel famoso cocchio tratto dai due cavalli uno generoso e pie- ghevole al freno della ragione, l’altro indomito e ribelle. Se la ragione è l’auriga che governa il cocchio, i due cavalli non possono essere altro se non il Ivpog e l'ervinpnrizòv del Timeo. Se non che nel Fedro questa tripartizione dell'anima è origi- naria, e precede la caduta nel monda sensibile (anzi le inter forni del cavallo indocile sono la causa della caduta). Nel imeo per cantrario la scissura nell'anima accade dopo la erea- zione del corpo sensibile. — ‘ 4) V, Fedro 245 D. Fed, 80 B. Pa cose !). Ma ciò non pertanto Platone sente il bisogno di femperaré questa cruda opposizione, clie minaccia di rovi- nare l’unità dell'anima, e tra le due parti così disparate intérpone una terza anima, la quale, benchè straleiata dal tronto della parte mortale, pure è molto migliore della concupiscenza. Essa rappresenta la forza ed il coraggio, che obbedendo alla ragione, d'accordo con lei reprime energicamente gl’ indocili desideri, e li subordina a quella ?). La concupiscenza dunque non è del tutto male, ma ridotta nei suoi giusti confini dall'energia del Supòg, a ob- bedisce ai voleri della ragione. È non tutte le passioni sono malvage, chè anzi v' ha una parte non piccola di essé, la quale nonchè inipedire, rafforza 11 governo della ragione. E comé poteva essere altrimenti, se nel Fedro e nel Con- vito è descritto l’ Eros come via alla contemplazione del- l'idea? E quel sacro furore ché investe l'animo integro, e gl’ ispira l'altà poesia, è forse condannevole? 3) E l’uomo virtuoso ha forse da reprimere il sentimento confuso di timoré è di venerazione, che tutta l’anima comprende al- l’ aspetto della bellezza? *). È evidente che Platone, met- ‘ tendosi per questa via, non possa condannare del tutto il piacere. E nella migliore delle sue opere, nella Repubblica, non solo non lo condanna, ma ne distingue accuratamente tre specie in conformità della tripartizione dell'anima. An- che l'intelligenza ha i suoi propri piaceri non meno del 1) Tim. 69 D. Tò Swrdr, demà xel dvayuzia èv tavtw nadtipara Fyov.. hdovav... bras... Tappos nat péBov, &ppove EupBovi ecc. 2) Tim. 70 A. Tò uetigov oUv Ts puxiis vd patag xad Svpoi fu po- sta nel posto vicino alla testa îva tod Adyov xerixoov dv xowvn per'è- xsivov Bia tò tiv emuduuic € xatbygor Yyévos. 3) Fedro 245 A. Tpimm d'amò Movzv xatoxwyi te xa pavia \afobra dimalizs val ABatov fuyùv. ipspovoa na ixBanyevovra ratà Todas xat tiv &\nv moimow pupia tov mala Épya xocpovoa tovs Eri yuyvofré vous mardavet. 4) Ho appena bisogno di ricordare la poctica pittura del Fe- dro 250 D-252 C. 66 Svuie e dell’ ireSvpnriviv 4). E il piacere dell’ intelligenza vale più degli altri, imperocchè tale vien giudicato dal filosofo, il quale se ne intende più di tutti, come que- gli che oltre ai piaceri intellettivi, conosce benanco per l'esperienza della prima età quelli del coraggio, e del de-. siderio ?). A questa serve di rincalzo un'altra ragione af- fatto identica a quella del Filebo, vò dire che il piacere, il quale prepara accompagna e segue la scienza, è più vero più puro, vale a dire, non mescolato di dolori; non così 1 piaceri che toccano all’uomo iracondo e concupiscente 3). Finalmente se il piacere nasce, come è detto anche nel Filebo, dal senso della pienezza, l’anima riempita della ve- rità, deve provare la massima gioia, perchè accoglie in sè il vero essere *). Secondo questi concetti alla morale asce- tica deve sottentrare la morale estetica, per la quale il sommo bene non sta più nell’estirpare gli affetti, ma nel saperli moderare e temperare così, che giovino alla vita dell'anima razionale. Per tal guisa Platone si conserva greco, e conforme alle antiche tradizioni, pone il fonda- . mento della sua morale nel pérpov, che è bellezza, bontà ed armonia. Qual meraviglia dunque che nel Filebo si metta in rilievo la grande importanza del contemperamento della saggezza col piacere, e si ponga in seconda linea la vita spoglia di qualunque sentimento, come propria soltanto degli Dei? Qui'non si tratta del bene in generale, ma del bene umano, e così com’ è costituito l’uomo, la dot- 4) Rep. IX 581 :C. Atà rara dh rad dvipewrov Mfyopev tà rpérra TpUITÀ Yéva siva, pridcopov, priéveror, prioxepdts... xa Sdoviv dh rpia stdn vroxeipeavov Îv ixdoro Tovrwv. 2) Rep. 582 B. rw pév yàp &vayem qeisodar riv drépav ix madòg apiaptvo. - 3) Rep. 583 B. oùdè revadaFic sor rd riv Ziiwy Ndovh idv Tdi taod qpovipov audi radapà. ) 4) Rep, 585 E. 67 trina del Filebo non solo riponde a tutto l'ideale ellenico, ma è una anticipata protesta contro le esagerazioni dello ascetismo miedievale. | In questo cielo della morale platonica la stella polare dicemmo essere la misura. E così s'intende il perchè Platone metta a capo di tutti i beni il pérpeov 0 meglio il rep pérpov». (Qui, secondo la giusta interpetrazione dello Zeller, Platone parla della misura in un senso astratto, o vortemmo dir meglio dell’ idea della misura 1). La misura concreta, attuata è la bellezza, che, essendo un tutto com- piuto, basta a sè medesima. A lei spetta il secondo posto quando è messa in rapporto alla idea astratta; ma non per- ciò cessa di essere la prima realtà, o meglio la realtà più perfetta. Il resto non sono se non gli elementi di essa, che staccati ed isolati non bastano a loro medesimi, vale a dire da una parte la sapienza e le scienze, da un'altra i piaceri. Forse si potrà rimproverare a Platone di avere se- parato il pérpiov dal espperpo», come se quello fosse una entità a sè. Senonchè essendo questo l'abito della mente platonica , di obbietlivare le idee astratte, ed introdurre - divisioni e suddivisioni dialettiche che non corrispondono alla realtà delle cose, non parrà strano che anche quì ri- peta lo stesso processo adoperato negli altri dialoghi. Ma ciò non importa che Platone si contraddica, imperocchè il mettere come primo fra tutti il pérgtov è una conseguenza necessaria dell’ intuizione se vogliamo dire, estetica, che domina in questo dialogo. Esaminiamo orale opposizioni, che lo Schaarschmidt scorge tra il Filebo e gli altri dialoghi di Platone. Abbiamo di sopra dimostrato molte sentenze del Filebo riscontrarsi nella Repubblica; ma non ostante queste coincidenze lo Schaarschmidt sostiene esservi tra la teorica del piacere 4) Zeller op. cit. lI. 740. 68 esposta nella Repubblica e quella del Filebo una diffe- renza radicale. Chè per l’autore del Filebo il piacere è es- senzialmente sensibile, mentre nella Repubblica oltre ai piaceri sensibili si ammettono anche altri puramente intel- lettivi. Nè il Filebo conosce nè può conoscere quella di- stinzione del piacere nelle sue specie, che abbiamo trovato nella Repubblica. Finalmente la Repubblica mette col Bene 1] piacere innocuo, che porta con sè la gioia, il che certa- mente si riferisce al piacere intelettivo; l’autore del Filebo invece parla di piaceri non mescolati dal dolore, che seguono sempre alle percezioni sensibili e vengono posti nella quinta classe, come un appendice al bene, affatto separati dalla ppivnets si Nessuna di queste accuse a parer mio è vera. Nel Fi- lebo non si dividono i piaceri in tre specie, come nella Repubblica; ma chi ci assicura che Platone non abbia ces- sato d’ insistere su quella tripartizione dell'anima, che nel modo come vien riferita nel Timeo, e ricordata nella Re- pubblica, trova un ostacolo invincibile nell'unità della co- scienza? Se il Filebo, come noi tenteremo di dimostrare, è una delle ultime opere di Platone, non è punto inverisi- mile che questi si sia accorto della contraddizione intima della propria dottrina; il che per fermo è solo un’ ipotesi. È fuor di dubbio però che il concetto del piacere puro del ‘Filebo non sia diverso da quello della Repubblica; chè anche per la Repubblica il piacere puro è tale da non essere nè preceduto nè seguito da dolori, e come esempio di questi piaceri vengono addotti quelli dell’odorato, che non sotten- trano a dolori procedenti, e cessando, non lasciano dietro loro tristezza di sorta ?). Ed è detto forse diversamente nel Filebo? Che non tutti i piaceri puri sieno piaceri sen- 1) Op. cit. p, 34617. 2) tepl tds dopòàs hdovas. alta yàp... Abrrav ovdeniav ratalsirmovaw, Rep. 584 B. v. Filebo 51 E. 69 sibili è giusto, ma nel Filebo non vien punto negato. Ed io non mi so capacitare come lo Schaarschmidt pronunzi così severo giudizio contro il preteso autore del Filebo, il quale trova la sorgente dei piaceri puri nell’intuizione delle belle figure, e delle forme armoniche, nei puri colori, nelle voci limpide e soavi!). Ma da quando in qua i piaceri este- tici non vanno più annoverati tra le più pure gioie dello spirito? L’ultima ragione poi dello Schaarschmidt non tiene più dalle precedenti, e lo abbiamo già dimostrato prima. Nel Filebo non si attribuisce alla gpévners nè il primo nè il secondo posto, perchè quelli spettano al sommo Bene che è armonia, misura considerata prima nella forma astratta, e poi nella sua concretezza. Del resto questa piccola dif- ferenza riguarda la classificazione , cui Platone non suole mai tenere rigorosamente; ma siffatti motivi non sono di certo valevoli a scalzare l’autenticità di un dialogo. Il nostro critico trae un altro argomento di dubbio dal libro VI. della Repubblica. Ivi è posto lo stesso problema del Filebo, se il bene stia nel piacere, come stima il volgo, ovvero nella intelligenza, come pare ad ingegni più sottili. Ma non è fatta grazia nè agli uni nè agli altri. Gli ultimi si ravvolgono piacevolmente in un circolo, perchè mentre dicono riporsi il bene nell’intelligenza, non sanno poi de- terminare l’ intelligenza se non come facoltà di cogliere il bene, cosicchè il Bene sta nella conoscenza del Bene *). Ma neanche gli altri s' appongono meglio, imperocchè, come sarà dimostrato largamente nel Filebo, ‘sebbene ripongano il bene nel piacere, pure non possono negare che vi sieno piaceri cattivi, e per tal guisa ammettono piaceri che sono ad un tempo hene e male). Come è risoluta quest’ anti- 1) oynpariv xdd)oc.... ypipara dh Toutov TÙv TUTOv Eyovra... ti TOY qdoyyiv tas dstas nad Vaprpàs 541. C-E. 2) cx féygovar dellar, fire ppimars, dil'avapudbora telestisvtes Thv to aya3o0 piva. Rep. 505 B. 3) bpoloyitv &yadà siva. xoù varà ravrà. Rep. 505 D. 70 nomia? Coll’ ammettere il Bene, quale realtà a' sè, anzi come la prima realtà che è il principio ad un tempo del- l'essere e del conoscere, ed abbiamo già ricordato che il Bene in questo luogo vien paragonato al Sole, che colla sua luce riscalda , vivifica ed illumina tutte le cose 1). E per questo rispetto s'ha a dire: l’intelligenza non è il bene, come l'occhio non è il Sole; ma bensì è figlia del Bene; impe- rocchè questa luce divina irraggiando l’anima accende in essa la fiaccola della sapienza, Parimenti il Bene non è il piacere, ma l’anima nostra nella contemplazione di quello, sì sente compresa dalla gioja pura e serena, cui nessun dolore offusca. Quest’ obbiettivismo della Repubblica sparisce nel Filebo, “ove il bene non è più la realtà vera, fonte suprema del- l'essere e del conoscere, ma invece la vita beata, che sta nell’ intreccio dell’intelligenza e del piacere. Nel Filebo adunque il Bene è inteso in un senso subbiettivo, è un abito ?) o, com'è detto più tardi, un possesso dell’ anima ?) che crea il vivere felice. All’oggettivismo platonico sotten- tra qui il subbiettivismo socratico-aristotelico, ma non così risolutamente che l’autore non ondeggi tra le due op- poste determinazioni. E molti interpetri non a torto, se- condo lo stesso Schaarschmidt, in quel repì pérpov che è al di sopra della stessa bellezza hanno scorto la traccia del Bene obbiettivo della Repubblica *). Traccia confusa, ed indegna di Platone, il quale non avrebbe certamente posto questo Bene astratto come il primo anello di quella serie di mo- menti che costituisce la vita felice 5). 1) rèv Hiov roîs bpowpévore où puévor, otpar, TAV toò dépérda. divapey mapeyev pioss, @Ia na thv qiveow nai abinv xat Tpophv, où yiverw adù- tv èvra. Rép. 509 B. 2)... sEw puyîie nad Diiderw.... tav duvaptvas &vIpesmors maori rv Btov evdatpova mapéyew Fil. 14 D. Su 3) «tipa... mpivcov pév mp rep pérpov ecc. 66 A, 4) Schaarschmidt op. cit. p. 317. 5) Ivi 348. 74 Io non negherò che nel Filebo predomini l'aspetto sub- biettivo del Bene, anzi sono d'accordo collo Zeller che nel passo 66 A, da noi riferito, il rep.pérpov non si debba in- tendere per il Bene obbiettivo '). A dire il vero, la frase « tutte quelle cose che godono di una natura immortale » 3) sembra che accenni non pure -all’idea del Bene obbiettivo, considerate, ma benanco a tutte le idee, come sospetta il Brandis. Ma questa interpetrazione non è corretta, perchè questo primo bene non ha un carattere meno subbiettivo degli altri, essendo anche lui un xripe, un possesso dello | spirito. Ma se è innegabile la differenza tra la Repubblica e il Filebo, se quella considera il bene obbiettivo e questo il subbiettivo, s' ha forse da toglier di mezzo uno dei dialo- ghi in grazia dell'altro? Le due ricerche non sì escludono, ma l’una può benissimo servire di complemento all’altra. Ed alcuni sostengono con molti argomenti che il Filebo non sia se non una ricerca preliminare, la quale vien poi compiuta nella Repubblica; perchè nel Filebo si dimostra, il Bene dell’uomo stare nell’accordo della conoscenza col piace- re, alla quale ricerca tien dietro poi l’altra della Repubblica, che penetrando più addentro nel concetto della conoscenza, la determina come l’intuizione della suprema Realtà, la quale non è altro se non il sommo Bene, vale a dire il principio e il termine a cui tendono tutte le cose. Ma sì potrebbe con un diverso ragionamento invertire questa relazione dicendo che nella Repubblica sì tagli corto a tutte le difficoltà etiche, col porre il Bene come principio della vita e del conoscere, come il Sole.intelligibile. Senonchè una metafora non basta certamente ad eliminare le difficoltà, 4) Zeller II. 740 contro Trendelenburg.De Philebi consilio 16. Hermann Index lect. Marb. 1837. Plat. Phil, 690 seg. Steges Plat. stud. II. 59 Brandis II. a. 490. 2) xaì rdvd'indoa madre xpù vopitem tav dldiav spin das, pio. 66 A. 72 e Platone lo sente, e mette in bocca di Socrate parole di scusa e di sconforto '). ()uesti vorrebbe troncare la con- troversia, chè non gli sfugge potersi il rimprovero, che fa ai xopyoripo:s, ritorcere contro di lui. Imperocchè se anche il bene sommo è la suprema realtà, il Sole o che altro vogliate, di questa realtà non conosciamo se non quello che a noi si svela. Dunque per noi il sommo bene è ciò che illumina l'intelligenza, e l'intelligenza è la virtù de- sta nell'anima nostra dal sommo Bene; onde il formalismo non è vinto, e l’artificio della forma nasconde, ma non toglie la vuotezza del concetto. Qual meraviglia che eol- l'andare degli anni Platone, accortosi della vanità dei suoi sforzi, sì sia messo per altra via, e invece di cercare il Bene nelle ragioni inesplorate dell’oltrecielo, abbia sti- mato meglio di sorprenderlo nel fondo stesso dello spirito? Questa seconda opinione, sulla quale del resto torneremo a suo tempo, ha in suo favore un fatto innegabile, che nel Filebo alla dottrina delle idee non si presti più quella invitta fede che si mostra negli altri dialoghi; il che è un certo indizio che le dottrine metafisiche di Platone si sieno alquanto modificate. E lo Schaarschmidt da questa circo- stanza sa trarre in favore della sua tesi nuovi argomenti, che meritano per fermo uno studio accurato. Nel Filebo è svolta una dottrina metafisica, la quale, secondo lo Schaarschmidt, non s’ accorda pienamente colla teorica delle idee. Le entità metafisiche del Filebo, come abbiamo notato nell'esposizione, sono quattro l’ infinito, il finito, la mescolanza di entrambi, e la causa di questa me- scolanza ?). Tre di queste entità furono paragonate alle tre del Timeo, voglio dire l’ente, lo spazio e la genera- 41) Rep. VI. 506 C. doxst cor dixacov siva: rep @v res pù cide, Mya» og sidéra; Ivi D. @i'arro pù oby ol6; r'inoua, rpodvpovpevos dè doya- povor qiiwra dplfcw. 2) Vedi la nostra esposizione pag. 46 nota. 2.2 j 73 zione '). È indubitato che lo spazio 0 xspe è la materia prima ricettacolo e nutrice delle cose generate, la quale è invi- sibile e non ha nessuna forma; dacchè le accoglie tutte ?); epperò non può essere percepita 'dai sensi, ma da una ra- gione hastarda, che non è certamente identica a quella che coglie le eterne idee *). Questa materia adunque non è determinata; onde benissimo le corrisponde l'&recpov del Filebo. E se questa materia prima è l'&rsepov, la Yivegis OV- vero quella materia seconda, in cui l’ indeterminatezza originaria incomincia a scomparire, e già come in nube si distinguono gli elementi dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, si può dire una mescolanza di determinato 4) ... dv te xaù yeipav val yiveaw civar, tpia tpiyî, xaè molo oùpavòv quista. Tim. 52 D. 2) maans siva yevicewe Vrrodeynv avrhv ctov rHiwmv. Tim. 49 A. d)- \' aubparov etddc ti xad Apoppov, tavdeyic, peralauBavov dì droputara my toù vontod xal duoalwrétatov aùUtò Isyovres où wevaéueda 51 A. Mi per- metta il lettore di ricordare di sfuggita che nel Timeo ci sono due materie, una immobile, amorfa, invisibile, e paragonabile solo all’infinito spazio (48. E — 53 C); l’altra molto analoga . al caos dei poeti antichi, la quale è visibile, si muove di con- tinuo ma disordinatamente 30 A. wav d0ov Tv dpardv... ovy novyiay deyov, AIid vivovpisvov rinppelog xaò araxtws. Se si debbono ammettere secondo Platone due materie una prima ed una seconda, ov- vero se questa seconda non sia che una rappresentazione mi- tica, come ne ha tante nel Timeo , è di certo una quistione molto difficile a risolvere. Le ragioni che adduce lo Zeller in sostegno della seconda ipotesi non mi sembrano molto de- cisive. A] passo riferito nella nota precedente viene data dallo Zeller una interpetrazione alquanto sforzata. Sotto la parola gia egli intende il mondo sensibile presente, e la frase xpiv oupavòv yevéeda. la interpetra non in un senso cronologico, ma come se Platone dicesse: le differenze tra queste tre entità so- no prima di ogni cosa, cioè eterne, ed immutevoli. Ma a me sembra questa interpetrazione alquanto arbitraria, perchè il passo inteso alla lettera dice chiaramente esservi prima della nascita del cielo tre realtà: l’ Ente, lo spazio o materia prima, e la generazione o materia seconda (V. Zeller II. 611). Ma co- munque si risolva la quistione, l'analogia tra il Filebo ed il Ti- meo non muta. 3) Voqiopo tiè vòdw... mpòs è dh ad dverporrolodpev Bierovres (52 B). n | & d’indeterminato, e corrisponde così alla mt del Fi- lebo '). L’é, del Timeo come è spiegato chiaramente nel 59 À, è appunto l idea (tò mata TAUTÀ sidoc Eyxov, dYiwvatoy xak dvesdeSpov), la quale, secondo la maggior parte degl’ interpetri corrisponderebbe al ripas del Filebo, perchè sono le idee appunto che apportano ordine misura e in quel caos con- fuso della materia primitiva. Ci resta un altro termine, l'aimia del Filebo, dî cui si potrebbe trovare il riscontro nel Dio del Timeo, il quale come esente, d' invidia, volle che il mondo gli rassomigliasse, epperò ridusse il caos pri- mitivo a quell’ordine, che ora ammiriamo ?). Questo in brevi parole è il riscontro che fecero parec- chi critici del Filebo col Timco, e lo Schaarschmidt non vuol negare esservi in quello parecchie tracce della cosmo- gonia di questo. Ma a suo avviso corre una grande dif- ferenza tra la entità del Timeo, che sono potenze reali, e quelle del Filebo, che hanno piuttosto l’aspetto di gene- rali categorie, che si possono applicare a diverse realtà. E nel Filebo stesso con una parola, che Schaarschmidt stima aristotelica, queste categorie sono chiamate Ten, vale a dire non entità concrete, ma conc etti astratti. E sia pure, rispondiamo noi, ma che cosa vietava a Platone di formu- lare più tardi una teorica metafisica, alla quale potessero bene accomodarsi le precedenti dottrine cosmogoniche? Una difficoltà molto più grave trova lo Schaarschmidt nell’ assimilazione del ripe; alle idee. Le idee platoniche, secondo la testimonianza di Aristotele, constavano, come 1 numeri pitagorici, di due elementi, liv e l’&retpov come pos- 4) Non tralascerò di notare che la gfver non potrebbe a ri- gore essere considerata come la pié dell’òv e del yeépa, perchè la yéveow esiste pria che abbia luogo l'intervento del demiurgo che stampa nella m3hwy le orme dell’è», o dell'idea. Ma colla interpetrazione data qui sopra nel testo l'analogia tra il Filebo e il Timeo ha maggior fondamento. 2) Tim. 30 A. 76 siam dunque dire che le idee sieno il mipes, mentre rac- chiudono in sè stesse l’ infinito? Potremmo dire che le idee vengano comprese nel genere misto, ma neanche questa opinione regge, perchè il genere misto è divenuto e le idee sono il principio del divenire. Non s'ha dunque da inferire che l’autore del Filebo abbia lasciato da banda la teorica delle idee, per cui non c' è posto in quell’astratta metafisica? Del resto l’autore del Filebo sebbene accenni alle idee, e le chiami le vere entità, semplici ed immu- tevoli, pure ei non le intende al modo di Platone, il quale non le avrebbe certamente dette ivatec e povàdes, perchè di nuovo le idee platoniche sono formate dall’iv e dalla gvac !). Della dottrina delle idee come numeri, e dal raccosta- mento della teorica di Platone a quella di Pitagora ci oc- cuperemo in seguito, e allora dimostreremo che il Filebo lungi dal contraddirvi, è scritto per lo appunto secondo questo indirizzo. In quanto poi ‘all’assimilazione del ripe colle idee, lo Schaarschmidt ha ben ragione, e prima di lui lo Zeller ?) con maggior copia di argomenti, avea rilevata questa difficoltà. I caratteri del répes mal rispondono a quelli delle idee. Platone dice espressamente: « ciò che « non accoglie queste determinazioni (il più o il meno) « ma bensì le contrarie, come a dire prima l’eguale e la « eguaglianza , poi il doppio, ed infine il rapporto di un « numerò ad un altro, di una misura ad un altra, tutto « questo, ben ragionando, lo dobbiamo riferire al répe; 3). Qui evidentemente non si parla d'altro se non di rapporti numerici determinati, il doppio, l’ eguale, il proporzionale, ove non è traccia alcuna dei caratteri costitutivi delle idee. D'altra parte nel 30 C. è detto: la sapienza o la ragione 1) Schaarschmidt op. cit. 297-98. 2) Zeller Plat. Stud. 48 segg. 3) Fil. 25 A. 76 esser la causa dell'ordine, che ammitiamo nel sucrederbi delle stagioni, dei mesi e degli anni!). Che cosa si deve intendere per questa ragione? Non è forse il mondo intel- ligibile -0 delle eterne idee? L'antica opinione, rinnovata recentemente dallo Stumpf, che Platone oltre alle idee am- metta un Dio personale, risponde certamente all'esposizione mitiea del Timeo, ma s'involge in difficoltà insuperabili. Ammesso il Dio personale, came si debbono intendere le idee? Non certo come pensieri divini, perchè in tal caso perdono l’obbiettività, la sostanzialità, il «aS’avrò, caratteri fondamentali su cui Platone ritorna infinite volte. E non sì potrebbero intendere neanche come realtà eterne, indi- pendenti dalla individualità divina, ed in cui l'eterna mente si affisi, come in un modello perfetto, perchè in tal caso nè Dio nè le idee esaurirebbero tutto l'essere, ma l'uno limiterebbe l° altro. E come si potrebbe ammettere al di fuori delle 1dee, che sono l’unica, la vera realtà, un' altra entità per alcuni rispetti più perfetta di loro? ?). Per la qual ragio- ne, essendo inconcepibile nel Platonismo un'entità divina separata dalle idee, l’aiz.ov non può riferirsi al Mitico dypiovptòc netio del Timeo (41 A) ma alle idee stesse, le quali, come nel Sofista, sono. tenute per le vere forze creatrici. Ma se le idee corrispondono all’atria, cosa s' ha da intendere per il répas? Noi sappiamo da Aristotele che Platone oltre al sensibile e alle idee, ammise come intermedie le specie matematiche, le quali differiscono dal sensibile perchè eterne ed immo- bili, differiscono dalle idee, perchè ciascuna di queste sta da sè, mentre le unità numeriche, simili tra loro, si som- 1) xad tu sr'avroîc eitia où pavin xocpoved te xaù auvtAttOvTa Eva Tous te xal Mmpas rat pivas, copia xa vovg deyopiw dinauérar'av. 30 C. e più appresso orti vods piv aitias fiv Euyyevne xal tovrov oyedòv tod yé- vovs (31 A). o 2) V. il capitolo 2.° del nostro lavoro. 99 mano per costiture i varî numeri !). Anche Platone, al pari di Pitagora, crede che tutto l'ordine del mondo sia determinato secondo relazioni humeriche fisse, e basti pro- varlo la divisione dell'anima del mondo fatta nel Timeo secondo le due progressioni, aritmetica l'una e geometrica l’altra, nelle quali s' inseriscono altri termini intermedi, perchè s’ ottenga una scala numerica eguale a quella Hei toni nella musica. (Queste - relazioni numeriche fisse cor- rispondono a capello alle ragioni del doppio, dell’eguale é del proporzionale che vedemmo costituire il contenuto del mipas. Non vi è dunque alcun dubbio che per il ripa; Pla- tone intenda le specie matematiche, ‘le quali per virtù delle idee, penetrando nell’ indeterminato della materia, vi appor- tano ordine ed armonia. Venuta meno l'assimilazione del répas &alle idee, cadono le difficoltà dello Schaarschmidt, e dalla sua critica resta solo dimostrato, esser l'antica teo- rica delle idee in qualche guisa indebolita, e sottoposta a grave dubbiezze. Riassumendo questa lunga discussione, diremo: che l’ au tenticità del Filebo è provata all'evidenza dalla testimo- manza aristotelica; che la forma del dialogo se è inferiore per forza drammatica e vivacità di stile ad altri dialoghi di Platone, trova però un riscontro ad esempio nelle Leggi, che anche lo Schaarschmidt tiene per autentiche. Ed in quanto al contenuto alcune dottrine non sono in’ oppoòsi- zione eon tuttò il sistema, ed altre si riferiscorio alle mo- dificazioni che più tardi Platone introdusse nelle sue teo- rie. Quali sono queste modificazioni? Per rispondere a què= std dimanda, ci occorre di esporre ed esaminare l’ultimo e più difficile dei dialoghi dialettici, il Parmenide. 4) Met. I. 6. 987. "Er di rap tà aicdntà rad tà cita tà pay parixà tiv kpaypdroy siva gnor perati. V. anche Met. UNI. f 995; VP: 1009; XP. 1, 1059; XIF. 6. 1080; XII. 9. 1085. 78 CAPITOLO V. ESPOSIZIONE DEL PARMENIDE. La differenza di forma tra il Sofista e il Filebo da una parte e il Parmenide dall’altra sta nell'essere i primi dia- loghi parlati, ed il secondo raccontato. Platone si vale molte volte dell’artifizio del racconto per descrivere le con- dizioni del luogo e del tempo, in cui accatle il dialogo e presentarci gl’interlocutori così che ne lasci indovinare qual- . che tratto di carattere. E come lo sfondo del quadro che deve. dare maggior risalto alla figura., Dal nostro dialogo sappiamo esser Cefalo da Clazomene così avido delle dispute filosofiche, che imbattutosi nei fratelli Glaucone ed Adi- mante, li prega di menarlo dal loro germano uterino An- tifone, affine d’intercedere presso di lui perchè racconti il dialogo, che un tempo ebbe luogo tra Parmenide Ze- none e Socrate. Antifone in verità non fu presente a quella disputa, ma ne avea inteso da Pitodoro un racconto fedele, che ora si fa a ripetere, sforzatovi dalle istanze dei fra- telli e di Cefalo. E non si lascia sfuggire l'occasione di darci con un rapido tocco la pittura di Parmenide, che sebbene grave di anni, pure conservava la nobiltà e bellezza propria delle grandi anime. Accompagnava Parmenide Ze- none, giovane di belle forme, e molto caro al vecchio Eleate. E giovanissimo del pari era Socrate, il quale non ostante la sua fresca età, veniva accolto tuttavia con molta benemerenza dai due famosi stranieri. Che Parmenide nella sua tarda età si sia recato in Atene, ed abbia disputato con Socrate ancor giovanetto, c’è atte- stato da Platone non solo in questo dialogo ma benanco # 79 nel Teeteto e nel Sofista '). Ed 1l fatto, come ha dimo- strato Schleiermacher, non ripugna alla cronologia. L’occa- sione di questa disputa fu porta dalle osservazioni fatte da Socrate a Zenone, non appena questi smise la lettura delle sue celebri argomentazioni contro il molteplice. So- crate nota, non senza un leggiero frizzo, che in fondo Zenone non faccia altro se non dimostrare per via indiretta quello, che Parmenide avea sostenuto direttamente. E Ze- none non nega essere stato questo il suo proposito, di com- battere colle stesse loro armi gli avversari della scuola eleatica e dimostrare che se la dottrina dell’ uno sembra ridicola e si ravvolge in contraddizioni, molto più ridicola, ed in più gravi contraddizioni sì ravvolga l’opinione co- mune, che crede nella realtà del molteplice. E sia pur vero, osserva Socrate, che guardando le cose sensibili da varî aspetti ora ci sembrino formare un unità, ora ci appari- scano molteplici. Ma questo fatto non è poi così meravi- glioso, come si crede. È stato notato da molti che Io, Socrate, in rapporto alle sei o sette persone, che mi cir- condano, sono una persona sola; ma ciò non toglie che per un altro rispetto in me s'accolga la molteplicità, e che ad esempio io abbia il lato destro ed il sinistro, la parte an- teriore e la posteriore, il disopra e.il disotto e così via. Il che torna a dire che Socrate in quanto partecipa della. idea dell'unità è uno, e in quanto partecipa di quella della molteplicità, è multiplo. Il che, ripeto, non è certo strano. Sarebbe strano davvero, se queste contraddizioni avessero luogo nelle idee stesse, come pur dice il Filebo, .e che l'uno fosse multiplo, ed il multiplo uno. Quest’ osservazione apre la via alla disputa tra Parme- nide e Socrate sull’esistenza delle idee, che forma tutta 1) Teet. 183 E. Soph. 2417 C. 80 la prima parte del dîalogo. E avanti tutto, osserva Pàr- menide, si possono ‘ammettere le idee in sè e separate, come a dire una idea ‘dell’uomo separata da noi e da tutti gli altri uomini!)? Quante difficoltà non si oppongono ‘a questa accezione? E prima di ogni altro v' ha solo le idee del giusto, del bello, del buono e simili, ovvero tante sono le idee per quante cose cadone sotto ai sensi? e dob- biamo annoverare tra le idee anche quelle del pelo, della melma, del sudiciume e di qualunque altra cosa, per vile ed ignobile che sia? ?) Socrate riconosce di essere atato per molto tempo incerto, è perplesso. Imperodehè da una parte se ogni concetto eorrisponde ad una idea, che esista da sè, si debbono ammettere le idee anche delle cose più vili, perchè anche di queste perveniamo a formarci un esatto coneetto. Dall'altra parte nel regno delle idee non ci do- vrebbe entrare se non quello che è perfetto, e sarebbe ve- ramente ridicolo ammettere nel mondo di là una esatta riproduziorie di tutte le storture e le miserie del mondo di qua. Epperò Socrate tiene solamente alle idee più ele- vate, e intorno a quelle soltanto s'affatica*). Vale a dire che invece di risolverla ei sì studia di séeansare la difficoltà; procedimento poco scientifico per: fermo, e che Parmenide scusa sélo' per l'inesperienza giovanile del suo interlocutore: Ma più grave è la difficoltà che segue. Se tutte le cose del:mondo in tanto si dicono belle, sante, e simili in quanto accolgono in sè la bellezza, e la santità, st può dimandare: F idea nel rinfrangersi nelle cose conserva }a sua unità, 4) 130 B. xa por sirè, avrà; aù odro dimpnoa. we \éye, gopie pv sida aùrà &rra, yopis di tà tovrav ab perfyovea;... . otov drxatov ri eidor aùrò ALÌ AÙTÒ ed xa)dod xa dyadob, xal ravrmv ai tiv coLoÙte»; 2):130 C. oîov Spi xa raid; xad pros fi &ilo re dripéraréy te xoù pavibrarov. 3) 4130 D. E ovvero si sniinuzzola în tanti frammenti; per quanti sonò gli esseri a cui s’ impartisce? Socrate naturalmente sostiene la persistenza dell’ unità, 6 per prova della sua opinione adduce, secondo il costume platonico, una immagine: La idea sì conserva sempre una, non esce mai da sè, sebbene sì sparpagli nel creato, a quel modo che il giorno sebbene ‘ risplenda sulle varie parti del mondo, è sempre uno ed identico a sè medesimo. E Parmenide, lodando il pietoso accorgimento del giovinetto , anche lui propone un’ altra immagine, che risponde press’ a poco alla prima; l’idea sarebbe come una tenda, che ripari molti uomini. Simili- tudine per similitudime par che l’ una valga l’ altra. Senon- chè or traspare mon esser punto sciolta la difficoltà, per- chè certamente ciascun uomo non è riparato da tutta la tenda, ma da quella parte che serve a coprir lui, e la ten- da, o il riparo totale si divide in tanti ripari, per quanti sono gli uomini che difende. Potremmo dire lo stesso del- l'idea? Ammettiamo che quando l’idea si sparpagli nelle cose sensibili, ciascuna di esse non l’accolga nella sua in- tegrità, ma ne goda un bricciolo solo? Si potrebbe dire, ad esempio, che le cose son grandi in quanto partecipano di un frammento di grandezza? Ma se le cose partecipano soltanto di un frammento di grandezza, si dovrebbe invero stimare non che siano grandi, anzi piccole. Dite lo stesso dell’ e- guaglianza e della piccolezza, e simili. Dovunque vi rivol- giate- incorrete nella difficoltà: come possa l’ idea restare una, se si sparpaglia nelle cose. E se l’idea si divide, le cose- non partecipano all'idea tutta; ma: a una frazione in- finitesima di essa !). | Soerate riconosce la gravità di quest' obbiezione, e non s'è ancora rifatto del suo stupore, che Parmenrde lo in- 4) 134 A. 82 veste con altra difficoltà. Ammettiamo pure che vi sia una idea della grandezza a sè, separata dalle cose grandi. Egli è indubitato che con quell’ idea queste cose avranno un che di comune; e così nasce una terza idea, il cui contenuto è appunto questo elemento identico. E di nuovo tra que- sta idea e la precedente ci sarà pure un rapporto di con- venienza, e nascerà una quarta idea, e poi una quinta, e per tal forma una sola idea si romperà in un numero in- finito '). Da questa stretta Socrate si argomenta di sfuggire col rifiutare le idee, come entità separate, le quali sarebbero in- vece i pensieri che non esistono altrove se non nell'anima *). Senonchè Parmenide non accetta questa modificazione, per- chè siccome tutte le cose partecipano dell’idee, se queste sono pensieri, anche quelle dovrebbero essere tali, e ne ver- rebbe l’ assurdo o che tutte le cose sien fornite di mente ovvero che pur essendo pensieri, non pensino *). E Socrate, battuto su questo punto, cerca un'altra via di sfuggita. Le idee si possono considerare come i mo- delli, alla cui somiglianza sono foggiate le cose. E come il modello non cessa di essere quello che è, se pur venga ritratto in mille copie, così l’idea non perde la sua unità quando le cose la riproducano il meglio che possono. Per tal guisa il nome di partecipazione non vuol dire altro se non rassomiglianza 4). Ma Parmenide non appagato di questa spiegazione ripete per la somiglianza lo stesso argomento 4) 132 B. xa oùxéin dh dv fxaorév co tiv cidav dora, dl arupa tò mio. 2) Prego il lettore di notar bene tutto questo passo 132 B-D. ph rov sldav tuaotov tovrmv vinpa, xal oùdapod aùri mpocian dyyiyvs- cia kiiod © év fuyais. 3) 132 C. #... ravra vosiv È voriuara dvra avinta sivar. 4) 132 D. sad è pedeiu ade toîs Aldo Yiperdat ad sidiv odx dida tu Y sixao3dfvar avrois. 83 che abbiamo esposto più sopra (V. nota 8.*) Se tra le idee e le cose corre un rapporto di somiglianza, si do- vrà ammettere una terza idea più generale nella quale l’ originale e le copie s’ unificano. E così risorge quel pro- cesso all’ infinito, che abbiamo pur ora battuto. E da no- tare altresì che questa teorica della rassomiglianza lascia intatte le idee come entità a sè e separate dalle cose. Con- tro le quali, oltre le difficoltà esposte sorge ora un’ altra, che tutte le vince. Se le idee sono in sè, si potrebbe so- stenere che noi non possiamo farle nostre 1) e conoscerle, se non per quello in cui le cose vi rassomigliano. Senonchè l'essenza dell’idee non sta certo nel rapporto che le annoda ai, simulacri e alle copie, ma in quello che corre tra loro stesse. Questa essenza adunque a noi sfuggirebbe del tutto; chè se noì potessimo arrivare alla conoscenza delle idee come entità a sè, possederemmo la scienza perfetta, la quale al più potrebbe essere il privilegio degli Dei c non degli uo- mini. Se non che gli Dei conoscendo le idee in sè , non potrebbero conoscere il sensibile, perchè come le idee sì conoscono in sè stesse, e non nel rapporto che hanno col sensibile, così il sensibile s1 deve conoscere per il rapporto che ha coll’ altro sensibile, non per quello che lo lega alle idee ?). Queste difficoltà, aggiunge Parmenide, minano le fonda- menta della teorica delle idee; ma frattanto, negate le idee, è impossibile la cognizione, la quale sta tutta nella deter- minazione del concetto delle cose, unico ed immanente ?). AI che Socrate resta confuso e non sa qual partito tenere. Ma Parmenide lo rinfranca, e lo ammonisce che tutte le dif- ficoltà intorno all’ idee .sien nate dal non essersi tenuto 4) 133 C. 2) 133 B-135 B. 3) 135 B. 84 un buon metodo nello studio di esse. Se vogliamo ce- noscerne l' intima natura, non dobbiamo sfuggire le sot» tili ricerche dialettiche , appaiano pure un fuor d' opera all’ occhio del volgo. E da questo punto incomincia la se- conda parte del Parmenide, la quale è legata colla prima più strettamente di quel che non fossera nel Fedro la di- seussione intorno al Rello, e quella sulla dialettica. Perchè ove nella prima parte sì espongono le difficoltà della teo- rica delle idee, come entità separate; nella seconda si stu- dia il metodo, che ben applicato conduce a determinare meglio la natura delle idee , e quindi a risolvere o scar- tare le difficoltà insorte. Ma in che consiste questo me- todo? È lo stesso processo ipotetico 0 indiretto, adoperato da Zenone, ora applicato all'idee stesse. Ciascuna idea bi- sogna prima supporre che sia, e ricavare da questa sup- posizione le possibili conseguenze così rispetto a sè stes- sa come all'altra idea; ma non basta ancora, è d’ uopo sup- porre altresì che non sia, ed esaminare se le conseguenze che derivano d& questa nuovo: assunto tengano o pur no meglio delle prime. Così ad esempio se si tratta del con- cetto della pluralità, bisogna prima esaminare, posto che la molteplicità sia, quali conseguenze 8’ hanno a trarre per la molteplicità stessa, considerata prima in sè a polin rapr porto coll’ unità, e quali altre per l’unità, considerata pure prima in sè e poi nel rapporto alla molteplicità. E lo stesso processo si deve tenere per l’altro presupposto che la mol- tiplicità non sia !). Socrate prega Parmenide di mettere alla prova questo processo, ed il veechio filosofo, sebbene confessi che a lui 1) 136 A. ci moda con, ni ph Fupfaiver xoù aùroîs toi rodloî repde autà val tpòs TÒ Sv xal tw pa pic T'arò val mpòs tà molla xod ab si pi deri modà, malv auometo ti Eupfhostar xaù ti iv xad toîg roXàots xat mpòs abrà alè mpòs dina, 85 potrebbe toccare la sorte del cavallo d' Ibico, pure vinto dall’ istanze di Socrate e di Zenone, cede alla fine, e tolto ad interlocutore Aristotele 1) come il più giovine fra tutti, si fa ad esaminare il concetto dell’ uno. Ma prima di di» scutere le due posizioni l'uno è, l'uno non è, Parmenide si mette a un’altra ricerca preliminare, vale a dire se allo uno convenga un predicato diverso da sè medesimo. A prima giunta sembra che dell'uno non possa dirsi altro se non questo : l'uno è uno; perchè coll’ attribuirgli un altro pre- dicato, noi mostriamo di avere un altro concetto oltre quello dell’ uno, e questo non sarà più il vero uno (vale a dire l’unica e sola idea della mente nostra). All’ uno dunque, come l'intendevano gli Eleati, non si può attribuire nes- sun predicato , e per tal guisa gli convengono solo due sorta di giudizii, l' identico e i negativi ?). L'uno è uno, ecco tutto, e di lui si può dir solo quello che non è. Così si ha a dire che se è uno, non è molti; epperò nen ha parti, e per conseguenza non è neanche un tutto, perchè il tutto non è se non l'insieme delle partì. Parimenti se l'uno non ha parti, non ha neanco nè principio nè mezzo nè fine, che sono certamente parti. E se gli manca prin- cipio e fine, non essendovi che lo limiti, è illimitato. Di nuovo se non ha parti, non ha neanche figura; chè in. ogni figura, o circolare o rettilinea che sia, s' ha da distinguere gli estremi dal mezzo. E se non ha figura, non è in sè stesso nè in altro. Nan può essere in altra perchè in tal caso sarebbe contenuto in quello come in circolo, che di ogni parte lo tocchi, e l'uno nona ha parti nè forma circolare. Nè può stare in sè medesimo, chè allora gi partirebbe in due eioè il contenente e il contenuto, e così 1) Quegli che fu poi uno dei trenta tiranni. 2) Questa conclusione, come vedemmo, fu in fatto tirata dat megarici. 86 ] non sarebbe più uno. E se l'uno non sta nè in sè nè in al- tro, non può essere neanche in movimento, perchè se l’ uno si movesse, o roterebbe intorno a sè, vale a dire avreb- be in sè un centro separato dalla periferia, in altre parole avrebbe parti e non sarebbe più uno; ovvero si muoverebbe mutando di luogo, ma anche in tal caso l’ uno sarebbe in altro, cioè nel luogo che occupa, e abbiamo veduto: che non può. Chè se poi per movimento s'intende l’ altera- zione, l’ uno non si può muovere, perchè non può can- giare natura; se no cesserebbe di essere uno. Ma se l’uno non è in moto, non è tampoco in riposo, perchè, se stesse in riposo, dovrebbe occupare sempre lo stesso posto, e l'uno non occupa posto di sorta. Per la stessa ragione non si può dire identico nè a sè nè ad altri. Non identico ad altri perchè cesserebbe di essere uno, nè identico a sè (perchè in tal caso ci dovrebbe essere un ripiegamento, o una sdoppiatura interna, che contraddice alla natura dell'uno). Nè ’’ uno può essere diverso nè da sè, nè da altro. Non da sè, chè cesserebbe di essere uno, nè da altro, perchè ci sarebbe in lui un accenno a qual cos' al- tro che non sia lui stesso ‘). Se l’ uno non è nè identi- co nè diverso nè di sè stesso nè di altro non può essere anche nè simile nè dissimile, nè uguale nè disuguale nè a sè nè a chicchesia. Perchè in fondo ai rapporti di simi- glianza ed eguaglianza c'è sempre una parziale identità. Ma se l uno non è eguale nè disuguale nè a sè nè ad altri per nessun rispetto, non sarà tale neanche per tempo. Di quì non si può dire nè che conservi la stessa età, nè che | ringiovanisca od invecchi, nè che sia coetaneo, o più gio- vine o più vecchio di chicchesia. Tutta questa deduzione non par fatta sul serio; perchè negato qualunque movimento od alterazione all'uno, sarebbe ridicolo attribuirgli un'età, 4) 139 C. 87 E Platone forse non sarebbe tornato a ribadire che allo uno non convenga il divenire di sorta, se non gli fosse premuto di trarne una consegueza alquanto strana. Se lo uno non è divenuto, nè diviene nè -sarà giammai per di- venire, non potrà mai partecipare dell'essere, perchè solo chi diviene partecipa dell'essere, vale a dire acquista quella entità, che prima non aveva; se l’ uno non partecipa dello essere, vuol dire che non è, e come in tutti i giudizi anche negli identici entra questa copula é, se l’uno non è in alcun modo, non è neanco uno. In fondo a questo gioco ed artifizio logico, il quale ha più l'aspetto di un sofisma trovi lo stesso perisiero, dal quale abbiamo incominciata l'esposizione di questa dialettica. Vale a dire che alla sem- plicità dell’ uno ripugna qualunque altro concetto diverso da lui, fosse pure quello dell'essere. Ma da tutto questo garbuglio Platone sa trarre la conclusione che più gli preme, e che è per fermo giusta, voglio dire se all’ uno non con- viene nessun predicato diverso da sè, non sì può nè pen- sare nè conoscere in alcuna guisa, non gli sì può attri- buire un nome, nè può essere espresso per nessun modo !). A torto adunqne l’ Eleatismo, rinnovato dai Megorici, smette come principio dell’essere e del conoscere l’uomo destituito di ogni predicato, che per fermo è affatto inconoscibile. Ma se il togliere all’ uno qualsiasi predicato, diverso da sè, ne rende impossibile la cognizione, vediamo ora cosa succeda se gli attribuiamo un predicato qualunque. Éd in- cominciando del più generale, da quello dell'essere, terremo la via tracciata di sopra (V. pag. 84). Diremo dell’ uno prima che è, e studieremo le conseguenze che derivano da questa posizione rispetto a lui e al molti; e poì torremo 18) 142 A. obd' dvopétera dp'oùdi Meyera cudì dofàcera: oudì qepresaze- qa, odi ti tiv Evrav abroi aioIkvera. 38 la posizione opposta «l'uno non è » ed esamineremo pari- menti le conseguenze che ne rampollano. PRIMA Posizione: L* uno è — 7° Conseguenze rispetto all'uno. Nella posizione l'uno è, il concetto di essere non è iden- tico a quello d’ uno, perchè in tal caso l'uno è equivar- rebbe all'uno uno. All’ uno adunque sì possono attribuire due predicati diversi fra di loro, l’ uno e l’ essere. Di quì l’unità è un tutto di cui l'uno e l'essere sono le parti. ° Ma ciascuna parte a sua volta è nel contempo wna sola ed é, epperò ciascuna parte di nuovo è un tutto che ab- braccia due altre particelle, l’unità e l'essere. E di ciascuna di queste particelle possiamo tenere lo stesso discorso. Casì l'uno si rompe in un infinita molteplicità !). Lo stesso ri- sultato si può ottenere per altra via. Platone non smette neanche in questo dialogo l’ abito antico di obbiettivare i concetti, fossero anche meramente relativi. E per tal guisa se l’uno è diverso dall'essere, vuol dire che oltre al con- cetto dell'uno e quello dell’ essere occorre eziandio un ter- 20, il diversa, partecipando del quale il primo si separa dal secondo. Nessuno c’ impedisce di torre questi tre con- cetti o ad uno ad uno, o a coppie, o tutti insieme. E così abbiamo ì primi tre numeri l'uno, il due, il tre; vale a dire l’ unità, il pari e il dispari, che sono gli elementi di ogni numero. E qui Parmenide dimentica affatto i de- terminati concetti dell'essere dell'uno, e del diverso, di cui ora si trattava, e togliendo a considerare i primi tre numeri, come numeri soltanto, ne trae la naturale conseguenza, che dato. il pari il dispari e l'unità, è poste ogni numero. E ehe v' impedisce di prender due o tre volte il due, tre o due 4) 4441 A. l 68 volta il tre, aggiungere il tre al due e così dj seguito? E per tal guisa il concetto dell'Ente non si è sminuzzolato in una varietà infinita di entità ed una varietà infinita di upità 1)? Ma desso è sempre il Tutto coma dicemmo sopra, di cui questa varietà sono le parti, e come 1] tutto sta nelle parti prese insieme, s'ha a dire che il tutto venga limitato dalle parti, che non possa essere nè maggiore nè minore »del loro complesso. Eppero l' Uno, considerato come tutto, è limitato, mentre prima, rompendogi in una infinità Varietà, cì si mostrava illimitato. Eeco dusque le eonseguenze che si traggono dalla po- sizione l' Uno è. Se l’ Uno è, accoglie i predicati contra- dittori, è uno e molti, tutto e parti, limitato ed illimitato. Queste eontraddizioni poi si possono moltiplicare a piacere e Parmenide non si lascia certo sfuggire una così propizia occasione. Molte volte le argomentazioni sono più ingegnose che vere, molte altre volte partono da presupposti indimo- strati; ma ciò non monta; purchè l’uno si complichi ad ogni passo in nuove contraddizioni. Gosì ad esempio se l’ unp è il tutto, sarà in sè stesso e in altro; sarà in sè stesso, perchè le parti (prese insieme) da un lato eguagliano il tutto, e dall’ altro vengono in esso racchiuse, il che vuol dire che il tutto (parti prese insieme) è contenuto nel tut- to, o in sè medesimo. Ma d'altro lato come può accadere ehe il tutto sia contenuto in sè stesso? Bisognerebbe a tal modo ehe fosse contenuto nelle parti (prese insieme); ma non può essere contenuto in ciascuna di queste parti, perchè in tal caso il minore comprenderebbe il maggiore, e non potendo essere contenuto in eiascuna singolarmente, non può essere neanco eontenuto in tutta. Dunque il tutta, Ie qui è l Uno, non è contenuto in sè stesso, ma in altro. 1) Où povov &pa tò dv Fold dare, GAI val ccirà Th tv drrà cod dvroc dravevepmptvor mod dvaryan eivon 444 E. 90 La dimostrazione certamente zoppica, ed il primo argomento poggia sopra un equivoco, perchè le parti, prese insieme, non sì può dire sieno contenute nel tutto, essendo la stessa cosa di esso; edil secondo poggia sull’ anfibologia, che ciò che si dice di una parte presa isolatamente, si ripeta pur di essa, quando è tolta in complesso con tutte le altre. Ma quéste inesattezze non contano nulla per Parmenide, pur- chè si possa concludere un’altra contraddizione. « L’uno ad un tempo è insè ed in altro »'). E non basta. Con un gioco di parole vi balza fuori una nuova contraddizione. Se l’uno è sempre in sè medesimo, vuol dire che non esce mai dal posto che occupa, in altre parole è in riposo; e se sempre muta di posto, questo importa che è in movimento. Dunque l'uno ad un tempo sempre sta e sempre si muove ?). Così parimenti l'uno essendo in sè medesimo è identico a sè stesso, ma trovandosi sempre in altro, differiscc da sè °). Non minori sono le contraddizioni che si riferiscono al- l' Uno in rapporto col molti. E la prima è questa che l' Uno nel contempo è diverso ed identico al Molti o al Non-Uno. Che sia diverso, nessun dubbio; ma che pari- menti sia identico abbisogna di una dimostrazione, e Par- menide ne adduce una curiosissima. Se il diverso e l' iden- tico sono contrarî, l'uno non si può trovare mai nel posto dell'altro. La diversità dunque non può risiedere nè nel-. l'uno nè nel molti, perchè ciascuna di queste categorie è identica‘ a sè stessa, e dove c’è l’ identico non può alber- gare nel contempo il diverso. Se adunque nè l’uno nè il molti possono accogliere in sè la diversità, vuol dire che sono identici fra loro. Dunque l’uno nel contempo è iden- ‘tico e diverso dal molti. Se è identico e diverso, qual me- 4) 145 E. xa oùrw tò iv avayea aùté tiv taurò civar rod dv eripo, 2) 146 A. del uwsicdar te vai tordva.. 3) 146 B. xa pùv tavrév ye dei siva aùtò sauro xaù Erepoy davroî. ° d raviglia che sarà simile e dissimile? È dissimile perchè l’uno è opposto all’altro; ma siccome tanto l'uno è dissimile dall'altro, quanto l’altro è dissimile dall'uno, in questo almeno si rassomigliano tra loro, che entrambi si escludono. L’uno adunque è simile e dissimile da sè e dalle altre cose '). Con poche variazioni avrebbe Parmenide potuto dimostrare che l’uno è parimenti disuguale ed equale ‘a sè ed alle altre cose, senza intesserci un nuovo sofisma. Ma nel nostro dialogo c'è un lusso di dimostrazioni nuove, una più sottile del- l’altra, anche quando non faccia bisogno, le quali poi tutte s'accomodano sempre al fare platonico, che abbiamo ri- cordato di sopra, vale a dire l’obbiettivare i concetti. Così ad esempio, l'uno non può essere nè più grande nè più piccolo di sè stesso, se non ad un patto che l’idea della piccolezza o della grandezza si trovino in lui. Or se la pic- colezza si trova o nella totalità o nella parte dell’ Uno, vuol dire che adegua o abbraccia queste, cioè sarà grande con loro, e non sarà più piccolezza. E parimenti la gran- dezza se fosse contenuta nell’ Uno, sarebbe minore del suo contenente, e così s' avrebbe una cosa più grande della grandezza stessa. Per tal guisa l’ Uno non può essere nè più grande nè più piccolo in nessun modo nè di sè nè delle altre cose. Ma d'altra parte l'uno è in sè stesso; dun- que ad un tempo è più grande di sè, come contenente sè, ed è più piccolo come contenuto. E parimenti se fuori dal- l'uno vi sono altre cose, se ogni cosa per esistere è d’uopo che sia in qualcheduno, se al di là dell'uno e delle altre cose non c'è nulla, egli è evidente che l’uno e le cose debbono stare l’uno dentro dell’altro, per guisa che o l’uno è nelle cose, o le cose sono nell’uno. Secondo il primo rapporto l'uno è più piccolo delle cose, come il contenuto 4) 148 C. dporéy 7'dv sia xa avépotov toîg &Aiaxg. Dà quanto considerato in rapporto alle -cose. L'uno è ad un tempo uno e molti, finito ed infinito, è contenuto in se ed in altro, è in riposo e in movimento; ‘è identico e di- verso, simile e dissimile, eguale e non eguale alle cose; e queste or le tocca or non le tocca, or è loro contem- peraneo ed ora non è più. Tutte queste contraddizioni sem- bra vengano risolute nel concetto del divenire. Esse si adunano tutte nell’opposizione fondamentale dell'essere e del non essere perchè l'uno ora partecipa dell'essere, ora no. Ma è possibile che nell’istesso momento, in cui vi parte- cipa non vi partecipi, e viceversa? No certamente. Non ci è dunque altra sfuggita se non che in'un tempo vi parte- cipi e nell'altro no, vale a dire che ora acquisti. l’ essere, ora lo lasci, o in altre-parole che nasca e perisca, non solo in un senso assoluto ma anche relativo, perchè quando l’' Uno cessa di essere multiplo, rinasce come uno; e quando cessa di essere uno, risorge come multiplo; o in altre pa- role or si raccoglie ed or si divide, or s'arresta ed or si muove, or è da meno delle cose che lo circondano, ed or le agguaglia e le supera '). Ma l’uno non può passare dal movimento al riposo, e dal riposo al movimento senza .can= giare, e il cangiamento suppone quel non so che di me- raviglioso, che noi chiamiamo istante, in cui l’ uno cessa di essere in riposo e incomincia a muoversi, cioè a dire che ad un tempo e del moto partecipa e della quiete ?). Questa cosa strana, che è l’ istante, si trova in mezzo tra il movimento e il riposo, e di là parte e là termina il cangiamento. E l’ uno, quando entra in questo istante, è an- 4) Ap oùy òrs peréyer, oi6v 7° dora rére pù perbgev, È ove pù peri- gu, pertyeci; ody oiov ts. “Ev &lw &pa ypévo perigor nad èv &ilw ov pertyor. 155 E. 2) Ap oùy darà rò &roroy tovto, ds é tèr'&v sin, dre peraBalàa; tò motor dh; tè dfatpmg. Tè yap dbatpwne totovde ce dorme ompatvew, de dé duet- vov peraB&)lov eic ixdrepov. 156 D. 95 che luì un intermediario, ed allora non è in moto nè in | riposo, ma in entrambi, e così cile di tutte le altre op- posizioni. i Senonchè questo tentativo di conciliazione tra gli oppo- sti è messo lì senza seguito.. Non si discute se il can- giamento, che certamente ha luogo nel mondo sensibile, possa pur darsi nel mondo ideale. E posto che anche il mondo ideale muti, in che è .riposto il suo mutare? e in che differisce dal cangiamento fisico ?.Questi problemi non sono neppure sfiorati, e Parmenide invece proseguendo la sua dialettica, discute il secondo punto, vale a dire le con- seguenze che dalla posizione l’ uno è derivano alle cose sia in loro stesse, sia nel rapporto coll’ uno. 2° Conseguenze rispetto alle cose. Se l’ uno è, le cose saranno diverse da lui. Ma non per- tanto partecipano dell’ unità, perchè esse in tanto differi- scono dall’unità, in quanto hanno parti, ma le parti non si possono comprendere se non in rapporto al tutto, che è pure unità. Le cose dunque prese nel loro ihsiéme parte- cipano, dell’ unità. E ciascuna parte pure: in quanto è sè stessa e non le altre, anch’ essa partecipa dell’ unità. In una parola le cose sia nell'insieme come nelle parti, sebbene differiscano dall’ unità , pure vi partecipano. Ma questo complesso di cose non risulta da un numero in- finito di parti? Certamente, perchè se ciascuna parte non è l'uno, ma partecipa dell’ unità, vuol dire che non è semplice, e che non possiamo determinare una parte così piccola, da non poterla suddividere col pensiero in altre più piccole ancora, e così all’ infinito. Ma d'altra parte queste parti non formano un tutto? E il tutto e le parti non si limitano a vicenda, così che nel tutto non entri 96 altra parte al di fuori di quelle che lo costituiscono quel tutto? Per questo verso |e cose sono limitate. Le cose a- dunque, come molti, per la divisibilità all'infinito sono il- limitate, e in quanto partecipando all’ uno , formano un dato tutto, sono limitate. E se accolgono questi predicati contradittorî saranno simili e dissimili da sè medesimi, e così tornerebhbero tutte le contraddizioni che abbiamo enu- merate di sopra. Ma per un’altra serie di ragioni Parmenide dalla posi- zione l’ uno è deduce altre conseguenze affatto opposte. Se uno è tutt'altro dalle cose, e se al di fuori dell'uno e delle cose non c’è altro, non si può dare yna terza cosa nella quale |’ uno e il non-uno si trovino insieme. L'uno però è affatto separato dalle cose. Ma se è fuori di esse, non potrà parteciparsi a loro, perchè non sì potrà trovare in esse nè in tutto nè in parte. Non in tutto, perchè non sarebbe più in sè medesimo; non nelle parti perchè l’ uno è semplice e non ha parti. Se dunque le cose non parte- cipano dell’ unità, non possono essere nè uno nè molti, perchè il molti non è se non il complesso di più unità. Parimenti non sono pè simili, nè dissimili, nè in quiete nè in movimento , perchè se fossero (tali parteciperebbero sempre o di una idea alla volta, o delle due contrarie in- sieme, ed abbiamo già detto che nè l'uno né il due può entrare nelle cose '). La dialettica rispetto alle cose è riu- scita allo stesso risultato della precedente. Se l’ ugo è le cose, al pari dell’ uno, ottengono predieati contraddittori. Ma la nostra ricerca non f fiaita. Ci resta ad esaminare cello, stesso metodo l'altra posizione, l'uno pon è. 1) 460 A. . è . , 1 petto te," nl SeconDa Posizione: L? uno non è—1.° Conseguenzé rispetto all'uno. Prima di tutto la posizione l'uno non è è per fermo dif- ferente dall'altra il non-uno non è. E noi non potremmo cogliere questa differenza, nè oseremmo neppure affermare che non esistere l’uno, se non conoscessimo la natura di es- so, e ciò per cui differisce dalle altré cose. Poniamo pure l'uno non sia, non per questo cessa di essere un nostro concetto determinato, che è differente dalle altre cose, per distiriguersi dalle quali bisogna che abbia un quid di suo proprio, se pur di lui e non di altro predichiamo il non es- sere !). Ma se l'uno differisce da tutte le altre cose, non rassomiglia e non è similé ad altro all'infuori di sè stes- so. E se non rassomiglia alle altre cose, non è neanco loro eguale. E se non le agguaglia, ne sarà o più grande o più piccolo. E se l’ uno partecipa della grandezza, e della pic- colezza, parteciperà dell’eguaglianza, che è un termine di mezzo, che necessariamente intercede tra il più grande e il più piccolo. E non è finito ancora. L’ uno partecipa e- siandio dell’ essere. Perchè quando diciamo che l uno non è, noi per fermo intendiamo di attestare una verità, vale a dire ciò che è. L'uno adunque partecipa se non altro dell’ essere del non essere. Ed ecco qui un salto. Se l’uno da una parte è (ed ora l'essere non s'intende più in un senso ristretto) e dall'altra parte non è; dunque si cangia, sì muove. Ma riflettiamoci bene, come potrebbe cangiarsi? Non cesserebbe di essere uno? Dunque non si cangia. E parimenti possiamo dire che non si può muovere, che è in riposo. In breve dell’ uno anche qui si può dire che è 1) cirep cò y'tv dusivo val pù dio pù tor. 161 A. 8 . e non è, è in movimento ed in riposo, si muta e resta sempre identico a sè, e così di seguito 1). Ma per un'altra serie di ragioni dovremmo dire preci- samente il contrario di quello che abbiamo testè afferma- to. Se l'uno non è in alcun modo non può nè accogliere nè abbandonare l’essere, epperò non nasce nè perisce, nè si muove nè è in riposo, nè partecipa di nessuna cosa, e per conseguenza non è nè grande nè piccolo, nè simigliante nè differente ?). In fondo a tutto questo giuoco dialettico c'è l'opposizione fondamentale che l’ uno per esser noto come concetto, dev'essere fornito di alcuni predicati, men- tre non esistendo in reallà, non gli si può attribuire predi- cito di sorta. 2° Conseguenze rispetto alle cose. Ci resta ora ad esaminare le conseguenze che dalla po- sizione l'uno non è derivano alle altre cose. L’uno non è; ma le altre cose sono. In qual senso in- tendiamo la parola altre? Forse rispetto all'uno? No certo perchè l'uno non è. Dunque sono altre o differenti fra di loro. Ciascuna di queste cose, in quanto differisce dal re- sto, è una in sè medesima, è limitata dalle altre, ha in fondo la stessa natura di esse e così di seguito. Ma d'al- tra parte siccome nessuna delle cose partecipa dell’ uno, che non è; ogni cosa si risolve in un molti, il quale non ha alcun limite. Guardate da lontano le cose sembrano tutte eguali, ma se ci appressiamo a loro, ci spariscono nelle loro differenze. Se dunque l’uno non è le cose sono uno e più, limitate ed illimitate, simili è dissimili tra loro. Ma d’altra parte se l'uno non è, solo le cose saranno. 4) 160 B— 160 B. 2) 163 B— 164 B. 99 E se sono, non possono in alcun modo partecipare di ciò che non è. E come l'uno è un non essere, così le cose non saranno uno; e dacchè il molti suppone l’uno, esse non saranno neanche molti. Dunque tutto al contrario di ciò che dicevamo prima se l'uno non è, le cose non sa- ranno- nè l'uno nè molti, e per conseguenza né limitate nè illimitate, nè simili nè dissimili. — Im conclusione tanto che l’uno sia tanto che non sia, così l’uno eome le cose, tanto in loro stessi, quanto in rapporto all’altro termine, accoglieranno predicati contra- dittorî !). | 4) Parmenide così formola questa conclusione , 166 C. # sit’ tor, cite ph fo, aùré te xad tAddA rad mpòg abrà nad repòc &ilnda mavra rltvcos doti re xa oUx doni, xal patverat te nad cÙ palvera:. CAPITOLO NE. POBEMICA INTORNO AL PARMENIDE. L'autenticità del Parmenide :fer:prima revocata in-dubblo del Socher, ‘il quale -stimava' che nessuna parte ded Plr- menide fosse degna di Platone. :Nen'la prima o l'intero» duzione storica ,. che è molto povera # confusa i; nog ba parte intermedia, che contiene gravi dubbi sulla teorica delle idee, così dommaticamente sostenuta negli altri dia- loghi; mon 1 ultima parte infine, intessuta di sofismi, e svolta sea ua Betoda; she nor :si trova - per fermo nel Fedone, nella Politàa, e nel Timeo ?). 4) I dati storici del dialogo, secondo il Socher, non tengon bene fra di loro. Socrate, sebbene molto giovane, pure ci ap- parisce maggiore d’età d'Aristotele, e non può quindi contare meno di 25 anni; onde Parmenide sarebbe venuto in Atene nel 435. av. C. E come in quel tempo, secondo il dialogo, Parmenide era di 65 anni, così la sua nascita si dovrebbe mettere nel 500 av. C.; il che, dice Socher, è impossibile, perchè Senofane; nato nel 6410, avrebbe contato 110 anni alla nascita di Parme- nide, e sarebbe vissuto almeno 130 anni per potere essere suo maestro. ( Socher Platons Schriften. Munchen 4820 p. 230). Questo ragionamento è sbagliato: 1° perchè l’anno di nascita di Socrate non può essere messo al di là del 470 av. C. (Zel- ler II. 43). Se dunque alla venuta di Parmenide Socrate con- tava 25 anni, questo avvenimento ebbe luogo nel 445, e non nel 485, come dice il Socher. 2° La data della nascita di Se- nofane poi non è punto sicura. Di Senofane si sa solo con certezza esser fiorito nella seconda metà del secolo sesto av. G. e vissuto tanto, che alla età di 93 anni scrisse dei versi con- servatici dal Laerzio, in cui ricordava le sue peregrinazioni per la Grecia, incominciate a 23 anni, e proseguite per 63 (Vedi Mullach Fragm. Philos, Graec. I. 106 fr. 24). Secondo que- sti dati, non è improbabile che Senofane sia nalo nel mezzo della prima metà del sesto secolo, o anche più tardi, e per tal guisa l'assurdità cronologica, rilevata dal Socher, sparisce. 2) V. op. cit. p. 287-88. 10t La tesi dal Secher venne ripresa più tardi dall'Uerbeweg, il quale addusse: ragioni ben più gravi. per dubitare della autersticità del Parmenide. Il: Socher, traendo partito dalle Gbbiszioni. mosse contro la dottrina delle idee nella prima parte del Parmienide, avéa. giù notato essere. molto strano che un: autore non selo ascogiti i ‘più sottili argomenti conteso. i proprio sistema:; ma tronchi: lì la discussione senza risolverk. E più strano ancora, soggiuage 1’ Ueberweg, che .siflatte obbiezioni ‘si riscontriao. a- capello: con li di Ariptotale. Ed.in verità Patmenide dimanda a Socrate, se sì dia una idea del pelo, del sugiciame, e. di qualunque attra cosa: vile 1}, ed ‘Aristotele osserva esser. le: idee pressocchè tante, ‘quanti gli. esseri di cui si cerca Ja causa. Ogni cosa ba il suo. omonimo nelle: idee, 0, come: Hiee altrove, - lé idbe .sono le: stesse cose sensibili, aggiuntovi solo. il pres diceto di per sé. Il che varrebhe la stesso, come'se, altri, tem sapendo contare un piccol numero di cifre, l'aumen- tnise a dismisura per rendere il calcolo più. agevole. E tra lo conseguenze di questa viziosa moltiplicaziene v' ha pur quella notata da Parmenide, che Aristotele esprime, in questa guisa: « le ragioni che si adduceno in sostegno . delle idée. si ritorrono contro di loro. Così la dimostra- zione: tolta dalla scienza conduce .a questo risultato; che w sieno tante idee, per quanti abbiamo oggetti di cognizione. DI per tal guisa ci accadrà di ammettere te idee del cor- «1 ste cose possediamo i una rsppresentazion DI dB vi ‘90pra-pa nota 9; °9 Mefi pr pago .9k dh-ecia: Wi aictecatBipoo: x xpico» pis A tes tevdi tiv dvrwv aBeiv tds aitias Prepa modo fo tiv dprdpto da porsv, dorrep ivo dpidpica - Pas)dpevos - -Sieerrivene pe, greco dierro ud Fu- usssìa, rito dd. “mentov dpripota’ - ‘orgliv. via dx-dereoo va etto; SOT tovrmv mrepi dov Enrodvres tds aitiac dx v.en'idetva npoBi dI — 102 . L'altra obbiezione di Parmenide « come mai possa l’idea rifrangersi nella tumultuosa molteplicità del sensibile, senza perdere la sua unità »') non è in vero chiaramente ri- petuta da Aristotele. Ma egli invece per altra via riesce allo stesso risultato di Parmenide. E dove questi nega che l’idea possa uscir da sè, quegli soggiunge, che, ove. l’idea stia chiusa in. sè medesima. e venga separata dalle cose, non può per fermo costituirne l’ essenza. « Sembra impossibile che l'essenza sia separata da quelle cose, di cui forma il sostrato sostanziale. Come possono dunque le idee venir separate dagli esseri, onde costituiscono la vera entità? » ?). Ma la coincidenza più notevole, e sulla quale esclusivamente si appoggia l’ Ueberweg, sì riscontra nel così detto argomento del terzo uomo. Aristotele tocca di sfuggita questo argomento *); ma il suo commentatore Alessandro Afrodiseo ce lo espone così: Quando noi di- ciamo, ‘l’uomo cammina, non intendiamo dire dell’ uomo in quanto idea, perchè l’ idea è immobile, e neanco diciamo di un uomo particolare, perchè non si può parlare di ciò che non si conosce, e noi sappiamo bene che passeggia un uo- mo, ma chi sia non sappiamo. Per la qual cosa, a dire il vero, egli è un uomo distinto tanto dell'idea in sè, quanto dagl’ individui particolari, quello di cui parliamo. Un'altra forma dello stesso argomento è questa: Se' ciò che si at- L'altro passo, a cuì accenna il testo, è tolto dalla Met. VII. 16. 41040. Iowodaw où tàs abtàs tw cider roîs pIaproîs (ravras Yap icpev) aù- todvipwrroy x2Ì autottttov, mpootudévtes toîs aiTÌntots tò pane tò avrò. 4) Vedi capitolo precedente pag. 81. 2) Met. I. 9. 991. tr doleev dv &duvarov siva xp thy ovolav ua où ” ovaia. date rig dv ai idia ovaiai tiv rporpuatov odo agwpie cio; Met. VII. 14. 1039. Ias rò dv év toîg odor yepic tv Frta: nai did ci où xal Apre aùtov fora. tò Kov tolto. 3) ' ‘Eve di ai axpiértspor tav \oyiy oi pév tiv rpos ri move idiag, div 00 paper siva: xad' aùté yivoc, ol dè tòv tpirov dev porttov Myovow. I. 9. 990; ripetuto nel XIII. 4. 1079. 4103 tribuisce a più cose è un essere a parte, distinto dalle cose di cui si afferma, fa d’uopo che vi sia un terzo uomo; imperocchè questo nome s'applica e agl' individui e alle idee, Vi ha dunque un terzo uomo distinto dagli uomini parti- colari e dall'idea; e poscia un quarto, che sarà nello stesso rapporto con questo, e con l’idea e con gli uomini particolari, poi un quinto e così di seguito all’ infinito 1). L'argomento del terzo uomo così esposto è a parola iden- tico colla difficoltà che solleva Parmenide contro la teo- rica delle idee per ben due volte, la prima allor che nota che ove l’idea di grandezza sia separata dalle cose grandi, ci deve essere una terza idea, che entrambi le comprenda, e così all’ infinito; la seconda quando argomentando con- tro la teorica della partecipazione *) dice, che tra il mo- dello e la copia interviene un terzo termine, formato da ciò che v' ha di comune in entrambe, e così si ricasca nel processo all’ infinito. Ed intorno alla critica della teorica della partecipazione è da notarsi un altro importante ri- seontro tra il Parmenide platonico e la Metafisica. aristo- telica. Chè mentre in quello si rimprovera alla dottrina della metessi un vizio logico; in questa poi la si condanna affatto come una bastarda ripetizione della dottrina pita- gorica della mimesi, e non la si tiene in maggior conto di una metafora poetica *). Ma oltre all'argomento del terzo uomo, c'è pur un’ al- tra coincidenza, di cui l’ Ueberweg non tien conto, ma che a mio avviso è di molto peso. Aristotele nello stesso capitolo nono del primo della Metafisica dice le idee non 4) Brandis Schol in Aristot, p. 556. 2) V. il Capitolo precedente. 3) Met. I. 6. 987. Oi pòv qàp Mudayépsior pupicer tà ivra pastv siva tiv dpiFpiov, Marwy di pedéu, toovopa peraPadosy. Ivi I. 9. 994. Tò de Mysw rapadetyuara aUtà siva nad peréygew abriv ta\\a el SoTÀ xal perapopàc Myew rromtiRde. 4 giovare ndento alle conoscenze di tutta le (cose, impo» #ocvhè non ne costituiscona l'essenza, altrimenti non do» vrebbero essere in sè medesime , ma nelle cose!). E questo argomento vien ripetuto nel settimo libro, -ova lo Stagirita dice chiaramente, che, separando: l'essere .dalla sua fotrha sostanziale, non vi sarà pcienza pospibila del- l'essere, e le forma da parte loro nos sarannp enti. « Bey separazione s intende che. nell'essere buono noa si. troni la forma sostanziale det bene, e che nella forma sostanziale non vi.sià l'essere. buono »/). Pressocchè con lé stesse parole Parmenide sostiene l'assunto aristotelieò, e dice che se.le idee sono in sò stesse, restano eternamente un pro» blema chiuso per noi, perchè noi non possiamo mai assis midarcele e farle nostre. Di qui se anche be idee .esibtesr sgro in sè medesime, non gioverebbero punto alla nostrà cognizione *).. R dunque fuor di dubbio che le difficoltà. della prima purte del Parmenide si riscontrano a capello con quelle di Aristotele, sebbene questi non citi neppure una. velta.il' Pas menide nè direttamente: nè indirettamente. È qui sta ap» punto la grave difficoltà. Se. il Parmemde è un dialogo platenivo, còme mai Aristotele se ne appropria gli ango» menti, senza citarlo una wolta sala? Che onestà sciensifica sarebbe questa, di muovere a Platone, come nuswe di ze ca, obbiezioni che. Platone stesso aurebbe trovato :pioma del suo oppositore? Aristotele avrebbe comrnessa. un indegno plagio, un furto. Ma .ruba chi è pevero, dice Ueberweg, san coi che va fornito di tale riothesza intellettuale , quale 1) LINA pui oùte rpòs Thv émoriuny oddity Bondet tiv mov Ma (ovdè obgia ixsiva tovrmwv dv touro yAp du ») I. 9.994; XIJE ò, 1079. dI xd” di “per "RADI I fia pia , Toy Uke oyx lora brothun , tà d' où» Tora vT4 ego ps cò amata, el port cò sie abris Urdp- gs tò ‘etvat Sute pire Tolto tè iva’ dadi). VII 103%. 3) V. pag. 83 della nostra esposizione. | DOH sessane per (femno motrà negare allo - Stagitita. Lipoi, an mesframe: pure che Ariskptele fosse : d'un carsigere cosi ab- bistto; gome we le stipizigano :alougi anpimemigi ;..ma se Je obifietsoni del Pavrséenide fossero ‘di Platena, querti nen an erebbe : por ‘fromo mancate di risplverle, ed Amigtatola non bs ‘avrebbe ripetute sesiplicemeste senza ribattenge Je: se luzioni ‘tentate dal Maestro. Si può dubitene «del ,canattere neovdle di Aristotele, ma mon si dere Arbitare. del rigpre logico del suo processo serantifico 1). Senonebè l'Uehermeg stesso men nascende esseryi ua 7aRZZO per nisolvere tutte. queste giiani difficoltà, senza somproraste tare. l'autenticità del Parmenide. E questo mezzo nen è una imgegnosa. ascegitazione, ma ci vien .suggerito slalla gtoria stessa della sovola platonica. Aristotele ,si stangò gal puo maestro , lui vivo:?), e la tradizione rigorda, alcuni aped: doti assurdi, come quello tramandatogi da Eliano che Ariston tele, apprafiftando dell'assenza di Sernocrate,.ia seguito a una forte disputa, avdsse sescciatto il wenerando magstre dall'Acca» demsa, obe avea per tanto tempo insegnato °)- Tale raccons ta, ed alini ali simil fatta, sehhene non reggane alla critica, provano pur questo,«she le divergenze tra Platone ad Ayisto- tele :incominciareno bea per tempo, e le abbiazioni di gue- st’’inbtàimo seantro de dottrine del maestro sciraplavaro nel- l’Aceademia molto tempo pra che la disezione di essa page saese idalle mani di Blatone a quella di Speusippo e di Ser neesate. (Qual mezaziglia che il .marsiro tenasse le oh bibztoni del vdiseepolo ia quel conto ghe pIarikavana, £ISRE 41) Beberweg. op. cit. p. 4%. 2) Diogene ci conserva alcune parole attribuite a Platone. Apiotort)ng hpde ameidunae, vadarep sì ti To epia ea al puti- pe. ‘Dibg. LI VAS. 3) Questo racconto di Eliano contraddiee lla testimonianza di‘ Divg.#H: 5: 41, secvinttola quate Platorie in quelitempo fon insegnava più. nell’ Ategderzia, “ma in usi "SU lardino. x. er ler III. 640. sd 106 im uno degli ultimi suoi lavori li ‘ricordasse in una forma concisa, e proponesse il metodo più opportuno per risol- verle? Se la ‘cosa stesse così, Aristotele non si potrebbe certamente accusare di plagio, perchè le obbiezioni del Par- menide erano sue, e Platone non le avea escogitate lui, ma ripetute quali le avea udite nelle requenki dispute tenute col suo discepole '). E questo sospetto diviene certezza se si consideri che di queste obbiezioni aristoteliche Platone non fa conto soltanto in questo dialogo, ma benanco negli altri due, che Ueber- weg nel lavoro, che ora esaminiamo, tiene per autentici, voglio dire il Sofista ed il Filebo. Nel Sofista vedemmo già che Platone, trasformando la teorica ontologica delle idee nella dinamica , considera le idee come forze, e adduce in sostegno di questo nuovo concetto la considerazione, che senza esso non si potrebbe spiegare la vita e il mo- vimento del mondo; rimprovero che anche Aristotele a- vea fatto al maestro. « Altri, egli dice, dubiterà se le idee « conferiscano in nulla alla spiegazione del mondo sensi- « bile, sia per quel che permane, sia per quel che nasce e pe- « risce. Imperocchè le idee non sono causa di nessun movi- « mento o mutazione »?). Nel Filebo poi, come vedremo, sono riassunte in breve alcune obbiezioni del Parmenide. Chè ivi, come nel Parmenide, è detto non recar meraviglia che si di- mostri le cose sensibili essere ad un tempo uno e molti; ma 1] meraviglioso sarebbe se questa opposizione si trovasse anche nel mondo intelligibile 8). E qui seguono le diffi- coltà, e nel Filebo come nel Parmenide vien dimandato se 1) Ueberweg stesso op. cit. p. 183 riconosce che an sich wdre dies wohl denkbar. 2) Met. I. 9.991 obrs Yap mviceog oùte peraBolîc ovdeputc fortv ai- ‘mia adeoic. V. il capitolo secondo del nostro lavoro pag. 41. 3) Filebo 14 C. — 15 A Parmenide 129 A —130 A. 108 esitano veramente queste monadi #); e se, ammesso pur che esistano, possano poi conservare la loro unità, ed ind» peridenza quando si spavpagliano e 8’ incarnano nel ntondo sentiibile:*). E dunque fermamente dimostrato che nel: Fi+ lebo Platone conosce aleune delle difficoltà del Parmenide; le: quali si riscontrano con quelle di Aristotele. E se in gra» zià di questa coincidenza dovesse tenersi per ispurio il Par mettide, sarebbe spurio eziandio il Filebo. E tale’ appunto fu la‘cenclusione, a cui perverme lo Schaarschmidt. Ma noi: invece possiamo ritorcere con maggiore evidenza l’argometl- to; imperocchè, dimostrato come facemmo cell’autorità di Ari- stotele, che il Filebo sia opera genuina-di Platone; soi pos- siam dire che se questo dialogo, non ostante gravi-obbiezioni alla teorica delle idee, è certamente opera di Platone; appar- terrà pure a Platone il Parmenide, nel quale queste diffi coltà vengono svolte con maggior larghezza 3). Le Zeller va più avanti di noi, e stimando che il Filebo presupponga il Parmenide, e lo citi quasi a parola, conclude che-l’autenticità del Parmenide per via indiretta poggia sulla stessa- auturità aristotelica, sulla quale viene stabilita’ la verità. del Filebo. A noi non sembra facile di stabilire quale dei due dialoghi preceda o ricordi l'altre, ma solo questo temiamo per fermo che, posto autentico l'uno, non c'è nessuna ragione di negare la nostra fede all’ altro. ‘Seesso l'argomento delle coincidenze aristoteliche, 1 Ue- 4) Fil. 15 B. et quvas dei roravras stvar povadas UrolauBavav dindig odras. Parmenide 1390 B xa por cimì, abtòà; où, obra dippnoai dé Myers, gopàg piv sid. abrdi &rta, yupie de tà toitwy av periyora. V. sopra pag. 80, nota 1, ove riportammo tutto il passo. 2) Basta paragonare la frase del Filebo rabr’ ion rà’ rep tà todi’ iv xal molla (15. B) coll’altra del Parmenide ‘reérspov div de- xe coL diov tò etdog tv ixdoro sivar tiv mo)lév &v èv; riscontrate la frase del Filebo dìuv abràv aùme NAPÙS , ripetuta a parola. nel Parmenide aùrò arod ywpie. 3)'Zell'er op. cit, IT. 404, ove rinvia ai Platonische Studien140. *% 108 berweg non si dà per vinto, ed in una memoria di rispo- sta al Brandis ed al Susemihl toglie una nuova dimostra- zione contro l'autenticità del Parmenide dallo studio ac- curato del suo contenuto !). Nè l'apparato scenico, egli dice, nè la forma dialettica, nè il contenuto del dialogo, nè alcuni giri di pensiero o di espressione possono tenersi per platonici. Per quel che riguarda gl’ interlocutori del dialogo, egli è strano che qui entri un giovinetto, di nome Aristotele, con cui Socrate si era altre volte intrattenuto sulla dottrina delle idee. Questo Aristotele non ha certo che fare collo Stagirita, e nel dialogo stesso si dice essere stato più tardi uno dei trenta tiranni. Ma non è strana la coincidenza di nome tra il giovinetto, che risponde a Parmenide, e il filosofo che mosse contro Platone le stesse obbiezioni ricordate nel dialogo? Non sembra voluta a bella posta questa coincidenza? E non ci fornisce essa una con- gettura che l'autore del dialogo sia posteriore allo Stagi- rita, e che con questo artifizio ricordi l’aspra guerra che quegli mosse contro la dottrina delle idee? Io potrei ri- spondere a questo argomento coll’osservazione del Neu- mann, che il. giovinetto Aristotele non sostiene nel dialogo nessun ufficio polemico. Egli è un ragazzo quale lo de- siderava Parmenide, che risponde docilmente, e a mo- nosillabi, e non lo affatica con moleste critiche od osser- vazioni ?). Del resto nella nostra supposizione che il Par- menide sia una delle ultime opere di Platone, scritta quando già Aristotele avea mosse le sue critiche alla dot- trina delle idee, la coincidenza notata dall’ Ueberweg po- trebbe reggere ancora, ma non per questo il dialogo ces- serebbe di essere schiettamente platonico. 4) Jahrbiicher fur elassische Philologie. 1863. vol. 5 p. 97-126. 2) Neumann. De Platonico quem vocant Parmenide. Be- rol. 1863. p. 21. 109 Nè molto peso io metterei all'altra ragione, toccata an- che da Schleiermacher, essere strano che il dialogo sia rac- contato non da Socrate medesimo nè da Antifone, fratello di Platone, ma da uno straniero, di cui non conosciamo nulla, da Cefalo di Clazomene. E direi che appunto perchè di questo straniero non sappiamo altro, appunto per que- sto non è lecito di trarre dall'intervento di costui nessuna congettura contro l'autenticità del dialogo. Chi ci può dire quali motivi personali avesse il nostro filosofo per ricor- dare in uno dei suoi dialoghi un nome, che a noi sfortu- natamente suona oscuro?!) Più gravi sono le dubbiezze che l’ Ueberweg trae dalla forma dialettica. Secondo que- sto autore la dialettica del Parmenide non è certo un' espli- cazione del metodo antinomico prediletto da Platone. Im-. perocchè se dei due membri dell’antinomia, scartato Ì uno, come gravido di assurdità, sì accettasse l’altro, questo pro- cedimento sarebbe platonico e risponderebbe al canone me- todico- stabilito nel Fedone *). Ma che entrambi i termini dell’antinomia conducano all’assurdo, cosicchè paja che la nostra. mente non trovi luogo ove posarsi, questo al certo sarà un procedimento accetto allo scetticismo della nuova accademia, ma non conforme per verità al dommatismo di Platone. Questa critica dell’ Ueberweg, per quanto ingegnosa non 4) Il Cefalo del Parmenide non può essere lo stesso di quello della Repubblica, perchè il primo è di Clazomene, e il secondo di Siracusa. Ma Glaucone Adimante e.l Antifone, non ostante alcune lievi difficoltà cronologiche, sono bene i fratelli di Pla- tone, come c’è altestato da tutti gl’ interpetri antichi. 2) Nel Fedone 404 D. è detto che, stabilita un'ipotesi, la si debba riprovare col dedurne le conseguenze, perchè si scorga se queste s’accordino fra loro o no; e dimostrata falsa la pri- ma ipotesi, bisogni escogitarne altra fino & che si arrivi a qual- che cosa di stabile. &Xlnv aù Urédsow vmodépevos, frrus rv &vwdev Bel tiora paivorro, fws éri ti ixavòv AI016....., 10 ci sembra giasta. Che il processo ipotetico sia. raccoman- dato da Piatone stesso mon è solo il Parmenide che ce-lo dice, ma benanco il Menone. In questo dialogo ci ‘è un | eglebre passo, interpetrato variamente per la parte matenma- tiea, che mi piace di riferire nella bella traduzione del Ferrai. « :Concedi che per via d'ipotesi consideriamo s' ella si possa insegnare o per qual altro modo--s'acquisti.. È quand’ io dico per vsa d' ipotesi, dico al modo che spesso praticano i geometri, quando si dimanda loro per esempio d'una figura, se sia possibile in un dato eircolo inseriver- la come triangolo: un d’essi in tal caso ci risponderebbe: io ngn so se questo sta; ma io lo prendo per un ipotesi in guanto giova. alla soluzione presente 4).» (Questo proae- dimento ipotetico, che corrisponde alla dimostrazione indi- retta 0 éa absurdis delle nostre logiche, non esclude cer- tamente che talvolta così una determinata ipotesi, come la sua opposta, possa menare ad assurdi. In questo caso 0 il problema stesso è fra quelli che si dicono insolubili, av- vero è mal posto, e i due termini antinomici ng ammet- teno ua tergo che li concilia. Mi spiegherò con un esesm- pio tolto da Platone stesso. Nel Protagora è dimostrato da. una parte che la virtù non si possa insegnare, perchè i più virtuosi cittadini di Atene non riuscirono ad educare i figli in mode da battere la stessa via dei loro genitori. Da una altra parte è pur provato la virtù non esser riposta in, altro se non nella seieaza, e come questa è appunto 1) Menone 86 E. L' interpetrazione matematica di questo s- ‘0 nen.-ci riguarda. Chi avesse vaghezza di conoscere le ipo- tesi escogitate dai Filologi e dai Geometri, riscentri la dotta nota del .Prof. Favaro che segue alla traduzione del Menone pel Prof. Ferrai. (Ferrai. I Dialoghi di Platone II. 487). Qui mi preme semplicemente di notare il riscontro, già sagnalato dallo Beller, tra lo cuoret: tà EvpPatvovra i cc Uro digerg del Parmenide {186 A) col Myw di cò di ViraStoews &de, Sorep ci yropuérpoa moddree cxorobvra del Menone (86 E.) ‘101 4iò che :4i «può. isisegnare, quelle sazelibe-di nécessità inse- gnabile. E «se vaglihimio mettere «questa dimostrazione nella forma del -firoeesso ipotetico, dobbiamo dire: ‘0 la virià . dipende solo dall'abito, dalla buona disposizione dell'animo, ed in tal caso non è insegnabile; mà a questo paitò deb- biamo «escludere dal movero delle virtù quelle che 5° 40qui- stano col sapere; così la saggezza, che .8ta. nel corRescere ciò ehe .è bere, e discernerib accuratamente dal sio con- 4rario ; il voraggio che è riposto nel conoscere la vanità di .quegli-ostavoli, che l'immaginazione ci presenta come ple- Fighosi, e così di seguito. Questa posizione duntgue mena ‘all’assurdo di ‘escludere dal cencetto di virtà quelle, che a maggior titolo meriterebbero di esservi incluse. Ma d'al- fra parte se rsiduciamo, come fa Sovrate, tutte le virtù.al sapere, in tal caso ogni virtù si potrebbe acquistare col- l'istruzione, e sarebbe impossibile che un uomo mediocze- mente istrutto; fosse alquanto cattivo. Impossibilità che è ‘contraddetta dal fatto stesso di uonaini, che colla migliere educazione sono rieseiti cattivi cittadini. Nel Pratagera sono affermate entrambe queste conseguenze, che si esclu- dono a vicenda, e si chiude il dialogo col porre il pro- blema, ehe così come sta è insolubile 1); imperoechè dalla premessa la « virtù è scienza » derivano ‘alcuni. assurdi ; 'e dal- l’opposta « la virtù non è seienza » derivano-altri assurdi nou meno gravi dei primi. HI problema, non isciolto nel Pno- tagora, nel Menone poi è presentato sotto un'altra fofma, che lo rende solubile. Non tutta la wirtù sta nella sétienaa, nè tutta nell’abito o nella disposizione dell'animo; chè vha una virtù popolare, dovuta al favor della fortuna cui non è fattibile sottoporre ‘all'istruzione; ma accanto a questa 4) Prot. 364 B. ai pò gip do te iv 7 iaggi i però «auge dx iu a Sudani vin dei pariaeta iruariua ddav CR dor Lai di daxràv dv. 112 trovi un altra virtù superiore, che è riposta nella scienza, e questa non la portiamo con noi dalla nascita, ma l’acqui- stiamo col faticoso lavorio dell'educazione. La virtù dun- que per un rispetto è insegnabile, e per un altro no, se- condochè si parli di quella che si fonda sull’opinione, o dell’altra che poggia sulla scienza 1). Ma quale difficoltà ci vieta di applicare questo stesso metodo alla quistione metafisica dell'uno? Non avea ragione Platone di opporsi così alla scuola eleatica, che sacrificava la moltiplicità in grazia dell'uno, come alla scuola jonica ed eraclitea, che annullava l'uno in grazia del molteplice? Entrambe dunque le posizioni sia l'uno soltanto è; tanto l'uno non è (in nessun modo) dovevano apparirgli difettose, e feconde di assurdità. Il che vuol dire che tra le due scuole opposte debba sorgere una terza che le concilii, e ponga il problema in una nuova forma. Ma su questo punto ritorneremo a miglior agio quando discuteremo le obbiezioni dell’ Ueberweg contro le dottrine del dialogo , obbiezioni che sì per la loro gravità, come per le molte quistioni che vi si rannodano, stimiamo me- glio di rimandare ad uno capitolo a parte. Per ora toc- cheremo dell'ultima serie degli argomenti dell’ Ueberweg, voglio dire di quelli che si riferiscono al giro dei pensieri e «delle parole che non sembrano platonici. E così all'Ueberweg non sembra platonica la tema del disprezzo, in cui il volgo tiene la dialettica *). Il che mi sembra veramente strano, perchè Platone in molti dialoghi parla dei pregiudizi del volgo contro i filosofi, di quel volgo che credeva tutti i 1) Menone 99 A. @ d'&vSpewrros nyepesv dorw ènì tè 0p36v, dio ravra, dela dinths xa imotiun. V. Fedone 82 B. ove dice della virtù da- porhv ts xaù molrxdv essere di adovs te rad pelimns yeyovutav &vev qi- Vocoglas te xaì vob. 2) Parm. 135 D. dia ris doxovane ayplorov eivar xal xadovplvas Urrò iv modiav adolenytas. 113 sapienti di un colore solo, e tutti battezzava, secondo il costume di Aristofane, per Sofisti. E se il volgo beve così grosso, è ovvio che non sappia distinguere la vera dia- lettica dall’ Eristica, e tenga quella come questa per inu- tile cicaleggio. Il passo del Parmenide è una conseguenza giusta di ciò che Platone ci dice nel VI. della Repub- blica: « Il discredito in cui è tenuta la filosofia deriva dal perchè sono penetrati nel sacro tempio uomini indegni, che usurpano sfacciatamente il nome di sapienti '). E per tal’ guisa del volgo vien deriso il filosofo vero, che col volgo non s' accomuna *) ». Quanto sia ingiusta la critica dell' Ueberweg lo si vede chiaramente nello sforzo, che egli fa per dimostrare che alcune parole, usate nel senso del Parmenide, non sieno platoniche. Così ad esempio non sarebbe platonico il Yévoc nel senso di eis, poco platonico il vodue, e punto la frase tuàotm tv frrovizév, che non potrebbe essere usata da chi sostiene risolutamente l’unità della scienza. Ma ci vuol poca fatica a ribattere questi argomenti. La parola yéoc nel senso d’ idea l’abbiamo trovata anche Sofista e nel Fi- lebo, la cui autenticità, non ostante la mutata opinione del- l'Ueberweg, è fuori di dubbio. In quanto al voipa è usato in un senso molto vicino a quello del Parmenide nel ver- so di Teognide riferito nel Menone 95 E. si d’iîv romrèv (quot) xai Foderov Gvdpi vénpa. E finalmente per la frase ixàota rev éresegisv non è la prima volta che Platone parla di scien- ze al plurale. Anche nel Fedro 276 G. xedév rad agadàv im aviuas e nel Fedone 75 E. izeiva; incoripas 9). 4) La Rep. VI. 495 C. chiama i Sofisti &v3pwricxor... ci dx tiv cipyuiv cis tà ispà &rodidpaaroviss; più appresso li dice toù; &vafiove rmadevosos 496 A. 2) 494 A. quécogov piv &pa rido adivarov civon... sad Toùc prioco- qobvtas Rpa dvapen Pejo da dr’ abrtov. 3) Per tutte queste voci vedi il Lexicon platonicum dell'Ast. 118, Noè vogho, chiudere questa discussione: sull'autentitità del: Barmenide: senza citàre. due osservazioni dello -Schaar- schmidt, sulle queli l Usbemweg non si era soffermato. La prima che il Socrate del Parmenide non. offra nè la verità storica del Socrate reale, nè la verità poetica del So» crate platonico; imperecchè egli non è qui nè l’instanca- bile: ricercatore. della verità , il fine ed ironico polemista. dei. Memorabili, nè il rappresentante ideale del vero filo- solo, quale” si mostra nel Fedone e nella: Repubblica. Net Parmenide la figura di Socrate. impallidisce innanzi a quella dell’ Eleate, nè questi per altro verso è rappresentato meglio , perchè in fendo egli combatte la sua stessa dat trina dell'Unità dell’ Essere. Tutto questo è vero:, ma nen. è nuovo in Platone, che trasforma i suoi perspnaggi. sesendb le esigenze o speculative .o artistiche del dialogo. E qui. Sberave, giovanetto, dovea cedere innanzi. alla:mae-. stosa figura di Parmenide, che anche nel Teeteto viene cin- condato: di grande rispetto.e venerazione. E se Platone mette in: bacea: di, Parmenide la. confutazione: delle proprie: dot- trine, gli fa rappresentare in fin dei conti la. stessa parto che: intenti dialoghi è attribuita a Socrate. Now vorrei dir nulla intorno alla composizione: del dia» logo, e alle: due- parti che secondo lo Schaarschiidt: setn- breno° slegate:, e- non fanno in noi l'impressione di un tutto artronico:- Ripeto anche: qui che se valesse-questo art» terto., quale: dialogo. platonice: potrebbe salvarsi del nau- fragio? Non sarebbe compromesso puranche il- Fedro? Resta ora ad esaminare le argomentazioni tolte dalle dottrine svolte nel Parmenide, il che non potremo fare se pria: noo esamineranno il significato. della seconda par- te, e come questa sì rannodi alla prima. 145 CAPITOLO VII. SIGNIFICATO DELLA 2* PARTE DEL PARMENIDE Il Parmenide è quello tra i dialoghi platonici, che più degli altri patì la vicenda or di un favore esagerato, ed or di un ingiusto disprezzo. Fin dalla remota antichità, mentre alcuni, al dir di Proclo'), tenevano questa opera platonica non dappiù di un garbuglio sofistico, altri all’ in- contro la levavano a cielo, come il capo-lavoro del divino filosofo, che qui drizza il suo sguardo di lince nel più bujo dei divini misteri ?). Le astratte discussioni sull’ esistenza o non ‘esistenza dell'uno e dei molti nascondono, a mente dei Neoplatonici, un senso più profondo, e un’ardita dot- trina, che ci solleva alle somme cime della Teologia. Nella rinascenza, al rifiorire degli studî classici, fu rinnovata an- che da noi questa antica opinione, e Marsilio Ficino, non secondo nell’entusiasmo ai Neoplatonici, nell’ introduzione del Parmenide rompe in quest’ inno: . In Parmenide omnem Plato complexus est theologiam; cumque in aliis longo intervallo caeteros philosophos an- tecesserit, in hoc tandem scipsum superasse videtur. Hic enim divus Plato de ipso Uno subtilissime disputat quemad- modum Ipsum Unum rerum omnium principium est super omnia, omniaque ab illo, quo pacto ipsum extra omnia sit et in omnibus; omniaque ex illo, per illud, atque ad il- lud..... Jllud insuper advertendum est, quod in hoc dialogo cum dicitur Unum, Pythagoreorum more quaeque substan- 1) Ad. Platon. Parm. p. 953 ed 'Stallbaum éwor pòv oÙv éveda- cav Ti Idyw xaù odi toùto ariovygovro eimeiv, ori copibopivo Former 6 Mery. 2) l'lot. Enn. V. I. 8. Priscianus in Proclo ad Timaeum p. 5. Procl. Theo! plat. I. 7. p. 16. 8 116 tia a materia penitus absoluta significare potest, ut Deus, Mens, Anima. Cum vero dicitur aliud et alit, tam materia, quam illa, quae in materia fiunt, intelligere licet. Ad cujus sacram lectionem quisquis accedet, prius sobrietate animi mentisque libertate sese praeparet, quam attrectare mysterio coelestis operas audeat. Ai nostri giorni a queste interpetrazioni arbitrarie non si presta più fede, sebbene le opinioni sul valore del Par- menide non sieno meno discordi di prima. Ed in verità lo storico Tennemann già fin dal 1792, ripresa la più antica sen- tenza, lo considerava come un arfizioso tessuto di sofismi 1). Ed a questa opinione s’accostò l’Herbart, che nella sua de Platonici sistematis fundamento commentatio scrisse: « Eodem ludendi potius, quam docendi animo, quem in Phaedro aperte profitetur noster, subtilioré etiam ejus opera conscripta esse, optimo exemplo est ille dialogus, qui Parmenidis fert nomen; disputatio spinosissima , quam tamen ad veram vel Plato- nis vel ipsius Parmenidis sententiam investiganda adhibere si frustra conaremur, falsae exepectationis motae minime accusandus esset auctor *). (Queste opinioni sembrano pure confermate dal testo stesso platonico, secondo il quale esercizio dialettico è detto uno scherzo, che ha l’aria di un grave negozio 3); scherzo, il quale o serve come esercizio gimnastico (yupvacias éveza) a rafforzare l'intelletto, e renderlo atto alle ardue speculazioni, ovvero, come dice Tennemann, avrebbe l’ intento di combattere la dottrina eleatica colle stesse armi adoperate da Zenone contro l’opi- nione volgare. Secondo questa interpetrazione non val la 4) Tennemann System der plat. Philosophie II. 347 chiama il Parmenide « ein Gegenstiick zu Zeno’s sophistischen Gaukel- spiel. » 2) Herbart's Werke XII. 69. 3) Parm. 137 B. iredirep dosi rpayparesin moaudikv malkew. 117 pena di dipanare quella massa arruffata di sofismi, e tro- vare un significato profondo ad un dialogo, che non ne ha alcuno, tranne forse quello di una imitazione dell’ Eristica, così spiritosamente messa in caricatura nell’ Eutidemo. Senonchè questi critici hanno tralasciato di por mente alla prima parte del dialogo, che contiene una polemica vigorosa contro la dottrina delle idee. Ricordiamoci che quando Socrate, incalzato dalle argomentazioni di Parme- nide, sta per cedere le armi, l' ÉEleate gli raccomanda di . non tenere a vile quell’esercizio dialettico, senza il quale il vero sarà per sfuggirgli (ei de pù, cé Siapevtera: 7 dIdIALA 135. E). Lo scopo adunque della seconda parte dev’ essere certamente quello di risolvere le difficoltà della prima, e con uno scherzo eristico non si potrebbe riuscire a tanto !). Questa difficoltà sarebbe vinta, se fosse vera l’opinione dello Schleiermacher, secondo la quale le obbiezioni della prima parte del Parmenide non vengono risolute in que- sto dialogo, ma preparano la via alle ulteriori costruzioni; il che naturalmente si connette con un nuovo modo di interpetrare le obbiezioni parmenidee. Esse, a mente dello Schleiermacher non sono in fondo se non le difficoltà, in cui imbatte chiunque si faccia a dimandare « qual sorta di realtà convenga ai concetti al dì fuori delle cose, in cui sì manifestano. » Difficoltà di non lieve momento, stante la gran differenza, che corre tra idee ed idee, come viene espressamente riconosciuto nel Parmenide. Ed in verità devi contare le idee morali, o le eterne norme del giusto e dell’onesto; le fisiche, ovvero quelle forme che si ripe- tono costantemente nelle varie produzioni della natura; terzo le idee di ciò, a cui non sì può attribuire un’ esi- 4) Dalle parole stesse di Parmenide, si raccoglie lo scopo della fulura discussione essere: redéws yupvaadpevos supiws dioferda: taInÎés. stenza fissa, come a dire le azioni delle forze naturali; fi- nalmente le idee dei rapporti. Tutte queste idee hanno la stessa natura, ed a tutte sì può attribuire una esistenza di per sè? E se questa per fermo ripugna ad alcune, come si | può concederla alle altre? La soluzione-di queste gravi dif- ficoltà, surse ben presto nella mente acuta di Platone; ma, non potendo adattarsi agli angusti confini di un dialogo solo, vien rimandata ai lavori posteriori, che dal Teeteto in poi intendono tutti di costruire una teorica delle idee, che con- cilii le opposizioni, ed elimini le dubbiezze !). Ma con buona pace dello Schleiermacher io conosco parec- chi dialoghi di Platone, in cui sono nettamente formolate le dottrine criticate nel Parmenide; ma in nessun d' essì sì fa cenno di queste critiche, ed in nessuno vi si risponde. Del resto neanche lo Schleiermacher. crede che la seconda parte sia una riproduzione della dialettica Zenoniana, fatta a bella posta per combattere la scuola eleatica. Ed adduce al proposito questa buona ragione, che se Platone avesse voluto ferir Zenone colle stesse armi da lui adoperate, non gli avrebbe risparmiato quella fine ironia, a piene mani profusa nei dialoghi, che come l’ Eutidemo o il Gorgia o il Teeteto intendono a combattere le altre scuole ?). Se la seconda parte del Parmenide non è rivolta a ri- solvere le difficoltà della prima, nè a combattere i dommi della scuola eleatica, qual’ è dunque il suo intendimento? Secondo lo Schleiermacher la seconda parte è legata più strettamente di quel che si creda alla prima; anzi si può dire che ne sia la continuazione. Nella prima parte furono svolte le difficoltà che nascono spontanee, quando ci fac- ciamo a determinare la natura delle idee. (Jueste stesse difficoltà nascono parimenti quando ci mettiamo a studiare 4) Schleiermacher Platon's Werke II. 1. p. 90. 2) Op. cit. p. 98. 4119 ciascuna di queste idee separatamente, come a dire l’idea dell’ Uno considerata ora in sè stessa, ora nei suoi rap- porti cogli altri concetti dell’ essere , del molti, del mo- vimento del riposo e simiglianti. E come nella prima parte la maggior difficoltà si trova nella differenza, che intercede tra le varie specie d'idee; così nella seconda le contrad- dizioni rampollano dalla varietà di accezioni in cui può venir tolto il concetto dell'uno e dell’ essere. Lo scopo dunque di tutto il dialogo non sarebbe quello .di dare una solu- zione definitiva delle aporie, la quale vien rimandata a lavori posteriori; ma di mostrare bensì l’importanza e la difficoltà della ricerca !). Ed a questo concetto, sebbene muova da altri presup- posti, s' accosta il Grote, la cui interpetrazione del Parme- nide, se anche non accettevole, si raccomanda senza dubbio come nuova ed ingegnosa. Anche il Grote stima vana fatica il cercare nel Parmenide una dottrina determinata, che valga a dileguare i dubbî sorti contro la teorica delle idee, perchè l’ intendimento di questo dialogo non è costruttivo, ma critico. In Platone, dice il Grote, trovi due uomini, il filosofo speculativo ed il critico. Il primo, prestando mag- gior fede al fervore dell’ispirazione, che alla sobrietà della scienza, s' avvisa d'intuire le idee eterne ed immutabili, causa e modello della natura; e ceacciandosi arditamente nel bujo del passato e dell’avvenire, vi descrive minuta- mente la vita, che menavano le anime prima di entrare in questo basso mondo, e. quella che saranno per menare, quando ne verranno fuori. Il secondo per lo contrario, scevro di misticismo , si affida ad un acuto spirito di. ri- cerca, che contrasta apertamente colla prima tendenza. Con- forme a questo spirito nei dialoghi inquisitivi, sc vogliamo dirli così, Platone non propone nettamente una tesi da 4) Op. cit. p. 93-94. 120 dimostrare, anzi sembra non ne abbia alcuna. La ricerca e la discussione acquistano maggior valore della conclusione, la quale il più delle volte manca affatto, ed il dialogo si chiude bruscamente, lasciando il lettore in penosa incer- tezza. Il che dimostra di quanto l'elemento negativo la vinca in questi dialoghi sul positivo; e come Platone non dubiti di porre in luce le contraddizioni o le difficoltà di una dottrina, anche quando non ne abbia altre da ‘sostituire. Ma l’opera, in cui l’elemento negativo risalta con mag- giore. evidenza, è senza fallo il Parmenide. Nel qual dialogo Socrate, fattosi caldo ammiratore della dialettica, si affida di rischiarare a quella luce divina le più profonde oscu- rità della conoscenza. E per tal guisa il filosofo più cauto, e più critico che conosca la storia del pensiero ellenico, mutato abito, qui apparisce come dommatico ostinato, con- tro il quale si debbono torcere le stesse armi, da lui usate per confondere la boriosa fidanza dei suoi predecessori. Se- nonchè per una curiosa trasposizione di parti, o forse in omaggio al sentimento ellenico della Nemesi, l’ufficio cri- tico vien sostenuto, di contro a Socrate, dal più dommatico dei suoi predecessori, da Parmenide d’ Elea '). Il quale in tutto il corso del dialogo, serbando accuratamente il suo nuovo carattere, non insegna dottrine proprie, nè cerca di far proseliti ad un sistema; ma tolto in prestito il fare socratico, restringendosi a trarre in impaccio il suo inter- locutore, or gli mette davanti un' opportuna distinzione logica, ora accenna di sfuggita ai dubbî e alle perplessità della mente umana, ed or più franco e risoluto. muove sottili obbiezioni contro le dottrine dommatiche, tra le quali primeggia quella delle idee separate. Ed a questo severo spirito di ricerca rispondoro mira- 1) Plato and the other companions of Sokrates. Lond. 1865 II. 263-278. 121 bilmente alcune massime, che anche oggi costituiscono il canone fondamentale del criticismo. Come a dire che la valutazione per sentimento non debba turbare la serena contemplazione del vero; che agli ecchi del Filosofo non vi sia nulla di spregevole, sentenza ripetuta nel Sofista e nel Politico; che l’idea, in quanto conosciuta, torni sem- pre un quid relativo al soggetto conoscitore. Nè discorde da questo indirizzo è il metodo, che Parmenide raccomanda, perchè il filosofo non diventi gioco di facili allucinazioni. Questo metodo, di cui tutta la seconda parte del dialogo ‘è un esempio, sta solo nell’ ingenerare dubbi ed incertezze nei novizii, che di lor natura sono inchini alle affermazioni dommatiche. Socrate è avvertito di non tenersi esclusiva- mente ad un lato dell’ ipotesi trascurando l’opposto, nè di affidarsi a preconcetti o propri o tradizionali, dai quali sì suol trarre con sicurezza le conseguenze, incuriosi delle opinioni contrarie, che pur dovrebbero essere valutate met- tendole in confronto con quelle da noi abbracciate '). Questa interpetrazione, seguita il Grote, ha il vantaggio di tenersi strettamente al linguaggio platonico, il quale non abbiamo nessuna prova che abbia un significato più riposto e diverso da quel che suona. Chè anzi quelli che attribuiscono a Platone un proposito dommatico , si muo- vono sovra un terreno ipotetico, e sforzano tutto il loro ingegno per ritrovare nel dialogo ciò che di nascosto vi hanno messo. E la verità e discordia delle ipotesi addotte attesta senz’ altro la loro insussistenza. Questa argomentazione del Grote parte dal presupposto che in Platone prevalga l’ elemento critico al dommatico. Ed in favore della sua tesì lo storico inglese adduce, come 1) In una parola: It is this one-sided mental activity, and premature finality of assertion, which Parmenides seeks to correct. p. 295. ‘422 dicemmo, alcuni dialoghi — il Liside, il Protagora, il Tee- teto — ngi quali scarseggia, o manca affatto la conclusione, mentre sovrabbonda la finezza delle osservazioni, e la co- pia dei felici argomenti nel corso della discussione. Ma noi già notammo non essere questi dialoghi isolati, e ciò che manca in loro venire apprestato da opere posteriori. Così per mò di dire, il Menone è il naturale integramento del Protagora, la Repubblica del Teeteto e simili. In Platone poi appare ben lieve traccia del cauto procedere, proprio de- gl'ingegni eritici, e nella maggior parte delle sue opere al contrario — nel Fedro, nel Convito, nel Fedone, nel Timeo nella Repubblica — non risparmia le più ardite costruzioni, affidandosi meglio alla creatrice fantasia, che non al severo intelletto. E se nei dialoghi schiettamente socratici, e nei polemici la sottigliezza della discussione la vince di gran lunga sulla novità ed arditezza dei concetti; nelle opere posteriori le parti si scambiano e l'elemento dommatico e costruttivo soffoca il suo rivale. Tutta la quistione adun- ‘que si riduce a determinare il tempo in cui fu scritto il Parmenide, e il posto che gli si debba assegnare tra gli altri dialoghi platonici. Ma il Parmenide evidentemente fu scritto, e Grote il riconosce, dopo la creazione delle grandi teoriche. delle idee, e della reminiscenza e dell'immortalità, che a quella s1 rannodano. Platone era dunque già entrato nel suo periodo dommatico, ed è molto strano che un autore, il quale mette tanto calore e vita nell’esposizione delle sue dottrine, un autore, nel quale ha tanta parte la fantasia, adoperi poi tutta la finezza del suo ingegno per iscalzare la stessa teorica che egli ha costruita. E badate bene che, secondo la interpetrazione del Grote, Platone di- struggerebbe colle sue proprie mani l’opera da lui fatta, senza speranza di sostituirvi altro; il che non pare certa- mente degno di un filosofo, e molto meno di Platone, mente di sua natura costruttrice. 12% I critici finora esaminata, chi per: una. ragione-e chi per un’altra negano: al Parmenide un contenuto. positivo. Il Parmenide, secando costoro, non espone una-dottrina de- terminata., ma.-solo tocca il metodo, che ci. mena con si- curezza alla scoperta della verità. Ed a torto si è intitolato il Parmenide dialogo intorno alle idee; perchè sebbene ci sieno. alcune critiche contro un modo speciale di concepire; Te idee, non è accennata neppur da lontano in qual guisa debbano andare intese. Una opinione affatto opposta: a que- ste che abbiamo discusse, fu sostenuta con molto vigore. dall’ Hegel, e ripetuta da tutta la souòla hegelliana. Lo: Hegel. crede che non mal s'apponga.Proclo di scorgere nel Parmenide la vera teologia, o il modo come -sì svelino tutti 1 misteri dell’essenza divina. Imperocchè l'essenza, divina non è altro se non l'eterna idea, o il Pensiero che. sì riflette su sè medesimo, nel che.consiste la Dialettica as= soluta.!). Questo giudizio, portato sul Parmenide, mette capo. nella nuova interpetrazione che l’ Hegel adduce della dot- trina, platonica. Secondo lui le idee platoniche vanno sog- gette a false interpetrazioni, e. chi la tiene come essenze che stieno da, sè o.in un mondo sovrasensibile; chi le spac- cia per pensieri di Djo;, ovvero di una; mente posta fuori del mondo; .chi înfine le riguarda quali ideali necessari della nostra ragione, ma destituiti di. effettività. Senon- chè. nessuna di queste interpetrazioni è giusta; chè le idee sono qualche. cosa di reale, anzi costituiscono la, vera realtà, la vera essenza delle cose; ma in pari tempo questo Uni- versale lo spirito non ha bisogno di accattarlo d'altronde, stantecchè lo produce da. sè, in quanto è attività specula- trice. In altre parole quello che è 1’ ideale per la mente, è in pari tempo la vera realtà delle cose. Questa è la 4) Hegel Geschichte der Philosophie. Zweiter Theil. p. 206, * grande idea in cui si assomma la filosofia platonica, l’iden- tità del soggettivo e dell’oggettivo, la indivisibilità dello Ideale e del Reale '). Il sistema platonico dunque non am- mette la trascendenza, bensì l’ immanenza dell’ Ideale nel . Reale, e dell’ Intelligibile nell’ Intelletto. Stabilita questa interpetrazione della dottrina delle idee, egli è chiaro che i dialoghi platonici in cui essa è adom- brata, come a dire il Sofista il Parmenide e il Filebo, deb- bano vincerla su tutti gli altri. Non che spurî, non che lavori giovanili, essi sono invece da tenere come la più alta espressione della filosofia platonica. Imperocchè se le idee non sono trascendenti alla mente, questa ha da pro- durle per sua propria energia, mediante quel processo, che da allora in por fu chiamato dialettico. Bisogna di- stinguere in Platone tre forme di dialettica, la prima che ha comune coi Sofisti, sta nel mostrare le contraddizioni dell’ opinione volgare, la quale rinserrandosi nella: cerchia del finito e del relativo, non può cogliere l’assoluto. Questa dialettica è puramente negativa, e vale solo a confondere l’ intelletto comune, ed a scuotere quella cieca fede che egli ha nelle sue asserzioni. La seconda forma, che è co- mune anche a Socrate, sta nel sollevare la mente dalla particolarità dei fenomeni all’ Universale. Ma nè questa forma che serve alla produzione dell’uni- versale, nè la prima che intendeva alla dissoluzione del particolare, rispondono al vero concetto della dialettica. L’universale, che s° è ottenuto dalla dissoluzione del parti- colare, è ancora indeterminato ed astratto, mancandogli la concretezza, la specificazione, la vita, la quale non si può ottenere se non dal processo del nostro pensiero, che me- rita il nome di dialettica. Per via di questo movimento 4) Diess ist .. eine grosse Idee....die Identitàt der subjecti- vitàt, die Untrennbarkeit des Ideellen und Reellen. p. 184. dialettico l’ idea si appalesa come l’ Unità, che accoglie e concilia in sè le opposizioni del finito, e per tal modo è la vera Idea concreta). Nel Parmenide quest’unità degli opposti è chiaramente un desideratum di Socrate, il quale ben dice il vero miracolo non stare nel dimostrargli che egli, Socrate, sia uno e molti nel contempo; bensì nel mostrare queste opposizioni nel grembo stesso delle idee. Ma Hegel stesso non può negare che il risultato del Par- menide non corrisponda a questo desideratum , imperoc- chè esso è affatto negativo, e non sì è peranco giunti alla negazione della negazione, all’ affermazione *). Senonchè in fondo a questo intreccio di negazioni si occulta un risul- tato positivo, che Hegel espone nel seguente modo: « Que- sto dialogo, il Parmenide, mostra che l’ Uno tanto che sia, tanto che non sia, è uguale e non uguale a sè stesso, è in movimento ed in riposo, nasce e perisce; o.in. altre parole l’ Unità, come tutte le altre idee pure, sono e non sono; l’unità è parimenti uno e molti. Nella proposizione l'uno è sta anche l’altra l'uno non è uno, ma molti, e vi- ceversa nella proposizione il molti è, è racchiusa l’opposta il molti non è molti, ma uno. Così l'uno è essenzialmente identico col suo opposto, e questo è il vero. Un esempio ce lo fornisce il divenire 3). Nel divenire essere e non essere si raccolgono. in indivisibile unità, contuttocchè sieno diversi, e l’uno passi nell’ altro. 1) Op. cit. p. 198. | 2) p. 206. Dieses Resultat in Parmenides negativer Art zu seyn scheint, nicht als Negation der Negation, die wahrhafte Affirmation ausspricht. Un giudizio più severo è portata a pa- gina 202, ove dice: Das Zusammenfassen der Gegensàtze in Eines, und das Aussprechen dieser Einheit fehlt zun&chst in Parmenides, der so, wie jene andere Dialoge, mehr:nur ein negatives Resultat hat. © Dios ) Prego il lettore di riscontrare la nostra espasizione del Parmenide pag. 94-95. i | Questo risultato positivo nascosto mel Parmenide, viene espresso chiaramente :nel Sofista e nel Filebo, il che per fermo costituisce il vero pregio della filosofia plato- niea. Anche dal Sofista e dal Filebo si può racoogliere - essere le idee del «divino, dell'eterno, del bello astratte ed indeterminate, fino a che restino nella loro universalità, enon accolgano nel lor seno la negazione, perchè omnis determinatio est negatio. Ma questa negazione od opposizione, nello stesso punto che è accolta, viene vinta e superata; e l'Idea ritorna nella sua unità, non più astratta come prima, ma ricca della vittoria riportata. In questo ritorno sta la vera libertà, la vera vita dell Universale. In altre parole l' Uno, estrinsecandosi nel molti, nell'altro, nel diverso sì trova identico con sè, o, per adoperare il linguaggio teolo- gico, Dio nel creare il mondo torna a sè medesimo !). Questa interpetrazione , che riduce il Platonismo al si- stema della più schietta immanenza, trova gravissimi osta» coli in quei dialoghi platonici che affermano chiaramente la trascendenza delle idee da tutti gli aspetti. Nel Timeo e nella ‘Repubblica le idee sono separate dalle cose; ed il mondo intelligibile è un tutto così chiuso ed affatto oppo- sto al sensibile, che per quante mediazioni si escogitinò, or nelle specie nuraeriche , or nell'anima del mondo, or nel concetto della materia prima, l’abisso che separa questi due regni non si può colmare. Nè mero trascendenti ap- pajono le idee rispetto alla mente che le intuisce, sebbene torni difficile a pensare come questa si renda intimo ciò che trascende le sue forze. Ma Platone non ignora la dif- ficoltà del problema, cui disperando di risolvere, tenta ar- ditamente di evitare, spostandolo. E così questa sublime intuizione delle idee vien. posta in una vita anteriore alla mondana, quando l’anima, non isvigomta dalla resistenza 4) Ivi p. 213. 499 del corpo, ha facoltà ed attitudini ben «superiori ‘a ‘quelle che dispiega nella vita terrena. Tale dottrina ha bisogno di altri due presupposti; il ‘primo che l'anima, cadendo nel mondo sensibile, perda la sua efficacia primitiva, e scordì in qualche guisa quella celeste visione che la beava; il secondo che la dimenticanza non sia così profonda, che qualche vestigio dell'antica beatitudine non resti tuttavia, nel che consiste la reminiscenza platonica. Occorre altresì presupporre: l'eternità dell'anima, .o almanco la preesistenza in altri mondi, e la sua indipendenza del corpo; poste le quali condizioni, segue necessariamente la immortalità. f)ueste teorie si tengono strettamente tra loro e ‘tutte ‘mettono eapo nella dottrina della trascendenza ‘del mondo ideale. E l’ Hegel non nega che in molti dialoghi appari scano manifeste tendenze verso concetti affatto opposti a quelli ehe, secondo lui, sono racchiusi nel Filebo, nel So- fista e nel Parmenide. Ma concilia queste contraddizioni ‘ol supporre :che le teoriche della reminiscenza, e dell’ im- mortalità sieno affatto simboliche; e racchiudano un signi- ficato molto più profondo di quel che alla -lettera sì po- trebbe ritenere. Non si può certamente negare che in Platone abbondino i miti e le allegorie, e che sarebbe ri- dicolo intendere letteralmente il famoso mito del cocchio nel Fedro, o dell’androgino nel Convito, ovvero quello della caldaja in cui vien formata l’anima del mondo nel Timeo, ed altri mille. Ed alla stessa stregua potrebbe essere mitica da dottrina della reminiscenza, la quale non vorrebbe dire altro se non la spontaneità dello spirito umano, che trae dal suo fondo il contenuto delle idee, senza attingerlo dall'esperienza. Per tal guisa il mito della reminiscenza nasconderebbe la profonda dottrina dell'apriorità della co- gnizione !). E parimenti la teorica della semplicità ed im- 1) Op. cit. p. 177 e segg. 428 mortalità dell'anima non si dovrebbe intendere nel senso che l’anima sia una cosa semplice, come un atomo chimico, ed immortale perchè incapace di alterazione. Questa è la rappresentazione comune dell’ immortalità; ma il suo vero significato speculativo, sarebbe la vita perenne dello spirito '). Senonchè questo modo d'intendere una gran parte delle dottrine platoniche per allegorica ci sembra molto ardito e pericoloso. Egli è difficile per fermo tracciare nel Pla- tonismo una linea, che divida esattamente la parte mitica della razionale. Ma non si può senza un corredo di prove tenere per allegoriche alcune dottrine, sulle quali a diverse riprese Platone ritorna con uno studio particolare, non dandole certo per leggende raccontate da Diotima, o tolte da antiche tradizioni, ma per teoriche scientifiche, confor- tate da severe argomentazioni. Una prova decisiva contro l’ Hegel vien fornita dalla te- stimonianza di Aristotele, il quale rivolge le. punte della sua confutazione principalmente contro la dottrina delle idee come entità separate. Nè solo la critica di Aristotele mal reggerebbe se si togliesse di mezzo la separazione; ma non sì potrebbe neanco comprendere in: che differisca in ‘tal caso l’idea platonica della forma aristotelica. E per quel che riguarda l’altro aspetto della quistione, cioè la trascen- denza dell’Intelligibile in rapporto dell'intelletto, possiamo addurre l’esplicito testo di Platone in favor nostro. Impe- rocchè appunto nel Parmenide , dialogo di cui l’ Hegel tiene maggior conto, viene recisamente negato che le idee possano esser prodotte dall'attività del pensiero ?). Platone resta sempre fido alla dottrina della Repubblica, secondo la quale non può darsi che l' Inielletto crei l’ Intelligibile, ma per l'opposto l’Intelligibile crea l’Intelletto. È qui tor- 4) Ivi p. 186 e segg. 2) V. sopra pag. 82 nota 2. 129 na acconcio di ripetere, quello che già accennai nella di- scussione sul Sofista: non potere la dialettica platonica andare intesa così, che rinverghi a capello coll’eghelliana. Imperocchè in essa le idee, nonchè nascere dal movimento del pensiero, vengono presupposte come date; onde l’arte dia- lettica sta solo nel saperne scoprire i più riposti rapporti '). Finalmente non tralascerò di notare che l' interpetra- zione dell’ Hegel mal s' accorda colla caratteristica del fi- losofare ellenico, che egli stesso per il primo seppe cogliere con l’usata maestria. Imperocchè la nota propria della spe- culazione greca, secondo l’ Hegel, è l’obbiettivismo o me- glio la tendenza a dare per realtà estrinseche le intuizioni ed i concetti della mente nostra ?). E questo stampo ca- ratteristico è siffattamente indelebile, da non cancellarsi del tutto neanco nei periodi meno dommatici della filosofia greca, come a dire nel criticismo socratico, e nello scet- ticismo della Nuova Accademia. Chè quello tiene per ob- biettivo il concetto della Finalità, e questo, mentre da tutte parti rovina per opera sua ogni edifizio filosofico, serba, non foss altro, intatta la fede nella realtà ed obbiettività del proprio filosofare; onde la calma e la serenità dello scetticismo antico, che contrasta così apertamente coi dolori e le ansie dello scetticismo moderno. Ma se la dialettica platonica avesse il valore. che Hegel le attribuisce, noì sa- remmo in pieno subbiettivismo assoluto. Per Platone, come per Hegel, la mente umana trarrebbe dal suo fondo per deduzione trascendentale le idee tutte, le quali alla lor volta sarebbero le forze informatrici della natura. E così 1) In questo senso ha ragione il Janet (Etudes sur la dia- lectique dans Platon et dans Hegel pag. 81-82); la dialet- tica non scopre nulla di nuovo. Ed in verità le idee del mo- vimento e della quiete nel Sofista non sono certo dedotte da quella dell’ essere, ma bensì attinte dall’ intuizione. 2) Hegel Geschichte der Philos. I. 183. 4190; Platone senza il precedente storico dell’idealismo Kantiano, pervenuto d’un salto alla dottrina dell'autonomia dello spi- rito, avrebbe avuto piena coscienza dell’ identità del Reale e dell’Ideale. Il quale anacronismo. sarebbe una grave ed; inesplicabile eccezione alle leggi che governano lo sviluppo ‘ non pure del pensiero filosofico, ma principalmente dell’ elle- nico. In una parola una delle due: o l’obbiettività non è il carattere proprio della filosofia ellenica, o l’ interpetrazione eghelliana del Parmenide è tutta moderna, e presta al Pla, tonismo concetti e pensieri che non gli appartengono. . Ma ammesso per poco che la seconda parte del Parme- nide si debba intendere nel senso eghelliano, si può sem- pre dimandare in qual rapporto stia colla prima, Hegel in. vero non tocca, questo problema; ma dall'insieme della sua esposizione. è. facile argomentare quale.sarebbe stata la sua risposta. Platone, che suol parlare in istile metaforico, e nascondere il suo pensiero speculativo sotto un fitto. ve. lame di miti ed allegorie, non poteva non ingenerare nei suoi uditori molti dubbii, ed incertezze così, da non essere pochi quelli che fraintendessero .il suo pensiero, togliendo alla lettera quello che ei soleva dire in. forma poetica; Di. qui nacquero le obbiezioni della prima parte del Parme- nide, le quali poggiano tutti sovra una falsa interpetra- zione dell’ idea. platonica. Bastava smettere il linguaggio mitico, ed usare quello di una dialettica rigorosa per dis- sipare gli equivoci e sciogliere le difficoltà. Chè se anche queste obbiezioni non fossero state ben formolate nella sua, scuola, sarebber potute nascere in seguito; e non fu piccol. merito di Platone, l’averle prevenute e sciolte anticipata- mente. In una. parola la critica delle idee, racchiusa nella prima parte del Parmenide., non s°’ indirizza. contro. una dottrina già professata, ma è una discussione preliminare, che togliendo di mezzo gli equivoci, spiana la via alla retta 134 intelligenza della dottrina. In questo senso il Werder, che adotta |’ interpetrazione dell’ Hegel, spiega e commenta le obbiezioni della prima parte del Parmenide. Lo scopo del dialogo è senza alcun dubbio quello di provare l' identità primitiva dei contrari, come l’uno e il molti, l'essere e il non essere e simiglianti. Quae identitas eadem apparet in Pla- tonis physica et ethiea, sicut Parmenides utriusque fonda- menta continet, contemplans enim notiones per se ipsa8, illi altiori ac puriori cognitioni, atque hoc modo primitivae co- gnitionis et essentiae identitati, locum praeparat !). La prima parte del Parmenide serve dunque di prepa- razione ed avviamento alla vera teorica delle idee. Ma noi non possiamo assentire a questa opinione del Werder. Se un Autore escogita difficoltà e dubbî col proposito di me- glio dichiarare le proprie dottrine, mette senza fallo in maggior luce le risposte e non le obbiezioni, cui non po- trà mai dare gran rilievo, essendo intimamente convinto della loro vanità. Ma nel Parmenide succede proprio l’oppo- sto, e le difficoltà sono messe in tanta evidenza, e serrano così tenacemente l’avversario, che Socrate si dà per vin- to, e dichiara di non trovar la via per risolverle. Questa via Parmenide crede di trovarla nel modo dialettico, di cui fa una larga esposizione; ma non ricerca il come da questo metodo sì possa trar partito per rassodare la dot- trina delle idee. Cosicchè la parte più luminosa del Par- menide è la critica, e la più oscura è la risoluzione. Il che ci fa ragionevolmente sospettare che le difficoltà non sieno per nulla provvisorie, ed escogitate ad arte per una migliore intelligenza della dottrina. Tutt' altro. Nel Par- menide Platone ci apparisce come un Autore coscienzioso, il quale non si dissimula le obbiezioni che vennero fatte 4) De Platonis Parmenide Dissertatio, auctor Car. Frid. Wer- der Berl. 1833 p. 14. 9 192 alla sua dottrina, ma ie raceoglie quale le ha udite, ediè in cerca di un mezzo sicuro per isgroppare il malagevale nodo. Ma c'è di più. Se le difficoltà :del Parmenide sono tanto- futili, come pretende il Werder, e fondate tutte su d’un grossolano equivoco, ma come mai uno serittore casi acuto e coscienzioso , qual’ è certo Aristotele, le ha. fatte talmente sue da ripeterle su tutti i toni nella critica che Ei. muove alle dottrine del Maestre? . . . 1 Fiorentino, hen conscio della gravità di queste ohbie- zioni, in cerea di via che le schiwi, sostiene nettamente aver Platone mutato avviso, e alla dottrina della metessi e dei simulacri voluto sostituire « una nuova spiegazione, il cui sviluppamento è appunto il contenuto del Parme- nide » 4). L'interpetrazione poi che adduce del dialogo non è disforme dall’eghelliana. « Il contenuto del Parmenide, ei dice, si risolve in una- trilogia, ch'esprime il ritmo della dialettica vera di Platone. La prima parte presenta l’idea solitaria dell'uno, e l’annulla. La seconda pre- senta la medesima idea appajata con quella del non uno o dell'essere, e la mostra in questo connubio implicata nella contraddizione. La terza parte risolve: la contraddi- zione col momento che è il diventare » (pag. 158). Ma a me sembra che il trapasso dalla teorica della metessi e degli influssi a quello della dialettica assoluta sia un salto così smisurato, che difficilmente potrebhe farsi da un Uomo, per vastissimo ingegno che egli abbia, sopratutto nel tampo, in cuì la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi &losofici sono appena abbozzati. Aggiunga ancora che il raocostamento della dialettica platonica all’eghelliana sa rebbe giusto se nel Parmenide éi' fosse solo la prima an- timomia, che si chiude coll’ accenno alla teoriea del mo- 4) Fionentino. Saggio Storieo sulla Filosofia Greca — Firen- se 1364 p. 90 e 123, t13:) mento. Ma dccanto a questa antirtomia è un’ altta, la quale, partendo dal presupposto contrario al precedente, non si saprebbe nè a ché giovi, è dove meni. : H Fiorentino al pari dell'Hegel e del Werder fotse non tetiheto in gran conto it fare hegativo di tutto il dialogo, sebbene arche lui, come gli altri non risparnifito acute cortsiderazioni sui difetti e le stonature della dialettica pla tottica 1). Fu il prime lo Zeller, il quale avérdo presente mon: una sola parte del dialogo, ma tutto il 6dniplesso giudicò che. il metodo adoperato mon fosse la trilogia eghele liana, bensì il processo ipofefico, o Feductiò ad abstrdimi, il cui risultato, benchè negativo, chiaràmente ci addità' il risultato positivo:, cui vtolé pervenire Nella prima anti= nomia Platone dimostra ehe se }Y Uno fosse solo così, non gli. si potrebbe attribuire nessun predicato e ‘ron sarebbe perisabile. Se all’ Uno al contrario glt vogliamo attribilire un predicato diverso da sè, altora nasee unta molteplicità ideale » e quello che prima ei sembrava uno, sì tompe in una infinita. varietà. Senonchè in questo casò fiasconò evi- dentà confraddizioni. Percliè intendendo per l' Uno: 1° Ente isolato degli Eleatici, non dovrebbe aver luogo' in nessun modo' la molteplicità ; nientre per potersi pensare bisogna che l Uno si romipa: in Un& molteplieità di predicati. Come: si fa: a risolvere questa contraddizione? Nort certo ci giova! al riegare: netto l’Uno, péréhè è dimostrato nel piùmo mém- 1) Fiorentino op. cit. p. 159, é Werder op. cit. p. 44 diov lecticae unitatis clementa secundum oppositionem et relationem- sue perspeota sunt; sed non omnibus cs partilus absoluta . relinquitur, cum transitus oppositarum non in iis ipsis et per eas ipsae explicatuse, non ad summam illam perveniat unita- tem quae se ipsam et sibi contrariuni, irvitatomi et. descrimen? suum complectens efficit et intelligit; sbd to drdta #0 dato collocatus: sit in io iv ypivo over versante. quod: quidenì tam quam causam et fundamentum ewplicativnis didlecticae inlued ris, Quamrvis ipsit non siti. 134 bro della seconda antinomia, esser l’ uno un concetto ne- cessario della nostra mente, ed anche negandolo, lo affer- miamo come un dato concetto, che non si possa confondere con altri. (Questa dimostrazione, dice acutamente Zeller, corrisponderebbe all'argomento ontologico delle scuole, per il quale si dimostra che Dio è, perchè del concetto dell'asso- luto la nostra mente non può far senza. Dippiù se mancasse il concetto dell'uno, neanche quello del molti si potrebbe dare, perchè il molti suppone la ripetizione dell'uno, argo- mento questo che risponderebbe al cosmologico, secondo il quale dall'effetto risaliamo alla causa, o dal composto al semplice. (Qual è il costrutto che possiamo ricavare da queste antinomie? Le proposizioni l'uno è e l'uno non è esprimono 1 due presupposti, già combattuti nel Sofista, che cioè tutto sia uno e che tutto sia un molti. Se que- ste due posizioni menano entrambe all’assurdo, è necessario che il vero Ente debba essere determinato come l’ Unità che in sè abbraccia la molteplicità '). E se questo molti è la materia, 0 11 mondo sensibile, e se l’ Uno è l’Idea o l’in- telligibile, la formola precedente si trasformerà in que-. st'altra: l’ Intelligibile comprende in sè il sensibile. (Qui siamo tornati ad una parte della interpetrazione eghelliana, vuol dire all’immanenza dell'idea rispetto alle cose, -0 meglio all’ insidenza delle cose nell’ idea. (Questa interpe- trazione dello Zeller, accolta con favore dagli studiosi del Platonismo, come il Susemihl, il Ribbing, il Neumann ®) lo Stein 3), venne combattuta da altri. E il più recente e 4) Das wahrahat Seiende als eine die Vielheit in sich befas- sende Einheit bestimmt werde. Zeller. Geschichte ecc. II. 565. 2) Neumann. op. cit. p. 45. Pro certo habeo Platonem mun- dum non în duas partes inter se disjunctas et idearum et re- rum divisisse, sed statuisse ea quae în natura mobilia et mu- tabilia sint nulla alio modo nisi ideis, in quibus solis sit ve- ritas et aeternitas, vita et essentia instrui posse. 3) Stein-Sieben Biùcher zur Geschichte des Platonismus. Gott, 1862 p. 219. 135più vigoroso attacco l’ebbe dall’ Ueberweg, il quale, come dicemmo nel capitolo precedente, tolse appunto da questa critica un altro argomento contro l'autenticità del Parme- nide. E impossibile dice l’ Ueberweg che nel Parmenide si voglia provare per via indiretta I’ insidenza delle cose nella idea, perchè questa dottrina è affatto contraria al platonismo, vero e schietto sistema di trascendenza). Ed Aristotele seguita a combattere le idee platoniche, perchè separate dal sensibile, e non sa nulla di questa pretesa immanenza ‘del Parmenide. A queste ragioni, che mi sembrano molto gravi, l’ Ue- berweg ne aggiunge altre di minor peso, le quali io non saprei accettare. Egli dice che le antinomie della seconda parte del Parmenide non pare sieno trovate per uno scopo polemico, nè sembran tali che, facendo altre supposizioni, possano venire risolute. Per lo contrario l’autore di queste antinomie esprime la sua schietta convinzione, e in tutta la seconda parte par che aleggi uno spirito scettico, una persuasione profonda che la ragione umana, dovunque si volga, caschi necessariamente in parologismi. Questa tinta scettica, che Ueberweg vuole scorgere nel Parmenide, giova certo al suo intento di dichiararlo spurio, ma io in verità non so vedercela. E giova ripetere che secondo le precise parole del 135 D e 136 E. il possesso della ve- rità. è it premio di chi non si stanca facilmente delle ri- cerche dialettiche. Assicurazione per fermo, che suonerebbe assai male sulle labbra d'uno scettico. . i Ma contuttocchè io non possa assentire all’ Ueberweg che lo scopo del dialogo sia nettamente negativo, pure 4) Il Neumann dimandava all’ Ueberweg i testi sui quali si appoggiasse. Ma questi avea citato già il 52 A. del Timeo, e dal Fedro, dal Fedone, dalla Repubblica avrebbe potuto trarre un numero ben più riceo di passi in favore della sua tesi, 496: sono d’atcordo con lui elié lo scopo positivo a cuò tende, mea sia certo l immanenza delle cose riell’ idea. (uesta dottrind ,, tipeto , contrasta troppo con le precedenti di Platone, e néa sì potrebbe ammettere serida una profonda mutazione, di cui l'antichità rion ci tramanda ritordo. Qual’ è dunque il significato de Parmenide? Platone', cothe dicemmo più sopra, stacca siffattamente il sensibile dalle intelligibile ') da attribuire all'uno i caratteri affatto op- posti a quelli dell altro. Raferimmo già un passo del Ti- meo, nel quale è detto esser l’ «des uno, identino a sè me- desimo, iagenerato, imperiture. E not aéeoglie in sè nulla d'estraneo, nè va in altro ?), riè sì può vedere nè perce- pire con altre senso, ma solo ha da esser colto dalla ragione. L'opposto dell'exto3) è invece. sensibile, generato‘, ih eterno movimento, or nasce in un luogo, e testo vi sconiparb;, nè può essere colto se non dalla percezione sensibile. Ed in un altro luogo dello stesso dialogo l'opposizione è rile- vata più. nettamente e da una parte c’è quello che è sem- pre e non nasce mai, da una altra ciò che .nasce sempre e non è giammai *). E. parimenti nel Fedro e nella Re- pubblica si determina l’idea della bellezza in sè, 6ame. qualcosa di unico in opposizione alle molte belle cose ché in tanto sono belle, in quanto partecipano. di quella sola .1) Tim. 54 E. due di Zexricv disivo, Feére qorpio qebrerrer dvopolig te Fyeroy. 2)' Si hotino queste determinazioni 52 A. oùre sli saurò elodeyi- pevov &ido &ilodev oUte abrd sdg daN rd l6b è si dica-se sia coriciliabile colla schietta dottrina platonica, l' immarienza delle cose sen- sibili' nel seno delle idee medesime. 3) L'espressidrie di' eri si serve Platoné per indicare qui l'opposto dell'edos, è la seguente: cò di dpuvupov duods Te desivo deirspov, espressione che giustifica pienamente i rimproveri. di Aristotele. 4) 27 D. "Egr odv di xat' budy d'bav TEpdrTOY didipertov aéde’ ti rò dé de, jiviavi di ox Epov, xal ci rò quyobpevov pv, èv di oùdizere; 187 titea 4. Se l’idea è l'uno, e il mondo sensibile è il molti, come può essa incarnarsi nel monde senza perdere la sua unità? È se tanta opposizione corre tra il mondo sensibile e l’intelligibile, come mai il primo partecipa in qualche modo del secondo? L'idea passando nel sensibile non si corrompe , e il sensibile accogliendo l' intelligibile non si nobilita al di là della propria natura? Queste difficoltà, che sono -Im fondo le stesse del Parmenide, derivano tutte dalla posizione platonica d-Ho stacco assoluto dell’ idea e delle cose. E Platone, convinto di queste difficoltà, senza rinun- ziare all’oggettività e separabilità .delle idee, tenta pure di raccorciare l'intervallo che le separa dal mondo sensibile. Per la qual cosa ei si argomenta di trovare nelle idee stesse gli elementi onde è costituito il mondo sensibile. Già nel Timeo raccosta il sensibile alle idee introducendo il con- cetto del sostrato, dell’ umozsizsvo 0 materia prima, che ha molti caratteri affini alle idee, sendo anch'essa unica, immutabile, invisibile, e colta da una ragione bastarda. Ecco perchè la materia prima tien }uogo dell’ unità nel mondo sensibile , il quale si può dire che, indipendente- mente dalle idee, consta di uno e molti. Ora non resta per compiere l'analogia se non introdurre la molteplicità nel regno ideale. E questo fu tentato da Platone nel Sofista, nel Parmenide e per intramessa anche nel Filebo. Se non che a quella guisa che quel sostrato, o materia prima, che costituisee l’unità del sensibile, non è la stessa cosa del- l’unità ideale, così parimenti la molteplicità, che s’ acco- glie nel mondo ideale, non è identica alla molteplicità sen sibile. E vero che tanto nel Sofista quanto nel Parmenide e nel Filebo vien detto che la grande meraviglia nom stia 1) Rep. VI. 507 B. xa aùrò di uadòv xal adrò &yadàv xad obrto repi mavroy & tore e go))k iride, madri ad var'idiae plav indatov 0g piaxs ouons mdtvres ecc, 138 nell'affermare l’unità dei contrari nel mondo sensibile, sì bene nel dimostrare lo stesso del mondo ideale. Ma non sì deve intendere questa sentenza in tal guisa, come se Platone tramutando la sua dottrina della trascendenza in quella dell’immanenza , ritenesse esser il molti sensibile un momento necessario dell'uno. No, Platone è dualista e resta tale. Basti 11 provarlo la dialettica del Sofista. Nel Sofista ammette la realtà del non-Ente, e come il vero reale è l’idea, così gli fu giuoco forza ammettere anche l' idea del non-Ente. Ma a che si riduce il non-Ente del Sofista? Abbiamo già dimostrato il non-Ente del Sofista es- sere il diverso, cioè il rapporto di esclusione di un'idea dalle altre che vi sì associano. E al non-Ente del Sofista corrisponde il molti del Parmenide. Ogni idea si conserva una, e solo mostra una molteplicità di relazioni con tutte le altre idee, cosicchè si possa dire: ogni idea rispetto a sè essere una, rispetto alle cose, molti. Ecco tutto. Se l’idea è uno e molti al pari della materia, ei pare che l’ impos- sibilità della partecipazione sparisca, e che la difficoltà del terzo uomo sia eliminata. La copia corrisponde all’ origi- nale, e il rapporto che stringe il mondo sensibile allo ideale non è forse quello di péSezs ma di ppiots. Qui evidentemente abbiamo una trasformazione della teo- rica platonica, la quale però non è brusca, perchè contenuta implicitamente nelle prime dottrine. Ed in verità se l’ Ente uno di Parmenide venne moltiplicato infinite volte da Pla- tone, e trasformato in un mondo ideale, non si richiedeva se non una leggiera riflessione per scorgere .in esso il li- mite, il non-Ente e il molti. Questa trasformazione. ac- cenna a un raccostamento a qualche filosofia anteriore? È in qual tempo ebbe luogo? Per rispondere a queste dimande bisogna risolvere l’ ultima quistione, cioè del posto che oc- cupano i tre dialoghi nello sviluppo del Platonismo. 139 CAPITOLO VIII. QUISTIONI CRONOLOGICHE. Del posto che spetta ai tre dialoghi dialettici nella serie delle scritture platoniche non si potrebbe discutere senza riassumere la-grande polemica, che ebbe luogo in Germa- nia intorno all’ordine dei dialoghi platonici. Ma questa sola quistione meriterebbe una memoria a parte, tanto sono di- scordi i pareri, e così numerose le opere che venner su questo argomento pubblicate. Epperò io volentieri rimando il lettore alla monografia dell’ Ueberweg, da me più volte citata, ed alla pregevole introduzione, che il Ferrai pre- mette al suo volgarizzamento dei dialoghi platonici). Io voglio solo ricordare che tutti gl’ interpetri e critici di Platone si possono raggruppare in due grandi categorie, i seguaci dello Schleiermacher, e quelli dell’ Hermann. Se- condo Schleiermacher Platone fin dal principio della sua carriera letteraria avendo già in mente preordinato il piano del suo sistema , conforme a questo disegno scrisse suc- cessivamente i suoi dialoghi per uno scopo didattico, o come ricordo dell'insegnamento dato nell’accademia. In conformità di questo piano i dialoghi platonici possono or- dinarsi in tre serie. 1.° Dialoghi elementari, o ricerche preliminari sui principii della scienza. 2.° Dialoghi che tramezzano tra gli elementari ed i costruttivi. 3.° Dialoghi costruttivi. Ma sin dalla prima serie sono accennate alla 4) Colgo ben volentieri quest'occasione per affrettare coi miei voti la pubblicazione di questo volgarizzamento, opera di così grave fatica, e ricca di studiati proemii e commentarii, da me- ritare più calda e benevola accoglienza. * 140 lontana le costruzioni posteriori, e tutta la dottrina plato- nica è già racchiusa in germe nel Fedro, che, secondo Schleiermacher, è il primo fra tutti i dialoghi platonici. Con questo sistema lo storico tedesco non può tener cunto dello sviluppo intimo della mente platonica. Platone, ei dice, fin dal principio ha chiara nel pensiero la strut- tura di tutto il suo sistema, e solo nell'esposizione ora ne rileva una parte ed ora un'altra secondo i bisogni del- l’ammaestramento. Per lo che non si potrebbe ammettere un periodo schiettamente socratico, in cui Platone non avesse ancora intravveduta la dottrina delle idee, e non fosse ca- ‘ pace di quegli ardimenti speculativi, che tanto ripugnano al cauto riserbo di Socrate. Per lo contrario il pregio dell’ Hermann sta appunto nel- l'aver messo in rilievo questi varii periodi della attività letteraria di Platone, i quali egli poi sa mirabilmente con- nettere coi fatti della vita. A torto adunque, secondo l’ Her- mann, l'ordine dei dialoghi platonici vien ricavato da un pre- teso disegno, che mal si potrebbe ammettere fin dai primordî della carriera letteraria dello scrittore. Una mente così libera ed artistica come quella di Platone non-si poteva certa- mente piegare alle pedanterie di una esposizione scolastica. Per la qual cosa i varii dialoghi mettono capo nelle oc- casioni somministrate dagli avvenimenti esteriori, ì quali naturalmente si ripercuotono nella storia intima del pen- siero platonico. Ma sebbene l’ Hermann parta da premesse così opposte, pure s'accorda collo Schleiermacher nella divisione gene- rale degli scritti platonici ed ammette anche lui tre pe- riodi l’elementare, quello di transizione e il costruttivo, Vera è che f'alementare dell’ Hermann non corrisponde esattamente a quello dello Schleiermacher, perchè il priino comprenderebbe 1 dialoghi, nei quali manchi la traccia della 141 teorica delle idee; il secondo al contrario supporrebbe già stabilita la dottrina delle idee, per dimostrare la quale ver- rebbero aperte ricerche preliminari. In una parola l’elemen- tare dell’ Hermann è affatto socratico, quello dello Schleier- macher non è meno schiettamente platonico dagli altri pe- riodi- Parimenti in queste identiche divisioni i singoli dia- loghi sono distribuiti in modo affatto diverso, cosicchè il . Fedro, che nel sistema dello Schleiermacher è a capo di tutti 1 dialoghi platonici, nel sistema dell’ Hermann apre . la serie del 3.° periodo, del costruttivo. Ma non ostante queste profonde divergenze, vi sono molti punti di contatto tra le due opinioni, le quali mo- dificate in parte, lungi dall’escludersi possono contempe- rarsi in un'ipotesi più larga e più razionale. Che vi sia un disegno prestabilito iu tutta l’opera platonica, Schleier- macher stesso non ha potuto sostenere, ed in ciascun pe- riodo alle opere fondamentali egli aggiunge alcuni dialo- ghi accessori, o Nebenwerke, che potrebbero chiamarsi scritti ‘d'occasione, i quali non entrano rigorosamente nel piano sistematico. Così pure sebbene Schleiermacher stimi che il fecondo genio di Platone fin dai giovani anni abbia tracciate le linee generali del sistema, pure non crede che fin dal principio tutti i particolari di questa vasta co- struzione sieno ben chiari e netti. Lo Schleiermacher adun- que ammette pure un progresso nella speculazione platonica, la quale ravvolta al principio in nube, che ne confonde i tratti speciali, a- poco a poco assume contorni più precisi. E la conoscenza più profonda, che Platone acquista delle filosofie precedenti, serve a render chiari molti punti, che nel primo getto del sistema erano rimasti nell'ombra. Un solo passo ancora, e la costruzione dello Schleiermacher si raccosterà a quella dell’ Hermann. E questo passo 1 se- ‘guaci dello Schleiermacher è pur necessario che lo facciano; 143 imperocchè storicamente egli è più verisimile che nel tempo in cui Platone scrisse il Liside, il Carmide , il Lachete, l'Ippia Minore, l’Apologia, il Critone e il Protagora sl muovesse tuttavia nell'ambiente socratico, e non sì fosse ancora arditamente levato alla dottrina delle idee, che è più o meno diffusamente toccata nei dialoghi posteriori. Ma d’ altra parte ì seguaci dell’ Hermann non possono ne- gare nei dialoghi posteriori quella omogeneità, che tra- disce un disegno preconcetto. Il Sofista, ed il Politico si rannodano da una parte al Teeteto e dall’altra al Parme- nide ed al Filebo. La Repubblica il Timeo ed. il Critia formano per le dichiarazioni stesse di Platone un tutto ben ordinato; ed in molti di questi dialoghi alla forma dia- logica sottentra l’espositiva, come notammo molte volte nel corso del nostro lavoro. Cosicchè l’ opinione dello Schleier- macher se fallisce nella prima serie di dialoghi, acquista maggiore verisimiglianza nell'ultima. E non è punto im- probabile che il Fedro contenga il programma di tutta quella costruzione, che venne poi mano mano colorita ne- gli altri dialoghi. La vera soluzione dunque della quistione platonica, dice hene l’ Ueberweg, sta nell'armonico tempe- ramento delle due opposte opinioni !).. Ma noi non possiamo soffermarci più a nano È sulla qui stione generale , e quello ‘che abbiamo detto è bastevole per metterci nella via di risolvere il problema, che da vicino ci riguarda, voglio dire il posto che spetta ai dia- loghi dialettici. E intorno a questo punto non solo lo Schlgiermacher el Hermann sono pressocchè d' accordo, i ma a loro si uniscono quasi tutti gli altri autorì, il Bran- 1) Ueberweg-Untersuchungen p.107 sind beide Gesichtspunkte der einer methodischen Absicht und der einer Selbstentwicke- lung ‘Plato' s durchweg miteinander zu verbinden, so liegt es doch in der' Natur der Sache und wird auch zum Theil von Hermann selbst... anerkannt. 249 dis, il Susemih], il Ribbing, l Aet, il Munk, lo Stallbaum e lo Zeller. Perlocchè a noi, che non possiamo accettare l'opinione di questi egregi critici, corre il penoso obbligo di una lunga discussione. Lo Schleiermacher crede che il Parmenide appartenga addirittura al primo periodo delle scritture platoniche , e. che tanto questo quanto il Fedro e il Protagora sieno la- vori giovanili, nei quali sì trovano i primi accenni e della dottrina delle idee, e della dialettica, considerata quale tecnica della Filosofia 1). E appunto perchè il Parmenide è, una scrittura giovanile, non è giusto che se ne faccia molto conto, e che gli si attribuisca quel profondo significato che a forza vi cacciavan dentro i neo-platonici; mentre la sotti- gliezza ed anche la puerilità delle argomentazioni tradisce una mente ancora inesperta , che sì trastulla per passatempo ip giuochi eristici ®). Ma in tutto questo ragionamento lo Schleiermacher ha messo da banda la prima parte del Par- 1) Sehieiermacher op. cit. p. 49, Abbiamo già detto che per lo I von a (I. p. 9) e per l’Ast ( Platons Leben und Schrften p. 239-241 ) e ‘per lo Steinhart (Platon's Werke III, 240-242) la seconda pere del Parmenide è un puro esercizio eristico, che secondo Schleier- macHèer fu inseritò nel Parmenide per provare che nella dia- lettica sono poste le condizioni formali di ogni retto filosofa- re. Ed il rettq filosofare soltanto rende possibile la soluzione delle ' difficoltà toccate nella prima parte. Anche il Munk crede che il Parmenide sia una delle prime opere di Plalone, ma' per ragioni affatto diverse da quelle dello, SOAIGRIDACAeE Se- condo il Munk gli scritti platonici hanno per iscopo di espore re, idealizzandola, la vita e l’attività di Socrate. così si or- ° dinano naturalmente in tre periodi. Nelle scritture del primo. è rappresentata la lotta che Socrate sostiene contro, le false, filosofie; nelle scritture del secondo periodo si svolge la pro- pria dottrina socratica, e nelle scritture del terzo se ne con- ferma la vèrità combattendo di nuovo le dottrine, che a ‘quelle si oppongono. (Munk Die natùrliche Ordnung der platonischen | Schriften' Berl. 1875 p. 25 e segg.) Il Parmenide , nel quale Socrate è ancor giovinetto, ‘appartiene al 1° periodo. 144 menide, modello di critica fine ed incalzante, la quale non rivela- in nessuna parte inesperienza giovanile. E la seconda parte stessa, abbiamo già detto non doversi giudicare alla stregua della moderna logica, e far d’uopo di metterci colla mente in quel tempo in cui non essendo ancor nata la teorica del sillogismo, si tenevano ingenuarfiente da tutte le scuole come assiomi o verità evidenti quelle che non erano se non semplici presupposti, cui faceva bisogno di una dimostrazione. Ammesse queste condizioni, la seconda, parte del Parmenide non parrà più sofistica di alcuni libri della. stessa Repubblica. i Lo Schleiermacher inoltre stacca il Parmenide dagli altri due dialoghi, il Sofista ed il Filebo, che secondo lui deb- bono mettersi nel secondo periodo , che vien detto di transizione, in cui primeggia la spiegazione del sapere, e delloperare ragionevole '). Ma questo stacco è ingiusto, ed: il Parmenide appartiene allo stesso - periodo del Sofista; anzi nell'ordine di tempo quello che precede è piuttosto il Sofista, nel quale vedemmo accennato ciò che è sviluppato chiaramente nel Parmenide. . a Più accortamente dello Schleiermacher l’Hermann riunisce 1 due dialoghi dialettici, .il Sofista ed il Parmenide, e in- sieme al Cratilo al Teeteto e al Politico li colloca nel se- condo periodo, da lui chiamato megarico. Dal viaggio, che fece in Megara ?), Platone attinse, secondo l’ Hermann, una 1) Op. cit. p. 50 die Erklàrung des Wissens und des wis- senden Handelns. 2) Questo viaggio secondo la testimonianza del platonico Er- modoro ebbe luogo subito dopo la morte di Socrate, quando Platone contava appena 28 anni, e il motivo’ sembra essere stata la tema dei mali che sovrastarono alla scuola socra- tica dopo la condanna del Maestro. (V. Zeller De Hermodoro Ephesio et: Hermodoro Platonico p. 19). Uerberweg. op. citata p. 119 crede alla data addotta da Ermodoro , ma non al mo- tivo. Hermann non crede nè all’uno nè all’altro, e mette a torto il viaggio di Platone quattro o cinque anni dopo la morte di Socrate, 145 conoscenza. più precisa della scuola eleatica, e megarica. Seb- bene nè l.ardita speculazione di Senofane e Parmenide, nè la via che tennero i Megarici per accomodarla all’ indirizzo socratico trovassero grazie appo lui; perchè ben si accorse che la rigida teorica dell'Ente Uno spiantava dalle radici la scienza medesima; e che non sì apponevano meglio i Me- garici, 1 quali, pur moltiplicando l’ Ente Uno parmenideo tante volte, per quanti erano 1 concetti socratici, non ces- savano per questo di ravvolgersi in un arido formalismo. Per tal guisa il nostro filosofo non solo ardisce nel Teeteto e nel Sofista di ribellarsi contro il gran Padre Eleatico, cui Egli pur circonda di.tanta onoranza; ma nel Parmenide fa che il venerando Vecchio critichi e condanni sè mede- simo. Nè meno. acerba è la critica, che in questi dialoghi vien fatta della dottrina megarica; imperocchè non pure il 248 A. del Sofista, ma tutta la prima parte del Parmenide si ha da riferire ai Megarici, la cui teorica delle idee è ben: diversa da quella di Platone. Il Parmenide adunque è un dialogo polemico; la prima parte combatte le idee separate come le intendevano i Megarici, la seconda rimontando alla sorgente di questo errore, s avviene nella scuola elea- tica, e contro essa adopera le stesse armi di Zenone. Che cosa resta di queste scuole? Null’altro se non la neces- sità di compierle in una dottrina superiore, che sarà quella appunto che Platone svilupperà nei dialoghi costruttivi a cominciare dal Fedro per finire nel Timeo e nelle Leggi. In una parola il Sofista ed il Parmenide si potrebbero - dire, secondo l’ Hermann, dialoghi preparatorî, in quanto per la critica delle dottrine e teoriche anteriori Platone s' apre la via alla costruzione del proprio sistema. « Questo dia- logo, dice l' Hermann del Sofista, non solo oppone agli Eleati ed ai Megarici un altro metodo dialettico, ma at- tacca quella scuola nel centro stesso della loro specu- 4» lazione. Esso iflsieme al Parmenidé , che quella vittoria compie di4letticamerit, del’ esset collocato per necessità innadti al périodo , m<éol aionvsolo si «e0nOscono le idee domé concetti é sede dell’ Essenzialità e Verità, ma benanco le cose serisibili si tengono quali copie. delle idee; la quale dottrind nori potéa nastere prima che la filosofia speculativa dimostrasse l'incommensurabilità dei fenomeni colle pure forthé del pensiero 1). » E più appresso: « la dialettica del Parmenide not rampolla dallo spirito del sistema platonico, ina piuttosto dalla necessità di stabilire i nuovi principî sulla rovina delle Antiche speculazioni » ?). Di questò stesso avviso fu il Brandis, il quale col pa- ragotiare il Parmenidé al vestibolo di un magnilico pa- tazzo 3) faceva chiaramente intendere che, secondo lui, que- sto dialogo precede di poco le grandi costruzioni del Fe- diné ; della Repubblica e del Timeo. Nè diversamente giudica lo Zéllér, secondo il quale il Parmenide chiude la serie dei dialoghi dialettici, e porge l’addentellato a quellà dei Cosfruttivi, a capo déi quali s' ha da mettere il Filébo *). E sulle ormé dello Zeller il Susemihl crede che il protésso ipotetico dél Parmenide serva ad un tempo é a ferire N Eleatismo colle stesse sue armi, ed a stabilire it và Via indiretta la dottrina delle idee 5). | Paririenti il Ribbing métte anche lui il Parmenide alla fine del secondo periodo, sebbène attribuisca a questo dia- logo maggiore importanza di quel che solessero gli altri critici. Il Ribbing non accetta la teorica dell’ Hermann, Ivi I Bràidis-Hardbuch derGriech'ischen Romischen Philosophie Berlin 1844 vol. MH. p. 259. 4) Geschichte. der griech,, Phi]. II. p. 402. pi Si Susemihl Die genetische Filiwichelung der plat. Philoso- prié I 332. mega ro. und System der plat. phil. p. 502. €47 secondo la ‘quale il Platonismò si-sarebbe formato a ipetzi; onde il più artistico fra 1 sistemi di Filosofia mancherebbe di ‘unità ed «armonia; ma si raccosta invece .all’ opinione dello. Schieiermacher come venne interpetrata e modificata dal ‘Brandis. Vale a dire che Platone fia dal principio della sua vita letteraria abbia concepito in un modo vago e ge- nerale da dottrina «delle idee, the ‘poi ‘coll'andar del tempo sviluppa e compie da diversi lati!).. « E primieramente prevale l'aspetto teoretico formale, 0 meglio la necessità del gongetto .e della definizione come ‘forma del vero sa- pere, in accordo col metodo e coi risultati teoretici del So- cratismo; all'aspetto teoretico poi sottentra il'pratico-reale, ovvero la necessità di un contenuto assoluto sia nel eo- noscere come nell’operare, quale principio della vera virtù e felicità; segue in terzo luago una deduzione da premesse soggettive e psicologiche, nella quale sono racchiuse le dot- trine, che preparano e rendono necessaria quella delle idee (come ad esempio la celebre teorica della reminiscenza); in quarto luago s’ mvestiga il sostrato oggettivo e reale in tutto ciò che appare soggettivo e fenomenico; in altre pa- role si ricerca l'Ente nel divenire, la -cosa nell'immagine, e questo sarebbe l'aspetto ontologico ed insieme logico delle idee (Sofista). In quinto luogo questo sapere ed es- sere è considerato come l'assoluto che è in sè e da per sè ‘(Parmenide). In sesto luogo, presupposta questa. dottrina metafisica , si procede sinteticamente alle teorie cosmolo-. giche ed etiche, che da quella derivano » ?). Da questo riassunto si scorge come il Ribbing consideri il Parmenide quale di gran lunga superiore al Sofista. Im- perocchè in questo sono studiate le ‘idee nei loro rap- 1) Ribbing-Genetische Darstellung der Platonischen Ideen- lehre. Leipz 1863-64 TI. pag. 96-97. 4) Op. cit. I. 84-85. 10 148 porti logici ed'ontologici, in quello all’ incontro ne ‘vien messo in rilievo il valore metafisico, o in altre parole l’assolutezza. Ciò non pertanto siccome la via tenuta nel dialogo è tuttora indiretta od apagogica, così-il Parmenide appartiene al giro di quelle opere, nelle quali come nel Tee- teto, Sofista, Politico, Menone, Eutidemo e Cratilo si ascende analiticamente alla teorica delle idee, processo che Platone suole addimandare irifzez. Ma il Parmenide è al culmine di questo processo ascensivo, è da esso prende le mosse il terzo periodo o sintetico e costruttivo, i cui primi dia- loghi sono il Simposio, il Fedone e il Filebo !). Riassumendo tutta questa esposizione diremo che i più reputati interpetri del Platonismo convengono in questa sentenza , appartenere il Parmenide ‘ed il Sofista a quel periodo della vita scientifica di Platone, che tramezza tra le ricerche e le dispute preliminari e più strettamente so- cratiche, e le ardite costruzioni fisiche ed etiche. Ma non ostante questo accordo tra autori che: battono diverse vie, noi non possiamo accomodarci al loro avviso. E le ragioni principali son queste, che non solo nel Sofista e nel Parmenide, ma benanco nel Filebo sono accennate dot- trine apertamente ripugnanti a quelle insegnate nel Fe- done, nella Repubblica e nel Timeo. Nei capitoli pre- cedenti abbiamo ampiamente dimostrato come la dottrina delle idee quali forze racchiusa nel Sofista, e quella del bene come unità degli opposti nel Filebo non s' accordano gran fatto colle teoriche sostenute negli altri dialoghi. Ed al Socher non sfuggì questo disaccordo, il quale è pure con- fessato in parte dello Stallbaum. Senonchè questo esperto critico crede di salvare e l'autenticità e Îa priorità dei dia- loghi dialettici col notare che « quae in aliis libris de idea- rum doctrina magis populariter et ad vulgarium hominum e cene] 4) Op. cit. II, 101-118. ; - 149 captum accgmodate explicantur , ea in Parmenide quidem dialectice exponuntur sic, ut totus hic locus singulari cum subtilitate ad caussas suas et principia revocatus '). Ma con buona pace del dotto critico si può ammettere che opera di così grave momento come il Fedone, il Timeo e la Re- pubblica sieno fatte per il grosso. del pubblico e non: per gl’ iniziati ? E le discussioni di questi dialoghi cedono forse in nulla e per forza dialettica, e per sottigliezza di ana- lisi al Parmenide ed al Sofista? E benchè in quei dialoghi il pensiero venga. sovente rivestito di una forma poetica, nel più dei casi non sappiamo benissimo quel che si na- sconde sotto il velame delle allegorie? E le opinioni ma- nifestate iu quei dialoghi, spogli dalla veste poetica che li copre, -cessano per questo di esser contrarie alle altre racchiuse nei dialoghi dialettici? E giuoco forza adunque ammettere qualche mutamento nel pensare platonico, il quale, al pari dei più grandi s1- stemi filosofici del mondo, assume nel corso del tempo di- verse forme. E ammessa questa diversità è molto più ve- risimile che le dottrine del Fedone, della Repubblica, del Timeo precedano quelle del Sofista del Parmenide e del Filebo e non viceversa. Imperocchè in questi ultimi dia- loghi è racchiusa una critica, or più coperta, or manifesta, ora leggiera, ora vigorosa delle dottrine racchiuse nei primi. Il Sofista combatte la teorica delle idee immobili, e aper- tamente protesta contro coloro che vogliono escludere la molteplicità dal mondo ideale ; ed il Filebo, come vedemmo, riassume in brevi tratti alcune fra le principali critiche contenute nella prima parte del Parmenide. Ma quest’ ul- timo - dialogo principalmente offre una polemica vigorosa, e non contro questo o quel punto particolare del sistema, ma contro tutta la teorica delle idee. Della qual polemica 41) Stallbaum Prolegomena ad Platonis Parmenidem p. 335. +59 sì valse lo: stesso Aristotele contro de suo maestmo ;' di tanto momento; ei. la riputava. Or bene delle due forme, per così dire, della filosofia plato- nica, quale sarà posteriore? quella che vien combattuta dallo stesso. autore, ovvero l’altra che sembra escogitata a bella posta per isfuggire a questi attacchi? Messo così il problema non mi sembra dubbio che il Sofista, Filebo e Parmenide debbano seguire e non precedere i dialoghi costruttivi. Qui ‘ non possiamo escir da questo dilemma, o i dialoghi così detti: dialettici: sono spurii, oppure contengono una nuava forma del filosofare platonico, e.sono pressocchè gli-ultimi: scritti di Platone, che di poco precedenti Leggi. A nessuno dei detti autori, che abbiamo citato sono ignote queste difficoltà, ma studiano di. scansarle -con sot- tili accorgimenti. Così ad esempio lo Stallbaum confessa che le obbiczioni della prima parte del Parmenide sono gravissime, e sa bene che Aristotele le ripete quasi a parola; - ma. crede, che esse non sieno state escogitate da Platone medesimo, bensì dai contemporanei suoi, e massime dai me-' garici:, i quali « licet ideas esse. largirentur, tamen eas ponerent prorsuas ab.eis diversas. ac. sejunctas, ita: ut has négarent..quidguam cum illis habere. consuetionis et necessi- tudinis.'). E in altro luogo: (Quid. igitur mirum quod Me- gariti deinde Platonis doctrinam, quam vel ipse nondum ad: justam parspicuitatem excoluerat, vel illi secus.atque debue- rant interpetrati erant, armis dialécticis, quorum usu probe. eramt:. ewercitati, gravissime adorti. sunt? '). Secondo lo. - Stallbaum: adunque le obbiezioni della prima parte del'Par- menide: venner. mosse. in realtà a Platone dai megarici, quali staccavano: per tal. guisa le idee .dal mondo: sensibile, 1) Op. cit. p. 65. 2) Ivi p. 57, da non poter.ammettere nessuna partecipazione: tra' loro. Queste obbiezioni poi non mancano di giustificazione, perchè la teorica platonica, non ancora sviluppata e chiarita, molto agevolmente potea andar fraintesa. E° Platone riproduce’ schiettamente tutte:le difficoltà, sicuro di poterle rimuovere col chiarir meglio la sua dottrina così nella seconda pasto del Parmenide, come nei dialoghi posteriori. i Questa ingegnosa spiegazione dello Stallbaum non parmi’ Pegga per nessun verso, e sebbene ammettiamo anche noi non essere state le obbiezioni del Parmenide escogitate da Platone-stesso, pure lo Stallbaum ha torto di attribuirle ai me- garici, i quali sarebbero gli eidav pio del Sofista, ‘e secondo’ il 135 B C del Parmenide ammetterebbero le idee come un’ presupposto necessario della cognizione. Chè per tal guisa gli argomenti che ‘adducevano contro Platone sì poteanobenissi— mo ritorcere contro di loro, specialmente il'primo e ultimo. Anch'essi doveano esser dubbiosi se convenisse ono ammet-' tere una idea per ogni concetto della nostra mente; ed'an-’ che essi tenendo le idee come entità a sè; ne compromet- tevano la conoscibilità. Ma-se pure fossero vinte’ queste difficoltà per quel che riguarda i megarici; molte altre e: più gravi si leverebbero rispetto a Platone. E come mai que- sti, che sente tutta la forza delle fattegli obbiezioni, nei: dialoghi posteriori quali il Fedone, il Timeo, la Repubblica svolge dottrine, che a quelle difficoltà non si possono sot- trarre? E che tanto nel’Timeo; quanto nella Repubblica Platone‘ammetta le idee come entità a sè, separate dal’ mondo ‘sensibile, io lo tengo fuor di ‘dubbio. Basterebbero a provarlo tutti quei mediatori come l’anima’ del ‘mondo; ’ e le forme. matematiche, che vengono escogitate a disegno per colmare l'intervallo, che separa i ‘due mondi; ù Questa stessa critica può esser fatta dell'altra opinione, da noi toccata nel capitolo precedentè,. secondo Ja: quale le 452 difficoltà della prima parte .del Parmenide appartengono a Platone medesimo. (Questa mente sottile, si dice, ben sapendo come le dottrine filosofiche possano andare-fraintese, pensò di formolare le obbiezioni che nascono da una falsa inter- petrazione della teorica delle idee, e per tal guisa per- venne a meglio definire e circoscrivere i suoi concetti. Mes- sosi in questa via, il Susemihl crede che queste difficoltà Platone le abbia tratte dall’estendere al mondo intelligi- bile le stesse argamentazioni, che Zenone rivolgea contro 1l sensibile; e per risolvere le une e le altre gli sia convenuto .ridurle in una forma astratta e logica, dal che nacque la dialettica dell’ Uno e del non Uno, svolta nella seconda parte del Parmenide '). Il Ribbing non accetta pienamente l’opinione del Suse- mihl; ma anche lui crede che le obbiezioni del Parmenide fossero escogitate dallo stesso Platone, il quale per ana- logia col modo come suole esporre e criticare le dottrine altrui, quando pervenne a formolare il problema o l’assunto metafisico, a cui l’aveano condotto le sue ricerche, non si nasconde le difficoltà e gli ostacoli, che la soluzione del problema avrebbe incontrato. Anzi queste difficoltà non sono in fondo se non espressioni indirette delle prime e generali dimande, a cui deve rispondere qualsiasi dottrina metafisica. In altre parole con quelle difficoltà si chiede che sia dimostrato, come le idee abbiano una realtà asso- luta, e scevre di contraddizioni, e come dalla partecipa- zione a questa realtà traggano la verità loro tutte le cose, ‘ed in ispecie l'umano sapere ?). Ma in verità quest’ opi- nione non solo non ribatte le obbiezioni fatte allo Stall- baum, anzi a parer mio le rincalza. Perchè in qual modo, io dimando, potea Platone formolare con tanta nettezza 4) Susemih] op. cit. I. 340. 2) Ribbing. op. cit. I. 228, 153 difficoltà di così grave momento contro una teorica, non ancora ben matura? È come accade che nei dialoghi po- steriori di queste difficoltà non si tenga nessun conto, e si svolga una dottrina, che lungi dal risolverle, le addoppia? Tutte queste interpetrazioni, lo dicemmo altre volte, par- tono dal presupposto, che il sistema platonico importi l’im- manenza delle idee nel mondo, e non la trascendenza. E così le obbiezioni che nascono spontanee contro le -ldee separaté dal mondo e dalla mente, cadono da sè quando le sì considera come intime all'uno e all'altra. Ma lo ri- petiamo le idee platoniche sono sempre separate dalle cose (xeprora.) ed Aristotele, che certamente doveva intendersene più di noi, non le considera altrimenti: Eccoci tornati al punto- onde siam mossi. Posti i dia loghi dialettici come anteriori ai costruttivi si addensano tali difficoltà storiche e psicologiche, che nessuna spiega- zione è riuscita finora ad eliminare; onde non c'è ‘altra via per bene intendere l'ordine dei dialoghi platonici da quella in fuori di tenere il Sofista, Parmenide e Filebo come posteriori al Fedone al Simposio alla Repubblica ed al Timeo. Che il Sofista (a cui si collega il Politicus) non possa appartenere al periodo megarico, l’ Ueberweg lo ha dimo- strato con dotte ragioni. Nei luoghi. aristotelici, ei dice, che ricordano il Sofista, viene usato costantemente il pre- terito (itato, cipaxs goa); Il che vuol dire che i temi del So- fista e Politico abbiano porto argomento alle discussioni in iscuola, le quali solo più tardi vennero fissate nello scritto. E però molto improbabile che i dialoghi sieno stati pubblicati ben presto. E la forma di questi dialoghi Ri a confermare il no- stro sospetto. Notammo già che nel Sofista, nel Politico ed anche in parte nel Filebo, il personaggio principale svolge i suoi pensierj in una maniera affatto espositiva; gl’ inter- locutori non lo contrastano vivacemente, ed il concetto non sgorga dalla discussione. I giovaneth ghe, intervengono. In questi dialoghi e principalmente nei due primi $i rasse- gnano ben volentieri al solo ufficio di assentire o negare; rare volte sì permettono qualche scherzo innocente o qual- che minaccia da burla, e quando talvolta si mostrano stan- chi del vuoto formalismo di quelle discussioni , per con- fortarli a proseguire nell’arida via, .1l filosofo racconta loro ora aneddoti, or miti filosofici. Per riassumere in una parola il carattere di questi dialoghi, noi ripetiamo CIÒ che dicemmo altre volte: la forma drammatica scomparisce per far luogo all’espositiva, e alla ricerca in comune del vero da ‘scoprire sottentra l’ insegnamento della verità già trovata. In questi tratti.si riconosce un filosofo già in- vecchiato nell’ Accademia , il quale si è già di molto al- loptanato, dalla via tracciatagli da Socrate, ed or più che mgi è inchino al dommatismo., Perlocchè questi dialoghi non possono appartenere al periodo megarico, in cui Pla- tene. ;ancor fresco di anni, combatteva contro gli altri discepoli di Socrate, e dalla loro critica traeva alimento alle proprie dottrine. Ed a maggior conferma della nostra ‘opinione. adduciamo questo altro indizio non spregevole. Nei due. dialoghi Sofista e Politico viene introdotto un giovane Socrate , il quale secondo la testimonianza di Aristotele (Met. VII. 44. 4036 B.) era unp dei suoi compagni nel- l'Accademia; laonde torna molto improbabile che. questi dialoghi sieno stati scritti nel. periodo megarico, vale a dire in quel tempo in cui Ja scuola non era ancora aperta 1). (Queste prove non servono certo a determinare con mag- gipre ;precisione. il tempo A. cul. appartengono 1 dialoghi dialettici. :Si sa solo che la scuola era già aperta da un A) Uebermgeg:Ugtersuchungen pi 20740.: e 155 pezzo, quando venner pubblicati questi dialoghi, i quali perciò sono di sicuro posteriori al Fedro, ma di quanto non è stabilito. Senonchè l’ Ueberweg stesso ci fornisce altri argomenti, dai quali si può trarre un miglior partito di quel che non abbia fatto egli stesso. Paragonando il Fedro col Timeo e col Fedone si scopre un’ oscillazione intorno a un punto molto grave, voglio dir l'immortalità dell’ anima. Nel Fedro l’anima ‘è detta im- mortale come principio del movimento apxà xwieeas, perchè ciò, che non origina da altro, non può aver fine. Nel Timeo è ammesso pure questo principio, ma appunto perchè si tiene l’anima non come originaria, ma quale creatura di Dio, ella potrebbe benissimo morire. E nel fatto lo stesso dialogo fa mortale il supos e l' en9vanrivòv, benchè poi venga salvata l’ immortalità della parte più nobile dell’ anima per un motivo affatto etico, per la bontà divina. Nel Fedone infine è posto da banda la premessa accettata nel Fedro e nel Timeo; imperocchè anche ciò che ha un'origine, se partecipa di una data idea, poniamo l’idea della vita, go- drà per necessità metafisica l’ immortalità. L'anima anche ‘ qui è immortale, non perchè sia principio del movimen- to, nè per volere della bontà divina, ma perchè, rap- presentando puramente l’idea della vita, non può accogliere in sè il contrario di quella, la morte. Or non è molto più verisimile che la concezione del Fedone sia l’ultima, 6ome quella che importa un mutamento più profondo e più ra- dicale di pensieri ')? E se il Fedone è posteriore al Timeo, per maggior ragione fu scritto più tardi dalla Repubblica, la quale, come è noto, è presupposta e ricordata dal Timeo. Ma si può dimandare il Sofista antecede o segue il Fe- done? Da ciò che abbiamo altrove ampiamenle sviluppato il Sofista dev’ essere posteriore di gran lunga al Fedone; 4) Op. cit. p. 286. * 4156 linperotchè in gilestò le idbe todo tenute per immobili, ia quello si attribuisee lord un movimento. Di guisa che se il Sofista è posteriore al Fedone, a maggior ragiohe sarà posteriore al Timeo ed alla Repubblica, che vanno innanzi a quel dialogo. E stabilita la posteriorità del Sofista è as+ sicurata non pure quella del Parmenide, che ha col Sofitta medesimezza d’intendimenti e di stile, ma benarco del Filebo, ehe col Parmenide è così strettamente congiunto. Un’ obbiezione eantto queste modo di ragionare si po- trebbe forse trarre dal Teeteto, il quale se da una parte si collega col Sofista, dall'altra vien tenuto dalla maggior parte dei critici per un dialogo molte antico, :e di certo anterioré ‘alla Repubblica. (Quest'obbriezione a stretto rigore non indebolirebbc i sostri argomenti, imperocehè se egli è vero esser il Safista posteriore al Teeteto, non è stabilito perciò. quanto tempo sia dorso fra l'uno e l’altro, nè viene escluso éhe tra questi due dialoghi possano intercedere non pochi altri. E nom è nulla di stramo, che sospesa per buona pezza una ricerca, la si mpigli dopo lungo tempo, e quando ‘alla néstra mente si schiudono nuovi orizzonti. Ma non fa neanthe bisogno di questa ipotesi; avendo I’ Ueberweg stesso dimostrato con buone ragioni non po- ter neanche il Teeteto appartenere al periodo interme- diario ‘dei critici. Imperocchè la battaglia di Corinto, da cui Teeteto è veduto tortar ferito, non può essere nè quella del 393, nè l’altra dell'anno dopo, bensì una molto posteriore, se si vuol 4enére conto del fatto impartadtis- simo, iche il ferito Teeteto aveva alquanto varcato la :prima gioventù, essendo di già salito in tale fama *) da con- fermare il buon NVaticinio che di lui awea fatto Socrate lo stesso giorno dell'accusa di Melito ?). Nen a torto quindi Le 4) Come nel 142 D. del Teeteto asserisce Terpsione. 2) Teet. 2410 D. 189 l' Ueberweg riferisce l'allusione del Teeteto alla battaglia di Corinto del 368, in cui gli Ateniesi, combattendo valo- rosamente , riportarono splendida vittoria '). Posta questa datà, il Teéteto dev essere stato scritto nell'ultimo ventene mio della vita di Platone, la cui morte, secondo la testi- moniahza di Diogene Laerzio (V. 9), accadde sotto l’ arcon- tato di Teofilo, valo a dire nell’ anno 348-347 av. C. E fale induzione vien confermata dal trovare anche nel Teeteto Il giovane Socrate, che, corse dicemmo, appaàrienevà alla scuola di Platone ?). Per le quali ragioni non cape dub- bio appartenere il Teeteto al gito dei dialoghi dialettiei, i quali si debbonò tenere scritti da Platone nella sua più tarda età ?). Il criterio cronologico coincide adunque con quello tratto dal contenuto dei dialoghi, e possiamo ora conchiudere il Sofista, il Parmenide ed il Filebo essere posteriori al dia- leghi costruttivi, e racchiudersi in essi una parziale modifi- cazione della dottrina platonica. (}uale sia questa modifica» zione lo dicemmo già nel capitolo precedente. Platone ver lende raccorciare la distanza, che separa le idee dal sen+ sibile, ammette in quelle una moltiplicità, cosicchè tanto le une quanto l’altro constino degli stessi elementi. Ma ab- biamo moi: prove estrinseche di questa mutazione delle diot- trinè platoniche, o dobbiamo solo attinigerle dal tontenuta dei dialoghi? Le prove estrinseche nen mancano, e l’auto- rità, cui ci riferiatho è lo stesso Aristotele. Per gli altri argomenti riscontra |’ Ueberweg 294-237. Bisogna ben distinguere l’ érdinè con cui si sono sucéde- duti gli scritti platonici, da quello ché dobbiamo tenere per l'esatta intelligenza del sistema. H Teeteto può servire bems- Simo come ùna introduzione alla dottrità delle idee. Ma nulla vîetà che sia scritto dopo, allorchè Platon® volemde ruffermare la sua Wottrina si fa ad èspòîre una teortéà Wella cognizione che validamente la giustifichi, 7 Senoph. t11. VII. I. 8 Diod. XVI 68. 3 158 Aristotele in un celebre luogo della Metafisica i), espo- sta l'origine della dottrina platonica, che ei rannoda ad Eraclito e Socrate, e toccatene le analogie con quella dei Pitagorici così continua « Dacchè le idee (al dir di Pla- tone) sono le ragioni di tutte le cose, gli elementi di ‘ quelle ei pensò fossero pari agli elementi di queste. Or siffatti elementi per quel che riguarda la materia sono il grande ed il piccolo, e per quel che riguarda l’ essenza l’unità; per la qual cosa appunto dall’ accogliere in sè stesse il grande e il piccolo , colla partecipazione dell’ unità , le idee sono numeri. Che l'unità sia la vera sostanza, e che niente altro si possa dir tale, Platune lo dice al pari dei Pitagorici, e al pari di questi sostiene essere i numeri la ragione di tutte le cose. Ma questo è proprio di Platone, di mettere invece dell'infinito uno la diade, o meglio un infinito che consti del grande e del piccolo. Dippiù Platone ammette i numeri al di fuori delle cose sensibili, 1 Pitagorici pel contrario li tengono per iden- tici alle cose stesse e non ammettono le essenze matema- tiche come intermediarie. » Che parecchie volte in questo passo sia riprodotto fedelmente il pensiero platonico , è 4) Met. I. 6. 987. Era dé air tà std toîs dMots, t&xsivev oro ysia avv wii Tov divrwv siva. otorgaia. "Mc pev ovv Vinv tò piya val TÒ punpòv siva apyds, oe d' ovaiav tò îv di duelvwv yàp xarà pédelw où. ivo tà cida civan rode &pr3puovs. L'Ebben nella sua monografia De Platonis idearum doctrina Bonnae 1849 p. 27 dice: haec ap- posîtio (il roù; &p.duovs del passo precedente) îta unde, et inter- posîto quidem verbo siva. addita, molestissima est. Itaque sì quid video, tods apdpovs ejiciendum est, tamquam glossema. Quanto sia ingiusta questa congettura , e che Aristotele intenda pro- prio parlare di una teorica delle idee-numeri viene attestato da moltissimi altri passi, tra i quali presceglieremo due soli. Met. XIII. 12. 1086. ’Erra od» Mfyovei river toravtas siva TàS Îdtas xad toÙs apidpois, nat tà touttwv otoryeia T&bv dvrwv sivar atorygeia xal apyàc. XIV. 3. 1090. Oi pèv oùv ridipevor tds idiag civan xa dprdpoùs abràz ELVAL, 159 facile provare col testo medesimo di Platone. Così per esempio nel Filebo è asserito .che « il più o meno, il forte e il piano e il lieve e simili si riducono ad uno nel genere infinito » '). Il che torna a dire, come ricorda Aristotele, che l infinito da Platone non è inteso come l’unità, ma quale dualità originaria. Parimenti già notammo in altro luogo che il porre i numeri come entità interme- die tra le idee e le cose sensibili è un pensiero veramente platonico; imperocchè è un ente intermediario eziandio l'anima del mondo, il cui contenuto sono i movimenti side- rei, governati da leggi matematiche *). Il che certamente non si può dire a prima giunta della teorica delle idee-numeri, la quale sebbene ripetutamente attribuita a Platone e nel I e nel XIII e nel XIV della Metafisica, pure in nessuna delle opere platoniche, a- noi pervenute, è svolta scientificamente. Ma pure qualche ac- cenno qua e là si trova. Così per esempio nel 7° della Repubblica si distinguono due specie di aritmetica, una volgare ad uso degli osti e dei merciaji, che val solo al vendere ed al comprare, l’altra sublime che serve a volgere l’anima dalle terrestri alle superne cose *). (Que- st' aritmetica superiore tratta di tali numerì che si possono solo pensare e non trattare altrimenti (dv dravontiva. povov #lyopei) numeri, nei quali si comprende tale unità, che è - uguale tutta in tutti, (irov rs éaaror név mart) e che pur non 4) "Ordo &v fpîv qpaivara: paid te xd firrov yepoiperva nad tè opédpa xal fipipa deybpeva xa tò May xaù ravd'doa toraita, sig tò toù arretpov givos doc slc îv dei mavra tabra Sbvar Fil. 24 E. 2) V. indietro pag. 77. ove nella nota 1 riferimmo il passo aristotelico che riguarda il perafé Chè l’anima del mondo ab- bia lo stesso posto dei numeri si raccoglie dal Timeo 35 A. Tpirov ig dupoîtv iv piow cuvexspdcato ovatas stdos. 3) oùx diviîg oddi phases ydpiv de durépove © xamidove usderivtag, &d= Vivexa roltpov te ua abrîig tic fuyie paotowe peraotpopîe amò qeviostg in'aliSekv te nad ovaie» 525 C. - 4160 cessa di esseré ##mplice !). E la stessa differensa che corre tra le due aritmetiche; ha luogo pur tra due geometrie, l'una che ha per iscopo di misurare le grandezze, l' altra che è la sciensa di ciò che sempre è?). Dite lo stesso dell’ astrologia e dell’acustita, scienzé gemelle secondo i Pitagorici. Ed in prirtto luogo poniamo quell’ astrologià che conosce per filo e per segno i movimenti dei pianeti, e beh ealcolando le rivoluzioni del Sole è della Luna tiene un esatto conto del swecedersi dei giorni dei mesi è degli anni; è giova al commercio è alla navigazione. Ma al disopra di questa astrologia è un altra, che di tutti questi movi- menti si serve come esempio visibile di ciò che non si vede, ma solo collà merite si può cogliere ?). Finalmente al di sobta dell’adustica comune, che sa empiricamente determinate i numeri necessàri per gli accordi, vha l’al- tra acustica, che vi sa dire quali sieno i numeri atmomiti, e quali i disarmonici, e per qual ragione sièno corì *). Questi passi della Repubblica ben s’ accordano rolla te- stimoniahza di Aristotele, il quale, riferendosi clitaramente a Platone; dice. « V'ha di quelli che ammettuno due sorta di numeri; quelle in cui v'ha la priorità e la iposterio+ rità , ovvero le idee., ed il numero matematico. Queste due serta di numeri sono del pari separate dagli oggetti sensibili » %). Non sfuggirà ad alcuno l’importanza di que- 1) 526 A. Egli è evidente che qui si parla di quella monade che è l’idea, la quale è tutta in ogni cosa, eppure non si divi- de, né vi ‘sperza in tante purti per tuante sono le cose in èui si »iffette. | 2) 527 B. roù yàp te Svror ) feti pare dova 3) 520 D. tn repi #81 odprvbv rrouidia rapadeifuir yphortov ric pds tattva (A dh Véyo puev né diavola INitù, bye ded, ateo ded. 4) 534 C. trods gup dv Tavira mais cupugrriare Tate auduopivar apiSpod Wnrovdorw, Ai) ov sis pop patà Avati Brera, i Ep pedi x0d Tivss vò, ‘iui del n searipra. _ 5) Toùs palv Montsds deleisvo, tobtour Vi ‘alttavie. Metaph. I. 8. 990. Oi piv ov apporépove pactv siva toùs peduovc; Mib fiv fyovta DÒ pia tepov xal Corepos tds idtac, tòv di paSnparizdv mapà tds îdiac val tà ai- 168 sto passe, di cui discuteremo per ora la prima parte, ri- serbandoci a miglior tempo l’ultimo periodo. Se confrontiamo questo passo coll’altro del primo della Metafisica, Hi cui riferimmo a pag. 77 un frammento, chia- ramente si seotgerà il significato della differenza tra i au- meri ideali ed i matematici. Le monadi numerichè essendo simili fra loro, non v' ha nessuna ragione perchè pre- ceda l'una aazicchè lalira. Ma delle monadi ideali cia- scuna ha un contenuto suo proprio, secondo 11 quale logi- camente può precedere o seguire un’ altra monade. Così delle idee del Sofista quellu dell’ Ente, avendo una estenr sione più larga «delle altre del moto e della quiete, ante» cede ed abbraccia queste ultime. Egli è duaque evidente al di fuori del mondo sensibile esservi 1 numeri matema- tiei, che si possono sommare e sottrarre gli uni dagli altri, ed i numeri ideali, di eui ciascuno sta da per sè, e non ammette fusioni e’ complicazioni con gli altri. I primi sono oggetto dall’aritmetica comune, i secondi dell’aritme- tica più riposta e propria dei filosofi, GINTA, val yopratode Auporipovs tiv aigIntov. Met. XIII. 6. 1080. Il Trendelenburg crede che questo passo debba correggersi col- l’aggiungere un ‘od innanzi all’éyevra perchè nella ‘morale di Nicomaco I. 6.1096 è detto chiaramente oi dé xopioavtes tav défav taitav oÙx Èrrotovv idéag év ole TÒ tporspov nad tò Uorspov te]0», duérep olii mim dpiBpivo idtev narsomevate. Il Brandis ed ii Ravaisson (Es- sai sur la Met. d'Ayistote I. 177) non accettano la correzione. Imperocchè, essi dicono, il rpòrepov e l'dorspov della Morale a Nicomato si riferisce ai numeri già formati, ed in questo senso è giusto il dire che il due precede il tre, il tre il quattro; ma nel passo della Metafisica al contrario non si considerano più i numeri formati, sì bene le unità chè le formano. E que- ste unità, o monadi matematiche, avendo la stessa qualità non serbano nessunp ordine di suecessione. Le unità che compon- gono il numero due si possono mettere o avanti o dopo le u- nità che ‘formano il numero trè. Menire per le monadi ideali la cosa non procede così. Quella triade, per esempio, che corri- sponde al concetto animale è prima della tetraede, che corrì- sponde al concelto uomo. E gli elementi o le monadi onde consta la triade sono pure anteriori a quelli della tetraede. 162 Che questa esposizione aristotelica sia affatto platonica lo attestano i passi della Repubblica surriferiti. Senonchè da questi a stretto rigore non si potrebbe inferire altro, se non che dei numeri come di tutte le altre cose ci sieno le idee, e che lo studio di esse ci fornisca la spie- gazione di tutte le proprietà, che l’ aritmetica comune di- scopre. Ma secondo l' esposizione di Aristotele non già alcune entità del mondo ideale si riferiscono aì numeri, ma numeri sono tutte le idee. Come si vede c'è una dif- ferenza notevole tra la prima e la seconda interpetrazione, differenza che il Trendelenburg s’ argomentava di togliere attribuendo all’'&repov del passo aristotelico il valore di sog- getto e non di predicato. Per tal guisa la frase riferita si dovrebbe intendere così: « risultando dall’ infinito colla partecipazione dell'unità i numeri sono idee » o meglio « vi sono anche le idee dei numeri ». Ma che questa interpetra- zione non sia corretta si raccoglie da tutti gli altri passi che abbiamo riferito, e che servono al nostro di rincalzo. É poi tutto il tredicesimo ed il quattordicesimo libro non sono se non una critica minuta, profonda ma qualche volta prolissa, ove le assurdità, le incertezze, le contraddizioni della teorica delle idee-numeri sono esposte fedelmente; e col solito acume discoperte le differenze che intercedono tra questa nuova dottrina di Platone, e quella dei Pitagorici, che la precedettero, e degli scolari Senocrate e Speusippo che lo seguirono. Vi può esser dubbio, dopo tutto questo, che Aristotele chiaramente attribuisca a Platone la teorica delle idee-numeri? Nè si può ammettere che il discepolo abbia frainteso il Maestro. Un filosofo della tempra di Aristotele, che espone con fedeltà, e giudica serenamente le opinioni dei suoi predecessori; un filosofo che nel primo libro della metafi- sica vi fornisce un riassunto preciso e fedele della storia 168 della filosofia greca, non poteva ingannare così grossola» namente nella disputa contro le idee platoniche. Avrà potuto ‘ esagerare qualche punto secondario della dottrina, ma in- ventare di pianta una teorica, che egli svolge ed esamina minutamente nei suoi particolari, sarebbe affatto indegno di una mente. così lucida, dî un ingegno così penetrante come quello di Aristotele. E che Platone in nessuna delle opere a noi pervenute abbia svolta la dottrina delle idee-numeri, non è questa per fermo una prova incontrastabile contro Ja veridicità dell’esposizione aristotelica, perchè sappiamo che oltre le opere scritte c’ era un insegnamento orale molto efficace, dal quale Aristotele seppe certamente trar partito. E la mancanza di dialoghi, che svolgano apertamente la dottrina delle idee-numeri, si può spiegare agevolmente dal perchè questa sarà stata l’ultima forma della speculazione ‘platonica; il che possiamo raccogliere dalla stessa testimo- nianza di Aristotele. Nel libro XII della Metafisica in quel capitolo quarto, in cui si fa ad esporre e a criticare la dottrina di Platone presso a poco cogli stessi argomenti adoperati nel libro primo, ei dice così: « Per quel che ri- guarda le idee, in primo luogo s' ha da esaminare la dot- trina dell’ idea, senza occuparci della natura dei numeri, ma come la intesero al principio quelli che pria dissero esservi le idee »'). Al principio dunque la teorica delle idee fu quale è svolta nel Fedro, nel Timeo, nella Re- pubblica; e solo molto tardi sì accostò al Pitagorismo. Il fal- lut quelque temps, dice il KRavaisson, pour que la dialecti- que, à la poursuite de l'universel, en vint a toucher ce fond et y reconnut le pithagorisme; il ne fut qu'assez tard qu’ ar- 4) Nepì dé riv idedv rpétov aUthv ThV xarà Thu idiav débav emore- mrtiov, pndèv cuvartovias pds Thv dpripiv quors, ki dae UrrtdaBov di apyîic oi mrpisror tàs ldbag phaavres siva Mel. XII. 4. 1078. ET 164 rivé au but de son analyse, le platonisme s' arreta sur cette base, et qu'il entreprit d'y asseoir, à l'exremple de l' école . îtalique, son systéme du monde!). Ed Aristotele nella sua critica segue passo passo lo sviluppo storico. Financo: nel celebre capitolo sesto del libro primo della Metafisica, ove l'esposizione e la critica del Platonismo è così rapida e serrata, è agevole distinguere nettamente due parti, la prima finisce colle parole riportate a pag. 77 nota 1 e con- tiene soltanto l'origine storica del platonismo, la 'defini- zione delle idee per l’umiversale ed il’costante nelle cose, un accennò alla dottrina della metessi, e infine la distin- zione dei tre regni, il sensibile, l'ideale e il usati 0 ma- tematico. La seconda parte poi incomincia col passo rife- rito più sopra (pag. 158 nota 14), ove toccata di volo la teorica delle idee-numeri, e le differenze che corrono tra i Pitagorici e Platone, segue una breve critica dell’ opi- nione platonica, secondo la quale il principio opposto al- l’unità o la diade originaria è appunto la materia. Aristo- tele per lo contrario crede che il principio ideale o ma- schile sia la causa della moltiplicità, e il principio mate- riale o femminile quello dell’umtà. La femmina, dice lui, non può venir fecondata se non in un solo accoppiamento; il maschio al contrario feconda molte femmine. Si chiude il capitolo con quello che noi potremmo chiamare la ca- ratteristica del sistema platonico, il quale, non riconoscendo se non due cause l’essenziale e la materiale, trascura le altre due la motrice e la finale. Nel capitolo 9° dello stesso primo libro, in cui si ritorna più diffusamente sulla critica delle idee platoniche vien serbato lo stesso ordine. Dal principio sino a tutto il $ 12 (edizione Didot) è criticata la dottrina delle idee come sostanze separate, e buona parte degli argomenti addotti 4) Essai sur la Metaphysique d’Aristote I. 315. 165 sì riscontrano, come dicemmo, nella prima parte del Par- menide. Dal $ 13 che incomincia colle parole: "Et: cirep cio aprduol tà 2t0n, mis aitioL forviat; sino alla fine è criticata in- vece più da presso la teorica delle idee-numeri. Nè diversamente, anzi con maggior chiarezza sono di- stinte le due parti nel libro XIII. in cui non solo si ripe- tono le critiche del libro primo, ma se ne aggiungono delle nuove e più calzanti, principalmente intorno alla teo- rica dei numeri. Il capitolo IV. di questo libro si apre con quelle chiare parole, che riportammo più sopra (pag. 163 nota 4) dalle quali si raccoglie che la prima forma'della dot- trina platonica fosse tutl'altra da quelle delle idee-numeri. Segue il capitolo V. colla ripetizione quasi a parola di quel che si disse nel libro I. cap. 5° sull'origine storica del Pla- tonismo. Ma con maggior forza s’ insiste sulla differenza tra Socrate e Platone. « Socrate non attribuiva un’ esistenza separata nè agli universali nè alle definizioni. Quelli che lo seguirono li separarono e dettero a queste entità il nome d'idee ').» Di qui le difficoltà che nascono dal conside- rare le idee come universali e come entità seperate. Nel capi- tolo V. seguono le difficoltà contro le idee, le quali, sfor- nite di efficacia, non valgono a spiegarci l'origine e il movi- mento del sensibile. Solo nel capitolo VI. dopo aver esa- minato i possibili modi di esistenza dei numeri, si fa ad esporre brevemente la teorica di Platone mettendola a ri- scontro con quella dei Pitagorici, e di altri filosofi (Seno- crate e Speusippo?) Nel Capitolo VII infine e seguenti sono rilevati con molto acume le assurdità e le contraddizioni di questa teorica delle idee-numeri, non certo seconde a quelle notatè contro le idee-sostanze. Per riassumere questa discussione diremo che Aristotele 1) 'AM'è pòv Zamparne tè xad6)0v où ympiorà dmolei addì toù dpiapove' ci d'éycipirar, xad tà toradta tiv Bvrav idiac mpormyipevaa. 466 conosce la successione storica delle due dottrine, e ad essa st conforma nell’esposizione e critica del Platonismo. Non insiste, egli è vero, sulla vicenda stessa, nè rileva questa oscillazione nei pensieri del suo maestro; ma ciò dipendé senza dubbio dal perchè egli stimava a ragione non essere l'ultima forma dal Platonismo un mutamento, bensì una esplicazione, ed una conseguenza logica della prima !). E col suo sguardo acuto seppe veder fondo ai motivi che resero necessaria questa trasformazione. Nel III. della Metafisica, ove sono esposte così cru- damente le difficoltà della scienza, s1 legge questo passo: « Piatone e i Pitagorici dicono l'ente e l’ unità non avere altra natura, se non questa, di essere la sostanza dì tutte le cose.... Ma se è così, siccome l’ente e l’unità si predicano di tutto, e nulla si predica di loro, è una grande difficoltà am- mettere che oltre l'unità vi sieno altre cose; sarebbe dunque vera la sentenza di Parmenide, che tutto sì riduca ad Uno ®)». L'unica via per isfuggire a questa difficoltà è quella di supporre oltre all’ Unità una diade infinita 3). E qui Ari- stotele chiaramente accenna ad alcuni dialoghi platonici, (il Teeteto ed il Sofista) nei quali sono svolti chiaramente quei motivi, che adducono una lenta modificazione nelle dottrine platoniche. « Vi erano molte ragioni, soggiunge, perchè si ricorresse a siffatte cause, ma la principale fu 1) Basti citare di nuovo il principio del passo da noi tradotto a pag. 213 per convincersi che secondo Aristotile la seconda forma è una conseguenza logica della prima. ’Eraà d'aitia tà cida mois Rive, taxsivav otoryeta mavtw»v WIM tiv dvewy siva otoryeia. 2) Meartowv pis yàp xad oi HMuSey6peror ovy Stepdv Ti tò dv addi tè è «Ik Tolto aUtbv ThYI quaw siva, dog odong tig oUatas aùtò tò tv etvar xa èv ve II. 4. 1001. E più appresso: AM pùv et y dora ri adrò dv xal avrò fu, odia drropia mos dora re mapà tara trepov, Ifyo di mos dora miei EvÒe TÀ bvra. 3) siod dé tuves ci dudda pèv abpiaror irosoder tè pierà c0Ù ivòs stor. XIV. 2. 1088. i a PS 161 un antico dubbio. Parve a loro che tutte le tose st ridén: rebbero all’Uno, o Ente ché sia, se nor si confutasse l’ati- tica sentenza di Parmenide: ° & Nè maiti verrà fatto d’ intendere, che il non enté sia. » Bisognava dunque provare l’esistenza del noònvessére. Gli enti così, se, molti ve ne ha, bisogha che trà$ano la loro origine dall'Ente e da qualcos' altro » 1). E più ap- presso: « Si vuole ché anche il falso abibià questa' natura del non-ente, dal quale una all’ Énte nascono i molti. Epi. però si dice doversi postulare il falso, a quel modo che fanno i geometri che partono dall’ammettere come podia ciò che non è tale » ?). Non è mestierî ricordate le ana loghe argomentazioni del Teeteto e del Sofista, che altrove largamente esponemmo ?). Ora aggiungo esser questa testi- monianza di molto peso, perchè non solo ci mostra lé fagioni del mutamento che subì il Platonismo, ma ci addita ezian- dio quei dialoghi in cuì se nè scorgono le prime traéce. Ed or possiamo bene comprendere lo scopo del Sofista. Dicemmo nel secondo capitolo come fossero divisé le ‘opi- nioni su questo purito, e che taluni riponessero l’ intendi- mento del dialogo nella critica dei Sofisti, mentre per altti questa non era se non il pretesto di più grave afgoftien- tazione. La secorda opinione, a nostro avviso, si chiarisce molto più giusta della prima. Il Sofista, già notammo; sì ran+ noda strettamente al Teeteto, nel quale è abbozzata appenà la teorica dell’opinione falsa, la cui radice sta nello scambiò 1) "’Edote dp abroîs nave’ inenda Èv và ivrea, abtò cò dv, ci p@ tu Nice xod bpudoe Badisitar tiò Mappsvidov Ibyw où Jp phrrote tovto dans siva. pù dévra LIV dvd pen etvar tò pù èv detta è ori dar: oltw Yap dx toù Bvros nad di- dov tuvòs tà dvra ineria, ei moda ferw. loc. Cit. 2) Bbvdetar uèv dh tò pu086 xe TRUTAY Thv puow Myii cò obi db, 6 où sal coù èvrog moria rà qrra. Ivi 4089. 3) V. sopra p. 45, 24, 33, 34. 168 del non-essere coll’essere. Il non-essere adunque in qual- che modo è pensabile, e Parmenide avea torto di sban- dirlo affatto dalla mente nostra. Tolto il non-essere, tutte le cose non possono a meno di ridursi all’ Uno immobile degli Eleati. Il che non può accadere nè nel mondo sen- sibile, che anche a confessione degli Eleati apparisce come moltiplicità, e nettampoco nel mondo intelligibile, il ‘quale secondo il sistema di Platone è popolato da una infinità d'idee. Quindi anche nel mondo intelligibile si deve occul- tare il non-essere. E questo non-essere, come è noto, Pla- tone lo trova nel rapporto di esclusione di una idea dalle altre, onde è accompagnata. Per tal guisa il mondo ideale accoglie gli stessi elementi del sensibile. Anche in lui c' è l’unità e la molteplicità, come nel sensibile; e lo stacco che divide i due regni si rende minore, ed a ragione si ‘può dire l’uno esser copia dell’altro. Con questa costru- zione si cerca dì evitare le difficoltà che si facevano con- tro la teorica della partecipazione; mentre coll’ attribuire alle idee efficacia vita e movimento s' indeboliva l’altra op- posizione che veniva mossa contro le idee platoniche, di essere, per dirla col linguaggio aristotelico, causa forma- le, ma non certamente motrice. Stabilita questa teorica, e messa fuor di dubbio la esi- stenza del non essere, è spiegata ora la possibilità dello errore, e-della Sofistica. Spiegazione, che toglie a sè più della metà del dialogo, e che copre e quasi nasconde la dottrina metafisica, la quale nonchè la parte principale sembra piuttosto un accessorio di quelle lunghe e rinno- vate discussioni sull'essenza della Sofistica. Ma questo non deve recar meraviglia a chi è aduso al fare di Platone, il quale per fine letterario suole spesso mettere in evi- denza quei punti, che offrono maggiore interesse dramma- tico, e nasconde invece a disegno la nuda speculazione. 169 Lo stesso scopo che si vuol conseguire nel Sofista, esa- minando direttamente le cinque idee — l’ ente, il moto, la quiete, l’ identico, ed il diverso — si ottiene nel Parmenide per un’ altra via, vale a dire con quel metodo indiretto, cui è merito di Edoardo Zeller aver messo in luce. Di- mostrato che tanto la posizione dell’ Uno coll’ esclusione del molti, quanto la posizione del molti coll’ esclusione del- l'Uno conducono all’assurdo, segue di necessità l’ unico partito, che rende possibile la scienza, esser quello di am- mettere la coesistenza dell’ Uno e del molti e non solo nel mondo sensibile, ma benanche nell’ideale. Questa dottrina, come dicemmo, salva o almeno pretende di salvare il'Pla- tonismo dagli attacchi che gli venivan mossi da molte parti, attacchi fedelmente riprodotti nel Parmenide, e nel Filebo. Il trasportare la moltiplicità nel seno del mondo ideale, e il considerare ogni idea come risultante di due fattori, l’uno e il molti, furono bastevoli motivi a trasformare la dottrina delle idee sostanze in quella delle idee numeri. Per tal guisa il sistema platonico sempreppiù si raccostò al pitagorico. Onde nel Sofista non è il Bene, come nella Repubblica, la prima delle idee, che tutte in sè le accoglie, ‘ma l'Ente; il quale poscia nel Parmenide è determinato come l' Uno che non esclude il molti. Ma il dialogo, che svolge una dotirina metafisica, ove più spiccate appariscono le tracce del Pitagorismo, è il Filebo. Nel quale, dice 1’ Ueber- weg '), non pure le idee sono dette vai; xa povdfes; ma viene presentata come un dono e una rivelazione fatta da- gli Del agli uomini negli antichissimi tempi, e conservata per tradizione fino a ‘noi, la dottrina pitagorica che tutte le cose risultino da due elementi il répas e l’&repeia. Epperò ì concetti fondamentali, che governano tutto il nostro sa- 4) Op. cit. p. 204. 179 pere, sono quelli del xépac, &repor, tpitev it dppoiv cupproyipevor, qiria ric avupitsos. E qui giova notare che l’ drepo» da Platone stesso viene espresso colle parole paMov xat irrov, che cor- rispondono al cè piva «a tè pixpsv di Aristotele. Il Filebo adunque, come dicemmo altrove, appartiene anche lui al giro dei dialoghi dialettici, perchè in esso non solo sono ripetute le difficoltà del Parmenide, ma vi scorgì evidenti tracce di quell’ indirizzo pitagorico , che dovea scoprire in ogni idea i due elementi, l’uno e il molti. Ed appunto perciò non potendo l’idea del Bene sottrarsi a que- sta legge, era d'uopo trovar anche in essa eontemperati 1 contrari; da una parte la scienza che corrisponde all'uno, e dall'altra il piacere che ha più stretta analogia ol molti. Questp indirizzo pitagorico modifica l'antica dottrina pla- tonica, ed abbiamo più volte ripetuto in qual maniera. Ma questa modificazione non è certo un mutamento radicale; nè per questo il sistema platonico si confonde affatto col pitagorico. Restano sempre due differenze importanti, che ci vengono attestate da Aristotele. La prima sta in questo, che Platone ammette due specie di numeri — gl’ideali e 1 mafematiei — e i Pitagorici una sola. Questi inoltre non staccano 1 numeri dalle cose sensibili, in cul sono ineor- porati; quegli al contrario, restando fido al sistema della trascendenza, pone i numeri ideali quali sostanze sepa- rate '). E quì ci sia leeito di notare esser la nostra in- 4) Aristotele lo dice chiaramente. Nel Capitolo 1.° del Li- bro XIII. fra gli altri problemi da risolvere c'è anche questo: se i numeri sieno è év qreîs aieSmrote, naddrep \byevoì tives, N segtpe- apfva toy ArFarop. E chi sieno costorg che attribuiscono al nu- mero un’ esistenza separata , facilmente s' intende in seguilo. Infatti dopo aver combattuta la teorica delle idee sostanze nel Cap. 4.° e 5.? dello stesso libro, passa nel Capitolo 6.° a cri- ticare la teorica delle idee numeri. E le parole con cui s’a- pre questo Capitolo suonano così: ira di dwsprora repi tovrwv, xa- Mes Eye made v SFecpfica tà mepi tods aprdpovc cupftaivoria tols Afyopori eù- cias aùtols sivar qupiotàg xal tiv Gvrwv airiag mpoitac. 171 terpetrazione dei dialoghi dialettici molto più verisimile delle altre, comecchè non rompe la continuità del pensiero platonico. Mentre coloro che credono aver Platone in que- sti dialoghi sostenuta la dottrina dell’ immanenza, sono, costretti ad escogitare o l'una o l’altra di queste due ipotesi. O che Platone abbia sempre creduto nell’ imma- nenza delle idee, ed in tal caso bisogna sforzare l' inter- petrazione dei dialoghi platonici, e tenere per metaforiche tutte le locuzioni che chiaramente si riferiscono alla tra- scendenza; nonchè fa d'uopo ammettere che Aristotele non abbia inteso nulla della dottrina del suo maestro. Ovvero . che Platone abbia mutato nel corso degli anni radicalmente di opinione, ipotesi questa che incorre nella difficoltà di non trovarsi traccia nei dialoghi platonici di alterazioni così brusche ed inverosimili. Tutto invece fa supporre, che la trasformazione sia stata lenta e quasi inavvertita dallo stesso Autore. | La prevalenza poi dell’ indirizzo pitagorico negli ultimi anni della vita scientifica di Platone non solo è manifesta nei dialoghi dialettici; ma in un'altra opera di maggior lena, che secondo i critici è indubbiamente l’ultima opera del vecchio filosofo, la quale non potè venir ritocca e ripu- lita come dovea. Io intendo parlare delle leggi, che ricor- dammo più volte nel corso di questo lavoro. Ed i disce- poli, Senocrate e Speusippo, seguendo le orme del Mae- stro pitagoreggiavano più di lui; così che Aristotele ebbe a dire. « Le matematiche sono divenute la filosofia di og- sigiorno, benchè si dica che bisogna occuparsene in gra- zia di altre cose » 1). 1) @Nik Yeyove tà paSipara toîs viv i piiocogpia, pacxévrav &X)ew ya. pu abrà dev rpaypareverim. Met. I. 9-992. si ma 172 CONCLUSIONE Ed or che siamo pervenuti al termine del nostrò lavoro giova darne per sommi capì 1 risultati. I dialoghi Sofista, Parmenide e Filebo, indubbiamente autentici, non appartengono al periodo megarico, ma sono invece posteriori ai dialoghi costruttivi. In essi viene toccata chiaramente una nuova dottrina, la quale introduce nel mondo ideale la moltiplicità, che prima si credeva esclusiva del mondo sensibile. Questa dottrina svolta analiticamente nel Sofista coll’e- same delle cinque. idee più generali, dimostrata indiret- tamente nel Parmenide col provare assurde le due opposte posizioni dell’ Uno senza il molti e del molti senza l’uno, viene infine applicata nel Filebo alla quistione etica. Con questa parziale modificazione della dottrina Platone crede di poter salvare il suo sistema dalla critica dei con- temporanei, e principalmente di Aristotele. La qual critica egli ripete con franchezza nella prima parte del Parmenide, nel Filebo, e vi accenna in qualche punto del Sofista. Siffatta modificazione trova un riscontro a capello nella teorica delle idee-numeri, che Aristotele attribuisce a Pla- tone, come una forma posteriore della dottrina delle idee. Questa forma avvicina di molto il sistema di Platone a quello dei Pitagorici, e così facilmente si spiega il pre- valere dell’ indirizzo ‘matematico negli ultimi anni della vita del Filosofo, e più ancora nella scuola dei suoi disce- poli e continuatori. Felice Tocco. Tocco. Keywords: Bruno, ragione pratica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tocco” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tolomei: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella filosofia della percezione – la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Pistoia). Abstract. Keywords: la filosofia della percezione, Warnock, Grice. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana. Appartenente alla Compagnia di Gesù. Nato a Villa Camberaia e di nobili origini. Studia a Firenze dove studia legge presso l'Pisa. Entra a far parte dell'ordine dei gesuiti e venne ordinato a Roma. Divenne esperto di ben undici lingue tra le quali latino, greco, ebraico, siriaco, arabo, inglese, illirico e francese.  Inizia la sua carriera teologica esponendo le sacre scritture nelle letture pubbliche presso la chiesa del Gesù a Roma. Venne eletto alla carica di procuratore generale dell'ordine dalla congregazione generale, ufficio che tenne fino a quando cioè non ottenne la cattedra di filosofia al collegio Romano. Le sue letture, che hanno sempre un vasto uditorio, vennero poi date alla stampa con il titolo “Philosophia mentis et sensuum” nella quale, pur nel pieno rispetto dell'aristotelismo del Lizeo, accolge gran parte delle scoperte naturalistiche della sua epoca, esponendole nelle sue lezioni. Le letture vennero ristampate in Germania dove ottenne l'encomio dell'Accademia di Lipsia e di Leibniz. Ottenne la cattedra di teologia alla Pontificia Università Gregoriana -- allora ancora Collegio Romano -- e rinnova le tematiche relative alla controversia sul concetto di dogma già iniziate dal cardinal Bellarmino. Le letture relative a queste lezioni furono tutte redatte in un manoscritto di ben sei volumi in folio che tuttavia non vennero mai pubblicati dall'autore. Eletto successivamente rettore del Collegio Romano e del Collegio Germanico, ricopre la carica di consultore presso la Congregazione dei Riti. Venne con sua sorpresa nominato cardinale da Clemente XI ed ottenne il titolo di S. Stefano al Monte Celio. Chiamato al servizio del Pontefice per giudicare gl’errori in materia di dogmatica si occupa della pronuncia di condanna dell'eresia del teologo francese, esponente del giansenismo Quesnel.  In qualità di cardinale è uno degli elettori del conclave di nomina di Innocenzo XIII e di Benedetto XIII.  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. T. su Find a Grave. Opere di Catholic Encyclopedia, Appleton. Cheney, Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Battista Tolomèi, Tolomei. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tolomei” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tolomeo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale contro la gnossi -- Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Roma). Abstract. Keywords: gnosis, gnosticism. H. P. Grice on ‘know’ – conoscere.  The The implicature of ‘gnostic’ in ‘gnosticismo’ --   Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a gnostic, and a follower of Valentino. Keywords: Ippolito, gnosticismo.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tomai: l’implicatura conversazionale e la ragione conversazionale – la scuola di Ravenna -- filosofia emiliana – filosofia romagunola -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Ravenna). Abstract. Keywords: Deutero-Esperanto. System G – Symbolo -- Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Ravenna, Emilia-Romagna. Pietro da Ravenna Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.  Disambiguazione – Se stai cercando il vescovo, vedi Pietro Crisologo. Pietro Tomai, più noto come Pietro da Ravenna o Pietro Ravennate e latinizzato come Petrus Ravennas (Ravenna, 1448 circa – Magonza, 1508), è stato un giurista italiano che insegnò nelle università di Padova, di Greifswald, di Wittenberg e di Colonia. Compendium juris civilis et Canonici. Pietro da Ravenna si fece notare all'Università di Padova in quanto, come allievo di Alessandro da Imola, era in grado di ripetere a memoria l'intera cognizione del diritto di quei tempi. A soli vent'anni ottenne l'incarico di lettore. All'età di 24 anni fu promosso dottore in utroque iure. Pietro suscitava lo stupore dei coetanei per la sua prodigiosa memoria. Ad esempio, si vantava di aver archiviato nella sua mente, sotto la lettera A, fonti sui seguenti argomenti: «de alimentis, de alienatione, de absentia, de arbitris, de appellationibus, et de similibus quæ iure nostro habentur incipientibus in dicta lettera A (”Sulle provviste, sull'alienazione delle proprietà, sull'assenza, sui giudici, sugli appelli e su altre materie consimili che nel nostro codice iniziano con la lettera A”). Nel 1477 si recò presso l'Università di Pisa ed alla fine del 1479 ritornò a Padova come professore di Diritto canonico. Nel 1491 pubblicò un libro sulla tecnica di apprendimento dal titolo: Phoenix, sive artificiosa memoria ("La Fenice, ovvero la memoria artificiale"). Nel 1497 il duca Boghislao X di Pomerania lo condusse a Greifswald allo scopo di dotare la locale Università, da lui fondata, di un prestigioso nome italiano. Dal 1498 al 1501 Pietro ricoprì la carica di Rettore. Tornato in Italia, dopo poco tempo ottenne una chiamata ad un prestigioso incarico da parte del principe elettore Federico I di Sassonia, che aveva fondato un nuovo ateneo, l'Università di Wittenberg. Il 3 maggio 1503 Pietro tenne la sua prima lezione a Wittenberg su Il potere dei papi e degl'imperatori. In particolare, egli sostenne il diritto dell'imperatore a fondare Università, cosa che il Principe elettore aveva già fatto per la prima volta con la scuola superiore di Wittenberg. Pietro da Ravenna lasciò Wittenberg a causa di un'epidemia di peste e divenne professore di diritto presso l'antica e prestigiosa Università di Colonia (fondata nel 1388). Qui divenne famosa la sua controversia con Jakob van Hoogstraten, nella quale egli stigmatizzava la prassi, in uso da parte delle autorità tedesche, di lasciare le salme dei condannati a morte esposte sulle forche: secondo lui ciò andava contro le leggi naturali e divine. A causa di quella disputa, che per lui fu anche una sconfitta letteraria, Pietro lasciò l'incarico di professore a Colonia e si trasferì all'Università di Magonza, ove poco dopo morì. Lascito culturale L'opera Phoenix, sive artificiosa memoria ("La Fenice, ovvero la memoria artificiale") offrì per la prima volta ad un vasto pubblico un metodo efficace per allenare la memoria. Sfidando i benpensanti dell'epoca, Pietro nel libro rivelò «un segreto che ho a lungo taciuto per pudore: se desideri ricordare presto, colloca nei loci vergini purissime; la memoria è infatti eccitata dalla collocazione delle fanciulle». Dopo la sua prima comparsa a Venezia, il libro venne tradotto in numerose lingue, comparendo ad Erfurt e Colonia: nel linguaggio odierno, si potrebbe parlare di un best seller internazionale. La Repubblica di Venezia concesse a Pietro da Ravenna e a un editore di sua scelta, il privilegio dell'esclusiva di stampa del suo libro Phoenix. Tale privilegio può essere considerato il primo esempio conosciuto di copyright. I testi di Pietro da Ravenna, in particolare quelli sull'arte della memoria, furono letti e apprezzati da Giordano Bruno, da cui prese spunto per sviluppare uno dei suoi maggiori interessi, quello delle mnemotecniche. Opere Phoenix, sive artificiosa memoria, Bernadinus de Choris, Venezia; Erfurt, 1508 Colonia. De immunitate ecclesiæ, Colonia 1503. Liberum sermonum, quos festis diebus auditoribus juris pronununciavit, Hermann Trebel, Wittenberg Compendium juris civilis et Canonici, Colonia, Hermann Bungart von Kettwig. Alphabetum aureum utriusque juris, Colonia, Compendium in consvetudines feudorum, Colonia 1567. Phoenicem sive ad memoriam comparandam introductionem, Colonia. De corpore suspensi in patibulo an remanere dabeat. Manoscritti Lecturæ, Verona, Biblioteca Comunale di Verona, Fondo manoscritti, ms. Rossi, Clavis universalis, Napoli, Ricciardi, Mordani, Vite di ravegnani illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Ritter von Eisenhart: Petrus Ravennas, in: Allgemeine Deutsche Biographie, Duncker et Humblot, Leipzig. Dieter Girgensohn, Petrus Ravennas, in Neue Deutsche Biographie (NDB). Band 20, Duncker et Humblot, Berlin 2001, S. 230 f. Ravennas oder de Ravenna, Peter ein Rechtsgelehrter In: Zedlers Universal-Lexicon, Band 30, Leipzig, Spalte, Bowker: Copyright: Its History and Its Law. Being a Summary of the Principles and Practice of Copyright with Special Reference to Books. Houghton Mifflin, Boston, Friedensburg: Geschichte der Universität Wittenberg. Max Niemeyer, Halle (Saale). Theodor Muther: Aus dem Universitäts- und Gelehrtenleben im Zeitalter der Reformation. Andreas Deichert, Erlangen. Frances A. Yates: Gedächtnis und Erinnern. Mnemonik von Aristoteles bis Shakespeare. Akademie Verlag, Auszug bei Google Buchsuche Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pietro da Ravenna Collegamenti esterni Opere di Pietro da Ravenna, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Geschichte der Wissenschaften in Deutschland, su gdz-cms.de. Portale Biografie Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani Nati a Ravenna Morti a Magonza Mnemonisti Professori dell'Università di Pisa[altre] Artifìdofa Memoria Clariffimi luris VtnuCq^ Doftoris de miliris domini Pctri Rauénatis lura Canonica ordì nane de fero Icgenris in Celeberrimo Gymnafìo Pata^ uino in hoc libello continctur » Etcum unafitFocnix di unusfitiflelibellus: libello fi placet Foenids nomen imponatis. Eleonora de Aragonia Duciffa Ferraris &c,Q^uod ab omnium bonoru datore Immortali deo generi huma no conceflum eftjplæri<j in orbe terrarom a conftitu/ rione mundi uf<j ad hanc ætatem excellentcs uiri eua^ fere,Q_uos inter nunc adeft Speótatus miles auratus di Infìgnis utrcxf Iure confulcus dominus Petrus To mafius rauennas harum litterarum noflrrarum exhiV^ bitor:Q_ui praster alias corpis et animi dotes ita omni dodlrinarum genere Sitenaciffima memoria refulget ut ne dum (uperiorem fed eriam in his parem minime habere uideatunQ^uod quidé nuper latiflime re ipfa comprobauit:ut non folum nos fed etiam omnis hæc duitas noftra teftimonium perhibere potefì^Q^ua ex re faélu efl: ut eum fingulari admirarione prædpuacj charitate complexa^Inter noflros praster alios familiarem àrdom^cum habere coflituerimus, Q^uamob rem Sereniffimos reges llluftrcs prindpes Excellétcs refpublicas dC alios quofcuncf do minos patces fratres amicos beniuolofcp nollros precamur ÒC oramus ex animo ut quotieiifcucf d contigerit ipfum dnm Petra tamoptimcmcritucumfuis.famulis& cquis ufcj ad numerum oélo cum fuis bulgiis forccriis &capfis cu pannis &C ueftibus fuis libris uafìs argcteis di aliis qui/ Dufcun^ rebus fuis ac armis per eorum urbcs oppida uicos panus aquas loca die noftecj libcrrime de expe ditiffimeabfijalicuius dadi gabellai et alius cuiuflibct oneris folutionc amoris nolrri ÒC potiflimum tam ma ximarum huius hominis uirtutum caufa tranfire per/ mittant eommendatiflìmum^ ipfum femper haben// tcs ei prouidere uelint de liberrimo expeditiflìmo(j tra fitu de idonea cohorte ut opus fuerit di ipfe requifiue/ rittQ^ùodquidemnobisiocundiflimuni femper cric at(^gratiflìmumparatiffimis ad omnia eorum qui fìc in eum fe habuerint beneplacita.Madamus aùt omni bus di fìngulis magiftratibus quoruncuncj locorum noftrorum 6^potiffimum cuftodibus paffuum reli/< quifq fubditis noftris ut prædida omnia di fingula in terris di ìoós noftris inuiolabilitcr feruent feruaric]^ fa ciant,Sub indignationis noftrac incurfu di alia quauis grauiori poenapro arbitrio noftro cis imponenda:ad quorum robur di fidem has noflras patentes litteras fieri iu flimus di regiflrari di noftri maioris figilli munì mine roborari jDatas Ferrarise in noftro ducali palatio anno natiuitatis dominicac Millelimo qi atringentefì ' mo nonagefìmoprimo Indidlionc nona Die decimo mcnfis Oftobris &:c. Scuerius Bonifadus Marchio Motis ferrati S^cDccct pmaximc Prindpcs corum non jfìlerc comendationcs qui fide ac deuotione non modo {ibi dciiinétos di affcctos effe co gnofcunt fed quorum uirtus ac {ciém 5c mores ubicj patcnt di illos fibi reddunt gratos acceptos^Sane igi turattcndcntcspræclaras uirtuteslcientiarum pcritia ac mcmoriam magna prout nolipfì uidimus ac mirabi litcr fumus cxperti fpedlaBilis ac eximii luris utriul^ doétoris de militis cadàrei domini Petri de Tomafiis de RauennaPaduasIusCanonicum publice Icgcris nec non illius erga nos immenfam et cordialem deuotio// nem fìngularemcj affedionem merito inducimur illu corde diligere dc inter charos noftros connumerarc, Q^uamobrem uniuerfis òc fìngulis fereniffimis domi nis regibus illuflriffimis principibus patribus inclytis dominiis magnifìcis capitaneis excelfis communitatibus flrenuis condudboribus nobilibus et officialibus amicis &beniuolisnrisad quos memoratus dnsPe^^ trus declinaueritillum affe^luofecomendamus eofdc rogantes ut ipfum cum equis quinque dC totidc perfb nis fui{(j bulgiis ualijGis ueftibus libris pecuniis rebus de bonis per omncs ciuitates terras òe uillas caftra op^^ pida caflella diftriótus et iurifHiftiones òc portus potes de pafllis eudo dC redeudo per terra dc aquam die ac no tì:e lemel dC p!Mries abfb folutione alicuius datii peda/ gii gabellse buUetarum ilrapaflus tolonei fundi nauis de dia quauis oneris exadione libere ac expeditc dimit tatptrafirejfibi(y|)uideatdeguidis fcorris faluiscodu busfidisfociecatibus dC ms fauoribus oportunis quos requircndos dxixcric benigne^ illum rccolligant humancfufcipiantS^gratiofc tradtentnoftri contcm plationc fuarum<$ prædariffìmarum uirtutum intuì// tu t nam quicquid humanæ rccolligcntiæ benigni tra-' ftamétipropiai<pfauorisfibicollatum cxtitcrit nobis ad fìngidarcm complacctiam afcribcmus ;in quorum fìdcm præfctttcs noftras fieri iuffimus dc rcgiftrari no ftri^ figilli imprcffionc muniriiDatas Pontis turiac die XKÌiiù» Antonius Priores Vcxillifcr iufliriac populi 5c communis ciuita tis Piftorii præftantiffimo luris utriufcy doarori dc da/ riffimo cquiti domino Petto de Tomafiis raucnati no/ bis dileélifGmo falutem^Si reéte omnia quæ mentibus humanis concipi ac probabili ratione difccrnì queant uel confiderabimus uel pcrquiremus nihilprofedto in ter caducas opes uarios hominum (plendores alterni/ tem^fortunam inuenietur poflipfum immortalem deum qui cunfta creauit ac regit uirtute admirabiliust ca quippe apud uiros bonos et ingenio daros tanti eft ut non modo iudicetur ipfius diuinitatis particeps uc/ rum 8C poffidentibus eam fìt ftabilis ÒC incorrupta humanæ at<f cdeflis ukx poffeffioxù ita^nofler Piflori enfis populus diu fìngularem tuam fcientiam admira/ bilem memoriam ac morum ciuilium cgregiam probi tatcm accurate perfpexerit motus primum excellentia uirtutuj deinde amorisindidoquod erga noftra rem publicam 8C ucrbis et opcribus oflédiflrnca demum co gitauit di propofuit quæ parem eius in te bcniuoIcnaV am dedararcnt^Conuocato igiturpro more ac legibus duitaris confilio publico ipfìus populi ac Icgiamc cdc/^ brato die fexta menfis prccfcntis non fine fummo ac fa uorabili conuocatorum cofenfu decretum fuit tibi tu^ i%defcendentibus benefìciumnoftrx duilitatis cum piena facilitate confequendi qu2eciin<j ofKda duitaris S^cuexcptioneimmunitatecjperannos triginta pro ximefecufurosaquibufcucjfolutionibus quse dein^/ ccps in eadem noftra duitate quouis modo imponerc tmtka^ in futurum fis nofter duis Piftoricnfls ac prò Piftorienfedueutprseferturhabearis &reputeris tu uirpræftantiffime cui 5c honos et bcniuolcnriameri^x to debentur et cuius defiderio fatiffa<fhj effe putamus hoc noflri amoris indirium fufdpe grato ac iocudo ani mo et memor fìs noftram hac rempublicam tibi ut csc teris noftris coduibus fadram effe communem : Datu PilTrorio in palario foìkx nollræ reftdentise fub noftro cofueto figlilo Antonius luanus Cancellarius ÒCc, Saluus fis frater Jptimc ucnictcm fororium meum pa/ tauium non fuit acquimi fine meis ad te litteris uacuu uenire t quibus ÒC fi nihil aliud habeo quod fcriba hoc faltcm habeo quod in inirio epiflolarum fa^piffime ap^ poniturfi bene ualesgaudco ego bene ualco uxor mea ego falui te una cum tua faluos effe iubcmus^tu uc/ ro cum omniù «tatis noftrac mcmoriofifTimus fìs mc^ mento uerbi tui fcruo tuoinquomihifpcm dedifti. Papi« quinto idus Nouembres^M.ccccbcxxviii» Tuiiuris Lancello^ tus Dccius luris utriu% doótor* Padu« Domino Petto m'emoriæ Magiflro Quid modo pyramides^quid iam babylona canamus Q^uid louis de triuise tempia fuperba deæ Non magis immenfum mirabimur amphitheattum Nam fummc facerent hoc quoq fcmper opes Sdpio non ultra iaétct quod fcccrat ufus Agmina qui proprio nomine tota uocat Pctrum famacanat quam nobilis ilie rauennæ eft Gloriajqui plufq doébi mincrua potefl: uid magni fccere dei mirabile diftu Nam retinet quicquid legerit ille iemel Effatur triplici quæcuntjorator in hora Protinus hic iterum nfl minus ore refert Sic reor hunc genuit doftarum quinta fororum (Cui pia mufa nihil non meminiflfe dttlit, FraterEgidius Viterbiéfishe remita Cremona: Ioannes antonius PIcbanus cxiV mio humani diuini<]p luris Do/ ftoritdPctro Raucnati falutc, Vcnimus cxtcrna fub cctta palatia luce Curia confcriptos qua capit ampia patres Teq ibi carminibus primum ccnfcrc crcmonam Scnfmius de laudcs connumcrarc fuas Et fìc q uanta tuse celeris facundia linguse Qua par ingcnium ucl quafì maius habes Ccdit cnfm ingcnio tibi rcgulus imbribus oris Ifcus manans tuUius eloquio De memori uix mente L'cet con tingere quicq Mortalemquoniam præterit illa fidem Nunc equidem de te rumor pr^eceflcrat ingens Inuentus multo maior es ipfc tamen Eloquar hoc fìat fi non iniuria cui^ Aut deus aut toto es primus in orbe uirum Salue igitur tenuef^ meos dignare libellos Perlegere : acripiunt uerba cSentis heri Vt<j deus pladda gaudet fc uoce rogari Dona deninc gratis tradere fupplidbus Sic tu quæfo neges mihi non præcepta prxcanti Q^uæ memor hoc ualeant efficere arte caput Hæc fìpræflitcris quauis tibi maxima fama eli Illa tamen crcftct Carmine dC órcmco» Brixiæ Clariffimo &C cxcclicntiffimo C3i[krd ponti fióiq luris Dodori mirabili memoria prasdito equiticj rplendidiffimoPetroRauennati Mar// ciis Picardus falutem. Simonidcs ccdat mcnf^ alta themiftoclis una Indytus arpigena cum cicerone folon Cum doftor cum clarus cqacs Tpkndorqp raucnnæ Mente ualens memori maxima qusec^ canat. Papise Hieronymi Buticellæ auditoris noftri car mcn ad uniucrfitatem fcholàrium» Alma deccns fVudio ftudiofum fpernerc noli Sic petrum ualet hic iuribus àt<j pede Huic profa non deerit rcpetentur milia Icgum Milia quot nun<3 poffe referre putcs Cannona lì cupies cantabitur undit^ cannon Nec poterit calamus fcriberc quxq refert Dc^ aliis fcriptis recitabit fplendida cunétìs Tot quot uix poteris credere fcripta forc Adde ^ illa fuac uirtutis munera fatur Pcdtoribus noftris addere poffe cito Q^uod fi nunc Tpcrncs lachrymaberis al» ja futurum In tempus pofthac forf^ lugcnda tua cft Idem Si rua mirantur memorantem fccula cirum Vt numen petrum fccula noftra colant. Q_m setatc nra paucos cxcdlcti memoria præditosfuiffc cognouimus ftatui pulcherrimu opus Italiæ dc ioti or bi traderc;cuius prascepta fì<^s feruarc uoluerit huius ar tis altiffimùculmcparuotpe mirabilitcrattigetmcc fai lor o leétor cariffimc du eni præcepta mea per tota Italia cxpirer cuéti dininu potius q hùanu opus le uidifle afFir mabanaliqetiafecrucefìgnabatneci artificiofa memo ria præceptorc hui;fed deo mihi auxiliupracbcte regulas pulcherrimas maximis tn laborib iueni;huc ego libcllu aoótìffimis auditoriblegi me<j legete prsecepta huius ar tis ab ore meo pédétes Icripferej de q do^tria mea ufi fut de honorc òi laude fut cofecuti hoc meu luetii exccllétif fimi uiri laudauerut quoj^ noia l fine huius opis ifcribc re placuit ne folus uidear qd'c meu laudauifTejqd.pfecto pulchrius iudicabi^fi excellétiorcs habucrit laudatores mcaigitpræceptacarifCmeleélor aple(5taris oicjftudio de diligétia exerceastex ipfis eni no ex aliis grana colligcs et toto ope pfedro mihi crede maxima gKam reporta ois No fumus fufficiétes cogitare aliqd ex nobis.fcribit apfs ii^ad corinthyos,iii,Oé donù optimu defurfu eft defcen dés a pf e luminulacobi p,gLin,l»na ÒC demofl:henes,fF» de legibus^Q^uid enim nabes qd* no accepifli,i,ad cori thyos.iiii,fine me nihil poteftis faceretIoanis,xv»nolite griarine<jlo<^mini elata ne<j ^cedat magniloquètia de ore ufo qa deus fciaru efl dnstprimi RegUtiiatelledu ti bi dabo ÒC iftrua te i hac uia q gradieris ait deus oipotcs in libro pfàlmo^ p os pphetæ dC Baia ^ncipio libri feu/ do^ no p5t ali^d no boni uclle nifi iuuet ab co q no pot b lì malu uellc t ósxk Augufiinus ad Bonifaciu Papam gra tia pr æuenit ut udimus bonu, Augufiinus in cnchari dion mouct ad quærcndu falutc libertas arbitrii mouc te priusdcot Augufiinus de ccclcfiafticis dogmatibus fine gratìadei nuHuprorfus Guc uolcdo fìucagcdo faci unt hoies bonu Augufhnus de correétione &C grada uellc etià ojuod bonu eft no pofTum nifi tu ueliSrAugu ftinus in loliloquiisj et Icribit ingeniofus poeta in prin cipio fui præclari opis dii ceptis nam uos mutafHs dc il las ajpiratc meis dc alibi ; Adfìs dc cepto luppiter alte meo»6^pulchreloquit Cacfarin,lin noie dni,C«de offi ciò pi^feétì prætorio africe intldeo nobis auxiliu prse-' bctetCtdc epifcopis 6C dericis j di in^Ldeo au^dlorc nrm gubernate impiunitQde ueteri iure cnudeando dCtcx tus efl: in cap in noie dnuxxiiiAudC in cap in noie diii de teftibus de in cap ueritatis de dolo òC contumacia &: in cap no licet,xxvi»q.v»6^ in cap in noie pris,kxiii.di»in au tctico ut præponat nomen ìmperatoris in uenmox in choet audore deo in autentico de armis in prindpio in autentico de quæflore in cap primo de baptifmo glofà in rubrica inflitutionu BalJn rubrica,Qdciure iurado Ad oipotetis igit dei prouidctia aium meu refcrcs hoc utililumu opus ordinare difpofui in quoamids fatiffc cero fi obfcuritates uerbo^ et fentctiarà' cuitauero ut ctia idoéli utilitatc aliqua ex hoc libello affequi poflìnt; in ho^ igit prasccpto^ traditioc lo^ no aùt dicerc cogù tauitut aut rcs darius habeat coduiioncs in tota arte fa cillimas adducàmt cu Icgifta firn legiftas uidcar imitati. RIMA critConcIufioj Ars ifla conflat ex ìocis ÒC imagmibus:loca funt tan^ charta feu p alia materia in qua fcribimusdmagincs funt fìmilitudincs rcru quas memoriæ uolumus cómendare» Chartam cr^o primu parabo in qua imagincs collocare poffimus.Et prò fundamento huius primæ conclufìonis quatuor regulas ponOtPri^ ma eft hsecdoca funt feneftræ in parietibus pofìtæ cclu nse anguli ÒC qux his fìmilia funt^S ecuda fìt regula : lo^ ca non debent effe nimium uidna aut nimium diftatia» uicinitas enim ut expertusfum in appofìtionc reru me moriam naturalem conturbar ? fi autem nimium difta rent loca cu mora qu3e locis tradita funt redtamus me^ diocriter ergo difirabunt unus ab altero quinque uel fex pedibus diftabit ♦ Tertia fìt r^ula uana ut mihi ui-' detur eft opinio dicaitium loca tìcri non debere ubi fit hominum frequentiamt in ecclefiis aut in plateismam ccclefiamquado^uacuauidilfefufFicit non enim fem per ibi hominum deambulatio uifa fuit dc in hoc expe^ rientia quse eli: reru magiflrra cotrarium docuit, Q^uar ta fit reguladoca no fint alta quia uolui q? homines prò imaginibus pofìti loca tangere poflint quod utilefem^ per iudicaui,Accipio ergo ecdefiam mihi mukumno// tam cuius paites diligentcr confiderò in ea tenp quater dcambulans difcedo domumcj redeo et ibi per meuifa mete revolvo &: h oc paéto principium lods do t In parte dextra portai ex qua redo tramite ad altare maius itur mihi primum locu c5fhtuo:deinde in pariete poft quinquc aut sex pcdes fccundum &: si ibi aliquid reale sìtpoétum ut cfì: columna fcncflra aut his simile ibi lo cu pone j {ì autem reale defìciat ad arbitrium meù imaginarium fingo si tamen hoc loca fabricas omittere ucl Ict timens ne rei appositæ oblivifcatur cocedatur dum/ modo fit memor ibi locum constituisse Ce de loco in locum procedatur donec ad eandem portam loca fabricans revertatur ista fìant in parietibus primis cede// fise omissìs omnibus qux in medio ipsius funt; dc fiqs locorum copiam habere cupiat hoc ordine monaftenu intret illud totum locis impleat aut in parietibus extra ecdefiam sibi loca coparena qui multa volverit me minisse multa sibi loca comparare debenEffO autc quia omnes homines Italia copia rerum abf(|chartarum revolutione superare volui in sacris scripturis iure canonico civili et aliis multarum rerum autoritatibus du cfTem adolescens mihi centummilia locorum paravi et nunc ipsìs decemmilia addidi in quibus per me diceda pofui ut inpromptu fint quando memoria vires expetiri cupio a(:cum patria relinquo ut peregrinus urbes Italise videam dicere possum omnia mea mecum porto nec ceffo tamc loca fabricarej hoc fuadeo ut in aliqua ce defia de monasterio habeantur loca solum prò reponc/dis rebus quas quotidie convenit recitar emt funt argumenta rationes historiæ fabuk& prædicationes quac in quadragefima fiunt ÒC hoc offidum illis lods tatum deputetur et unum quod utile iudicabitur prò iftis lo/ris in fine scriberc dispofui volo equidc ivuenes huius artis cupidos pcrfe<5b'ffimc doccrc: loca autcm (ìc conflri tuta ter aut quater in menfc memoria repetantur.repe titio cnim locorum nullo predo emi poteft, SECVN da erit Conclufìo ut charta habita modum fcribendi in ipfa doceam in magna nobiliu corona dum efTcm ado^ lefcens mihi femel fuitpropofìtumut aliqua nomina hominum per unum ex aftantibus dicenda recitatemi non negauiidida ergo funt nomina in primo loco po^/ fui amicum illud nomen habentem in lecundo fìmili/^ ter fic quot dida fuerunt tot collocaui &C collocata re citauit&: aduertat collocans ut feniper amia! ponat agc tem illud quod comuniter ab co neri folet t dC ifl:a con/ dufio dare procedit in nominibus cognitistfi autc non cognofcitm amicus illud nomen habens ueluti Boz/ drab Zorobobel tunc coUocabis quod loco fuo dicc^^ tur idem dico in nominibus animaliu ut efl: equus bos afinus ut in primo loco ponatur equus in fecun/^ do bos intertio alìnus 6^ idem in rebus anima carena tibus ut efì: liber cappa uefì:is;fedaduertene decipia ris fi in primo loco poneretur liber in fecundo cap pa fic fìmpliciter poffes dum reeitares defìcere j exci// tare enimmemoriam naturalem efl artis huiusoffì// cium i fed hx res commouere non pofTunt quia ge ftusimaginis jgoCkx cxcitat quiintalibus naturaliter non reperitur t imago igitur in loco talis poni debet quæ fé moueat fi non poteft ab alio moueatur rem talem in manu alicuius motoris ppnas ut ex mota P ilio memoria naturalis commoueaturjfed acutiffimi in geniiiuucnisdicet^hæcprjEcepta non funtomni ex parte perfeda formica in loco pofita fe mouet no tamc propterfuiparuitatemcommouebit granum piperis in manu motoris pofitum etiam non exdtabit t fatcor hoc fi formica fola collocctur fed multitudinem formi carum afcendentium et dèrfcendentium arborem in loco ponamtQ^uod ergo formica fola facere non potefl facietmultitudoSiamicus etiam in loco multa grana mouebitJnft^bit eoam ingeniofus iuuenisipulex fal^^ rat nec commouet multitudo autem bene collocati no potefl fed prò pulice amicum pulicem capientem collo cabo:6^ ego fepiffime prò pulice excellentiflìmu omnia ætatis noflra: medicum Magfftrum Gherardum Vcronenfem pofìii quem fcmel capientem pulice afpexi» III efl: aurea Condufio quia prò littcris al> phabeti homines habco dc (ic imagines uiuas:pro littc ra enim,a, Antonium habco prò Lttera»b*Benedi<^lum et fjcperfonas in quarum nominibus prima littera efl illa quam collocare uolo;6^ ego communiterpro littc/^ ris formoCffimas puellas ponojillæ enim multum mc^ moriam mcam cxdtant et frequcntiffime in lods luni peram Pifloriéfcm mihi chariflìmam dum effem iuue nis coUocaui et mihi crede fi prò imaginibus pulcherrimas puellas pofuero facilius Òi pulchrius rcdto quæ lo dsmandauifccrctumcrgohabeutiliflìmum in artifiVciofà memoria quod diu tacui ex pudorcfì dto mcmi^^nifTe cupis uirgines pulchcrrimas collocajmemoria cni coUocatióncpucllaruiTiirabilitcroomouctur òCqui uù dit tcflimonium pcrhibuitjhoc aut utile præccptu prò dcffc non potcritillis qui mulicrcs odiùt et contcnunt fcd ifti artis huius fruàum difficilius confcqucmr uc/ niam tamen mihi dabunt uiri rebgioljflimì QC caftiflìmi præccptum enim quod in hac arte mihi honorc dc lau/ dcm attulit tacere non dcbui cum fucccflorcs exccUen^ oflìmos relinquere totis uiribus nitar» IV cft Coclusìo ut imagines alphabeti seu noia dcmonftra tialittcras bene memoria teneàtur dC fkpe repetant; Incipio ergo fic fi mihi contingat inloco ponere iftam copulam et in loco pono Eufebium ÒC Thomam : hoc ta me ordine quia Eufebius locum tagit 6i Thomas aftat coram cotd autem Thomas locu Eufebii tenuerit et cu fcbius thomoe non copulam et:fed hoc pronome te in loco uidebimus appolitumteft enim in arte hac hacc regula ut prius in ordine loco iit propinquius iìcut enim in chartaprimum,€,fcribimus in ifta copula et ita et in loco et idem obferLiandum eft generaliter in oibus di// (tìonibjdi aliis collocadi5> V efl Codufìoin fyilabis trium litt ;rarum in quibus iic procediti enim vocalis eft in medio uc in hac iVUaba Baritunc imaginé ultimsc litteræ acc^io rem aiiqiiam addo cuius principium duabus^riccedetibus litteris limile fìt/i ergo in loco raìmùdum cum baculo locum percutictem pofuc ro Icgetur in loco fyllaba bar;& fi Simon locum percuf Icrit habcbitur fyUaba bal^ifta ergo fit regula quæ f?c re pctitur ubi uocaiiscfl in medio in fyUaba triu littcraru c accipituf imago ultimac littctx re aliqua appofita mobi li aut fé moucte cuius principiu fimilc fìt duabus littC/-^ ris pr^cedctibusjfì autcm uocalis fìt in fine ut in bab raituc imaginem primæ ìittCTX in loco cóììoco 6C re mobilcm feu le mouctem cuius principiu fìt fìmile dua bus fcquctibusjfì ergo BenedicTij cum rapis uel ranis in loco pofìiero dabit fyllaba brajfì auté Thomam fyV labam trajcopia ergo rerum incipictium ut fyllabæ fì in promptuhabeaturmagnam afferct utilitatem j fed fì uocalis efl: in prindpio lyllabam fàcies ut in hoc uerbo amo tue femper imago primse litteræ collocada eft in lo co di res principium habcs fìmile fequcti fyllabæ;fì er/^ go Antonius uoluat molam hoc uerou amo pofìtu Ic/^ gemus;fì Eufcbius uerbu emo:efl: tamé fciédum no poflumus comode didhone trium aut quatuor fyllaba rum collocareìfed nec opus eft quia fì-uflra fìt per plu^ ra quod potefl: fìeri per pauciorajfìifFicit enim prima Òi fccudam fyllabam pofìiilTe diótionc tamen duarum fyl labarumpofTumustotam collocare ueluri pater pona in loco rem uel homine prò imagine fyllabac pa;ut Pau lum de prò fyllaba ter^cum uocabs fìt in medio Raimu dum accipiam telam in manu hebctemxondudo ergo fìcpulchre imagines alphabeti fìmul iute et copia reru indpiétium ut fyllabæ femper nobis fecr/ict fi aliac imagines defìierintjfì enim alias habére poflum iftas omit to de quibus in aliis codufìonibus dicet". VI eft coclufìoin iftis diéhonibus panis uinù lignum ueftis di fìmilibus et in noibus dignitatu x ut e^ft Papa Impator abbas cationicustquac ola ctiam'ruflid mtclligunt quid dcmonftrctmd ut darius loquar uniformcs funt in lin gua ucrnacula &C latina in talibns ditìionibus alias ima^ gincs non quacro fed pono illud quod diéh'o ipfa fonat Ottines taliu diétionu pofllint pulchro invento facile collocari; in corporc na<f humano cafuu imagi/ ncs inucnimam caput cft cafus noiatiuus manus dcx/ tra gcniauus manus fìniflra datiuus jpcs dcxtcr accufa duus pcs finiftcr uocatiuus de ucnter fcu pcébus cafus ablatiuus;& prò numero Cngulari pono aut pulchra puellam nuda et prò numero plurali ipfàm egregie or/^ natam aut illum quem meminiffe uolo t aut ergo uolo collocare rem aut hominctfi rem ut panem puellam nu dam in loco fibi pedem dcxtrum cum pane tangentem collocabojfì autem diftionem collocare uolo hominem . in aliquo officio ucl dignitate cóftitutum demóllrantc ut abb atemjabbatc unum in loco nudu qui cum pedc dextro locu percutiat ponoj 6^ fi diligctec o lettor dulcif fime cófiderabis hoc inuctu tibi pulchru uidebit": de ùc has diéb'óes totas folco collocare, SEPTIM A efl: Co clufìo quia poffumus etia collocare didiones fono uo// ds geflru corporis ÒC fìmilitudine òc iffas imaginibus frc quctifUme utonpono enimamicu prò didtìone:do(fto/ re unu cogno|ii qui femp in ore habebat legc per hanc Ode tpibus appellationu:illam enim tatum legem legu dolor memoriter diccbatmolens ergo illam legé collocare illum dolorem pono qui femperrifum'excutitS^f c fono uocis collocacioncm fadojgeftu corporis ponunt c li imagincs quado fìt gcftus in dizione coprchcfuspra ucrbo cnim fpolio amicu peno qui aliu fpolict; prò ucc bo rapio amicu per uim aligd rapictetfìmilitudinc colla co imagines quado rem dizioni fimilé in littcris licct in fignifìcatione diffimiié inucniomt quado pfo uerbo ca no canem colloco, VIII eft Codufio prò diii^ iure cófukis 6^ de uoluminib iuris ciuilis dicere incipj> am ^ quado illa lods tradere uolo colores quibus regu tur aGcipiojpro,fF,ueteripeÌlem albamjpro.fF,nouopel lem rubeamjpro infordato pellem nigram;pro Codice pellem uiridemjpro uolumin e uarii coloris pellem^pro \ Inftitutionibus librum paruumiS^ prò autentico tabel lionem inflrumetum magnù habetem collocojpro au^ tética pueUam priuilegium habctemjpro libro feudo^ comitem alicuius caftrijpro decreto autem cu in eo finr landto^ patrum audtontates fenem alique in loco feri bentem ponojpro decretalibus Papam in throno fede te colloco:pro demetinis puella cui nome efì: Clemens prò fexto libro infh-umctum illud ita in Italia didrudc- quo fcribit Ouidius; Altera pars flaretj)ars altera duceret orbemjpro comentatoribus iuris eos qui idé nomè habétnmaginem aute glofk 2Sià^\o ex dodlrina per primo loco data in collocatione diftìonu:pro,ff,iunipC/ ram habeo Fiorentino cythara datem ucorlandi geto catare p oflìt, A llegationes autem decreti fìc collocatur; lìam prò allegatione quas fit per diflindb'oncs ponit^'puclla qux panum uelcnartam lacerctjpro qu^eftiòne ali- te colloco iunipcrapcrcutietc famulatpro cofccràtione cfl (àccrdos hoflia cofccras t prò pocnitctia cft lunipcra qux mihi fua peccata Icuia cófitetur, NONA cft Co^ dufìo ut oftcdam quomodo rubricas utriul<j luris lo^ cis traderc debeatnus dC duas imagincs comumtcr prò illis ponete (oìco'Si enim meminiue uoluero Rubrica de trafaftionibus Thomam ranas habctcm colloco uel geftu corporis pono duos cnim qui diu litigarunt a lite receflifle fìngo dc altcrum alteri fignum pacis pra:bere ha:c efl: pulcncrrima imago rubriche de trafadtionibus. Principia autem legum vel capitulo in locis ponùtur alphabeto uel fono uocis uel fimilitudine uel geftu cor poris de qbus iam piene didu eft. DECIMA efl Con dufìo in argumctis coUocadis prò quibus imagines du as ponere fcleojprima eft geftus corporismt fi dicat fic teftamentu fìnefeptc teftibus faótuno ualet;tefl:atorc coram duobus terfibus teftamentu feciffe fingo dc uirginem unam illud lacerarcfecuda eft imago quia duas aut tres didiones argumenti principaliores colloco:exc plum habe tu iurifcófulte òc me intelligent philofophi quado in adu reqritur iufTus alicuius ille debet præcc// dere:hic funt multa uerba fed fufficit iufìum dC prascc/ dere collocare &: reliquas argumenti partes memoriter dicere poterimus;ex collocationc ergo duaru aut trium didionum ccefera elcgater recitabimus;&: hoc experto d-ede magiftro. XI A eft Conclufio cum quoereret quida: Vtrum in ecdé loco plura collocare de beret- reipondi fi in lods ponere uolo quæ ab alio mihi proponunturutillapropofita ftatim recitare debcam magin cs unius rei tantum in loco colloco : fcd fì quæ in librislcgo inlocisponcrcdilponoutilla mcmoritcr pronundarcpoflìmtuncimagincsplurium rerum in loco uno rcpiiffimcponcrc non dubitaui. XII erit pulchcrrima Concludo t ut aperiam quopafto numerorumimagines fieri debeant OC prò omnibus numcrisquos pollumus excogitare uigin^x ti tantum imagines inueni : illas ergo fpedaliter delcri/^ bam j prò numero decem efl: mihi crux magna aurea uel argentea t prò uiginti fimilitudo litterae^nferrea uel L'gnea rei alicui rotundse coniunéla quia numcrum ui^ ginti hoc modo in charta fcribimus zojprotriginta ììmilitudo illius fìgurac codem modo rei rotundae coniundia x 6C fic ufcj ad numerum centum imagines habeo quse decem luntjnouem edam imagines numcrorum habco incipiendo ab uno ufcj ad numerum no uem quas in digitis manuu hominis fabricaui, Eft igitur digitus primus manus dextrae mihi prò primo nu mero leu prò uno: fecundus prò fecundo feu prò duo bus: 6^ fic uCq^ ad quartum digitum manus finiftrae procedo ; ut autem fadlius ifta memoria teneantur pri mum digitum manus dextrse dico effeghelforumifc^ cundum ghebilinorum ; tertium iudseorum i quar^^ tum anulorum : quintum auriumi&: ficAc digitis manus finiflrae fit didrum, Primum ghelforum appello quia ghàfi illum in magnoprecio habere dicuntur: ghebilini fecundum j tertium iudieorum appellojquia fi digitum illum iudeis oftetidimus toruo uifu refpid/^ iint ; qui autcm caufam fare cupict quserat Se mucniV et : cur autem quartum et quintum Tic nomincm no^ tiflìmumeftj prò numero autem mille michaclemha beo fi ergo mihi numerus aliquis proponatur imaginem cius fadiime inueniam jaliqua cxempla ponam quibus pofitis Icftor etiam rudis ingenii conclufionem iflamoptimeintelligctìfi.xi^q.iii^diccrc uoluero in lo^ co gheffum fingam crucem in manu dextra tenentem 6i iudxù qui toris uiribus per uim illa manu dextra ra/ pere tentetjfia'i.adcorinthyosa'iiitponere uoluero in Io co ghebilinu fingam qui in manu dextra cortinam tc^ neat quam pulchrae puellae ollendat illacy in manu dex tra redpiaùpuellàm enim defponfàtam prò quarto digì te ÒC fic prò quarto et nono numero collocojfì de pceni tentiis diftinftione quarta meminiffc uoluero facer dotem fenem non iuuenem cui peccata confiteatur lu/ nipcra collocabo et ipfà mirabile faciet i fàcerdotem nam(j abfoluet capiti fuo manum dexteram impo ncns; ÒC fic ne ininfinitUm fit proceflus fìt finis nu^/ ic pulcherrimas artificiofaememoriai:incuius praecc^^ ptis omnia fi non explicitefaltem implicite compre/^ henduntur Vnum tamen non omittam quod hoc in loco fcribcrepromifi utile in locis effe ludico quae prò rebus auditiitreponcndis fabricauimus t fi in quinto loco manus aurea ponat In decimo crux aurea in quin todecimo manus argentea in uigefìmo imago ipfìus numeri et ficin casteris facete monet mea dodtrina ExccUcntiflìmos in artifìdofà memoria habuiauditorcs o Icdor dulciffime meacfi doétrinam micis laudibus cx^ tulcmnt quo92 aliquos nic Icgcrc obi ut puto phcsbit Fucrc mei difcipuli Magiftcr Antonius Trombcta or^ dinis niino52 theologus cdcbcrrimus Magifter Petrus Rochabonella Magifter Ioanes de A^a Magifter Nù coletusTeatinus Magifter Hieronymus Vcronenfis Magifter Hieronymus de Polchaftris artiù et medid nac doftores cofumatiflimi ÒC PaduaelegcteStSpeétabi les Scuerius 6c Nicolaus illuftriflimi Duds Ferrariae fc crctarii Dns Ioanes Maria Riminaldus dns Dnicus de Maffa dfis Antonius de Liuris dns Ioanes Frandfcus de Canali et dns Leonellus de Bruturis luris cofulti co fumatiffimi di Ferrariae legcntcs Tacebo tpbiles Vc> netos qui me audito multa memoriter pronudarc didi cerunt Dnicum tn. Georgiu'uirù illuftré fìlcrio inuoluc re ncqueo qui doéìrina mea ut ipfe affirmabat imorta/ lem fibi gloria coparauit.Bononias Papiae Ferrariae*^ le gì de qui me audierut multa memoriter idre inrocpuiit &C quauis mca artifìciosà memoria alio auctoricatibus fìt coprobata peccare tamc non puto fi afta mea in^hoc libello Icgétur quae ipfam mirabiliter approbabut Da cfiem iuris auditor nec uigefimum uidiflem annum in uniuerfitate Patauina dixi me totu .Codice Iuris dvrilis poffe recitarejpetii na<5 ut mihi Icges alicpiae ad arbitrili aftantiu proponerctunquibus propofitis fumaria Bar toli diceba aliqua ucrba tcxtus redtabam cafum addu/ ccbataftaper doftoresexaminaba lextp iftatot habct glofas diceba di fup uerbis erant poiitae recordabar cotrarìa allcgaba et foIucbamiTum cfl: aflatibus uidiffc miraculu; Alcxadcr Imolcnfis din obftupuit ncc fabula narro ego pala locutus fu in uniucrfìratc Paduae de ga inorcduo^ucltriuflratoéuerbuteflrcs huius rei trcs habcojMagnificu dnm IoanéFracifcu Pafqualicu fcna torc Vcnetu &l luris utriufqp dodloré cxccUctiffimum apud UIuAriflimù Mcdiolaniducc nuc Icgatu: 6^ dariffì mu doftorc dnm Sigifìnudu de Capitibus life ciucm nobile Patauinutcuius pr Fracifcus fuit acutiflìmi ingc nix lurifconfultus Sperabile dnm Monaldinu de Mo naldinis Venetiis comoratcnn quo uirtus domidliu fu umcollocauit, Leétìoes etia Alexadri Imolèfìs Padusc Ic^étis copiofìffimas memoria tcneba &rillasexuerbo aducrbu in fcriptis rcdigcba illas cria pofl:c[ finicrat afta te magna audito^ copia a calce idpics rcdtaba ex fuil^ Icdionibusdù in fcholisaudirc carmina fadeba 6c oés caru partes in carminib pofìtas ftatim repIicaba:&J qui hocuiderut obflupuerejhuius rei tefles habeo chrifli^ mu c^tc et dolore diim Ioanc Fracilcu de Miliis Brixi cnfcmtfpeftabilé dotìrorc dnm Sigifmùdu de Capirib ììiìxtU fìliu Alexadri Imolcfis qui nuc efl: lurifcofultus celeberrimus Cctu 5i qtragìtaqnquc audtoritates rcli giofìflìmi fr^ Michaclis de Mediolano Paduae prardica tis imortalitatc aiae.pbates cora eo memorirer 5^^mptc ^nùdaui qui me amplexus cfl: dicés uiue diu gema singulariso urina te religioni dicatu uidercjtefl-is cfl: tota duitasPatauinafedmagnifìcu dnm ioané Fracilcum Pafqlicu 61 dnm Sigifmùdu de Capiribus lifi:ae dc dnm Monaldinu de Monaldinis teflres hco,Pctii ego doftor Cf catus in uniuerfitatc Patauina ut mihi in cathedra fc dcti alit^s de uniuerfitate auditor unu ex trib uolumini bus digcfto^ qd eligeret pracletaret locu^ in quo lege^ re deberé delì'gnarendixi cnim fup re ^polita innume// I rabiles leges allegabo teftes funt Clanflimus luris utri ufqj dodtor diis Gafpar Orfatus Paduae lura Canonica ìcgcstèc dodiflìmus dns Profper Cremonenfìs Paduae cómoras, Oes pr^edicatioes qs in una qdragcfima ma giRer Antonius heremita Paduce ^nuciauerat co ovdi^ ne quo ipie dixerat memoriter ^nuciaui et in fcriptis fi bi dedi;quo uilo dixit amplius Paduae no pra^dicaretf 6^ huius rei fi uiuit teflis efl: ipfe orni exceptione maior Praedicationes etiadóni Mathei Veronenus canonici re gularis et uiri eloquétiflìmi quas in tota quadragefima fècerat fìbi in fcriptis dedi qa memoriter tenebam ài in chartis reponebajtcflis ed ipfe et donus Deodatus Vi ' cétinus canonicus regularis, Dù Piflorii legerc a dnis Florétinis códuftus lermoné uerbi dei fratris Blafìi de Plob ino heremitse recitauijtefles funt Paulus magiflri Michaelis ^ Domicius Cacellarius Piflroriefes ciues: et: tota civitas illa de mea artifìciofa memoria tefHfìcari po terit qusemeimmunitatibus òc priuilegiis decorauit, Dfiicus Georgius uir illuflris Paduae praefedus àc in arti fìciofa memoria difcipulus dum Ir as Ducalcs femel legc ret earu uerba collocaui llatim redtauijteftis efl dns Anibal de Magiis de Baffiano nobilis ciuis Patauinus t cuius pater Nicolausfuit excelléallìmus lurifcofultus Semel in fchachis ludcba alius taxillos iaciebat aliul^ ocsiaftusTcribebat ^ cxthcmatc mihi ^pofìto duas cpi'flolas diftabamjpofi:c[ fìncm ludo fmpofuimus ocs iaéhis fchachorum di taxillorum di cpiftolarum ucrba ab ultimis incipics rcpetiuhsec quatuor per me codcm tempore collocata fuerutjteftes funt dominus Petrus de Montagnano et Frandfcus Neuolinus nobiles Patauini ciues» Dum eflfem Placentiae monafteriu mo^ nachorumm'grorumintrauiutilluduidercm in dor^/ mitorio<jduscomitantcmonacho quodam bisdeam bulans monachorum nomina quse in oftiis cellarum crantcollocaui t deinde cógregatis eis nomine proprio quemlibet falutauitlicet quem nominabam digito de// monftrare non potuiflem i mirabantur monachi quo paélo ego percgrinus nomina eorum memoriterpro// ferrem ipfìs mirari non definentibust dixi tandem hoc potuit mea artificiofa memoria : quorum unus dixit er go hoc Petrus Rauennas facere potuit et non alius, In Capitalo generali canonicorum regularium Paduae prsedicationem domni Deodati Vincentini eo ordine uo ipfàm pronunciauerat recitaui aftante ipfìus pra^/ icationis audtorc. Semel me traxit ad fui contempla tionem Caflandra fidelis Veneta uirgo excellcntiflima quac du legeret litteras fereniflimae coniugis regis Fer^ dinandi ad le mifiàs illas collocaui de recitaui t tefh's eli illa Dotì:iflìma Virgo t dominus Paulus Raimufìus Dodtor excellens Ariminenfis ; et Angelus Salernita nus uir darus Scribebat qda Illuftriffimae Ducillae Eleonora uilegiu alius legebat praefens eraillud<jexuerboaduerbùlo// cis travidi di ab ultima didtìonc indpics totum recitaui; d u mirabant aftatcsthufus rei tcflis cfl dns Ioancs He Bm turiis clariffimus Ferrariae óuistqui etia multa de hac artificiofà memoria narrare potcrit,. uid aut de adtis meis referre poffit nepos maximi po/ tifì'dsPauh'RcucrcdusPaduaeCanoicus et decreto doétor ìfignis dns Auguflinus barbus omitto cu cópa ter lit chariffimuStSedqd plurateflis eft Brixia;Papia: &C Crcmonajquid potuerit mea artifi'ciofa memoria de darat hoc carmina quaz in ^ncipio huius libelli legunt. Teflis efl: Illuflriflimus marchio Boifacius di eius pul cherrima uxor quae me egregio munere donauintefh's. cflnouiflime Bononia:tefl:is eft lUuflriflìmus Hcrcu ies Dux 6^ lUuflrilTima uxor Eleonora t Teflis eft tota Ferraria:duas eni prxdicationes celeberrimi uerbi dei praeconis magri Mariani heremit^e recitaui : quo audito obllupuit didlus Magiftcr &C dixit;lllufl:rilììma Du dllà hoc eft diuinu 6^ miraculofum opus;teftis eft Vni ueriitas Patauinaiocs enim led:iones meas luris cano/^ nid fine libro quotidie legojac fi libru ante oculos habcrem^textu de glofàs memoriter pronucio ut nec etia mi nima fyllaba omittere uidcar. In lods aùt meis qu£E col locauerim hic fcribere ftatui ài qux locis tradidi pcrpe^ tuo teneonn dece di nouc litteris alphabeti uigitamilia allegationu luris utriu%pofui dC eodc ordine fàcroru librorum feptem milia;mille Ouidii carmina qua: ab co fapicterdiftac5tinent:ducétas Ciceronis auftoritates: trecétaphilofopho^z dida^^magna Valerii Maximi par/ temmaturas fere oium aialiu bipedù de quadrupediim qru audloritatufingula uerba colIocaui;SÌ qn uires arri iìdòfàs iticmo^isecxpiri cupio peto utmihi ima ex Iris illis alphìibèti ^pònatlfup qua ^pofìta allegationes,pfc roidc ut dare itelligar cxéplu habe;|)polita cfl: mihi nuc Ir a»a,in magno dodto^ uiro^ couétu di ftati a iure ^n-' dpiu facies millealIegatioes6^plures ^fcradc alimctis de alienationc de abfctia de arbitris de appellationib et de filib quas in iure nf o habent'' Indpietib» a dièta Irata, deinde in facra fcriptura de Antichrifto de adulatioe di multas allegationes facrae fcripturaz ab illa Ira incipictes ^nuciabocarmiaOuidiiauftoritates Ciceronis di Va leriimó omittadeAfinode Aqlade Agno de Acdpitrc de Apro de Ariete au<5toritates allegabo di quxcuc^ di^ xcro ab ultimis incipies uelociter repeta Òi hanc memoriae demóftrarioné pulcherrimaeeputo cuimeobliga ui femp di ad remp.interroget''reuercdiflìmus nuc uicc gercs Bononiae cu cófumatiflimo lurilcófulto dno Ica ne de Sala qd fup Ir a,m,mihippof]ta allegauerimn'nter roget^uniucrfitas Bononiaeqdfuplfa,p,de dei potctia di poteflate Pap£C,pnuciauerim;6i hunclegcdi modu a rerum multitudine chaos appello qii deo optimo maxi mpc^ placucrit hoc tatù opus Itabse ac toti orbi.tradam» Hsec etia in Iure canonico tatù locis tradidi tria milia legationù decreti x duo milia decretalium : totù fextù di cius mille gl(flasìClemétinas et carù mille glofàs;6<: qix deglofis decretaliù Sexti di Clementinarù uerbù facio dià:ioncs in qbus funt pofìtsc ^fero Mille etiaiinguW riter di<fta in Iure ciuili memoriae tradidi nec fabula nar ratlin hiis enim quotidie piculù hcio oia mea mecù por tare uolui maiora tni cupe ab hiis difco ; naturalia enim defiderìa infaciabilia funt ut àit Seneca ad LucillujNon omitto cria llluftrc Prindpc Marchu de Piis qui me au dics obft:upuiu& ex hoc me abfentcm fepifllme noiat, Dns Bartholomeus Pigafetus Vincctinus uir quidem fàpicntiffimus dicerc audct dnm Thoma Reatinu qui oium setaris fuae mcmoriofifCimus fuit noui 5C fibi ma gna amiciria cóiunftus fuitfed te fupcriore effe iudico Hic libcr cft qui nùc prsebebit lumina caecis Praeceptis potcrunt dicere multa meis Innumerofcjdabuntuobishaec feculadros Exddet et tanti gloria magna uiri Te tamen ut Petri dantis pr^ecepta precamur Sis mcmor òc dicas petre magifter cras, y . Adiens praefentiam Sereniffimi Prindpis 6i Illuflriffimi Dominii^Egrcgius lureConfultus^Dominus Petrus deRauenna^nuncupatus A Memoria/Legcs lus Ca^ nonicum in Gymnafìo Patauino Reuercter expofuit fc toto tempore eius uitae multis uigiliis et laboribus in fudauiflc/ut artem Memoriae adipiiceretur quemad>'^ modum Deo optimo maximo opitulante adeptus efl^ CompofuilTeij in arte ipfa quoddam opufculum nun/ cupatum Foenixjquod cum dccreuerit imprefentiaru ad unìucffàlcm comoditatcm^& bcncfìdum edere ku- militer fupplicauit^detur modus/nc alieni colligant fru ftus laborum^S^ uigiliaru fliarumjCui quidem «quen ac conuenienti petitioni annucntes Infrafcripti DomK ni ConfiliariitSic confulentc Collegio tèrminantes dc^ crcucmnt ^ decernuntcf ^ Si iubent^^ nemo audeat in hac urbe Venetiarum / et in tota ditionc lUuftriflìmi Domini! noftri Imprimerefeu imprefìa uendere uolu mina didli operis^nuncupati Focnix^fub poena amitte di illa/& infuper libras uigintiquinquepro quobbet uo lumine : Et nuk met poenae fubiaceant illi qui huiufcc modi libros alibi impreflbs uendere praefumerent in di tione praedidti Illufbriffimi DominiitExcepto duntaxat ilio Impreffore^qucm praefatus doélor praeelegerit Sereniffimus Princeps / In Collegio. Dominicus Maurocenus Confiliarius Nicolaus Leono Confiliarius Thomas Mocenigo Confiliarius Marcus Fufculo Confiliarius Nicolaus Triuifànus Confiliarius Leonardus Lauredanus Confiliarius Gcofgfus Nigro Sc^ cretarìus Ducalis* CtLyanìi dctàtonftìchon ad Candiclum Icdorcm Si mcmorcm tcnras fieri te Candide kdor At<f iiiter cclcbre^jf om cn habcre ukost Pcrkgc quod prifcac Ipecimen priegrandc raucnnae Eàmk : òC cxìo laudibtfS'uf^ loca. Etpotes &debes merito cenreremagillmm Arrifìcis genti iudidi<f {imuh Eia igitur cundli numcn uenercmuf in seuum Et mcriòcas Jaudes 'quifq poeta canata Graeda non fimilem uidit ncc romula tellus/ Necnon pofteritas eft habitura ^ ualc. Befnardinus.de Choris de Cremona Impreflbr delc/ ftus Impreffit Vcnctias Die.x JanuariitM«ccccxd« i i -- Tomai. Phoenix – de artificiosa memoria. Tomai. Keywords: caratteristica universale, lingua universale, lingua filosofica, il Deutero-Esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomai” – Tomai.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tomatis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del paradosso del filosofo – scuola di Carrù -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Grice italo—By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Carrù). Abstract. Keywords: paradosso. I paradossi dei filosofi. Paradoxes of entailment. Strawson Grice, paradoxes of implication. Paraoxes of the philosopher. Grice’s Paradox --  Philosopher's Paradoxes  I shall begin by discussing two linked parts of Moore's philosophy, one of which is his method of dealing with certain philosophical para-doxes, the other his attitude toward Common Sense. These are particularly characteristic elements in Moore's thought and have exerted great influence upon, and yet at the same time perplexed other British philosophers. Later in this paper I shall pass from explicit discussion of Moore's views to a consideration of ways of treating philosophical paradoxes which might properly be deemed to be either interpretations or developments of Moore's own position.  First, Moore's way of dealing with philosopher's paradoxes. By  "philosopher's paradoxes" I mean (roughly) the kind of philosophical utterances which a layman might be expected to find at first absurd, shocking, and repugnant. Malcolm' gives a number of examples of such paradoxes and in each case specifies the kind of reason or proof which he thinks Moore would offer to justify his rejection of these paradoxical statements; Moore, moreover, in his "Reply to my Crit-ics" in the same volume, gives his approval, with one qualification, to Malcolm's procedure. I quote three of Malcolm's examples, together with Moore's supposed replies:  Example 1  Philosopher: "There are no material things."  Moore: "You are certainly wrong, for here's one hand and here's another; and so there are at least two material things."  1. Malcolm, "Moore and Ordinary Language," in The Philosophy of G. E. Moore, ed.  Schlipp.Example 2  Philosopher: "Time is unreal."  Moore:  "If you mean that no event can follow or precede another  event, you are certainly wrong: for after lunch I went for a walk, and after that I took a bath, and after that I had tea."  Example 3  Philosopher: "We do not know for certain the truth of any statement about material things." Moore:  "Both of us know for certain that there are several chairs  in this room, and how absurd it would be to suggest that we do not know it, but only believe it, and that perhaps it is not the case!"  Example 1 is an abbreviated version of perhaps the most tamous application of Moore's technique (for dealing with paradoxes), that contained in his British Academy lecture  "Proof of an External  World." There he makes what amounts to the claim that the reply in Example 1 contains a rigorous proof of the existence of material things; for it fulfills the three conditions he lays down as being required of a rigorous proof: (a) its premise ("here's one hand and here's another") is different from the conclusion ("there are at least two material things"); (b) the speaker (Moore), at the time of speak-ing, knows for certain that the premise is true; and (c) the conclusion follows from the premise. Moore of course would have admitted that condition (c) is fulfilled only if "there are material things" is given one particular possible interpretation; he is aware that some philoso-phers, in denying the existence of material things, have not meant to deny, for example, that Moore has two hands; but he claims (quite rightly, I think) that the sentence "material things do not exist" has sometimes been used by philosophers to say something incompatible with its being true to say that Moore has two hands.  Now the technique embodied in the examples I have just quoted is sometimes regarded as being an appeal to Common Sense. Though it may, no doubt, be correctly so regarded in some sense of "Common Sense," I am quite sure that it is not an appeal to Common Sense as Moore uses the expression "Common Sense." In "A Defense of Common Sense"2 Moore claims to know for certain the truth of a range of propositions about himself, similar in character to those asserted in the replies contained in my three examples, except that the propo-  2. Contemporary British Philosophy, vol. 2.sitions mentioned in the article are less specific than those asserted in the replies; and he further claims to know for certain that very many other persons have known for certain propositions about themselves corresponding to these propositions about himself. It is true that Moore rejects certain philosopher's paradoxes because they conflict with some of the propositions which Moore claims to know with certainty, and it is further true that Moore describes his position, in general terms, as being "that the 'Common Sense view of the world' is, in certain fundamental features, wholly true." But it is also clear that when Moore talks about Common Sense, he is thinking of a set of very generally accepted beliefs, and, for him, to "go against Common Sense" would be to contradict one or more of the members of this set of beliefs. Two points are here relevant. (1) Most of the propositions which serve as the premises of Moore's disproofs of paradoxical views are not themselves propositions of Common Sense (objects of Common Sense belief), for they are, standardly, propositions about individual people and things (e.g. Moore and hands), and obviously too few people have heard of Moore for there to be any very generally accepted beliefs about him. Of course, Moore's premises may justify some Common Sense beliefs, but that is not the point here. (2) In any case, it is quite clear that for Moore there is nothing sacrosanct about Common Sense beliefs as such; in the Defense he says (p. 207), "for all I know, there may be many propositions which may be properly called features in 'the Common Sense view of the world' or 'Common Sense belief' which are not true, and which deserve to be mentioned with the contempt with which some philosophers speak of 'Common Sense beliefs." And in Some Main Problems he cites propositions which were once, but have since ceased to be, Common Sense beliefs, and are now rejected altogether. So, if to describe Moore's technique as an appeal to Common Sense is to imply that in his view philosopher's paradoxes are to be rejected because they violate Common Sense (in Moore's sense of the term), then such a description is quite incorrect (it is, I think, fair to maintain that Moore's use of the term  "Common Sense" is not the ordinary one, in which a person who lacks Common Sense is someone who is silly or absurd; and this suggests a sense in which Moore does "appeal to Common Sense" in dealing with paradoxes, for he does often say or imply that the adoption of a paradoxical view commits one to some absurdity).  Now it is time to turn to the perplexity which Moore's technique has engendered. A quite common reaction to Moore's way with para-doxes has, I think, been to feel that it really can't be as easy as that, that Moore counters philosophical theses with what amounts to just a blunt denial, and that his "disproofs" fail therefore to carry convic-tion. As Malcolm observes, we tend to feel that the question has been begged, that a philosopher who denies that there are material objects is well aware that he is committed to denying the truth of such propositions as that Moore has two hands and so cannot be expected to accept the premise of Moore's proof of an external world. For Moore's technique to convince a philosophical rival, something more would have to be said about the point of Moore's characteristic ma-neuver; some account will have to be given of the nature of the absurdity to which a philosophical paradox allegedly commits its pro-pounder. Malcolm himself (loc. cit.) argues that such an account can be given; he represents Moore's technique as being a (concealed) way of showing that philosophical paradoxes "go against ordinary lan-guage" (say or imply that such ordinary expressions are absurd or meaningless), and argues that to do this is to commit an absurdity, indeed to involve oneself in contradiction. I shall enter into the details of this thesis later; at the moment I am only concerned with the question how far Moore's own work can properly be understood on the general lines which Malcolm suggests. I must confess it seems very doubtful to me whether it can. (1) Moore in his "Reply to My Crit-ics" neither accepts nor rejects Malcolm's suggestion; indeed he does not mention it, and it very much looks as if Malcolm's idea was quite new to him, and one which he needed time to consider. (2) Moore (loc. cit.) makes a distinction (in effect) between my Example 1 and my Example 3 (this is the qualification I mentioned earlier). He allows that one can prove that material objects exist by holding up one's hands and saying "Here is one hand and here is another"; but he does not allow that one can prove that one sometimes knows for certain the truth of statements about material things from such a premise as  "Both of us know for certain that there are chairs in this room." In his view, to say "We know for certain that there are chairs in this room, so sometimes one knows for certain the truth of propositions about material things" is to give not a "proof" but a "good argu-ment" in favor of knowledge about material things; it is a good argument but (he says) some further argument is called for, and in this case the need for further argument is said to be connected with the fact that many more philosophers have asserted that nobody knows that there are material things than have said that there are no materialthings. Now I find it very difficult to see how Moore can successfully maintain that Example 1 gives a proof of the existence of material things and yet that Example 3 does not give a proof of our knowledge of material things. (Can he deny that his three requirements for a rigorous proof are satisfied in this case?) But this is not the point I am concerned with here. What I wish to suggest is that for Moore's tech-nique to be properly represented as being in all cases a concealed appeal to ordinary language, he would surely have had to have treated Example 1 and Example 3 alike, for the denial of knowledge about material things does not go against ordinary language any less than the denial of the existence of material things. It might well be, of course, that no satisfactory and comprehensive account can be given of Moore's procedure, and that an account in terms of the appeal to ordinary language fits what he is doing most of the time, and so per-haps shows what he was (more or less unconsciously) getting at or feeling after. But to say this is different from saying outright that the applications of his technique are appeals to ordinary language.  One or two passages in Some Main Problems in Philosophy indi-cate a different (or at any rate apparently different) procedure. I shall try to present, in connection with a particular example, a somewhat free version of the position suggested by the passages I have in mind.  Some philosophers have advanced the (paradoxical) thesis that we never know for certain that any inductive generalization is true, that inductive generalizations can at best be only probably true. Their ac-ceptance of this thesis will be found to rest on a principle, in this case maybe some such principle as that for a proposition to be known with certainty to be true, it must either be a necessary truth or a matter of  "direct experience" (in some sense) or be logically derivable from propositions of one or the other of the first two kinds. But inductive generalizations do not fall under any of these heads, so they cannot be known with certainty to be true. The sort of maneuver Moore would make in response to such a thesis (e.g. "But of course we know for certain that the offspring of two human beings is always another human being") might be represented as having the following force:  "The principle on which your thesis depends is not self-evident, that is, it requires some justification; and since it is general in form, its acceptability will have to depend on consideration of the particular cases to which it applies; that is, the principle that all knowledge is of certain specified kinds will be refuted if there can be found a case of knowledge which is not of any of the specified kinds, and will beconfirmed if after suitably careful consideration, no such counter-example is forthcoming. But I have just produced a counterexample, a case of knowledge which is not of any of the specified kinds, and which, furthermore, is an inductive generalization. You cannot, without cheating, use the principle to discredit my counterexample, i.e. to argue that my specimen is not really a case of knowledge; if the principle depends on consideration of the character of the particular cases of knowledge, then it cannot be invoked to ensure that apparent counterexamples are not after all to be counted as cases of knowl-edge. If you are to discredit my counterexample it must be by some other method, and there is no other method." This line of attack could, of course, be applied mutatis mutandis, to other paradoxical philosophical theses.  I have a good deal of sympathy with the idea I have just outlined; in particular, it seems to me to bring out the way in which, primarily at least, I think philosophical theses should be tested, namely by the search for counterexamples. Moreover, I think it might prove effec-tive, in some cases, against the upholders of paradoxes. But I doubt whether a really determined paradox-propounder would be satisfied.  He might reply: "I agree that my principle that all knowledge is of one or another specified kind is not self-evident, but I do not have to justify it by the method you suggest, that of looking for possible coun-terexamples. I can justify it by a careful consideration of the nature of knowledge, and of the relation between knowledge and other linked concepts. Since I can do this, I can, without begging the ques-tion, use my principle to discredit your supposed counterexamples." The paradox-propounder might seek also to turn the tables on his opponent by adding,  "You, too, are operating with a philosophical  principle, namely a principle about how philosophical theses are to be tested; but the acceptability of your principle, too, will (in your view) have to depend on whether or not my own thesis about knowledge constitutes a counterexample; and to determine this question, you will have to investigate independently of your principle the legitimacy of the grounds upon which I rely." To meet this reply, I would have to anticipate the latter part of my paper; and in any case I suspect that in meeting it, I should exhibit the rationale of Moore's procedure as being after all only a particular version of the "appeal to ordinary language." So I shall pass on to discuss the efficacy of this way of dealing with paradoxes, without explicit reference to Moore's work.I can distinguish two different types of procedure in the face of a philosopher's paradox, each of which might count as being, in some sense, an appeal to ordinary language. Procedure 1 would seek to  refute or dispose of paradoxes without taking into account what the paradox-propounders would say in elaboration or defense of their theses; these theses would simply be rebutted by the charge that they went against ordinary language, and this would be held sufficient to show the theses to be untenable, though of course a philosopher might well be required to do more than merely show the theses to be untenable. Procedure 2, on the other hand, would take into account what the paradox-propounder would say, or could be forced to say, in support of his thesis, and would aim at finding some common and at the same time objectionable feature in the positions of those who advance such paradoxes. Procedure 2, unlike Procedure 1, would not involve the claim that the fact that a thesis "went against" ordinary language was, by itself, sufficient to condemn it; I propose now to consider two versions of Procedure 1, to argue that at least as they stand, they are not adequate to silence a wide-awake opponent, or even to extract from him the reaction, "I see that you must be right, and yet...," and finally to consider Procedure 2.  My first version is drawn from Malcolm. In the form in which I state it, this procedure applies only against nonempirically based paradoxes; indeed, Malcolm does not make any distinction between different types of paradox and in effect seems to treat all philosophical paradoxes as if they were of the nonempirically based kind. The kernel of Malcolm's position seems to be as follows. The propounder of a paradox is committed to holding that the ordinary use of certain expressions (e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death") is (a) incorrect and (b) self-contradictory or absurd. But this contention is itself self-contradictory or absurd. For if an expression is an ordinary expression, that is, "has an ordinary (or accepted) use"— that is to say, if it is an expression which "would be used to describe situations of a certain sort if such situations existed or were believed to exist" — then it cannot be self-contradictory (or absurd). For a self-contradictory expression is one which would never be used to describe any situation, and so has no descriptive use. Moreover, if an expression which would be used to describe situations of a certain sort (etc.) is in fact on a given occasion used to describe that sort of situation, then it is on that occasion correctly used, for correct use is just standard use. It will be seen that Malcolm's charge against theparadoxes is that they go against ordinary language not by misdes-cribing its use (to do that would be merely to utter falsehoods, not bsurdities) nor by misusing it that would be merely eccentric c usleading nor by ill-advisedly proposing to change it (that would b merely giving bad advice), but by flouting it, that is, admitting a use of language to be ordinary and yet calling it incorrect or absurd.  Furthermore, it will be seen that he attempts to substantiate his charge by consideration of what he takes to be the interrelation between the concepts of (a) ordinary use, (b) self-contradiction, and (c)  correctness.  This version of Procedure 1 has three difficulties:  (1) The word "would," as it occurs in the phrase "expression which would be used to describe situations of a certain sort, if such situations existed or were believed to exist," seems to me to give rise to some trouble. The phrase I have just quoted might be taken as roughly equivalent to "expression which, given that a certain sort of situation had to be described, would be used." But this cannot be what Malcolm means; it is just not true that always or usually, when called upon to describe such a situation as a man's having lost his money, one would say "he has become a pauper." There are all sorts of things one would be more likely to say; yet presumably "he has become a pauper" is to be counted as an ordinary expression. It would be clearer perhaps to substitute, for the quoted phrase, the phrase "expression of which it would not be true to say that it would not be used to describe..." or more shortly "expression which might be used to describe.." Let us then take the original phrase in this sense. Now what about the sentence "Sometimes the ordinary use of language is incorrect" (which Malcolm says is self-contradictory)?  This sentence (or some other sentence to the same effect) no doubt has been uttered seriously by paradox-propounders, and it might well seem that they have used it to describe the situation they believed to obtain with regard to the use of ordinary language. Does it not then follow that this sentence is one of which it is untrue to say that it would not be used to describe a certain sort of situation, or more simply, that this sentence is one which might be used to describe a certain sort of situation; that is, the sentence is not self-contradictory?  If we can combine "has been used to describe" with "would not be used to describe" (and perhaps we can), then, at least, the sense of  "would not be used" seems to demand scrutiny. I suspect, however, that Malcolm himself would not admit the legitimacy of the combi-nation. He would rather say that the sentence in question has been uttered seriously, even perhaps has been "used," but has not been used to describe a certain sort of situation (just because it commits an absurdity); and so there is no difficulty in going on to say that it would not be used to describe any sort of situation, that is, is self-contradictory (and so nonordinary). This points the way to what seems to me a fundamental difficulty.  (2) I think Malcolm's opponent might legitimately complain that the question has been begged against him. For he might well admit that the expressions of which he complains are ordinary expressions, and even that they would be used to describe certain sorts of situation which the speaker believed to exist, but go on to say that the situations in question are (logically) impossible. This being so, the expressions are both ordinary and absurd. If he is ready in the first place to claim that an ordinary expression may be absurd, why should he jib at saying that an ordinary expression may be used to describe an impossible situation which the speaker mistakenly believes to exist?  Malcolm's argument can be made to work only if we assume that no situation which a sentence would ordinarily be used to describe would be an impossible situation, and to assume this is to assume the falsity of the paradox-propounder's position.  Alternatively, the paradox-propounder might agree that an ordinary expression of the kind which he is assailing (e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death") would be used to describe such a situation as that actually obtaining at Charles I's death (i.e., it would be used to describe an actual situation and not merely an impossible situation); but then he might add that the user of such an expression would not merely be describing this situation but also be committing himself to an absurd gloss on the situation (e.g. that Charles's decapitation willed his death), or again (much the same thing) that the user would indeed be merely describing this situation, but would be doing so in terms which committed him to an absurdity. And to meet this rejoinder by redefinition would again be to beg the question in Malcolm's favor.  The paradox-propounder might even concede that an expression which would be used to describe a certain sort of situation would be correctly used to describe a situation of that sort, provided that all that is implied is that it is common form to use this expression in this sort of situation; but nevertheless maintaining that the correctness of use (in this sense) would not guarantee freedom from contradiction or absurdity.Put summarily, my main point is that either Malcolm must allow that, in order to satisfy ourselves that an expression is "ordinary," we must first satisfy ourselves that it is free from absurdity (in which case it is not yet established that such an expression as "Decapitation caused Charles I's death" is an ordinary one), or he must use the word  "ordinary" in such a way that the sentence I have just mentioned is undoubtedly an ordinary expression, in which case the link between being ordinary and being free from absurdity is open to question.  (3) Is it in fact true that an ordinary use of language cannot be self-contradictory, unless the "ordinary use of language" is defined by stipulation as non-self-contradictory, in which case, of course, Malcolm's version of the appeal to ordinary language becomes useless against the philosopher's paradox? The following examples would seem to involve nothing but an ordinary use of language by any standard but that of freedom from absurdity. They are not, so far as I can see, technical, philosophical, poetic, figurative, or strained; they are examples of the sorts of things which have been said and meant by numbers of actual persons. Yet each is open, I think, at least to the suspicion of self-contradictoriness, absurdity, or some other kind of meaninglessness. And in this context suspicion is perhaps all one  "He is a lucky person" ("lucky" being understood as disposi-tional). This might on occasion turn out to be a way of saying "He is a person to whom what is unlikely to happen is likely to happen." "Departed spirits walk along this road on their way to Para-dise" (it being understood that departed spirits are supposed to be bodiless and imperceptible). "I wish that I had been Napoleon" (which does not mean the same as "I wish I were like Napoleon"). "I wish that I had lived not in the XXth century but in the XVIIIth century." "As far as I know, there are infinitely many stars." Of course, I do not wish to suggest that these examples are likely in the end to prove of much assistance to the propounder of para-doxes. All I wish to suggest is that the principle "The ordinary use of language cannot be absurd" is either trivial or needs justification. Another, possibly less ambitious version of Procedure 1 might be represented as being roughly as follows. Every paradox comes down to the claim that a certain word or phrase (or type of word or phrase) cannot without linguistic impropriety or absurdity be incorporated (in a specified way) in a certain sort of sentence T. For example, bearing in mind Berkeley, one might object to the appearance of the word"cause" as the main verb in an affirmative sentence the subject of which refers to some entity other than a spirit. The paradox-propounder will however have to admit that, if we were called on to explain the use of W to someone who was ignorant of it, we should not in fact hesitate to select certain exemplary sentences of type T which incorporated W, and indicate ostensively or by description typical sorts of circumstances in which such sentences would express truths. Now if it be admitted that such a mode of explanation of W's use is one we should naturally adopt, then it must also be admitted that it is a proper mode of explanation; and if it is a proper mode of explanation, how can a speaker who uses such an exemplary sen-tence, believing the prevailing circumstances to be of the typical kind, be guilty of linguistic impropriety or absurdity? You cannot obey the rules, and yet not obey them.  The paradox-propounder's reply might run on some such lines as these. If it were true that we always supposed the typical sorts of circumstances, to which reference is made in such an explanation of the meaning of a word, to be as they really are, and as observation or experience would entitle us to suppose, then the paradox would fall.  But it may be that in the case of some words (such as possibly  "cause") for some reason (perhaps because of a Hume-like natural disposition) we have a tendency to read more into the indicated typical situation than is really there, or than observation would entitle us to suppose to be there. Furthermore, the addition we make may be an absurdity. For instance, we might have a tendency to read into what the common sense philosopher would regard as typical causal transactions between natural objects or events the mistaken and absurd idea that something is willing something else to happen. If we do do this (and how is it shown that we do not?), then even though we use the word "cause" in just the kinds of situations indicated by model explanations of the word's meaning, we shall still have imported into our use of the word "cause" an implication which will make objectionable the application of the word to natural events.  Whenever we so apply the word "cause," what we say will imply an absurdity.  Let us ask how a philosophical paradox is standardly supported.  One standard procedure (and this is the only one I shall consider, though there may be other quite different methods) is to produce one or more alleged entailments or equivalences which, if accepted, would commit one to the paradox. For example, the philosopher who main-tains that only spirits can be causes might try to persuade us as fol-lows: if there is a cause, then there is action; if there is action, then there is an agent; if there is an agent, then there is a spirit at work; and there we are. This particular string of alleged entailments is not perhaps very appetizing, but obviously in other cases something more alluring can be provided. Now if we ask how the propounder of the paradox supposes it to be determined whether or not his entailments or equivalences hold, we obviously cannot reply that the question is to be decided in the light of the circumstances in which we apply the terms involved, for it is obvious that we do not restrict our applica-tion of the word "cause" to spirits, and if we did, then all suspicion of paradox would disappear. The paradox-propounder seemingly must attach special weight to what we say, or what we can be got to say, about the meaning or implication of such a word as "cause." In effect he asks us what we mean by "cause" or "know" (giving us some help) and then insists that our answers show what we do mean.  Leaving on one side for the moment the question why he does this and with what justification, let us consider the fact that the interpre-tation which he gives of such a word as "mean" seems to differ from the interpretation of that word which would be given by his oppo-nent. To differentiate between the two interpretations, let us use  "mean," as a label for the sense that the paradox-propounder attri-butes to the word "mean" (in which what a man says he means by a word is paramount in determining what he in fact does mean), and let us use "mean," as a label for the sense which the opponent of the paradox-propounder would attribute to the word "mean" (in which what a man means is, roughly speaking, determined by the way in which he applies the word). The paradox-propounder would say  "'Cause' means (that is, means,) so and so," and his opponent would say "'Cause' means (that is, means,) such and such." Now it seems that the dispute between them cannot be settled without settling the divergence between them with regard to the word "mean." Can this divergence be settled? It seems to be difficult, for if the paradox-propounder claims that "mean" means (that is, "mean,") and his opponent claims that "mean" means (that is, "mean,"), then we seem to have reached an impasse. And it is likely that this would in fact be the situation between them.  But then we might reflect that the dispute between them, in becom-ing unsettlable, has evaporated. For the paradox-propounder is going to say "Certain ordinary utterances are absurd because what (in cer-tain circumstances) we say that we mean by them is absurd, but these can be replaced by harmless utterances which eradicate this absurdity, and the job of philosophical analysis is to find these replacements," while his opponent is going to say "No ordinary utterances are ab-surd, though sometimes what we say we mean by them is absurd, and the job of philosophical analysis is to explain what we really do mean by them." Does it matter which way we talk? The facts are the same.  I do not feel inclined to rest with this situation, and fortunately there seem to be two ways out of it, in spite of the apparent deadlock:  (1) I suspect that some philosophers have assumed or believed that  "mean" means "mean" (that what a man says he means is paramount in determining what he does mean) because they have thought of  "meaning so and so" as being the name of an introspectible experi-ence. They have thought a person's statements about what he means have just the same kind of incorrigible status as a person's statements about his current sensations, or about the color that something seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly some occasions when what a speaker says he means is treated as specially authoritative. Consider the following possible conversations between myself and a pupil:  Myself: "I want you to bring me a paper tomorrow."  Pupil: "Do you mean that you want a newspaper or that you want  a piece of written work?"  Myself: "I mean 'a piece of written work?"  It would be absurd at this point for the pupil to say "Perhaps you only think, mistakenly, that you mean 'a piece of written work," whereas really you mean 'a newspaper." And this absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him, however his arm feels). It is important to notice that although there is this point of analogy between meaning something and having a pain, there are striking differences. A pain may start and stop at specifiable times; equally something may begin to look red to one at 2:00 p.M. and cease to look red to one at 2:05 p.M. But it would be absurd for my pupil (in the preceding example) to say to me "When did you begin to mean that?" or "Have you stopped meaning it yet?" Again there is no logical objection to a pain arising in any set of concomitant sentences; but it is surely absurd to suppose that I mightfind myself meaning that it is raining when I say "I want a paper"; indeed, it is odd to speak at all of "my finding myself meaning so and so," though it is not odd to speak of my finding myself suffering from a pain. At best, only very special circumstances (if any) could enable me to say "I want a paper," meaning thereby that it is raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such statements as "I mean a piece of written work" (in the conversation with my pupil) as "declarations" rather than as "introspection reports." Such statements as these are perhaps like declarations of intention, which also have an authoritative status in some ways like and in some ways unlike that of a statement about one's own current pains.  But the immediately relevant point with regard to such statements about meaning as the one I have just been discussing is that, insofar as they have the authoritative status which they seem to have, they are not statements which the speaker could have come to accept as the result of an investigation or of a train of argumentation. To revert to the conversation with my pupil, when I say "I mean a piece of written work," it would be quite inappropriate for my pupil to say  "How did you discover that you meant that?" or "Who or what convinced you that you meant that?" And I think we can see why a  "meaning" statement cannot be both specially authoritative and also the conclusion of an argument or an investigation. If a statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is conceivable, then the statement maker may be mistaken, in which case, of course, his statement has not got the authoritative character which I have mentioned. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I have been considering requires both that a speaker's statement about what he means should be specially authoritative and that it should be established by argumenta-tion. But this combination is impossible.  (2) A further difficulty for the paradox-propounder is one which is linked with the previous point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a particular person means in general by a given expression, and (b) what a particular speaker means, or meant, by that expression on a particular occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give examples of the ways in which such divergence may occur. (1) The sentence "I have run out of fuel" means ingeneral (roughly) that the speaker has no material left with which to propel some vehicle which is in his charge; but a particular speaker on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to say. (2) "Jones is a fine fellow" means in general that Jones has a number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving any unusual sense to any of the words in the sentences; he would rather be using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he says involves knowing the standard use of the sentence in question.  (3) A speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence  "It is hailing" what would standardly be expressed by the sentence  "It is snowing" either if he had mislearned the use of the word "hail-ing" or if he thought (rightly or wrongly) that his addressee (perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private significance to the word "hailing." In either of these cases, of course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard sense.  These trivial examples are enough, I hope, to indicate the possibility of divergence between (a) and (b). But (a) and (b) are also con-nected. It is, I think, approximately true to say that what a particular speaker means by a particular utterance (of a statement-making char-acter) on a particular occasion is to be identified with what he intends by means of the utterance to get his audience to believe (a full treatment would require a number of qualifications which I do not propose to go into now). It is also, I think, approximately true to say that what a sentence means in general is to be identified with what would standardly be meant by the sentence by particular speakers on particular occasions; and what renders a particular way of using a sentence standard may be different for different sentences. For example, in the case of sentences which do not contain technical terms it is, I think, roughly speaking, a matter of general practice on nonspecial occa-sions; such sentences mean in general what people of some particular group would normally mean by using them on particular occasions (this is, of course, oversimplified). If this outline of an elucidation of the distinction is on the right lines, then two links may be found be-tween (a) and (b). First, if I am to mean something by a statement-making utterance on a particular occasion-that is, if I intend by means of my utterance to get my audience to believe something—I must think that there is some chance that my audience will recognize from my utterance what it is they are supposed to believe; and it seems fairly clear that the audience will not be able to do this unless it knows what the general practice, or what my practice, is as regards the use of this type of utterance (or unless I give it a supplementary explanation of my meaning on this occasion). Second (and ob-viously), for a sentence of a nontechnical character to have a certain meaning in general, it must be the case that a certain group of people do (or would) use it with that meaning on particular occasions.  I think we can confront my paradox-propounder with a further difficulty (which I hope will in the end prove fatal). When he suggests that to say "x (a natural event) caused y" means (wholly or in part)  "x willed y," does he intend to suggest that particular speakers use the sentence "x caused y" on particular occasions to mean (wholly or in part) "x willed y" (that this is what they are telling their audience, that this is what they intend their audience to think)? If he is suggesting this, he is suggesting something that he must admit to be false.  For part of his purpose in getting his victim to admit "* caused y" means (in part at least) "x willed y" to get his victim to admit that he should not (strictly) go on saying such things as that "x caused y" just because of the obvious falsity or absurdity of part of what it is supposed to mean; and he is relying on his victim's not intending to induce beliefs in obvious falsehoods or absurdities. However, if he is suggesting that "x caused y" means in general (at least in part) "x willed y," even though no particular speaker ever means this by it (or would mean this by it) on a particular occasion, then he is accepting just such a divorce between the general meaning of a sentence and its particular meaning on particular occasions as that which I have been maintaining to be inadmissible.  In conclusion, I should like to remind you very briefly what in this paper I have been trying to do. I have tried to indicate a particular class of statements which have been not unknown in the history of philosophy, and which may be described as being (in a particular sense) paradoxes. I have considered a number of attempts to find a general principle which would serve to eliminate all such statements, independently of consideration of the type of method by which they would be supported by their propounders. I have suggested that it isdifficult to find any principle which will satisfactorily perform this task, though I would not care to insist that no such principle can be found, nor to deny that further elaboration might render satisfactory one or another of the principles which have been mentioned. I have considered a specimen of what I suspect is one characteristic method in which a paradox-propounder may support his thesis (though this may not be the only method which paradox-propounders have used); and finally I have tried to show that the use of this method involves its user in serious (indeed I hope fatal) difficulties.  Philosopher's Paradoxes  I shall begin by discussing two linked parts of Moore's philosophy, one of which is his method of dealing with certain philosophical para-doxes, the other his attitude toward Common Sense. These are particularly characteristic elements in Moore's thought and have exerted great influence upon, and yet at the same time perplexed other British philosophers. Later in this paper I shall pass from explicit discussion of Moore's views to a consideration of ways of treating philosophical paradoxes which might properly be deemed to be either interpretations or developments of Moore's own position.  First, Moore's way of dealing with philosopher's paradoxes. By  "philosopher's paradoxes" I mean (roughly) the kind of philosophical utterances which a layman might be expected to find at first absurd, shocking, and repugnant. Malcolm' gives a number of examples of such paradoxes and in each case specifies the kind of reason or proof which he thinks Moore would offer to justify his rejection of these paradoxical statements; Moore, moreover, in his "Reply to my Crit-ics" in the same volume, gives his approval, with one qualification, to Malcolm's procedure. I quote three of Malcolm's examples, together with Moore's supposed replies:  Example 1  Philosopher: "There are no material things."  Moore: "You are certainly wrong, for here's one hand and here's another; and so there are at least two material things."  1. Malcolm, "Moore and Ordinary Language," in The Philosophy of G. E. Moore, ed.  Schlipp.Example 2  Philosopher: "Time is unreal."  Moore:  "If you mean that no event can follow or precede another  event, you are certainly wrong: for after lunch I went for a walk, and after that I took a bath, and after that I had tea."  Example 3  Philosopher: "We do not know for certain the truth of any statement about material things." Moore:  "Both of us know for certain that there are several chairs  in this room, and how absurd it would be to suggest that we do not know it, but only believe it, and that perhaps it is not the case!"  Example 1 is an abbreviated version of perhaps the most tamous application of Moore's technique (for dealing with paradoxes), that contained in his British Academy lecture  "Proof of an External  World." There he makes what amounts to the claim that the reply in Example 1 contains a rigorous proof of the existence of material things; for it fulfills the three conditions he lays down as being required of a rigorous proof: (a) its premise ("here's one hand and here's another") is different from the conclusion ("there are at least two material things"); (b) the speaker (Moore), at the time of speak-ing, knows for certain that the premise is true; and (c) the conclusion follows from the premise. Moore of course would have admitted that condition (c) is fulfilled only if "there are material things" is given one particular possible interpretation; he is aware that some philoso-phers, in denying the existence of material things, have not meant to deny, for example, that Moore has two hands; but he claims (quite rightly, I think) that the sentence "material things do not exist" has sometimes been used by philosophers to say something incompatible with its being true to say that Moore has two hands.  Now the technique embodied in the examples I have just quoted is sometimes regarded as being an appeal to Common Sense. Though it may, no doubt, be correctly so regarded in some sense of "Common Sense," I am quite sure that it is not an appeal to Common Sense as Moore uses the expression "Common Sense." In "A Defense of Common Sense"2 Moore claims to know for certain the truth of a range of propositions about himself, similar in character to those asserted in the replies contained in my three examples, except that the propo-  2. Contemporary British Philosophy, vol. 2.sitions mentioned in the article are less specific than those asserted in the replies; and he further claims to know for certain that very many other persons have known for certain propositions about themselves corresponding to these propositions about himself. It is true that Moore rejects certain philosopher's paradoxes because they conflict with some of the propositions which Moore claims to know with certainty, and it is further true that Moore describes his position, in general terms, as being "that the 'Common Sense view of the world' is, in certain fundamental features, wholly true." But it is also clear that when Moore talks about Common Sense, he is thinking of a set of very generally accepted beliefs, and, for him, to "go against Common Sense" would be to contradict one or more of the members of this set of beliefs. Two points are here relevant. (1) Most of the propositions which serve as the premises of Moore's disproofs of paradoxical views are not themselves propositions of Common Sense (objects of Common Sense belief), for they are, standardly, propositions about individual people and things (e.g. Moore and hands), and obviously too few people have heard of Moore for there to be any very generally accepted beliefs about him. Of course, Moore's premises may justify some Common Sense beliefs, but that is not the point here. (2) In any case, it is quite clear that for Moore there is nothing sacrosanct about Common Sense beliefs as such; in the Defense he says (p. 207), "for all I know, there may be many propositions which may be properly called features in 'the Common Sense view of the world' or 'Common Sense belief' which are not true, and which deserve to be mentioned with the contempt with which some philosophers speak of 'Common Sense beliefs." And in Some Main Problems he cites propositions which were once, but have since ceased to be, Common Sense beliefs, and are now rejected altogether. So, if to describe Moore's technique as an appeal to Common Sense is to imply that in his view philosopher's paradoxes are to be rejected because they violate Common Sense (in Moore's sense of the term), then such a description is quite incorrect (it is, I think, fair to maintain that Moore's use of the term  "Common Sense" is not the ordinary one, in which a person who lacks Common Sense is someone who is silly or absurd; and this suggests a sense in which Moore does "appeal to Common Sense" in dealing with paradoxes, for he does often say or imply that the adoption of a paradoxical view commits one to some absurdity).  Now it is time to turn to the perplexity which Moore's technique has engendered. A quite common reaction to Moore's way with para-doxes has, I think, been to feel that it really can't be as easy as that, that Moore counters philosophical theses with what amounts to just a blunt denial, and that his "disproofs" fail therefore to carry convic-tion. As Malcolm observes, we tend to feel that the question has been begged, that a philosopher who denies that there are material objects is well aware that he is committed to denying the truth of such propositions as that Moore has two hands and so cannot be expected to accept the premise of Moore's proof of an external world. For Moore's technique to convince a philosophical rival, something more would have to be said about the point of Moore's characteristic ma-neuver; some account will have to be given of the nature of the absurdity to which a philosophical paradox allegedly commits its pro-pounder. Malcolm himself (loc. cit.) argues that such an account can be given; he represents Moore's technique as being a (concealed) way of showing that philosophical paradoxes "go against ordinary lan-guage" (say or imply that such ordinary expressions are absurd or meaningless), and argues that to do this is to commit an absurdity, indeed to involve oneself in contradiction. I shall enter into the details of this thesis later; at the moment I am only concerned with the question how far Moore's own work can properly be understood on the general lines which Malcolm suggests. I must confess it seems very doubtful to me whether it can. (1) Moore in his "Reply to My Crit-ics" neither accepts nor rejects Malcolm's suggestion; indeed he does not mention it, and it very much looks as if Malcolm's idea was quite new to him, and one which he needed time to consider. (2) Moore (loc. cit.) makes a distinction (in effect) between my Example 1 and my Example 3 (this is the qualification I mentioned earlier). He allows that one can prove that material objects exist by holding up one's hands and saying "Here is one hand and here is another"; but he does not allow that one can prove that one sometimes knows for certain the truth of statements about material things from such a premise as  "Both of us know for certain that there are chairs in this room." In his view, to say "We know for certain that there are chairs in this room, so sometimes one knows for certain the truth of propositions about material things" is to give not a "proof" but a "good argu-ment" in favor of knowledge about material things; it is a good argument but (he says) some further argument is called for, and in this case the need for further argument is said to be connected with the fact that many more philosophers have asserted that nobody knows that there are material things than have said that there are no materialthings. Now I find it very difficult to see how Moore can successfully maintain that Example 1 gives a proof of the existence of material things and yet that Example 3 does not give a proof of our knowledge of material things. (Can he deny that his three requirements for a rigorous proof are satisfied in this case?) But this is not the point I am concerned with here. What I wish to suggest is that for Moore's tech-nique to be properly represented as being in all cases a concealed appeal to ordinary language, he would surely have had to have treated Example 1 and Example 3 alike, for the denial of knowledge about material things does not go against ordinary language any less than the denial of the existence of material things. It might well be, of course, that no satisfactory and comprehensive account can be given of Moore's procedure, and that an account in terms of the appeal to ordinary language fits what he is doing most of the time, and so per-haps shows what he was (more or less unconsciously) getting at or feeling after. But to say this is different from saying outright that the applications of his technique are appeals to ordinary language.  One or two passages in Some Main Problems in Philosophy indi-cate a different (or at any rate apparently different) procedure. I shall try to present, in connection with a particular example, a somewhat free version of the position suggested by the passages I have in mind.  Some philosophers have advanced the (paradoxical) thesis that we never know for certain that any inductive generalization is true, that inductive generalizations can at best be only probably true. Their ac-ceptance of this thesis will be found to rest on a principle, in this case maybe some such principle as that for a proposition to be known with certainty to be true, it must either be a necessary truth or a matter of  "direct experience" (in some sense) or be logically derivable from propositions of one or the other of the first two kinds. But inductive generalizations do not fall under any of these heads, so they cannot be known with certainty to be true. The sort of maneuver Moore would make in response to such a thesis (e.g. "But of course we know for certain that the offspring of two human beings is always another human being") might be represented as having the following force:  "The principle on which your thesis depends is not self-evident, that is, it requires some justification; and since it is general in form, its acceptability will have to depend on consideration of the particular cases to which it applies; that is, the principle that all knowledge is of certain specified kinds will be refuted if there can be found a case of knowledge which is not of any of the specified kinds, and will beconfirmed if after suitably careful consideration, no such counter-example is forthcoming. But I have just produced a counterexample, a case of knowledge which is not of any of the specified kinds, and which, furthermore, is an inductive generalization. You cannot, without cheating, use the principle to discredit my counterexample, i.e. to argue that my specimen is not really a case of knowledge; if the principle depends on consideration of the character of the particular cases of knowledge, then it cannot be invoked to ensure that apparent counterexamples are not after all to be counted as cases of knowl-edge. If you are to discredit my counterexample it must be by some other method, and there is no other method." This line of attack could, of course, be applied mutatis mutandis, to other paradoxical philosophical theses.  I have a good deal of sympathy with the idea I have just outlined; in particular, it seems to me to bring out the way in which, primarily at least, I think philosophical theses should be tested, namely by the search for counterexamples. Moreover, I think it might prove effec-tive, in some cases, against the upholders of paradoxes. But I doubt whether a really determined paradox-propounder would be satisfied.  He might reply: "I agree that my principle that all knowledge is of one or another specified kind is not self-evident, but I do not have to justify it by the method you suggest, that of looking for possible coun-terexamples. I can justify it by a careful consideration of the nature of knowledge, and of the relation between knowledge and other linked concepts. Since I can do this, I can, without begging the ques-tion, use my principle to discredit your supposed counterexamples." The paradox-propounder might seek also to turn the tables on his opponent by adding,  "You, too, are operating with a philosophical  principle, namely a principle about how philosophical theses are to be tested; but the acceptability of your principle, too, will (in your view) have to depend on whether or not my own thesis about knowledge constitutes a counterexample; and to determine this question, you will have to investigate independently of your principle the legitimacy of the grounds upon which I rely." To meet this reply, I would have to anticipate the latter part of my paper; and in any case I suspect that in meeting it, I should exhibit the rationale of Moore's procedure as being after all only a particular version of the "appeal to ordinary language." So I shall pass on to discuss the efficacy of this way of dealing with paradoxes, without explicit reference to Moore's work.I can distinguish two different types of procedure in the face of a philosopher's paradox, each of which might count as being, in some sense, an appeal to ordinary language. Procedure 1 would seek to  refute or dispose of paradoxes without taking into account what the paradox-propounders would say in elaboration or defense of their theses; these theses would simply be rebutted by the charge that they went against ordinary language, and this would be held sufficient to show the theses to be untenable, though of course a philosopher might well be required to do more than merely show the theses to be untenable. Procedure 2, on the other hand, would take into account what the paradox-propounder would say, or could be forced to say, in support of his thesis, and would aim at finding some common and at the same time objectionable feature in the positions of those who advance such paradoxes. Procedure 2, unlike Procedure 1, would not involve the claim that the fact that a thesis "went against" ordinary language was, by itself, sufficient to condemn it; I propose now to consider two versions of Procedure 1, to argue that at least as they stand, they are not adequate to silence a wide-awake opponent, or even to extract from him the reaction, "I see that you must be right, and yet...," and finally to consider Procedure 2.  My first version is drawn from Malcolm. In the form in which I state it, this procedure applies only against nonempirically based paradoxes; indeed, Malcolm does not make any distinction between different types of paradox and in effect seems to treat all philosophical paradoxes as if they were of the nonempirically based kind. The kernel of Malcolm's position seems to be as follows. The propounder of a paradox is committed to holding that the ordinary use of certain expressions (e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death") is (a) incorrect and (b) self-contradictory or absurd. But this contention is itself self-contradictory or absurd. For if an expression is an ordinary expression, that is, "has an ordinary (or accepted) use"— that is to say, if it is an expression which "would be used to describe situations of a certain sort if such situations existed or were believed to exist" — then it cannot be self-contradictory (or absurd). For a self-contradictory expression is one which would never be used to describe any situation, and so has no descriptive use. Moreover, if an expression which would be used to describe situations of a certain sort (etc.) is in fact on a given occasion used to describe that sort of situation, then it is on that occasion correctly used, for correct use is just standard use. It will be seen that Malcolm's charge against theparadoxes is that they go against ordinary language not by misdes-cribing its use (to do that would be merely to utter falsehoods, not bsurdities) nor by misusing it that would be merely eccentric c usleading nor by ill-advisedly proposing to change it (that would b merely giving bad advice), but by flouting it, that is, admitting a use of language to be ordinary and yet calling it incorrect or absurd.  Furthermore, it will be seen that he attempts to substantiate his charge by consideration of what he takes to be the interrelation between the concepts of (a) ordinary use, (b) self-contradiction, and (c)  correctness.  This version of Procedure 1 has three difficulties:  (1) The word "would," as it occurs in the phrase "expression which would be used to describe situations of a certain sort, if such situations existed or were believed to exist," seems to me to give rise to some trouble. The phrase I have just quoted might be taken as roughly equivalent to "expression which, given that a certain sort of situation had to be described, would be used." But this cannot be what Malcolm means; it is just not true that always or usually, when called upon to describe such a situation as a man's having lost his money, one would say "he has become a pauper." There are all sorts of things one would be more likely to say; yet presumably "he has become a pauper" is to be counted as an ordinary expression. It would be clearer perhaps to substitute, for the quoted phrase, the phrase "expression of which it would not be true to say that it would not be used to describe..." or more shortly "expression which might be used to describe.." Let us then take the original phrase in this sense. Now what about the sentence "Sometimes the ordinary use of language is incorrect" (which Malcolm says is self-contradictory)?  This sentence (or some other sentence to the same effect) no doubt has been uttered seriously by paradox-propounders, and it might well seem that they have used it to describe the situation they believed to obtain with regard to the use of ordinary language. Does it not then follow that this sentence is one of which it is untrue to say that it would not be used to describe a certain sort of situation, or more simply, that this sentence is one which might be used to describe a certain sort of situation; that is, the sentence is not self-contradictory?  If we can combine "has been used to describe" with "would not be used to describe" (and perhaps we can), then, at least, the sense of  "would not be used" seems to demand scrutiny. I suspect, however, that Malcolm himself would not admit the legitimacy of the combi-nation. He would rather say that the sentence in question has been uttered seriously, even perhaps has been "used," but has not been used to describe a certain sort of situation (just because it commits an absurdity); and so there is no difficulty in going on to say that it would not be used to describe any sort of situation, that is, is self-contradictory (and so nonordinary). This points the way to what seems to me a fundamental difficulty.  (2) I think Malcolm's opponent might legitimately complain that the question has been begged against him. For he might well admit that the expressions of which he complains are ordinary expressions, and even that they would be used to describe certain sorts of situation which the speaker believed to exist, but go on to say that the situations in question are (logically) impossible. This being so, the expressions are both ordinary and absurd. If he is ready in the first place to claim that an ordinary expression may be absurd, why should he jib at saying that an ordinary expression may be used to describe an impossible situation which the speaker mistakenly believes to exist?  Malcolm's argument can be made to work only if we assume that no situation which a sentence would ordinarily be used to describe would be an impossible situation, and to assume this is to assume the falsity of the paradox-propounder's position.  Alternatively, the paradox-propounder might agree that an ordinary expression of the kind which he is assailing (e.g. "Decapitation was the cause of Charles I's death") would be used to describe such a situation as that actually obtaining at Charles I's death (i.e., it would be used to describe an actual situation and not merely an impossible situation); but then he might add that the user of such an expression would not merely be describing this situation but also be committing himself to an absurd gloss on the situation (e.g. that Charles's decapitation willed his death), or again (much the same thing) that the user would indeed be merely describing this situation, but would be doing so in terms which committed him to an absurdity. And to meet this rejoinder by redefinition would again be to beg the question in Malcolm's favor.  The paradox-propounder might even concede that an expression which would be used to describe a certain sort of situation would be correctly used to describe a situation of that sort, provided that all that is implied is that it is common form to use this expression in this sort of situation; but nevertheless maintaining that the correctness of use (in this sense) would not guarantee freedom from contradiction or absurdity.Put summarily, my main point is that either Malcolm must allow that, in order to satisfy ourselves that an expression is "ordinary," we must first satisfy ourselves that it is free from absurdity (in which case it is not yet established that such an expression as "Decapitation caused Charles I's death" is an ordinary one), or he must use the word  "ordinary" in such a way that the sentence I have just mentioned is undoubtedly an ordinary expression, in which case the link between being ordinary and being free from absurdity is open to question.  (3) Is it in fact true that an ordinary use of language cannot be self-contradictory, unless the "ordinary use of language" is defined by stipulation as non-self-contradictory, in which case, of course, Malcolm's version of the appeal to ordinary language becomes useless against the philosopher's paradox? The following examples would seem to involve nothing but an ordinary use of language by any standard but that of freedom from absurdity. They are not, so far as I can see, technical, philosophical, poetic, figurative, or strained; they are examples of the sorts of things which have been said and meant by numbers of actual persons. Yet each is open, I think, at least to the suspicion of self-contradictoriness, absurdity, or some other kind of meaninglessness. And in this context suspicion is perhaps all one  "He is a lucky person" ("lucky" being understood as disposi-tional). This might on occasion turn out to be a way of saying "He is a person to whom what is unlikely to happen is likely to happen." "Departed spirits walk along this road on their way to Para-dise" (it being understood that departed spirits are supposed to be bodiless and imperceptible). "I wish that I had been Napoleon" (which does not mean the same as "I wish I were like Napoleon"). "I wish that I had lived not in the XXth century but in the XVIIIth century." "As far as I know, there are infinitely many stars." Of course, I do not wish to suggest that these examples are likely in the end to prove of much assistance to the propounder of para-doxes. All I wish to suggest is that the principle "The ordinary use of language cannot be absurd" is either trivial or needs justification. Another, possibly less ambitious version of Procedure 1 might be represented as being roughly as follows. Every paradox comes down to the claim that a certain word or phrase (or type of word or phrase) cannot without linguistic impropriety or absurdity be incorporated (in a specified way) in a certain sort of sentence T. For example, bearing in mind Berkeley, one might object to the appearance of the word"cause" as the main verb in an affirmative sentence the subject of which refers to some entity other than a spirit. The paradox-propounder will however have to admit that, if we were called on to explain the use of W to someone who was ignorant of it, we should not in fact hesitate to select certain exemplary sentences of type T which incorporated W, and indicate ostensively or by description typical sorts of circumstances in which such sentences would express truths. Now if it be admitted that such a mode of explanation of W's use is one we should naturally adopt, then it must also be admitted that it is a proper mode of explanation; and if it is a proper mode of explanation, how can a speaker who uses such an exemplary sen-tence, believing the prevailing circumstances to be of the typical kind, be guilty of linguistic impropriety or absurdity? You cannot obey the rules, and yet not obey them.  The paradox-propounder's reply might run on some such lines as these. If it were true that we always supposed the typical sorts of circumstances, to which reference is made in such an explanation of the meaning of a word, to be as they really are, and as observation or experience would entitle us to suppose, then the paradox would fall.  But it may be that in the case of some words (such as possibly  "cause") for some reason (perhaps because of a Hume-like natural disposition) we have a tendency to read more into the indicated typical situation than is really there, or than observation would entitle us to suppose to be there. Furthermore, the addition we make may be an absurdity. For instance, we might have a tendency to read into what the common sense philosopher would regard as typical causal transactions between natural objects or events the mistaken and absurd idea that something is willing something else to happen. If we do do this (and how is it shown that we do not?), then even though we use the word "cause" in just the kinds of situations indicated by model explanations of the word's meaning, we shall still have imported into our use of the word "cause" an implication which will make objectionable the application of the word to natural events.  Whenever we so apply the word "cause," what we say will imply an absurdity.  Let us ask how a philosophical paradox is standardly supported.  One standard procedure (and this is the only one I shall consider, though there may be other quite different methods) is to produce one or more alleged entailments or equivalences which, if accepted, would commit one to the paradox. For example, the philosopher who main-tains that only spirits can be causes might try to persuade us as fol-lows: if there is a cause, then there is action; if there is action, then there is an agent; if there is an agent, then there is a spirit at work; and there we are. This particular string of alleged entailments is not perhaps very appetizing, but obviously in other cases something more alluring can be provided. Now if we ask how the propounder of the paradox supposes it to be determined whether or not his entailments or equivalences hold, we obviously cannot reply that the question is to be decided in the light of the circumstances in which we apply the terms involved, for it is obvious that we do not restrict our applica-tion of the word "cause" to spirits, and if we did, then all suspicion of paradox would disappear. The paradox-propounder seemingly must attach special weight to what we say, or what we can be got to say, about the meaning or implication of such a word as "cause." In effect he asks us what we mean by "cause" or "know" (giving us some help) and then insists that our answers show what we do mean.  Leaving on one side for the moment the question why he does this and with what justification, let us consider the fact that the interpre-tation which he gives of such a word as "mean" seems to differ from the interpretation of that word which would be given by his oppo-nent. To differentiate between the two interpretations, let us use  "mean," as a label for the sense that the paradox-propounder attri-butes to the word "mean" (in which what a man says he means by a word is paramount in determining what he in fact does mean), and let us use "mean," as a label for the sense which the opponent of the paradox-propounder would attribute to the word "mean" (in which what a man means is, roughly speaking, determined by the way in which he applies the word). The paradox-propounder would say  "'Cause' means (that is, means,) so and so," and his opponent would say "'Cause' means (that is, means,) such and such." Now it seems that the dispute between them cannot be settled without settling the divergence between them with regard to the word "mean." Can this divergence be settled? It seems to be difficult, for if the paradox-propounder claims that "mean" means (that is, "mean,") and his opponent claims that "mean" means (that is, "mean,"), then we seem to have reached an impasse. And it is likely that this would in fact be the situation between them.  But then we might reflect that the dispute between them, in becom-ing unsettlable, has evaporated. For the paradox-propounder is going to say "Certain ordinary utterances are absurd because what (in cer-tain circumstances) we say that we mean by them is absurd, but these can be replaced by harmless utterances which eradicate this absurdity, and the job of philosophical analysis is to find these replacements," while his opponent is going to say "No ordinary utterances are ab-surd, though sometimes what we say we mean by them is absurd, and the job of philosophical analysis is to explain what we really do mean by them." Does it matter which way we talk? The facts are the same.  I do not feel inclined to rest with this situation, and fortunately there seem to be two ways out of it, in spite of the apparent deadlock:  (1) I suspect that some philosophers have assumed or believed that  "mean" means "mean" (that what a man says he means is paramount in determining what he does mean) because they have thought of  "meaning so and so" as being the name of an introspectible experi-ence. They have thought a person's statements about what he means have just the same kind of incorrigible status as a person's statements about his current sensations, or about the color that something seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly some occasions when what a speaker says he means is treated as specially authoritative. Consider the following possible conversations between myself and a pupil:  Myself: "I want you to bring me a paper tomorrow."  Pupil: "Do you mean that you want a newspaper or that you want  a piece of written work?"  Myself: "I mean 'a piece of written work?"  It would be absurd at this point for the pupil to say "Perhaps you only think, mistakenly, that you mean 'a piece of written work," whereas really you mean 'a newspaper." And this absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him, however his arm feels). It is important to notice that although there is this point of analogy between meaning something and having a pain, there are striking differences. A pain may start and stop at specifiable times; equally something may begin to look red to one at 2:00 p.M. and cease to look red to one at 2:05 p.M. But it would be absurd for my pupil (in the preceding example) to say to me "When did you begin to mean that?" or "Have you stopped meaning it yet?" Again there is no logical objection to a pain arising in any set of concomitant sentences; but it is surely absurd to suppose that I mightfind myself meaning that it is raining when I say "I want a paper"; indeed, it is odd to speak at all of "my finding myself meaning so and so," though it is not odd to speak of my finding myself suffering from a pain. At best, only very special circumstances (if any) could enable me to say "I want a paper," meaning thereby that it is raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such statements as "I mean a piece of written work" (in the conversation with my pupil) as "declarations" rather than as "introspection reports." Such statements as these are perhaps like declarations of intention, which also have an authoritative status in some ways like and in some ways unlike that of a statement about one's own current pains.  But the immediately relevant point with regard to such statements about meaning as the one I have just been discussing is that, insofar as they have the authoritative status which they seem to have, they are not statements which the speaker could have come to accept as the result of an investigation or of a train of argumentation. To revert to the conversation with my pupil, when I say "I mean a piece of written work," it would be quite inappropriate for my pupil to say  "How did you discover that you meant that?" or "Who or what convinced you that you meant that?" And I think we can see why a  "meaning" statement cannot be both specially authoritative and also the conclusion of an argument or an investigation. If a statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is conceivable, then the statement maker may be mistaken, in which case, of course, his statement has not got the authoritative character which I have mentioned. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I have been considering requires both that a speaker's statement about what he means should be specially authoritative and that it should be established by argumenta-tion. But this combination is impossible.  (2) A further difficulty for the paradox-propounder is one which is linked with the previous point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a particular person means in general by a given expression, and (b) what a particular speaker means, or meant, by that expression on a particular occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give examples of the ways in which such divergence may occur. (1) The sentence "I have run out of fuel" means ingeneral (roughly) that the speaker has no material left with which to propel some vehicle which is in his charge; but a particular speaker on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to say. (2) "Jones is a fine fellow" means in general that Jones has a number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving any unusual sense to any of the words in the sentences; he would rather be using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he says involves knowing the standard use of the sentence in question.  (3) A speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence  "It is hailing" what would standardly be expressed by the sentence  "It is snowing" either if he had mislearned the use of the word "hail-ing" or if he thought (rightly or wrongly) that his addressee (perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private significance to the word "hailing." In either of these cases, of course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard sense.  These trivial examples are enough, I hope, to indicate the possibility of divergence between (a) and (b). But (a) and (b) are also con-nected. It is, I think, approximately true to say that what a particular speaker means by a particular utterance (of a statement-making char-acter) on a particular occasion is to be identified with what he intends by means of the utterance to get his audience to believe (a full treatment would require a number of qualifications which I do not propose to go into now). It is also, I think, approximately true to say that what a sentence means in general is to be identified with what would standardly be meant by the sentence by particular speakers on particular occasions; and what renders a particular way of using a sentence standard may be different for different sentences. For example, in the case of sentences which do not contain technical terms it is, I think, roughly speaking, a matter of general practice on nonspecial occa-sions; such sentences mean in general what people of some particular group would normally mean by using them on particular occasions (this is, of course, oversimplified). If this outline of an elucidation of the distinction is on the right lines, then two links may be found be-tween (a) and (b). First, if I am to mean something by a statement-making utterance on a particular occasion-that is, if I intend by means of my utterance to get my audience to believe something—I must think that there is some chance that my audience will recognize from my utterance what it is they are supposed to believe; and it seems fairly clear that the audience will not be able to do this unless it knows what the general practice, or what my practice, is as regards the use of this type of utterance (or unless I give it a supplementary explanation of my meaning on this occasion). Second (and ob-viously), for a sentence of a nontechnical character to have a certain meaning in general, it must be the case that a certain group of people do (or would) use it with that meaning on particular occasions.  I think we can confront my paradox-propounder with a further difficulty (which I hope will in the end prove fatal). When he suggests that to say "x (a natural event) caused y" means (wholly or in part)  "x willed y," does he intend to suggest that particular speakers use the sentence "x caused y" on particular occasions to mean (wholly or in part) "x willed y" (that this is what they are telling their audience, that this is what they intend their audience to think)? If he is suggesting this, he is suggesting something that he must admit to be false.  For part of his purpose in getting his victim to admit "* caused y" means (in part at least) "x willed y" to get his victim to admit that he should not (strictly) go on saying such things as that "x caused y" just because of the obvious falsity or absurdity of part of what it is supposed to mean; and he is relying on his victim's not intending to induce beliefs in obvious falsehoods or absurdities. However, if he is suggesting that "x caused y" means in general (at least in part) "x willed y," even though no particular speaker ever means this by it (or would mean this by it) on a particular occasion, then he is accepting just such a divorce between the general meaning of a sentence and its particular meaning on particular occasions as that which I have been maintaining to be inadmissible.  In conclusion, I should like to remind you very briefly what in this paper I have been trying to do. I have tried to indicate a particular class of statements which have been not unknown in the history of philosophy, and which may be described as being (in a particular sense) paradoxes. I have considered a number of attempts to find a general principle which would serve to eliminate all such statements, independently of consideration of the type of method by which they would be supported by their propounders. I have suggested that it isdifficult to find any principle which will satisfactorily perform this task, though I would not care to insist that no such principle can be found, nor to deny that further elaboration might render satisfactory one or another of the principles which have been mentioned. I have considered a specimen of what I suspect is one characteristic method in which a paradox-propounder may support his thesis (though this may not be the only method which paradox-propounders have used); and finally I have tried to show that the use of this method involves its user in serious (indeed I hope fatal) difficulties.Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Carru, Cuneo, Piemonte. Insegna filosofia a Salerno. Studia a Torino, Heidelberg, Perugia e Macerata. Si laurea in filosofia a Torino con VATTIMO e PAREYSON, dottore di ricerca a Perugia, seguito da Ferretti e Riconda, di cui è stato assistente a Torino. Borsista del centro studi filosofico-religiosi Pareyson ricercatore della Alexander von Humboldt-Stiftung all'Freiburg im Breisgau, professore allo studio teologico interdiocesano di Fossano e professore ospite in alcune università europee e americane -- Madrid, Córdoba, Mendoza. Membro dei comitati scientifici del Centro studi filosofico-religiosi Pareyson di Torino, della Fondazione centro studi NOCE (si veda) di Savigliano, dell'Accademia estetica internazionale di Rapallo, dell'Istituto Tilliette, della Internationale Schelling-Gesellschaft.  Fonda a Cuneo il seminario angelus novus. Fonda la rivista “Paradosso”. Scrive sulle pagine culturali di “Avvenire”. Cura una rubrica sul mensile delle vallate occitane d'Italia “Ousitanio Vivo”, di cui è collaboratore, e collabora a “La Rivista del Club alpino italiano”. Garante scientifico internazionale dell'associazione Mountain Wilderness International. Istruttore di kung fu classico cinese, frequentando la scuola Kung Fu Chang, allievo diretto dei maestri Cuturello e Fassi. Dedicato le sue ricerche a Schelling, Nietzsche, Heidegger, PAREYSON, EINAUDI, Lao Tzu e Yang Chengfu approfondendo in particolare il problema ontologico della libertà e del male, del tempo e dell'escatologia, dei principi e del non-sapere. Elabora una filosofia esperienziale, sperimentata soprattutto in montagna, che intende l'esistenza come esperienza personale della verticalità del limite, e una filosofia ermeneutica del dialogo inter-culturale, particolarmente attenta alla teologia cristiana trinitaria e al pensiero taoista cinese. Saggi: “Kenosis del logos: ragione e rivelazione” (Città Nuova, Roma); “Ontologia del male” (Città Nuova, Roma); “L'argomento ontologico. L'esistenza di Dio da AOSTA (si veda) a Schelling” (Roma, Città Nuova),  pareysoniana, Trauben, Torino, Pareyson. Vita, filosofia, Morcelliana, Brescia,  Escatologia della negazione (Roma, Città Nuova); Schelling. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo, Filosofia della montagna, Prefazione di Torno, Postfazione di Messner, Milano, Bompiani, Come leggere Nietzsche, Bompiani, Milano, Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao Tzu (Bompiani, Milano); Libertà di sapere. Università e dialogo interculturale, Bompiani, Milano, Verso la città divina. L'incantesimo della libertà in EINAUDI (si veda) (Città Nuova, Roma); Corpo e preghiera. La Via del T'ai Chi Ch'üan, Roma, Città Nuova); La via della montagna, Bompiani, Milano, Curatele: Pareyson, Essere, libertà, ambiguità, Mursia, Milano, Riconda, Tilliette, Del male e del bene, Città Nuova Editrice, Roma, Forte, Vitiello, La vita e il suo oltre. Dialogo sulla morte, Città Nuova Editrice, Roma, Pareyson, Iniziativa e libertà, Mursia, Milano, Baudino, White-out, Museo Nazionale della Montagna, Torino, Nietzsche: su verità e menzogna, Bompiani, Milano,  Schelling, Sui principi sommi. Filosofia della rivelazione Bompiani, Milano, Pareyson, Prospettive di filosofia moderna e contemporanea, Mursia, Milano, Recensioni: Kenosis del logos. Ragione e rivelazione nell'ultimo Schelling, Pref. di Tilliette, Città Nuova, Roma -- recensito da: Forte («Avvenire», Bozzo («Il Sole-24 Ore», Giordano («La Guida»,Bogo («la masca», Pirola («La Civiltà Cattolica»); Agostini («La Stampa. Tuttolibri», Viganò («Informazione filosofica»,  Sotgiu («Diorama letterario», Forte («Asprenas», Tilliette («Gregorianum», Guglielminetti («Filosofia e teologia», Ontologia del male. L'ermeneutica di Pareyson, Pres. Di Coda, Città Nuova, Roma), recensito da Bozzo («Il Sole-24 Ore», G. Ricci («Avvenire», Ribero («AdOvest», Sotgiu («Diorama letterario», Micelli («Informazione filosofica», Russo («Acta philosophica», Garelli («La Guida»,].  L'argomento ontologico. L'esistenza di Dio d’AOSTA a Schelling, Città Nuova, Roma, recensito da: Schoepflin («Avvenire», Bo («Con-tratto», Pepino («la Bisalta», pareysoniana, Trauben, Torino, recensito da:  Garelli («La Guida», Russo («Acta philosophica», Ciglia («Il Pensiero», Escatologia della negazione, Città Nuova, Roma, recensito da Garelli («La Guida», F. Pepino («la Bisalta»), Schoepflin («Avvenire Folin («Tuttolibri»,), Nino («Dialegesthai», mondodomani.  dialegesthai/)].  Pareyson. Vita, filosofia, Morcelliana, Brescia [recensito da: Aschero («La Guida»,  Schoepflin («Il Giornale», Orengo («La Stampa. Tuttolibri»,  Schoepflin («Avvenire»,  Pepino («Cuneo Provincia Granda», Russo («Acta philosophica», O argumento ontológico. A existência de Deus de Anselmo a Schelling, tr. port. bras. di Schirato, Paulus, Sâo Paulo Brasil, Filosofia della montagna, Bompiani, Milano, recensito da Reale («Corriere della sera», Billò («Unione Monregalese», Mathieu («Il Giornale», Vasta («La Sicilia», Curi («Messaggero Veneto», Caveri («Peuple Valdotain»,A. Zaccuri («Letture»),  Anghilante («Ousitanio Vivo», Lingua («Cuneo Provincia Granda», Brunod («PMNet», oin pmnet), M. Schoepflin («Il Foglio» A. Rosa («TorinoSette», A. Parodi («La Stampa), G. Pulina («Girodivite», Rigobello («L'Osservatore romano», ].  Come leggere Nietzsche, Bompiani, Milano, recensito da: Schoepflin («Jesus»), Vecchio (“Diorama letterario”), Pulina («Recensioni filosofiche»).  Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao Tzu, Bompiani, Milano, recensito da Iacona («Secolo d'Italia»), Billò («L'Unione monregalese»), Aschero («La Guida»), Schoepflin («Giornale di Brescia»), Schoepflin («Avvenire», Monaco («Filosofia e teologia», Libertà di sapere. Università e dialogo interculturale, Pref. di Reale, Bompiani, Milano  recensito da Giorello («Corriere della Sera. Magazine»,  Castagna («Avvenire», Iacona («Il Borghese», ), Torno («Corriere della Sera», *)].  Verso la città divina. L'incantesimo della libertà in Einaudi, Città Nuova, Roma, recensito da Chittolina («La Guida», Schoepflin] («Il Giornale di Brescia», Tarantino («Secolo d'Italia»); Iacona («Il Giornale d'Italia»,  Monaco («L'occhio», Chittolina («La Voce del Popolo», Ranucci («Conquiste del lavoro»,  «Jesus»); Bondi («Panorama», Nuoscio («Europa», Anghilante («Ousitanio vivo»); Festa, («»,,// ); Bartoli («Dialegesthai», 10.7.,//mondodo mani.org/dialegesthai/; D. Monaco («Filosofia e teologia»,, 1,  ];Lubrano («Il Nostro Tempo». Centro studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson; Studio teologico interdiocesano di Fossano  Accademia estetica internazionale di Rapallo Istituto Tilliette  Ousitanio Vivo Il Giornale  La Rivista del Club alpino italiano professore. curriculum, pubblicazioni, biografia intellettuale. Pagina docente nel sito dell'Università degli Studi di Salerno. Francesco Tomatis. Tomatis. Keywords: paradosso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomatis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tomitano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei precetti della conversazione civile – la scuola di Padova – filosofia padovana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza,  pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Abstract. Keywords: i precetti della conversazione – praeceptum. – vide praecipio. : to give rules, or precepts, to avise, admonis, warn, inform, instruct, tech, to enjoin, direct, bird, order, etc. Il tuo contributo alla conversazione sia tale quale e richiesto, allo stdio in cui avviene, dallo scopo o orientamnto accettato dello scambio linguistio in cui sei impegnato. Tale principio ha la forma di un precetto o di una regola. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Fondatore di accademie letterarie, autore di commenti alle opere d’Aristotele – lizio -- e autore di scritti di logica, alcuni dei quali ancora inediti. Da una famiglia originaria di Feltre, frequenta il corso di filosofia a Padova dove si laurea. Deputato dal senato veneto a leggere l'Organon di Aristotele alla scuola di logica di Padova. Nel periodo in cui rimane a Padova stringe amicizia, fra gli altri, con SPERONI, BEMPO, SADOLETO, GIOVIO, NAVAGERO, FRACASTORO, e MANUZIO. Fa parte degl’infiammati, il cui proposito è scrivere compiutamente in dialetto veneziano. Le discussioni degl’infiammati sono alla base dei quattro libri della lingua toscana. Scrive anche due brevi dissertazioni matematiche: il Moisè-Geometria, la dimostrazione del teorema due rette possono avvicinarsi all'infinito senza mai unirsi, intuito dal profeta ebreo per grazia divina, e “Introductio cosmographiae”, lezioni di geometria a fondamento della cosmografia tolemaica. Accusato dal S. Uffizio di eresia per la sua esposizione LETTERALE a parafrasi implicaturale al vangelo secondo Matteo. Dimostra che quella parafrasi non è sua, ma edita a sua insaputa da un nobile signore N., con cui è assai famigliare. Creduto e assolto, ma da allora in poi i suoi saggi divennero alquanto conformisti. Lascia Padova e si trasfere a Venezia. I saggi più importanti del periodo veneziano, a parte la biografia di Baglioni, sono il “De morbo gallico” e il carme encomiastico “Thetis” in onore di Enrico III. Altre saggi: “Introductio ad sophisticos elenchos Aristotelis. Eiusdem brevis methodus diluendorum paralogismorum per divisionem, praeter illa quae Aristoteles habuit in Elenchis. Quam methodum B. Tomitanus ex dialogis Platonis et ex Aristotele nuper invenit, adiecta sunt Famigerata veterum Sophismatum exernpla, ad exercitationem adolescentium” (Venezia); “Ragionamenti della lingua toscana, dove si parla del perfetto oratore e poeta volgari, dell'eccellente flosofo Tomitano, divisi in tre libri. Nel primo libro si pruova la FILOSOFIA esser necessaria allo acquistamento della retorica e della poetica. Nel secondo libro si ragiona dei precetti dell'oratore. Nel terzo libro si ragiona delle leggi appartenenti al poeta, e al bene parlare” (Venezia, Farri); Quattro libri della lingua toscana, dove si prova la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta con due libri nuouamente aggionti, de I PRECETTI RICHIESTI AL CONVERSARE con eloquenza” (Padova, Pasquati); “Sonetti e Canzoni, in Rime diverse di molti eccellentiss. autori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato” (Venezia, Ferrarii); “Esposizione letterale del testo di Mattheo Evangelista” (Venezia); “Sopra le Pistole di S. Paolo” (Venezia); “Moisè”; “Geometria (Mantova); Introductio Cosmographiea (Venezia); Prediche del reverendissimo monsignor Cornelio Musso, vescovo di Bitonto, fatte in diversi tempi, et in diversi luoghi. Nelle quali si contengono molti santi evangelici precetti, non meno utili, che necessarij alla interior fabrica dell'huomo cristiano. Con la tavola delle cose più notabili in esse contenute” (Venezia, Giolito de Ferrari); “Oratione recitata per nome de lo studio de le arti padovano ne la creatione del serenissimo Principe di Vinetia M. Marcantonio Trivisano, Venezia, Clonicus, sive de Reginaldi Poli laudibus, Venezia Consiglio sopra la peste di Vinetia. Al Magnifico M. Francesco Longo del Clarissimo M. Antonio” (Padova); Corydon, sive de Venetorum laudibus, et Carmen ad Laurentium Priolum Venetorum Principem” (Venezia, Breznicio); “Animadversiones aliquot in primum librum Posteriorum Resolutoriorum. Contradictionum solutiones in Aristotelis et Averrois dicta, in primum librum Posteriorum Resolutoriorum. In novero Averrois Quaesita demonstrativa Argumenta, Venezia, Consiglio de l'eccell. m. Bernardino Tomitano sopra la peste di Vinetia, Padova, appresso Gratioso Perchacino, De morbo gallico, inVenezia, Vita e fatti di Astorre Baglioni; “Quattro libri della lingua thoscana, ove si prova la philosophia esser necessaria al perfetto oratore et poeta con due libri nuovamenti aggionti dei precetti richiesti a lo scrivere et parlar con eloquenza” (Padova); “Thetis”; “In adventu Regis Henrici III Galliae Christianissimi et IV Poloniae Serenissimi ad felicissimam Venetiarum urbem, Venezia, Ziletti). Aristotelis opera omnia cum commentariis Averrois. Animadversiones et solutiones Et alia plura” (Venezia, Iuntas). I primi due libri sono tesi a dimostrare che la filosofia è necessaria all'oratore e al poeta. Il terzo libro ha per argomento i precetti della retorica necessari alla scrittura e all'oratoria. L'ultimo libro è dedicato alla prosa d'arte ("locutione oratoria, et de' suoi ornamenti, con la ragion de i motti, facetie et apologi"). Poppi. Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana” Poppi; “Oratione prima alli Signori de la S. Inquisitione di Venetia” (Padova); e Oratione seconda alli signori medesimi, Venezia). Quest'opera è nominata solo da Doni nella sua Prima Libraria, un repertorio dei libri italiani stampati. L'opera del T., pertanto, deve essere stata scritta. È una biografia in VIII libri su Baglioni, il capitano ucciso con Marcantonio Bragadin a Famagosta. La filosofia rimase ignota ai contemporanei del T. ed è in gran parte ancora adesso inedita. Ne sono stati stampati solo alcuni brani. Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, della compagnia di Gesù, bibliotecario del serenissimo duca di Modena, Firenze, Molini e Landi, Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, POMBA, su sapere, De Agostini. Opere Aulo Greco, Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bernardino Tomitano. Tomitano. Keywords: i precetti della conversazione civile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tomitano” – The Swimming-Pool Library. Tomitano.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tommaseo: implicatura e ragione conversazionale dell’amorevolezza– filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Sebenico). Abstract. Keywords: Deutero-Esperanto. Filosofo italiano. Sebenico, Croazia. Al dibattito sulla lingua filosofica universale partecipa T. con il suo Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana. T. muore a Firenze. Scrittore e lessicografo italiano, è intimo amico di MANZONI (si veda). Consegue la laurea a Padova per poi tornare nel paese d'origine e iniziare la sua carriera di scrittore. Vive a Firenze, Parigi, Nantes, Venezia, e Torino. Tra le tante opere, da alle stampe il dizionario de' sinonimi della lingua italiana nel e il Dizionario della lingua italiana. Nelle prime pagine dell'introduzione, ragionando sul senso delle parole – cf. Grice, the meaning of a word --, asserisce che è utile ordinare le parole in un dizionario dei sinonimi secondo l'ordine delle IDEE (Duden) che essi conteneno, di modo che ogni termine si trova accanto ad uno che esprime un concetto simile o che deriva dalla stessa idea. Un dizionario dei sinonimi filosofico, in cui spiega che tutte queste voci si possono numerare; e puo il medesimo numero rappresentare la voce corrispondente in tutte le lingue -- assegnando alle voci che corrispondente non hanno un segno di frazione o un segno composto --; il qual numero da ciascun lettore è tradotto nella lingua propria: e se ne ha una lingua universale di cifre, comoda assai [T., Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Firenze, presso Vieuusseux] e grazie al quale, dati i seguenti numeri e le corrispondenti idee. Desiderio e odio; Desiderio solo; Desiderio invincibile di natura; Intellettuale; De' bruti; Turpe; Desiderio del bene altrui; Del bene de' nemici; Desiderio abituale; Vivo; Men vivo; Interno; Significato di fuori; Di minore a maggiore; Di maggiore a minore - potremmo esprimere il concetto di 'amorevolezza' tramite i numeri 2, 7, 11, 13, 15, essendo questa segno di desiderio non vivo, del bene altrui, e per lo più di maggiore a minore. Un progetto di lingua universale che non ha quindi un sistema fonico utile alla comunicazione parlata, ma resta espresso soltanto in forma scritta. Sebbene possa sembrare un sistema piuttosto preciso, comporta l'uso costante di un vocabolario, vista la difficoltà con la quale qualsiasi essere umano impara una tale mole di numeri e idee corrispondenti. Grice: “We spent a whole term crossing dots on pieces of paper. Austin called it SYMBOLO.” Niccolò Tommaseo. Tommaseo. Keywords: lingua universale, lingua filosofica, il Deutero-Esperanto di Grice – analisi di ‘amorevolezza.’ Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tommaseo” – Tommaseo.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Toritto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale contro il lizio – scuola di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Napoli). Abstract. Keywords. Lizio. Costituzione come concetto analogo Joachim. Soveranita. Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Caravita; Locke – England’s, and Oxford’s, greatest philosopher, had his sponsor, and so does Italy’s – not Bologna’s – Vico, and he was Caravita!”. Appartenente a una famiglia nobile resa illustre in passato da insigni giureconsulti. Fiscale consigliere della reale Giurisdizione. Insegna a Napoli. Compone il saggio: “Nullum ius romani pontificis in regnum neapolitanum” contro le pretese feudali dal papa sul regno di Napoli – “Niun diritto compete al sommo pontefice sul regno di Napoli: dissertazione istorico-legale illustrate con varie note” (Aletopoli, Napoli), messa all'Indice. Ha inoltre l'incarico di raccogliere tutte le leggi del regno in un codice Filippino. Il Codice Filippino, e tuttavia rimasto incompiuto per l'occupazione austriaca di Napoli. In filosofia e seguace dell'anti-aristotelismo di CAPUA (si veda). La sua abitazione divenne il centro della diffusione della filosofia di Cartesio a Napoli. Titolo di merito di Caravita, come peraltro del figlio Domenico, è l'essere stato amico e protettore di VICO (si veda), a favore del quale si adopera per fargli ottenere la cattedra di retorica e perché e accolto nell'Accademia palatina.  Altri saggi: “Ragioni a pro della fedelissima città e Regno di Napoli contr'al procedimento straordinario nelle cause del Sant'Officio, divisate in tre capi. Nel I si ragiona del grave pregiudicio della real giuridizione. Nel II si tratta dell'ordinaria maniera di giudicio, che tener si dee nel regno, e nel III si dimostra il pregiudicio, che fa alla real giuridizione, ed al regno un editto in cui si stabilisce il tribunal della 'nquisizione. Napoli. Dizionario biografico degli italiani. Ma l’ anti-marinismo ha anche, secondo la moda del tempo, il suo salotto nel palazzo Torittom nel quartiere dei Vergini. Quivi, più che nell’accademia. Armellini, Bibliotheca benedictino-casinensis. Stefano, Raccolti da don Nicolò Caravita. Napoli, Roselli, ed. Caravita was an Arcadian. Tiberius by Filippo Anastasio, Caligula, and Claudius by Paolo DORIA. The second volume continues the biographical model with essays dedicated to individual emperors. Nicolò Caravita. Niccola Caravita Nicola Caravita. Nicola Caravita dei duchi di Toritto. Caravita-Toritto. Toritto. Keywords. impiegatura da salotto, diritto, anti-popism – il laico --, anti-aristotele, contro Aristotele, concetto assolutista di sovereignty contro Aquino, quartiere dei Vergini – Capua.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caravita” – The Swimming-Pool Library. Toritto.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Torlonia: la ragione conversazionale, e l’implicatura conversazionale del natale di Roma – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. logically developing series amicus, philos, alter ego. Joachim. Filosofo italiano. Roma. Figlio del duca Marino, appartene a una delle più facoltose famiglie nobiliari romane. Il padre, duca di Poli e di Guadagnolo, e titolare del feudo di Bracciano e vive a Roma nel palazzo Torlonia, in via Bocca di Leone. Sposa la figlia di Bartolomeo Ruspoli e nipote del III principe di Cerveteri Francesco. Dal loro matrimonio nacque Clemente. Nannarelli, amico intimo e su biografo così lo descrive. I capelli castani, abbondanti e finissimi, il pallore e la gracilità del volto. Ma se la fronte è di filosofo, l'occhio e d'artista, o meglio, di contemplatore. Svelto nella persona, di eccellente statura, incede frettoloso a testa alta e pensierosa. Si esprime con eleganza in francese e tedesco. Spirito avido di conoscenze, e attratto dalla chimica e dalla botanica. Nelle sue passeggiate nella campagna romana raccoglie e cataloga piante e fiori. Appassionato di archeologia, colleziona monete di epoca romana e trascrive antiche iscrizioni. Socio della Pontificia accademia di archeologia, pronuncia un discorso in occasione del natale di Roma. Religioso fervente, è introdotto da Passaglia allo studio della patrologia e delle sacre scritture. La famiglia lo tollera, ma lo considera visionario e innovatore pericoloso. Da Platone e da Plotino, approde a Kant e Fichte. Gli torna in contemplazione entusiastica, gli si face poesia. E in contatto con un gruppo di filosofi, suoi coetanei, oggi identificati come i filosofi della scuola romana che di sera si ritrovano al Caffè Nuovo, a Piazza S. Lorenzo in Lucina. Novello mecenate, ha raccolto intorno a sé questo gruppo di filosofi spinti dal comune ideale di ricondurre la filosofia agl’antichi splendori di Roma. Tra questi, ci sono GNOLI, CIAMPI, MACCARI, e NANNARELLI. Vuole riuniti idealisti e classicisti, nella fiducia che, temperata la nebulosità metafisica degl’uni e la gretta sensibilità degl’altri, e prendendo il meglio d'ambedue le scuole, puo scaturire a grado a grado una filosofia italiana, profonda e intima d'idea e di sentimento, nitida, elegante di forma. Scrive sulla filosofia dell’amore platonico, sui fiori, sulla contemplazione del divino. Ama Schiller, Goethe, Lenau, e LEOPARDI (si veda). Declama Aligheri (si veda) e Tasso (si veda). Il suo saggio meritata le lodi di Gregorovius. Suoi saggi apparvero nella raccolta “I fiori della campagna romana,” stampata a Firenze e nella “Strenna romana. Costa, Trebbiatura nella campagna Romana, A Monte Mario, nei casali Mellini, sotto l'osservatorio astronomico, apre a sue spese una scuola rurale elementare. Straordinario precursore della alfabetizzazione delle classi povere, cre una associazione promotrice delle scuole di campagna. A questa scuola rurale dedica un elogio in latino. Nannarelli accorse al suo capezzale. Lo ude recitare il Salmo 41 e versi di Lenau; e Platone, e Fichte. Raccomanda alla moglie di mandare il figlio Clemente al collegio di marina di Genova. Nannarelli tenta di raccogliere intorno a sé i poeti e filosofi della scuola romana che furono decimati nel numero, per le morti precocima si trasfere a Milano. Secondo le ferree disposizioni ricevute da T., il suo cameriere distrugge tutte le carte dell'archivio personale. GNOLI conserva i manoscritti di tre saggi di T., inedite. Negro, Seconda Roma, Vicenza, Pozza, Gnoli, op. cit. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia. Gnoli, “I poeti e filosofi della scuola romana” (Bari, Laterza); Nannarelli, “T.” (Firenze, Le Monnier); Cugnoni, Vita di T.”  (Velletri, Cella); Ulivi, “I poeti e filosofi della scuola somana” (Bologna, Cappelli). Giovanni Torlonia. Torlonia. Keywords: il natale di Roma, la filosofia dell’amore di Platone in Fichte e Leopardi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Torlonia” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Torquato: la ragione conversazionale dell’orto a Roma e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Grice italo—By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. Roma antica, orto, de finibus. G. R. I. C. E. Intentions, Categories, Ends. Causa Finalis – Causa di fine. De Finibus. Filosofo italiano. L’Orto. Chosen by CICERONE to represent L’Orto in “De finibus”. Whether fairly or not, his understanding of the ‘Orto’ is portrayed as somewhat crude and superficial. He was killed during the civil war.  De finibus bonorum et malorum  Pagina di manoscritto con incipit dell'opera Autore           Marco Tullio Cicerone 1ª ed. Originale 45 a.C. Editio princeps Colonia, circa 1470 Genere trattato Sottogenere filosofia Lingua originale latino Modifica dati su Wikidata · Manuale Il De finibus bonorum et malorum ("Il sommo bene e il sommo male") è un dialogo filosofico in cinque libri scritto da Marco Tullio Cicerone che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo identificavano nella virtù e nel piacere.  Struttura e contenuto dell'opera[modifica | modifica wikitesto] L'opera è costituita da due dialoghi. Il primo dialogo (libri I e II) si svolge nella villa di Cicerone a Cuma, ad esso prendono parte Cicerone e due suoi giovani amici, Lucio Manlio Torquato e Gaio Valerio Triario. Torquato, figlio dell'omonimo console del 65 a.C., era stato eletto pretore per l'anno seguente; poiché egli rivestì tale incarico nel 49 a.C., la data fittizia in cui il dialogo è ambientato è il 50 a.C.  Il tema del dialogo è la dottrina morale epicurea, condensata nella proposizione «il sommo bene consiste nel piacere» di cui Torquato si fa sostenitore e Cicerone contraddittore. Torquato afferma infatti che il piacere sia il fine verso cui l'uomo naturalmente tende e che la felicità consista nel piacere nella misura in cui esso non è mero e fugace godimento dei sensi, bensì condizione stabile di serenità e di assenza di dolore fisico.  Secondo Cicerone, invece, Epicuro cadrebbe in contraddizione nel momento in cui sembra affermare che piacere ed assenza di dolore fisico coincidono. Agli occhi di Cicerone, la stessa definizione epicurea di piacere sarebbe ambigua in quanto duplice: talvolta esso è inteso come soddisfacimento immediato dei sensi (piacere in movimento), talvolta come mancanza duratura di ogni dolore (piacere stabile), e solo nella seconda accezione esso coinciderebbe col sommo bene.  Secondo Cicerone, se il sommo bene coincidesse con il piacere e non con la ragione, allora potrebbe darsi il caso di un sapiente infelice, dato che il dolore è inevitabile.  Cicerone argomenta che l'uomo è nato con aspirazioni più elevate rispetto al mero piacere e che dunque, in accordo con la propria natura, egli cerca il sommo bene in qualcosa di superiore. Prova di ciò sono i numerosi esempi di individui virtuosi che la storia romana offre, i quali hanno preferito perseguire la virtù anche se questo ha portato loro a gravi sacrifici, in alcuni casi addirittura alla morte. Tra gli individui esemplari citati da Cicerone vi sono Marco Attilio Regolo che, sconfitto dai Cartaginesi, convinse il senato a non trattare in suo favore, andando incontro a terribili supplizi, e Lucrezia, che si sarebbe suicidata dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo (secondo la leggenda Giunio Bruto usò il suo pugnale per guidare la rivolta contro la dominazione dei re etruschi e venne così instaurata la repubblica).  Alcuni dei momenti fondamentali dell'argomentare di Cicerone sono quelli in cui egli «rileva l'inevitabile dualismo fra prassi e teoria che mette l'Epicureo nella sconcertante posizione di aver convinzioni personali di cui non può essere assertore nella vita pubblica»[1], cosa assolutamente inammissibile per la mentalità ciceroniana e romana in genere secondo cui in un buon cittadino romano pensiero e pratica di vita devono coincidere totalmente.  Il libro III espone il dialogo tra Cicerone e Marco Porcio Catone Uticense in merito alla questione sul sommo bene.  L'attore principale è Catone, il quale descrive i punti principali della gnoseologia stoica di Zenone di Cizio. Catone identifica come “sommo bene” la possibilità di esercitare la facoltà della ragione. L'allontanamento di ogni ostilità/dolore è giustificato per via di uno “spirito di conservazione” del soggetto.  La facoltà della ragione si esplica mediante la partecipazione consapevole del soggetto nell'esperienza. Perciò la rappresentazione catalettica, basata sull'Assenso, manifesta un preciso interesse del soggetto e tende oltre la semplice sensazione.  Secondo Catone, quindi, il sommo bene coincide con un atto di onestà nei confronti di «ciò che è conforme a natura», alla legge naturale: un assenso all'esperienza. Catone polemizza contro le dottrine etiche dei Peripatetici. Aristotele confuse ciò che intendiamo per “cose preferite” con il “sommo bene”: la felicità come attività contemplativa del sapiente. Secondo Catone, invece, il sapiente esercita l'onestà come adempimento di un «dovere» indicato dalla natura nella percezione: qualcosa che di per sé non si può intendere né come bene né come male; né come virtù né come vizio.  Il capitolo si chiude con un elogio alla figura del sapiente ricordando tre esempi negativi per la storia di Roma: Tarquinio il Superbo, il quale pensò ai propri interessi cercando ripetutamente il conflitto contro la nascente Repubblica; il dittatore Lucio Cornelio Silla sconvolse la politica di Roma con il lusso, l'avidità e la crudeltà delle stragi civili; Marco Licinio Crasso oltrepassò l'Eufrate nella Battaglia di Carre del 53 a.C. “senza alcun motivo”.  Il libro IV espone le principali obiezioni di Cicerone alla dottrina stoica. Secondo Cicerone, Catone ha operato un “mutamento dei principi naturali” e ha complicato la terminologia della filosofia allontanandola dalla realtà. Mentre Catone ha subordinato la conoscenza alle virtù che appartengono alla struttura umana, Cicerone stabilisce un rapporto tra l’esperienza e la conoscenza: le virtù sono “in divenire”, ricercate e acquisite. Il rischio più alto che si nasconde dietro il pensiero di Catone è il pericolo di cadere in errori di valutazione e ambiguità che giustificano le azioni umane in base al grado di onestà “sentita”, ad esempio: Livio Druso può essere ritenuto “onesto” al pari di Gaio Gracco, oppure possiamo affermare che Tiberio Gracco ha agito negli interessi dello stato come suo padre. Cicerone non accetta queste tesi; secondo lui, Tiberio ha lavorato per “abbattere” Roma.  Inoltre, Cicerone critica lo stoicismo in quanto ha “dimenticato” la nozione di “dovere” e, prima ancora, “tutto ciò che non rientra in nostro potere”.  [...] avete improvvisamente abbandonato il corpo e tutto ciò che, pur essendo conforme a natura, non rientra in nostro potere, insomma il dovere stesso.  La nozione di “bene secondo natura” non considera una sola componente della vita, bensì assume la “cura” e la protezione dell'intero organismo.  […] ogni natura ha premurosa cura di se stessa. Quale vi è infatti che abbandoni mai se stessa o una qualche parte di se stessa o la proprietà o l'essenza di tale parte o il movimento o lo stato di alcune di quelle cose che sono conformi a natura?  È importante sottolineare la relazione esistente tra etica e teoria della conoscenza. La visione “organica” dell'etica ciceroniana non prende in considerazione un aspetto dell'esistenza, ma è espressione della "postura" dell'io all'intero “corpo” della civitas e delle esigenze fondamentali della vita: la cura per la salute, la cura per la famiglia, la partecipazione alla vita politica, i doveri della vita.  Per far ciò, l'unica alternativa consiste nell'abbandonare l'attaccamento ad una idea autoreferenziale di sé, e del concetto stoico "natura" espresso da Catone, per "aprire" lo sguardo verso i bisogni e le esigenze concrete della res publica.  Analisi[modifica | modifica wikitesto] Cicerone operò una distinzione fra personalità epicuree e l'istituzione da esse animata[2], e qualificò gli Epicurei come uomini degni, pieni di onestà, integrità e generosità, ma incoerenti promotori di una dottrina "peggiore di loro", segnata dal rigetto della struttura logico-dialettica propria della migliore filosofia greca e da un disinteresse antididattico rispetto ad un'organizzazione sistematica delle idee e delle disputatio. Ciò avrebbe generato formulazioni ambigue e scarne, che l'avrebbero resa il sistema filosofico più semplice da trattare e comprensibile da un profano[2], almeno nel suo quadro di fondo.  Note[modifica | modifica wikitesto] ^ Nino Marinone, Introduzione, in Cicerone, I termini estremi del bene e del male, a cura di Nino Marinone, Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1976, pagg.19-20. ^ Salta a:a b (EN) Brad Inwood, Rhetorica Disputatio: The strategy of de Finibus II, in Apeiron: A Journal for Ancient Philosophy and Science, vol. 23, n. 4, Dicembre 1990, p. 143, JSTOR i40040803. URL consultato il 2 febbraio 2019 (archiviato il 2 febbraio 2019). Bibliografia[modifica | modifica wikitesto] M. Tullio Cicero, De finibus bonorum et malorum, traduzione di Antonio Selem, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962. Voci correlate[modifica | modifica wikitesto] Lorem ipsum. Da quest'opera deriva infatti il famoso testo riempitivo utilizzato in tipografia (cartacea ed elettronica) per realizzare bozzetti e prove grafiche. Altri progetti[modifica | modifica wikitesto] Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo originale del De finibus bonorum et malorum Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni dal De finibus bonorum et malorum Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su De finibus bonorum et malorum Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto] De finibus bonorum et malorum, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) De finibus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Edizioni e traduzioni di De finibus bonorum et malorum, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Tulliana - Cicerone e il pensiero romano: Il De finibus bonorum et malorum nel sito ufficiale della Società Internazionale degli Amici di Cicerone mostra V · D · M Marco Tullio Cicerone Controllo di autorità VIAF (EN) 5810152139994711100002 · BAV 492/26495 · LCCN (EN) nr96003708 · GND (DE) 4215059-0 · BNF (FR) cb12221773k (data) · J9U (EN, HE) 987007314043305171  Portale Antica Roma  Portale Filosofia  Portale Letteratura  Portale Lingua latina  Portale Politica Categorie: Saggi in latinoSaggi del I secolo a.C.Opere filosofiche di Cicerone[altre]Lucio Manlio Torquato. Keywords: Roma antica, orto, De finibus. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Torre: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della stravaganza – scuola di Forlì -- filosofia romagnese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Forlì). Abstract. Keyword. stravaganza, lizio. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forli, Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Grice: “I like Torre; his epitaph reads, ‘nuovo Aristotele,’ which is what it was! – “Ackrill’s just reads, ‘Aristotelian’!” There is a nice ‘via’ in Forlì after him that leads to the varsity! He was a Galen, and philosophised on both the soul and the body!” La sua fama se deve al commentario alla “Ars parva” di Galeno -- è noto, in particolare, per i suoi studi di embriologia. Infatti, dopo il recupero di Aristotele, del Lizio, le cui opere avevano spinto verso un rinnovato interesse per l'osservazione diretta, si è avviato un dibattito tra i sostenitori dell'autorevolezza degli studi antichi e i fautori dell'empiria. Questo processo si conclude proprio con T., che cerca di conciliare l'embriologia aristotelica con la fisiologia galenica. Mostra che le differenze esistenti sono di scarsa rilevanza nei confronti della medicina pratica. Insegna a Padova. Saggi: “Explicit questio de intensione et remissione formarum secundum famosissimum artium et medicine doctorem magistrum Jacobum de Forlivio qui pridie ab hac vita ad superiora migravit. Scripta vero per me fratrem Bellinum de Padua.” Si tratta della conclusione del celebre “De intensione et remissione formarum”. Saggi: “De intensione et remissione formarum”; “Expositio in Avicennae aureum capitulum de generatione embryi ac de extensione graduum formatione foetus in utero in Aphorismos Hippocratis Expositio Physica;” “Quaestiones extra-vagantes Super, Tegni Galeni. Vescovini, Medicina e filosofia a Padova, Arti e filosofia. Studi sulla tradizione aristotelica del lizio e i "moderni", Vallecchi, Firenze. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Super aphorismos Iacobi Foroliuiensis in Hippocratis Aphorismos et Galeni. Jacopo da Forlì. Giacomo da Forlì. Iacobus Foroliviensis. Jacopo della Torre. Giacomo della Torre. Torre. Keywords: stravaganza, lizio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Torre” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trabalza: grammatica razionale ed implicatura conversazionale – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Russell always made fun of our stone-age metaphysics. Physics, strictly. Ad there’s nothing funny about it, if we think of SYNTACTIC CATEGORIES as reflecting ONTOLOGICAL CATEGORIES – something that goes beyond Baron Russell’s mathematically-washed brain!” CIRO T. STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA, Hoepli, EDITORE E LIBRAIO DELLA REAL CASA, IllM, MILANO. SEEf PF;icrWICES Imwmkm Milano, Allegretti, Via Orti. A CROCE. L'idea del saggio,  affacciatalisi alla mente di T. or sono parecchi anni nella conoscenza che fa degli studi grammaticali di SANCTIS (si veda), si rafferma quando appare l’estetica di CROCE (si veda), che, avvalorandomela,  l’offre insieme un criterio direttivo per metterla in atto. E ora puo ben dichiarare che, se un vasto materiale, tenuto sin qui in poco o  nessun conto o male utilizzato pella storia della filosofia, puo acquistare un prezzo e servire a una costruzione, ciò è  stato  principalmente  in virtù  di quell'organico SISTEMA FILOSOFICO, della cui verità e fecondità  esso vuole essere a sua volta  una conferma. Per tale stretta dipendenza, oltre che per omaggio di riverente e affettuosa gratitudine, il saggio di T. porta in fronte il nome illustre e caro di CROCE (si veda). Il principio idealistico, propugnato con tanta lucidità e originalità da CROCE (si veda)  nell'ESTETICA – nel senso medievale di SENSIBILIA, cioe, psicologia RAZIONALE -- e nella logica, guadagna moltissimi  filosofi e suscita un salutare e assai palese rinnovamento negli  studi  filosofici, così che le pagine di T. hanno la fortuna di trovare dinanzi a sé un terreno in gran parte sgombro di vecchi pregiudizi teorici sull’arte, sulla letteratura e sulla LINGUA ITALIANA; ma, avutoriguardo al vario e largo pubblico cui si rivolgono, non sognano neppure di passare senza discussioni. Qui l'estetica generale non soltanto è applicata in tutto il suo rigore allo studio dello svolgimento della GRAMMATICA (strettamente, letteratura), all'interpretazione cioè d'un movimento filosofico che,  alimentandosi e insieme ponendosi al servizio della creazione artistica, si volge con isforzi più o meno consci verso la vita della scienza. Ma, per mezzo appunto e in aiuto di codesta interpretazione, è portata necessariamente a sperimentarsi e farsi valere nella critica di tanti concetti e teoriche e problemi particolari della LINGUA ITALIANA, stilistica e storia, che i motivi e l’occasioni del dissenso da parte di chi non l'abbia familiare, saranno  frequenti  quanto  inevitabili. Ma il dissenso è tutt'altro che temibile: è da sperare, invece, che qualcuno ne sia spinto a rendersi ragione d'un principio di cui ha pur dovuto avvertire la efficacia nella dichiarazione e valutazione di tanti fatti e fenomeni. D’altra parte, chi non sente d'approvare l’idee che qui si sostengono, non potrà, suo auguro, disconoscere l'utilità de'ragguagli che il saggio porge su di un complesso non trascurabile d’opere e di questioni. Circa il modo poi ond'è stato raccolto e ordinato codesto vario materiale, T. crede quasi superfluo il far notare che, senza contravvenire ai canoni più rispettati dell'indagine erudita, esso ha dovuto soggiacere soprattutto al criterio della scelta e della  maggiore o minore considerazione, che logicamente s'impone a chi fa storia d' idee. Onde non desterà maraviglia che a volte ci siamo indugiati di più su documenti, che ad altra stregua non solo sarebbero giudicati di diversa importanza e con diverso metodo, ma che parrebbero esser fuori della cerchia stessa del nostro tema. Li sia lecito, infine, in questa pagina dove un gentile costume ha trovato sempre un posto anche agl’affetti che  s'accompagnano per fortuna alle nostre fatiche, esprimere i suoi ringraziamenti migliori ai carissimi amici il conte ANSIDEI (si veda) e  BRIGANTI (si veda), suo coadiutore, della Comunale di Perugia, all'ottimo  cav. Avetta e a tutti i suoi egregi ufficiali  dell' Universitaria di Padova, che facilitano con ogni maniera  di  cortesia  e  di dottrina le modeste ma non sempre agevoli ricerche, a cui, in queste due care città più lungamente che altrove, li è gradito l'attendere, e a VALCANOVER (si veda), studente di lettere, che volle con ingegno e disinteresse aiutarmi nella compilazione dell'indice e dei sommari. Padova. Una  STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA è  un  lavoro  relativamente facile  per  chi  ha  fede nella  grammatica. Si muove d’un tipo, che si reputa RAZIONALE, di grammatica  scientifica, e s’espone la storia della grammatica della LINGUA d’Italia commisurandola a quel tipo, cioè: rispetto ai progressi fatti nell'escogitazioni delle CATEGORIE SINTATTICHE grammaticali; rispetto all'esattezza con cui, seguendo quelle categorie, sono state analizzate e comprese le  forme della LINGUA d’ITALIA. Ma la cosa diventa assai più difficile per chi non ha più quella fede semplicistica. E come  averla? Della dissoluzione della grammatica compiuta dallo spirito sono varie e tutte  evidenti le manifestazioni. Se il buon senso non manca mai di ribellarsi contro ciò che d'arbitrario è nel concetto d'una grammatica contenente i precetti del ben parlare, accettati a occhi chiusi dalla servile pedanteria letteraria o scolastica. Ricordisi l'esempio tipico di tali  ribellioni, il motto attribuito a Voltaire: tanto peggio pella grammatica. Oggi, mentre codesta servilità è presso che distrutta o se ne sta nascosta per paura del ridicolo, quella ribellione si può dire vittoriosa. Si parli o si scriva, quanti si sentono più stretti dalla camicia di forza della grammatica,  onde sono un tempo torturati anche i filosofi più seri? Quel penoso e un po’comico guardarsi d’attorno per non metter il piede sui roveti e nelle falle del temuto codice, chi lo sopporta più? La filosofia ha da travagliarsi in ben altri problemi che non sono quelli d'un impacciarne e infecondo verbalismo. Dinanzi a tanto turbinio di cose, al complicarsi e all'approfondirsi della vita, al sorger  perenne di tanti interessi spirituali, qual cervello può continuare a baloccarsi colle parole, le frasi e i costrutti di parata? Nelle CONVERSAZIONI e ne’ritrovi nei saggi il temerario che osi rinnovare le quisquilie che tanto appassionanoi nostri nonni e alimentano la chiacchiera delle nostre accademie, s'accorge subito di non aver più ascoltatori o d'averli mal disposti a seguirlo: e per  qualche impenitente che si pigli la briga di fargli eco, quanti gli si stringono addosso per zittirlo! La grammatica perde ogni importanza negl’animi di tutti, anche di coloro che non fan professione di filosofo. Anzi, quegli stessi che l'insegnano, non mancano d'avvertire che non colla grammatica s'impara a parlare, ma col tener vigile lo spirito all'osservazione, all’impressioni della vita,  e che lo studio d’essa non va fatto sistematicamente, ma praticamente sugli scrittori, che soli possono formare il gusto e l'abito del rettamente parlare. Sicché nelle nostre scuole la grammatica è ridotta, anche se se ne adottino i testi, a poche e saltuarie osservazioni riguardanti pello più la forma delle voci o il reggimento degl’elementi della proposizione o del periodo, quando le  suggeriscano o l’ispirino gl’esempi degl’autori che si leggono o gli spropositi onde s'infiorano i componimenti, esclusi perfino i paradigmi de'nomi e de'verbi e le liste dell’eccezioni. Ma la critica della grammatica prende ai nostri tempi forma scientifica, innestata naturalmente nei grandi sistemi della filosofia dello spirito. Tra questi è superfluo che T. ricordi quello che pella sua salda  unità ha così profonda efficacia sullo svolgimento della FILOSOFIA. T. intende quella di CROCE (si veda). Dalle due attività teoretiche dello spirito, l'intuitiva e la logica, non si producono che immagini e concetti, ch’arte e scienza: fuori di questi due, non ci sono altri prodotti teoretici che possano costituire per sé oggetto di speculazione filosofica; essi soli sono la realità in cui si  possa esprimere tutta l'attività nostra conoscitiva. Se dunque ci si presentano altri fatti apparentemente diversi colla pretesa d’essere studiati scientificamente in sede propria, noi sappiamo cpial è l'obbligo nostro: scoperto il procedimento artificiale per cui son venuti ad assumere aspetto di formazioni indipendenti, spogliatili delle esteriorità che danno loro apparenza di corpi, d’organismi  capaci di vita e d’evoluzione propria, ricondurli e ridurli  nella loro essenza nuda all'una o all'altra di quelle due forme d’attività. La lingua è tra questi il fatto che suscita le maggiori e più resistenti illusioni, perchè con tutti gli studi ai quali si presta nel terreno empirico, descrittivo, storico, didattico, come suono, voce, forma, costrutto, ritmo, mutamento, uso, rappresentazione, essa,  sciolta e raccolta come realtà in grammatiche e vocabolari, finisce col crearsi un proprio dominio, farsene assoluta padrona, e imporre autorità e rispetto e esigere un culto speciale. Ma studiata scientificamente, ossia come realmente jA\>\>ax?.. e non come la formiamo noi astraendo dall’oggetto reale in cui è incorporata, essa è inseparabile dal discorso vivo, dall'opera letteraria in cui s'incarna, ed è quell’opera stessa, quel discorso  stesso. Onde non vi ha luogo ad uno studio veramente scientifico ossia organico e filosofico  della lingua fuori dello studio della letteratura e dell'arte. Conseguenza di ciò, la filosofia della lingua fa tutt'uno colla filosofia dell'arte, ossia coll'estetica; la storia della lingua fa tutt'uno colla storia della letteratura. La lingua è sempre individualizzata, ed è quindi perpetua creazione, irriducibile a leggi  fisse. Ciò posto, la grammatica – strettamente, letteratura -- che cos'è? Espediente  didattico, privo di valore scientifico, perchè privo di problema scientifico. E una stona della grammatica si scolora agl’occhi dello studioso dello svolgimento della  scienza e della  letteratura, ed appare più che altro materia propria non  già della storia della FILOSOFIA, ma della storia dei costumi e dell’istituzioni, legata piuttosto alla storia dell'insegnamento che non a quella della letteratura, la filosofia e della  scienza. E com'è  anti-scientifico il suo fondamento, cosi  arbitrarie sono le sue CATEGORIE, variabili da grammatico e grammatico, e variate infatti d’Aristotile del LIZIO, che ne ammette due o tre, al  hSuommattei, che n ammi. se dodici, a noi moderni che siamo tornati alle nove tradizionali: variabili ancora, naturalmente, da lingua a lingua, potendo accadere ch’appaiano in esse alcune delle pretese parti del discorso che non appaiono (CROCE (si veda),  Estetica, Palermo; e in La Critica, per i rapporti tra grammatica e logicai, e] Vossler, Positivismus und Ideatisuius in der  Sprachiwssenschaft, Heidelberg. Anche prima di PRISCIANO se ne sono già elaborate tredici o quattordici in altre. Chi direbbe che qualche lingua s'è scoperta mancante del verbo, nientemeno la categoria del moto e dell'azione e dell'esistenza, che tutti i grammatici filosofici ritengono appunto la parte principale del discorso, la colonna che sostiene tutta la proposizione? Le categorie  grammaticali  sorgeno dal  bisogno di comprendere e spiegare la relazione intercedente tra gl’elementi della lingua e gl’elementi del pensiero, il rapporto tra i segni e le cose: sorgeno insomma, non si può disconoscere, dal bisogno di sciogliere un problema scientifico che la coscienza avverte; ma, non conquistato ancora il problema della conoscenza nel suo duplice aspetto d’intuizione  e intelletto, e ridotta l'attività dello spirito alla sola forma logica, è naturale che i prodotti di questa attività apparissero d'una sola natura, e tanto gl’estetici quanto i logici si cercassero di spiegare coll'unico principio logico: e ne deriva l'annullamento dell'espressione: questa, che è il prodotto dell'elaborazione fantastica, è sottoposta a un'elaborazione logica, sicché, distrutta l'espressione  dividendola ne'suoi pretesi elementi, su ciascuno di questi si foggia una categoria: si  hanno così tante astrazioni particolari, e a ciascuna è attribuita una funzione espressiva: ricavati i concetti di moto o azione, d’ente o di materia, se ne fecero le categorie di verbo e di nome, e si crede d'aver trovata l'espressione del moto e dell'ente, cioè la formula con cui esprimerli. Ora l'errore  scientifico è appunto non nel lecito trapasso dall'estetico al logico, ma in questo ripassare dal logico all'estetico, nel dare all'astrazione funzione espressiva, nel ridurre a norma, a legge ciò ch’è semplice conseguenza d'un’elaborazione arbitraria sì, ma consentita dalla pratica esigenza di raggruppare sotto determinati concetti determinate parole. M’una volta ottenuti questi raggruppamenti,  è facile avvertirne l'utile pel rispetto  didattico dell'apprendimenti della lingua d’ITALIA, ossia de'cosidetti mezzi d'espressione. E le categorie Iinduistiche si mantennero anrhp contro la loro inconsistenza scientifica, a soddisfare a giella--pratica  esigenza nioltiplicate e suddivise secondo i vari punti di vista didattici, e è prevedibile ch’almeno entro certi limiti si manterranno, s'intende per quel mèdesimo scopo: e si manterranno anche l’altre parti della grammatica, fonologia, sintassi, metrica, ecc., sorte analogamente, perchè anch'esse potranno aiutare l'apprendimento della lingua d’ITALIA, la raccolta del materiale da ri-elaborare nell’espressioni. Assolutamente necessarie il mantenerle, in fondo, non  sarebbe\ perchè a fornirci del materiale linguistico, può bastare  ascoltare chi parla, cioè a dire, studiare il discorso vivo, realmente parlato, senza tagliuzzarlo; ma, certo, alcuni raggruppamenti, specie delle forme flessive, di famiglie di vocaboli, di particelle relative, nonché avvertimenti sull'uso e i nessi delle parti del discorso, saranno sempre utili rome aiuti alla memoria, e più, s'intende, pelle  lingue straniere che pella materna. Lo studio degli  schemi grammaticali in tutta la loro esuberanza e varietà è dubbio che possa riuscire al proposito molto fecondo. I limiti qui sono segnati dalla pratica dell'insegnamento e dai bisogni individuali degl’auto-didatti. Ma nei libri dei grammatici non v'è  solo questo contenuto didattico, solo escogitazione d’espedienti, solo metodo. Tentativi, spesso vani, di razionalizzare l’empiriche  distinzioni; crubbi, spesso generatori d’affermazioni e intuizioni ragionevoli; confessioni spesso ingenue, e pure importanti come prove di stati di coscienza ch’hanno disposto alla scienza, se la tradizione non avesse così fortemente prepotuto; contradizioni che sarebbero state preziose, ove fossero state in tempo avvertite; ribellioni improvvise e reazioni a regole state generalmente accettate, questi e altrettanti documenti di progresso non mancano quasi mai anche in grammatici inerti, ripetitori di travamenti altrui. Insomma, nei libri de’grammatici appare una linea di progresso sui generis, il  jDrogTgssxi cibila, dissoluzione, il progresso della morte. E sotto questo riguardo ognun vede quale e quanta importanza acquisti subito lo studio d’essi, e come un tale studio  ri-entri nel dominio diretto della storia del pensiero e dell'arte. Si tratta di vedere come dalla grammatica empirica si passa alla grammatica filosofica e da questa all’estetica. È il medesimo interesse, la medesima portata ch’offre la storia della poetica. Che cos'è questa storia? È la descrizione di quel caratteristico processo per cui  la dottrina umanistica dell'imitazione, quale è plasmata  dal rinascimento italiano sulla poetica rediviva d’Aristotile nel LIZIO cristallizzata in regole dogmatiche, è dal classicismo italiano, gallo, britannico, riguardata prima sotto il rispetto dell'ingegno, poi di ragione, in fine di gusto, fino alla conquista romantica del principio critico dell'immaginazione creativa, ossia la storia d'una codificazione poetica completa e del suo progressivo e  totale disfacimento. Poetica e grammatica, disfacendosi dopo la loro evoluzione, mettono capo egualmente, toccando a lor volta e ciascuna ne'propri limiti e gradi l'attività critica concreta e la letteratura stessa, alla filosofia dell'arte, all'estetica. Da questo punto di vista par che concepisse SANCTIS (si veda) una STORIA DELLA GRAMMATICA RAZIONALE, a giudicar dai tentativi  che compì in proposito quando s'è dato con vero fervore agli studi grammaticali, e dal disegno d'una grammatica filosofica intorno a cui si travaglia senza venirne a capo pella difficoltà che ne presenta l'esecuzione e la sua stess preparazione filosofica. Svolgendo, esercitando e scaltrendo il pronto e vivace intelletto, disposto da natura a ripiegarsi su stesso, nelle varie correnti filosofiche  predominanti al suo tempo, nelle larghe e intense letture di grammatici, nella pratica dell'insegnamento e nella scuola di Puoti di cui è insieme collaboratore, non tarda a ribellarsi alla grammatica tradizionale e ad accorgersi che in questo campo è tutto d’innovare. Con quello della grammatica che viene trattando, concepì l'ardito disegno d’una storia delle forme grammaticali rifacendosi  dall'antichità; ma pella sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce a tracciare una storia dei grammatici da lui letti, criticando dapprima quelli che tutto derivavano dalla lingua del LAZIO, poi gli studiosi della lingua, copiosi di regole e d'esempi, poi i galli, la cui grammatica ragionata non lo soddisface che a  mezzo, perchè sente che quel  ragionare la grammatica non è ancora la scienza. Che egli intuisse già che la risoluzione del tormentoso problema è nell'identificazione del FATTO della lingua coll fatto estetico, appare chiaramente da questa esplicita dichiarazione. Sostene che quella de-composizione di amo in sono amante l'incadavera la parola, Spingarn, La critica letteraria nel  rinascimento, Bari. SANCTIS (si veda), frammento  autobiografico, pubbl. da  P.  Yn.i.AKi,  Napoli; Scritti inediti o rari, pubbl. cur. CROCE (si veda), Napoli; e, sopratutto, i saggi nei saggi critici, Napoli, col  titolo “Frammenti di scuola.” sottrae tutto quel moto che le viene dalla volontà in atto. Si senteno quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeno in tutta buona fede quell'uno  che dove oscurare i galli e irradiare l'Italia d’una altra scienza. E in verità in sostene che la grammatica non è solo un'arte, ma ch'è principalmente una scienza: è e dove essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per lui ancora di là da venire. Non par dubbio che, se SANCTIS (si veda) avesse ripreso quel suo disegno di storia della  grammatica, l' avrebbe condotto dal punto di vista della critica, donde è condotto il saggio di T. Dato questo punto di vista è certo desiderabile fare, anziché la storia della grammatica della lingua d’ITALIA, quella della grammatica in genere, appunto secondo il disegno di SANCTIS [si veda]; e in Italia stessa, anziché limitarsi alla grammatica della lingua d’ITALIA, estendersi anche  alle costruzioni di grammatiche della LINGUA DEL LAZIO; e sarebbe stato anche bene congiungerla collo studio delle speculazioni sulla lingua, delle controversie intorno alla lingua ecc. Ma, senza dire che ciò abbiamo cercato di fare in parte, sempre quando il legame tra le dottrine grammaticali in genere, quelle costruzioni italiane e straniere e quello  studio e le grammatiche da noi  esaminate è strettissimo, essendo questo imprescindibile obbligo nostro di storici, a quel fine il materiale è vasto e ingrato, sì d’averci costretti per ora a studiare il solo svolgimento della grammatica della LINGUA D’ITALIA, la quale peraltro, non che riflettere in sé quasi con pienezza il procedimento di quella più ampia formazione, ce n’illustra la fase più interessante per noi, quella dello sfacimento, quella cioè della grammatica volgare, e di questa l'aspetto ancor più caratteristico, l'italiano. Poiché, mentre la grammatica, delle lingue classiche, sebbene connessa anch'essa a un sistema di dottrine poetiche, quello dell'antichità, e sbocciata da discussioni e per fini d'ordine logico, conserva pur sempre il suo carattere d’espediente didattico e ermeneutico pell'apprendimento della lingua e pella  interpretazione  degli  scrittori, per cui, non è sorta, m’erasi venuta  formando e l'avevano infine sistemata gl’alessandrini non senza ammirevoli tentativi di spiegarne filosoficamente le categorie, anche quando pretese concorrere alla formazione del perfetto oratore, come è specialmente presso i Romani; la grammatica volgare, non solo, perchè, nata col canone  dell'imitazione de'classici e strettamente congiunta colla poetica della rinascenza, che dove per suo fatale svolgimento soggiacere a  quel progresso di dissoluzione, ci permette di seguire un identico procedimento, tenendoci sempre in terreno scientifico per accompagnarci fino alle porte della scienza, ma, essendosi sviluppata quasi in compagnia e nel seno stesso delle letterature nel  periodo del loro maggiore fiorire, reca in sé più vivo e immediato il senso della lingua e dell'arte e quindi un più intimo e energico sforzo  di  conquistarne  e rivelarne il segreto; e la grammatica  dell'italiano, cioè della  letteratura più rigogliosa e più ricca di forme, tutto questo ci offre meglio che ciascun'altra delle lingue dell’Europa, perchè, a tacer d'altro, non solamente più varia e  complessa per luoghi e tempi, ma perchè, mentre congiunta col suo sistema, passa fuori d'Italia a plasmare il pensiero critico delle altre nazioni d’Europa, di queste poi e particolarmente della Gallia, segue alcuni grandi  indirizzi, come quello di Porto Reale e del razionalismo di H. P. Grice. Puo osservarsi, infine, che noi abbiamo parlato sin qui della grammatica normativa e non di  quella storica. Ma la grammatica storica non entra nel tema di T., perchè essa, sebbene adoperi gl’arbitrari schematismi grammaticali, ha un contenuto conoscitivo, e la storia d’esso rientra per tal modo nella storia dell'erudizione e delle ricerche storiche. E su- Parecchie delle definizioni ragionate d’Apollonio sono riprese interamente dalla grammatica generale del e continuano a esser  ammirate anche più tardi, Egger. Ma una grammatica filosofica nell'antichità non è neppur tentata. Pur consentendo con quanto dice BORGESE (si veda) nella  sua storia della critica romantica in Italia, Napoli, del carattere e degli spiriti dell’alessandrinismo umanistico, è facile riconoscere che la grammatica sorge e si sviluppa in condizioni più vantaggiose per i risultati scientifici che  non l'antica. L’antica si svolge in tempi di progrediente decadenza di pensiero e di coltura, quella in tempo di generale progresso. VOSSLER, Die Sprache als Schdpfum: nnd Entwickelunx,  Heidelberg. perfluo, peraltro, avvertire, anche qui, che non abbiamo trascurato d’occuparcene ogni volta che l'erudizione filologica muove da uno sforzo, T dice così, di sciogliere il problema  grammaticale, e si connetteva perciò intimamente colla grammatica  normativa: anzi, qualche volta, temiamo d’esserci inoltrati in questo campo troppo più in là che il tema di T. consente, come, p. es., a proposito di Castelvetro, la cui Giunta, di dominio certamente della grammatica storica, T. esamina con cura minuziosa. Ma l'eccessivo, se ci sarà, ci vede scusato; non tanto pel fatto che forse certe parti dell'opera di grammatici, come anche questa di Castelvetro, a non allontanarci dal esempio di T., non sono tenute nel debito conto neppur dagli storici, quanto pella considerazione che certi nuclei d'erudizione grammaticale-filologica, escogitati pel comodo pratico, interessano anche lo studioso della storia del costume e delle istituzioni scolastiche, alla quale abbiamo  pur sempre tenuto l'occhio e di cui T. da qui non poche linee. Sicché giova sperare che i lettori finiranno col  trovare nel saggio di T. più di quanto il titolo non  prometta, mentre, in fondo, nulla si pio dire superfluamente accoltovi che non serve ad illuminare l'oggetto che ne è l'argomento principale, e l'istesso punto di vista  al quale l'abbiamo considerato. La concreta e sistematica  compilazione delle regole della grammatica della LINGUA D’ITALIA è  insieme comune resultato di due degl’effetti prodotti sulla letteratura del rinascimento dal canone umanistico dell'imitazione de'classici della LINGUA DEL LAZIO DEI ROMANI, cioè, il culto e lo studio della forma esteriore e lo sviluppo della critica applicata o pratica, e conseguenza non ultima della trionfante  difesa del VOLGARE – tedesco, volgare, lingua d’ITALIA -- di contro alla LINGUA DEL LAZIO, ch’è a sua volta presentimento dell'importanza che nella coscienza assume definitivamente e vigorosamente la  lingua della NAZIONE d’ITALIA: prodotto, dunque, di due diverse tendenze, di due diversi indirizzi, il classico e il romantico. Né le sono estranee talune condizioni della  vita sociale, la diffusa cultura, p. es., e, in particolare, il sentimento della bellezza e della grazia, se non della gravita – Trudgill, Italian is the most beautiful language – ch’esige anco un'eloquio ornato e polito. Spinti dal bisogno di giustificare criticamente 1'immensa letteratura fantastica che il ri-fiorire degli studi ritorna alla luce e all'ammirazione, gl’umanisti, superando le dottrine  poetiche del Medioevo che suonano sprezzo o condanna della poesia, e procedendo di superamento in superamento, passando cioè attraverso le concezioni della natura della poesia in termini prima di teologia, poeta theologus, poi d’oratoria, poeta orator, poi di rettorica e filologia, poeta-rhetor e philologus, finirono col restituire la loro indipendenza d’ogni funzione allegorica ai  prodotti  dell'immaginazione e col rimettere la poesia al posto che le spetta nella vita e nell'arte, giungendo così insieme a riconsacrare la bellezza classica e a proclamare come base estetica della letteratura l'imitazione dei classici: quindi studio dell'artificio della poesia classica, quindi ricerca di principi e regole pratiche pella più perfetta  imitazione, e, tra queste,  anche le grammaticali. D'altra  parte, il VOLGARE – tedesco, volgare --, il che vuol dire la nostra gloriosa tradizione, non mai del tutto negletto pur nel periodo più febbrile e intemperante della indagine erudita sull'antichità classica, è venuto levando audacemente il capo sopra il sentimento stesso del proprio valore. Già l'umanesimo stesso non è mica, che non puo essere, ri-sorgimento, re-incarnazione dello spirito  classico: tutta la vita medioevale non è vissuta indarno e non se ne potevan con un tratto di penna cancellare non dice T. le tracce, ma gl’effetti sullo spirito!/ moderno: che è anzi essa se non ROMANESIMO, nella sua sostanza incorruttibile, più che non fosse o potesse essere il soffio inane onde si voleva ravvivare un presunto cadavere? E poiché quella vita è espressa in opere volgari  come la divina commedia, il decameron, il canzoniere, e ora ad altre correnti spirituali, alla dottrina e alla speculazione si vede pure che IL VOLGARE – tedesco, il volgare --  è più che bastevole, il difenderlo dove ben apparire vittoria sicura, l'affermarne la virtù un dovere, e un diritto l'estendere anche ai suoi precedenti monumenti letterari il canone dell’imitazione: i nostri massimi  fiorentini dovevan valere quanto i classici di ROMA: quindi studio e osservazione della loro forma esteriore, applicazione pratica delle loro regole: quindi anche grammatica volgare. Questo processo, d'intuitiva evidenza specie per chi tenga presente la storia della poetica del ri-nascimento, ci spiega esattamente il contenuto e le fogge della PRIMA GRAMMATICA, i germi in sé  concepiti del suo svolgimento, dice T  anche la sua mossa e il punto di partenza nel tempo e nello spazio. Vossler,  Poetische Theorien in  der  italienischen  FrUhrenaissance, Berlin. Spingarn. A renderne più convincente la dimostrazione, ci soccorre, per buona fortuna, un documento molto interessante, che ri-entra poi per sé stesso e proprio qui all'ingresso del nostro cammino, come  oggetto diretto della storia di T.: quelle regole della volger lingua fiorentina, che si trovavano manoscritte nella libreria medicea, e di cui T. pubblica il testo secondo una copia ricavatane conservata nella biblioteca vaticana, cod. vat. reg.. Codeste regole, come ben appare non solo dal titolo ma dal proemio e da tutta l'operetta, sono fondate con piena coscienza sull'uso vivo fiorentino,  mentre la prima grammatica italiana che viede la luce, Fortunio,  Bembo, ha il suo fondamento negl'imitandi  classici, che per i volgaristi sono quel che pegli’umanisti CICERONE e LIVIO. Basta questo fatto a dimostrare che la prima grammatica italiana ha la sua origine in quel movimento umanistico che consacra il  principio dell'imitazione dei classici ed è perciò connessa colla  poetica del ri-nascimento; muove cioè, quel che più importa osservare a T., verso il suo intento precettistico d’una spinta dice T. così estetica o, in qualche modo, d'ordine scientifico;  mentre la grammatica vaticana è, non solo espres- [MORANDI (si veda), Il primo vocabolario e la prima grammatiche della nostra lingua, Antologia. Sensi, Un libro che si crede perduto, ALBERTI (si veda) grammatico, in  //  Fanf. d. Dom. Al  Cian,  che nel suo bel saggio su Bembo, Un  decennio della vita di Bembo, Torino, dubitando della possibilità di ritrovar il libretto catalogato nell’inventario della libreria medicea, manifesta rincrescimento di non poter sapere che cosa sono quelle regole della lingua fiorentina, sfugge forse la segnalazione che della copia vaticana d’esse fa  Torri nell'edizione dell’opere minori d’ALIGHIERI (si veda), Livorno, sbagliando, però, come avverte Morandi, a cui non è sfuggita, nell'aftèrmare che l'originale senza dubbio appartene a Lorenzo de’MEDICI (si veda), Duca d'Urbino, quando invece l'avvertenza del copista, Sumptum ex bibliotecha  L. medices Romae anno  humanatj Dej. Decembris ultima exactum va riferita a  Lorenzo il mgnifico, Leon riscatta dai frati di San Marco in Firenze e fatto portare nel suo palazzo in Roma la biblioteca paterna. Ne è punto da dubitare che questa copia fatta in  Roma e passata da Bourdelot a sione d'un bisogno pratico già sentito in un momento di decadenza del volgare sotto l' irrompere della cultura umanistica e pel quale si collega perciò a quel particolare movimento in favore del volgare che culmina col certame coronario, ma specialmente dimostrazione e applicazione, fatte con fini polemici, d'un altro principio teorico di grande importanza, primamente scaturito dalle discussioni coeve sui rapporti tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare. Mentre,  pertanto,  Xe^Jl regole di FORTUNIO (si veda) iniziano uno svolgimento che dura, per un rispetto,  ne concludono un’altro, di cui si potrebbero rintracciare i lontani precedenti nell'insegnamento de'dettatori di BOLOGNA e nell’elevate cure spese dall'ALIGHIERI (si veda) a vantaggio del volgar materno – Brook, Potter, Our mother tongue. Per ciò che concerne poi la motivazione critica, tra l’inedita grammatica vaticana e la prima nostra grammatica edita, per T. è quasi una soluzione  di continuità, se con quella non è congiunta d’una comune coscienza dell'importanza della lingua della nazione d’ITALIA, che è in se insita; e se volessimo trovarle una continuazione, meglio che riallacciarla colla grammatica dei toscani, Giambullari, che non è eseguita secondo i  principi pur additati da Gelli, dovremmo scendere addirittura alla  grammatica di MANZONI del Cristina  di Svezia, e quindi alla biblioteca vaticana, dove si trova in principio del cod. reg., a  ce., non è una copia dell'originale mediceo che col titolo di Regule lingue fiorentine, o di Regole della lingua  fiorentina, si trova indicato in tre esemplari dell'inventario d’essa Libreria, compilato, e da PICCOLOMINI (si veda) dato in luce, Arch. stor. Hai., Morandi. Il cod. che consta d’una raccolta  di codicetti diversi, contiene anche il  trattato d’ALIGHIERI,  DE VVLGARI ELOVENTIA, che appartenne a Bembo, e col quale la grammatichetta  scambia la guardia: infatti la guardia che precede il trattato dantesco reca Della THOSCANA SENZ’AUTTORE, e  davanti alla grammatichetta vi son due guardie, una delle quali reca sul recto Dante della Volo. Lino, e l'altra sul verso  Dantes de Vulgari  [diomate. Cir . Il trattato De vulgari eloquentia cur. R.AJNA,  Milano. È curioso che la grammatichetta sia venuta a trovarsi congiunta coll'insigne operetta di Dante copiata per Bembo, che quella grammatichetta non dove  mai vedere e ne dovette anzi ignorar  l'esistenza. uso vivo fiorentino. La nostra tradizione grammaticale benché resti sempre vero quel ch’è  osservato da Morandi: aver i letterati italiani in certi intervalli sostenuta la tesi di MANZONI (si veda), è classica, vale a dire fu dominata soprattutto dal principio del classicismo, che doveva necessariamente disfarla. E si potrebbe aggiungere, se fè il caso di discorrere di ciò che non avvenne, che la grammatica normativa avrebbe forse alla pratica rtsi maggiori servizi, s’avesse continuato nella forma e cogl'intenti  della grammatica vaticana, certo assai più consoni e praticamente utili a quell'esigenza pella quale è giustificabile, l'apprendimento della lingua. Ben diversa è la spinta teorica della grammatichetta, che l’assegna, sia rispetto ai suoi precedenti letterari, sia rispetto alle prossime produzioni consimili, un posto a sé, dandole una singolare importanza, assai maggiore di quella che possono  avere le prime grammatiche del classicismo, che non nacquero con un problema proprio, ma sono nutrite dello spirito che alimenta tutta la poetica. Sia o no d’ALBERTI (si veda), nel qual caso è da riportare indubitatamente di là dall’anno del De componendis cifris in cui ALBERTI (si veda) vi accenna come ad opera compiuta, la grammatichetta vaticana è senza alcun dubbio da  riconnettere all'azione che Alberti stesso ed altri degni di lui promossero in favore del volgare: tanto essa rispecchia il carattere delle dispute linguistiche ch’agitano i dotti, e tanto strettamente è congiunta con quella che ha a campioni Biondo e Bruni. Que’che affermano, questo è il proemio della grammatichetta, la lingua latina non essere stata comune a tutti e'populi latini, ma solo  propria di certi dotti scolastici, come hoggi la vediamo in pochi; credo deporanno quello errore, vedendo questo nostro opuscholo, in quale io racolsi l'uso [Sensi  sostiene che è d’Alberti, per molte somiglianze di pensiero e di forma che ha con passi dell’Operette morali e perchè è ben degna dell’alte vedute di quella niente altissima. Ma Morandi, ch’attende a un nuovo studio intorno  alle prime grammatiche e ai primi vocabolari, m’usa la cortesia d'avvertirmi ch’Alberti è d’escludere, e ch’è da pensare ad altri, accennandomi i nomi di Pulci e, nientemeno, di VINCI (si veda).] della lingua nostra in brevissime annotationi: qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi presso a’Latini: et chiamorno queste simili ammonitioni, apte a scrivere e favellare senza  corruptela, suo nome della LETTERATVRA. Quest’arte quale ella sia in la lingua nostra, leggietemi e intenderetela. È precisamente Bruni quegli che sostene essersi usate in Roma due lingue nettamente distinte, l'uma delle scritture e de'pochi dotti, l'altra comune a tutto il volgo, il quale non avrebbe inteso un'orazione forense o una commedia più che non intenda la messa, e non sa  ammettere che le femminette riuscissero a esprimersi naturalmente in una forma grammaticale, morfologica e sintattica di difficilissimo acquisto pei dotti di professione. E non ad altri ch’a Bruni e a suoi seguaci risponde Alberti quando altrove osserva. E dicono non potere credere che in  que'tempi le femmine sapessero quante cose oggi sono in quella lingua del LAZIO a molto e ben  dottissimi difficile e oscure. E per questo concludono la lingua nella quale scriveno i dotti essere una quasi arte ed invenzione scolastica piuttosto ch’intesa e saputa da molti. Ma questa è precisamente l'opinione di Biondo, a cui si deve appunto la scoperta e l'affermazione d'un fatto inchiudente quell'importante principio teorico che presede alla compilazione della grammatichetta  vaticana: uno de'non molti principi teorici di grande importanza critica pella nostra storia, che siano stati asseriti in tutto il nostro periodo grammaticale avanti il sorgere della critica della grammatica con BORDONI Scaligero e Sanzio e Portoreale. BIONDO (si veda) ha solo di recente la meritata giustizia. mentre a BRUNI (si veda) sono d’assai tempo tributati i massimi onori come a  un felice indicatore dell’origini del nostro volgare. L'oggetto della discussione avvenuta nelle anticamere pontificie tra i segretari della curia, presenti Lusco, Romano, Fiocchi, Bracciolini, Biondo e Bruni e che è poi trattata per iscritto In SENSI. Cfr. anche Rossi, Il rinascimento, Milano. D’un infelice quanto valoroso nostro corregkmario troppo presto rapito agli studi, MIGRIMI (si veda) di Perugia, il quale ri-stampa nel Propugnatore con da Biondo nel De locutione romana, da Bruni noli' Epistole, dal Poggio nelle Historiae convivales disceptativae , da Filelfo Ep. e d’ALBERTI (si veda) nel proemio al libro della famiglia, era stato il seguente, così definito da Biondo stesso: materno ne et passim apud rudem una lucida prefazioncella l'epistola di Biondo a Bruni De locutione romana, sempre rimasta alla sua edizione principe. Credo dì poter indicare come e per qual via fosse condotto Biondo a toccare il problema della lingua volgare e romana. Al tempo d’Eugenio, Roma è talmente rumata, che dieci altri anni, dice Biondo in una lettera al pontefice restauratore, premessa alla sua Roma instaurata, che ne foste stato absente, essendo ella già e per la sua antichità, e pelle tante passate affìitioni, mezza  minata, di certo, che la ne sarebbe del tutto ita per terra. Come il papa intese a restaurare con tanta liberalità e larghezza la città eterna, Biondo s'è dato a rinfrescar nelle memorie degl’uomini la notitza degl’antichi edificii; anzi delle mine, ch'ora si veggono nella città di Roma già capo e signora del mondo; ma  specialmente l'ha mosso l' ignoranza ne'secoli a dietro delle buone lettere, tale e tanta, che quel poco che si sa degl’antichi edifici,  è tutto con false e barbare voci sporcato e guasto. E con quest'animo s'è messo alla nobile fatica: Porrò dunque mano all'opera con speranza che i pochi hanno a giudicare, se la chiesa ed il palazzo di San Pietro, e di San Giovanni in Laterano riconci, e per  lo più rinovati, e se le porte di bronzo fatte alla chiesa di San  Pietro, e le riconcie mura di Vaticano, e di borgo, colle strade della città  rifatte, habbiano ad esser più stabili, ed a durare per più  tempo, per questa via d'opera di calcie, di pietre, di bronzo, che pella via delle lettere della scrittura: e medesimamente s'io m'habbia possuto co'1 rozzo stile imitare e giugnere niente a così belli  lavori con tante dispese fatte. Come degl’edilìzi, egli dunque dove osservare la corruzione della lingua, e attribuirne la causa alle medesime incursioni barbariche. Questa è la manchevolezza della sua tesi; ma, se nell'additar la causa dello scadimento Biondo erra, la materia di cui parla è però quella che veramente soggia all'evoluzione e s'è  tramutata nel volgare. Mi son giovato della  versione fatta da Fanno delle due opere di Biondo intorno a Roma e all'Italia, perchè essa, riprodotta in più stampe, ci spiega come il De locutione romana, edito primamente in fine alla Roma instaurata, non vede poi mai più la luce, non avendo seguito nella versione l'opera maggiore. Roma ristaurata, ed Italia illustrata di Biondo da Forlì. Tradotte in buona lingua volgare per Fanno, Venezia, i  ed.  Mehus. iS indoctamque multitudinem aetate nostra vulgato idiomate, an gramaticae artis usu, quod latinum appellamus, instituto loquendi more Romani orare fuerint soli. Bruni, che concepisce la grammatica non crede possibile ch’il popolo inflette nomi e verbi, quasi che, dice Mignini, la regolarità non è stata allora e poi assolutamente ex casti: sostene perciò esistere  una differenza sostanziale tra LA LINGUA DEL LAZIO de'dotti e il popolare, come tra due lingue diverse, né più né meno come tra LA LINGUA DEL LAZIO e il volgare d’altri tempi. I contemporanei magnificarono l’idee di Bruni, quasi dimostra l'origine del volgare: ma Bruni, come ben vede Mignini, fa solo una questione preliminare a questa, e la conclusione che ne scaturisce  logicamente è che la lingua volgare non  deriva  dalla LINGUA DEL LAZIO volgare, essendo state sempre immobili e inalterate le due lingue dei latini, la degl’OTTIMATI  e la plebea: LA LINGUA DEL LAZIO volgare o plebea per Bruni non è il padre della lingua volgare d’ITALIA, ma è questo stesso sempre vivo e verde e inalterato, senza che né le mutazioni naturali della  lingua,  né quelle delle popolazioni italiane avessero avuto su esso, la minima influenza. Biondo invece sostene che tra le due lingue non c’è differenza sostanziale: la differenza è solo di forma, prodotta dall’educazione domestica, dalla cura e dalla riflessione degli scrittori: e se non la deduce dall’iscrizioni e solo dalle testimonianze degli scrittori latini, ha però sempre di mira la reale condizione  della lingua degl’OTTIMATI e  popolare sotto I ROMANI, e non fa per suo conto, come parve a Schuchardt, una questione nominale. Ma quel che per noi vale assai di più è che, mentre sin allora la grammatica è stata concepita, come ancora Bruni la concipisce, una serie di regole stabilite a priori e per sempre, e quindi una lingua del tutto artificiale e immutabile, Biondo invece  avverte anche nella lingua popolare romana una sua propria regolarità, distinta naturalmente da quella che deriva dalla riflessione e dall'arte congiunta a quella che viene dalla natura. Egli voleva che ai suoi avversari questa risposta soddisface: nec naturae ac bonae consuetudinis munere regulas indoctam multitudinem scivisse, quibus grammaticam orationem omni ex partem congruam  i.m eret, ncque etiam tam longe a variationibtfs inclinationibusque et reliqua grammaticae orationis compositione illius latinitatem abfuisse, quin litterata, qualem mediocriter aetate nostra docti habent orario et videretur et esset. E una speciale regolarità venne a riconoscere conseguentemente nella lingua volgare de'suoi tempi, ponendo così il principio teorico della  possibilità d'una  grammatica del volgare, in parole ben chiare: omnibus ubique APVD ITALOS CORRVPTISSIMA etiam VVLGARITATE loquentibus idiomatis natura ìnsitum videmus, ut nemo tam rusticus, nemo tam rudis, tamque ingenio hebes sit, qui modo loqui possit, quin aliqua ex parte tempora casus modosque et numeros noverit dicendo variare, prout narrandae rei tempus ratioque videbuntur  postulare. Questa regolarità, osserva benissimo Migninij insitam idiomatis natura, è il primo Biondo, che io sappia, a notarla, e dopo di lui ripeteno l'osservazione Filelfo, Ep., ed Alberti, Proemio. Si fa così un'ottima correzione alle dottrine grammaticali, e insieme si muove un primo passo verso gli studi grammaticali sulla lingua volgare, impossibili a farsi, finché questa si crede  assolutamente ex casti. Tante vero che, è Alberti o altri, certo è un seguace di Biondo quegli che muove il secondo e ultimo passo e compone la grammatichetta vaticana, fondandola sull'uso vivo di Firenze. Ed è questo che distingue profondamente il significativo libretto dalla grammatica di Fortunio e la di Bembo, cioè il principio informatore: quello scaturisce dalla riconosciuta  regolarità insita nel volgare, cioè d’un chiaro principio che ammette la possibilità della legiferazione grammaticale; queste, sorte quando ormai la causa del volgare è vinta per quella via, cioè colla forza ch’esso stesso reca in sé e che non è se non la vita della nazione d’ITALIA, e quando è inalzato teoricamente al medesimo grado di nobiltà e di perfezione della LINGUA DEL LAZIO  e quindi la possibilità di regolarla non si puo più affacciar come discutibile, sono create col prin- [ed. Mignini. Nel discorso o dialogo, attribuito a MACHIAVELLO (si veda) MACHIAVELLI, dove pella prima volta avanti le regole  di FORTUNIO (si veda), e dopo, s'intende, il movimento che s'accentra nella grammatichetta vaticana, si discorre dell’VIII parti del discorso nella lingua  fiorentina, non è traccia alcuna di dubbio che codesta lingua non puo esser trattata grammaticalmente come la lingua del LAZIO. Si noti peraltro che Machiavelli in tanto parla di regolarità, in quanto ha cipio dell'imitazione, senz’alcuna coscienza del problema scientifico insito in questo prodotto pseudo-scientifico che è appunto la grammatica. Certo, senza un grande amore pel volgar  nativo, cioè senz’aver della letteratura un caldo sentimento di grandezza, quel riconoscimento di Biondo non basta a crear la prima grammatica, anche a non considerar che, s’egli una certa regolarità tutta sua, insita, naturale, gliela riconosce, non credo la ritenesse tale d’esser presa a modello: Biondo è un classico da quanto e più ancora di Bruni: bisogna veder nel volgare qualità  ancor  più nobili e virtuose, e d’efficacia e di bellezza, perchè si puo additarle, quasi classificarle e schematizzarle in una rassegna da porre di fronte alla nobile granitica della LINGUA DEL LAZIO, senza timore o vergogna veruna. Sicché, in sostanza, il classicismo viene anche qui a far valere i suoi diritti, come vedremo essere avvenuto in un problema consimile già agitato dalla mente  suprema d'Alighieri; ma il compilatore non puo esser ch’un estimatore convinto del volgare. Comunque, colla grammatica vaticana lo spregiato volgare viene, quasi di punto in bianco, come l'antica grammatica, inalzato all'onore di lingua  letteraria. Gli giova, s'intende, anche l'esser fiorentino, che non solo, per quei certi criteri formali che i credenti nella grammatica non possono non  far valere, è il più polito e sonante dialetto d'Italia, m’ha in suo attivo tutta la splendida tradizione letteraria antecedente. E certo quella pratica dimostrazione della regolarità del volgare dove valere assai meglio e più d'ogni e qualunque ragionamento in favore d’esso, e nel fiorentino  parlato viene così a essere specchiata la grammatica della lingua letteraria. Sul contenuto e il metodo d’essa, anche perchè  qui è integralmente riferita, non occorre dir troppe parole. Basterà ri in mente un'unità linguistica ben determinata, perchè, p. es., alla lingua della corte di Roma, d'un luogo dove si parla di tanti modi, di quante nationi vi sono, pensa che non se li puo dare in modo alcuno regola. Cito, col  Rajna, La lingua cortigiana, in Miscellanea linguistica in onore d’ASCOLI (si veda), Torino, dal  cod. orig. di Ricci, che è il Pai. E. B., io,ce. r.°  chiamar l'attenzione sull'uso didattico degli specchi, ordine delle lettere, e dei paradigmi, declinazioni e coniugazioni; sull'osservazione riguardante la nomenclatura, in molta parte identica a quella della grammatica della LINGUA DEL LAZIO; sugli accenni di grammatica storica, p. es. la formazione dei  nomi dall'ablativo latino; sugl’esempi che, come ha  già hen visto Morandi, sono concettosi e arguti. Su talune forme idiomatiche registrate come correnti -- savamo,  savate; eravamo, eravate --;  sui vitij del favellar, in cui si cade introducendo forestierumi o storpiando l'uso, e sulla dottrina dell'IDIOTISMO – Grice, idio-lect, idio-syncrasy]; sopra i richiami ad altri idiomi non italiani; sopra  il metodo di trattar non separatamente le forme e l'uso delle varie parti del discorso. Conviene anche notare poiché siamo davanti alla prima grammatica che de'nomi son fatte due sole declinazioni: masculini la cui ultima vocale si converte in i, femminini, la cui ultima vocale si converte in e, eccettuandosi “mano” che  fa  “mani”, e i femminini finienti al singolare in “-e”, che fanno al  plurale in “-i”;  e che i verbi son trattati più per paradigmi che per regole.  Quel che ci preme anche porre in rilievo è l'intento avuto di mira dal nostro autore nell'esecuzione, veramente felice perchè rapida e chiara, del suo trattatello, e il calore che  vi mette, tanto da farsene un merito patriottico, in altri termini il punto di vista donde ha raccolto le sue osservazioni. Egli intende sbozzare  la fisionomia grammaticale della lingua viva di Firenze, perchè dal confronto con quella della LINGUA DEL LAZIO, ne risultasse la bellezza e la perfezion dell'organismo: non è tanto intento precettivo quanto praticamente dimostrativo. Egli è tutt'altro che spregiatore della LINGUA DEL LAZIO,  di cui anzi accoglie la nomenclatura, gli schemi e adopera forme e nessi grafici; ma  sente tutta l'importanza e la virtù dell'idioma materno, che vorrebbe onorato di pari culto e maggiore. Sono da ricordare a questo proposito i rimproveri ch’Alberti dirige agl’umanisti che amano piuttosto piacere ai pochi  che cittadini miei, presovi, se presso di voj hano luogo le mie fatighe, riabbiate a  t^rado questo animo mio, cupido d’onorare la patria nostra, chiusa). giovare ai molti,  adoperando una lingua convenzionale e non la naturale intesa da tutti. Questi rimproveri ci richiamano facilmente alla memoria quelli più sonanti che l'autore del convito scaglia contro gli scelleratissimi che coltivano lo volgare altrui e lo proprio dispregiavano: né questo è ravvicinamento che fa per suo capriccio la memoria; perchè, evidentemente, tra, non  dice T. il  concetto filosofico,  ma l'interessamento pel volgare d’Alberti e quello d’Alighieri corre un intimo nesso, come la grammatichetta è, per un rispetto, ultimo anello d'una lunga catena che mette capo al primo  affermarsi del nostro volgare nella coscienza critica dei suoi primi studiosi: siamo insomma su quella linea della tradizione nazionale che congiunge appunto i dettatori di BOLOGNA e a quanti con  Dante coltivarono il volgare, ai difensori delle tre corone, ai propugnatori del volgare, tra i quali spetta ad Alberti il primo posto. Occorre appena avvertire che il più benemerito di tutti i rappresentanti di codesta tradizione, non solamente nella pratica ma anche nella teorica è Alighieri. Fosse un pensiero maturo, o un profondo presentimento, certo è ardito e degno della sua mente  altissima il concetto onde il volgare viene glorificato come sole il quale sorge ove  tramonta l'usato. Se il segreto intendimento di Dante è quello di far del volgare una  lingua come la lingua del LAZIO per detronizzar questo, è materia d’ardua discussione: indubitabile però è, quale dove esser la natura e la funzione del volgare così esaltato, che egli abbia voluto renderlo [Si ricordino  anche le fiere parole della nota protesta fattaci conoscere da Flamini e integralmente pubblicata da Mancini, Un documento del certame coronario di Firenze del  -//.  in Arc/t. si. il., S. 1  L'ha  forse già avvertito chi accozza  in un medesimo volume la grammatichetta attribuita ad Alberti e il trattatello dantesco? [Wesselofscky ha in brevi ma limpide linee indicato l'importanza dell'avvenimento della lingua italiana agl’onori della letteratura, e la parte che vi ha Alighieri, dal quale propriamente incomincia il ri-nascimento nel senso nazionale, da lui s'informa e da lui, piuttosto che da tutt'altro nome, noi vorremmo intitolare quel periodo che precede al ri-nascimento classico dei Medici. In Dante e Firenze di Zenatti, Firenze;/. per forza di lavoro crìtico e di  educazione artistica atto a ogni più elevata espressione d'arte e di pensiero. A codesta altissima meta, conseguita, è inutile l'osservarlo così eccellentemente nel fatto col poema divino l né altrimenti che nel fatto è conseguibile, poiché PARLARE È ESPRIMERE E ESPRIMERE E PARLAR BENE e bellamente, tende il magnanimo sforzo del De vulgari eloquentìa, che è o dove essere  \ix\ ars grammatica, rhetorica e poetica insieme sui generis. Che, sia pur affermato solo riguardo alla questione della lingua italiana, non vi si tratti di lingua italiana né punto né poco, che in ciò che è venuto fino a noi, e in ciò che ci manca, tutto s'aggiri intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia, è a torto  sostenuto da Manzoni, perchè bisogna non aver occhi per non vedere che non vi si parla e non vi si dove parlare che di lingua  e di  lingue e specie di lingue, le parole loqui, locutio, IDIOMA, Grice, idio-lect, idio-syncrasy, idio-tism, vi ricorrono da cima in fondo, e di lingua poetica e di lingua prosastica, e di lingua letteraria e di lingua parlata, inferiora vulgaria illuminare curabimus,  gradatim descendentes ad illud, quod unius solius familie propinili est;  ma che l'intento del trattato è precettistico non ne'riguardi del solo dire in rima, come manchevolmente intendeno e Capponi e Manzoni, che allega la testimonianza di Boccaccio, ma ne'riguardi d’ogni forma di dire e di comporre,  nessuno può ragionevolmente negare. Ciò si desume non solamente dallo stato  d'animo dell'autore che è, specie se messo in relazione con quello che si rivela nel Rajna, Il trattato De vulgari  eloquentia, lectura  Dantis, Firenze, e recensione d’un saggio di BELARDINELLI (si veda), La questione della lingua, ecc., in Bull. d. Soc. dant.; Parodi, Bull. d. Soc. dant.; Vossler, Die góttliche Komòdie. Entwickelungsgeschichte und  Erklàrung: religiose und philosophische  Entwickelungsgeschichte, Heidelberg, e Zingarelli, nella recens. di questo libro in La Cultura. Lettera ifitorno al De vulgari eloquio d’Alighieri, in  Manzoni, Poesie minori, lettere inedite e sparse, pensieri e sentenze, con note di Bertoldi, Firenze, Ed. Rajna. Mi son valso anche  dell'ed. minore, Firenze.  Prose minori. Convivio, di vivissima simpatia pel volgare, di trepido desiderio che  esso è la luce alle genti, e dal titolo che non può essere che De vulgari eloquentia, ma da più luoghi del trattato, ove quell'intento è esplicitamente asserito e dichiarato, e particolarmente nel primo paragrafo. Alighieri è mosso a scrivere dal vedere neminem de vulgaris eloquentie doctrina quicquam tractasse, che tale eloquenza è a tutti necessaria, osservandosi che perfino i fanciulli si sforzano di conseguirla, e si propone locutioni vulgarium gentìum prodesse, non soltanto attingendo alla fonte del proprio ingegno, ma accipiendo vel compilando ab aliis. Grammatici, retori, trattatisti di poetica è facile affermare che sono i suoi autori: e quando si vogliono cercar termini di paragone a misurare l'altezza della trattazione, il pensiero corre a grammatiche, metriche, Donatus proensalis, Las razos de frodar, a summe, Les leys d'amour, che sono appunto una grammatica, una rettorica e una poetica, e doctrive de compondre dìctats, ad Tempo, a Gidino, insomma a precettistiche e a precettisti: anche per quel libro  che non scrive, ma che si può matematicamente asserire dedica alla prosa ilhistre, il pensiero corre alle trattazioni concernenti LA LINGUA DEL LAZIO, che certo non è neppur concepibile che da lui si ricalcassero, come benissimo giudica chi tanto s'è reso benemerito degli studi sul trattato, ma che non sono se non trattazioni di rettorica e di grammatica. Trattar di lingua è dunque inevitabile, essendo quella la materia del discorso; ma fine è insegnarne non l'acquisto, l'apprendimento, sì bene un uso di maggiore o minor  grado artistico secondo le varie classi di parlanti, ma artistico, insomma un'espressione. Un intento siffatto, che è quello d'ogni arte poetica, è anti-scientifico, perchè l'espressione non s'insegna: ma lo sforzo che si compie per conseguirlo, può avere una portata scientifica: e grandissima  l'ha questo d'Alighieri, pella dottrina, l'acume, e la partecipazione interiore, che non è se non una  forte coscienza estetica, onde  l'ha compiuto, anche indipendentemente dalla cultura della sua età: sentire in quel modo così profondo, quale specialmente c’è svelato dal convivio, il volgar materne, vedasi specialmente il paragrafo dove si parla del naturale amore pella  i'i  Rajna,  Lect. nostra loquela, e sollevarlo nella teoria, con uno slancio d'entusiasmo non più avvertito tra noi, alla  medesima altezza a cui è stato o sarebbe stato portato nella pratica, e segnare le linee di svolgimento con mano così ferma e scultoria, questo è vero progresso scientifico d’un valore, starei per dire, anche più considerevole dell' altro di cui va egualmente superbo Alighieri, d'averci data cioè una descrizione storica del volgare romanzo, che pur ferma la maraviglia d'ogni grande filologo.  Perchè, come l'intendimento precettistico, così, sebbene sovranamente mirabile pell'uso che ne fa nel disegno del suo ideale artistico, anti-scientifica appare la concezioned’ALIGHIERI della lingua, della locutio: la quale in sé stessa non supera la scienza dell'età sua, che ha il suo fondamento  ella  Bibbia e nella lotta tra nominalisti e realisti riprende le discussioni dei sofisti, se la lingua  è per natura o per volontà. M’ALIGHIERI supera il suo tempo nel conciliare in un sistema solo la tradizione biblica e le teorie filosofiche, mettendo in rilievo lo stato originario della lingua, e quello che si determina dopo la torre di Babele; innumerevoli lingue variabili  continuamente d’una parte, e 1'artificiosa grammatica dall'altra. Il genere umano ha bisogno ad comunicandum inter  se conceptiones suas di un rationale signum et  SENSVALE [Croce, Estetica o Aesthesis – SENSIBILIA] in quantum sonus est; rationale in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur AD PLACITVM, cioè SECONDOLA RAGIONE DALLA QUALE L’UOMO è mosso. Di quel SEGNO il primo uomo è dotato da Dio, ed è quale è richiesto dalla perfetta natura umana, cioè perfetto. In  vero, anche a non prescindere da questo che è poi un atto di fede, a stare alle parole [Vossler,  Die góttliche  Kòmodie, illustra in modo molto evidente quanto acuto questo disegno, seguendo il pensiero linguistico-filosofico d’ALIGHIERI dal suo primo sbocciare nella vita e nel convivio all'altezze del De vulg. E.., donde tuttavia non scopre il mistero delle terzine volgari della  Commedia. L’idee d’ALIGHIERI circa la voce e la parola, come suono, s'accordano più particolarmente coi due grandi espositori scolastici del LIZIO: Alberto ed AQUINO (si veda). Busetto, Saggi di varia psicologia dantesca, Giorn. dant., Pratom Toscana. Alberto definisce la voce percussio respirati aeris ad arteriam vocativam ab anima per immaginationem aliquam eam formantem,  quae est in partibus illis quæ ad respirationem congruunt. Vossler.] che ALIGHIERI (si veda)  adopera e al tono di tutto il discorso, pare lampeggiar qua e là quasi un vago concetto della sintesi interna di pensiero e parola, come quando dice certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse; e già quell'esaltare la lingua come una dote data all'uomo perchè se ne  gloriasse ipse qui gratis dotaverat, eia facoltà divina che è in noi per cui actu nostrorum affectuum letamur, ci suscita l'idea d'un atto spirituale meglio che naturale e meccanico – H. P. Grice contro C. L. Stevenson – “mean” in scare quotes --; anche la prossimità, affermata nel convivio tra la lingua volgare parlata e LA PERSONA CHE LA PARLA – H. P. Grice, utterer’s meaning --,  ci spinge verso quella intuizione; così ancora, per addurre altri indizi, se non argomenti, quell'insistente relazione posta tra la irriducibilità del volgare a regole fisse e la mutabilità e variabilità dello spirito umano; il cenno della qualità della prima espressione che l'uomo preferiscee PROFERISCE avanti il peccato, la similitudine posta in Convivio tra la lingua e la bella donna, insomma  l'enfasi onde il poeta parla della parola umana; ma nel fatto la lingua è poi sempre concepita come SEGNO,  cioè un'esteriorità di cui la mente si giova per manifestarsi: quella certa forvia è tale quantum ad rerum vocabula, et quantum ad vocabulorum constructionem, et quantum ad constructionis PROLATIONEM, ed è la lingua che parlano Adamo ed il genere umano tutto prima  della confusione delle lingue, e che rimase poi al popolo ebreo, la lingua che, dopo la confusione,  riprodussero appunto artificialmente gl’inventores grammaticae facultatis, vale a dire la grammatica: una lingua dunque grammaticale, stereotipata, beli' e formata, non producibile, ad ogni espressione del pensiero. Con questa concezione della locutio e la nozione storica de'vari ydiomata che  tutti ammiriamo e il fine che s'è dichiarato, Dante continua a svolgere il suo trattato, che conduce fino al  principio  del seguente libro colla dottrina del volgare illustre applicata alla poesia: nel terzo, in immediatis libris, avrebbe detto del medesimo volgare applicato alla prosa, come s'è visto potersi con sicurezza congetturare; nel [Vossler già avverte che come poi questi dotti ottenessero questa grammatica, Dante non dice; e che d'altra parte grammatica non è solo LA LINGUA DEL LAZIO, per Dante, ma anche qualche altra lingua] quarto ^a un dantista veramente egregio, Zingarelli, nella recensione fatta nella Cultura) dell'opera cit. di Vossler,  Die  góttliche  Komòdie.  Vossler riprende la tesi ch’è già in germe nelle parole del Rajna {Lect.. Il volgare dunque  s’incammina a insediarsi dove sta LA LINGUA DEL LAZIO, o almeno accanto a lui; e per insediarvisi non solo, che è poco, ma potervi rimanere, gl’occorreranno in misura non troppo scarsa le doti di stabilità e universalità che LA LINGUA DEL LAIO ed ogni grammatica possiedono, e che sono inconciliabili con una parlata qualsiasi. Conseguibili non sono per Dante altro che da  una lingua fabbricata, e uscita dall'accordo di molte genti diverse, quale appunto egli crede essere LA LINGUA DEL LAZIO. E di certo, mettendo da parte la stabilità, che verrà a resultare di conseguenza, nulla pare poter rendere più agevole il consenso d’una moltitudine d’eteroglossi in una forma sola d’una lingua, che l'estrarre quella forma da tutti, in cambio di prenderla da taluno  e volerla imporre agl’altri. Si pensi ai tentativi di lingua universale, e che Parodi aveva accolta, dichiarando esplicitamente che,  insomma, Dante intende fondare una grammatica, Bull. d. Soc.  datit. Zingarelli sostiene che questo puo essere un presentimento profondo,  ma  non un pensiero, non un proposito recondito, a insegnar reg. di lingua. Rajna.]dizione di critici che ebbero del  idioma una piena e profonda coscienza, cioè della tradizione nazionale di contro alla classica; ma anche primo e non meno elevato rappresentante dell'altra ch’intende a rinnovarsi nell'imitazione dei classici: nella prima veste si ricongiunge all'autore della grammatica vaticana, ai toscani, a Manzoni; nella seconda a Bembo e alla lunga tratta de'suoi seguaci classicisti: capo e propulsore  delle due correnti in cui s’estrinseca lo spirito italiano nella critica letteraria, maggiore di tutti, come accade d'essere ai grandi, del suo tempo, per originalità e vastità di siero e mirabile accordo di facoltà. Ma con Dante il germe della grammatica italiana sboccia e avvizze, appunto perchè nessuno ebbe al pari di lui la coscienza della letteratura, e la comune concezione della lingua e  della grammatica e il germogliare dell'umanesimo sull'istesso tronco spezzato dell’altissima letteratura assicurano ancora alla lingua del LAZIO il predominio sul volgare come lingua della scienza e della coltura. Perfino Petrarca e Boccaccio, che pur tennero alla loro arte volgare quanto se non  più che alla lingua del LAZIO, rimaneno tutti estra Dante alimenta la contesa tra umanisti  e difensori del volgare; il suo spirito aleggia nei sostenitori del volgare che promuovono il certame e nell'autore della rammatichetta; col trattato De vulgari eloquentia sono connesse le prime nostre contese ortografiche e tutta, in genere, la questione della nostra lingua ne'suoi momenti più  salienti a  Manzoni. Bembo e Trissino d’ORO (vedasi), in fondo, non eseguirono ciascuno un  piano identico a quello di Dante? La dimostrazione data per Petrarca dal Cian {Nugellae vulgares  f  questione di Petrarca, in La Favilla di  Perugia, ciie cioè il nostro maggior lirico tenesse tutt'altro che in conto di Nugellae le sue Rime, si può ripetere  e me ne avverte  il Cian stesso per Boccaccio con eguale certezza. Che la’ecloga di PETRARCA sia una disputa intesa a dimostrare la  superiorità della poesia italiana sulla di quella della GALLIA  esclude  E.  Carrara Giorn. st. d. leti,  it., e conviene con lui Busetto,  PETRARCA (si veda)  satirico e polemista in  Padova in onore di  F.  P.,  Estr.  Padova. Boccaccio anche nell'esposizione in volgare della divina commedia, dove avrebbe potuto esser tratto facilmente a osservazioni anche di forma esteriore, non va oltre  la spiegazione di singoli boli, rimanendo sempre sotto l'influenza delle sue dottrine poetiche. Difende calorosamente Dante dell'aver poetato in volgare piuttosto nei a un qualsiasi movimento coscientemente teorico in favor dell'idioma nativo. Quel che si fa in questo per tutto il territorio romanzo, è diretto a intenti puramente pratici, di grammatica in servizio della poetica o degli  stranieri, di vera e propria metrica, di rettorica in servizio dell’epistolografìa, della notaria, e di chi dove tenere parlamenti e dicerie. Il Donatz proensal, composto da Faidit  prima in Italia a richiesta di Morra e Sterleto e tradotto anche nella LINGUA DEL LAZIO  per maggior utilità degl’italiani, è un ri-calco sull’Ars minor di Donato. Senz'accennar a teorie linguistiche, né a scopi  speciali, comincia subito a trattar dell’VIII parti del vulgar proensal, nom, pronom, verbe, adverbe, particip, conjunctios, prepositios, interjecios, e si chiude con un rimario abbondantissimo, De las Rimai. Qui il vulgar proensal è trattato come una lingua letteraria, come una grammatica pegl'italiani, quale dove appunto apparir loro la fiorente letteratura provenzale: è insomma il  provenzale letterario, anzi poetico, classificato e chiuso negli schemi della grammatica della LINGUA DEL LAZIO pell'apprendimento degli stranieri. Certo quel poterlo cosi trattare come la grammatica dove ben valere a dimostrare che dunque anche gl’altri volgari, non esclusi gl’italiani,   che nella lingua del LAZIO, non solo col criterio della fama, ma anche della bellezza e virtuosità  del volgare,  Zenatti, Dante  e  Firenze: eppure della regolarità del volgare neppur un cenno. Pe'più il volgare è una lingua dispregiata, e Boccaccio ricorda che appunto quella è la caligine sotto cui rimane nascosa la luce del valore di Dante, Dal Commento,  ed.  Zenatti,  Roma. E ragion vuol che si dica che, se Boccaccio aveva difeso, meglio di Petrarca, la poesia, perchè non aveva  fatta differenza tra la lingua del LAZIO  e la volgare, commentando la  divina  commedia concede, sia pure per non inasprire gl’avversari, che s’Alighieri avesse poetato nella LINGUA DEL LAZIO col l'eleganza onde tratta il volgar materno, avrebbe senza dubbio fatto opera più artificiosa e sublime; e con quest'opinione veniva tra poco a concordanza un altro ammiratore del poeta, Salutati \Ep., ed. Movati. Sull'attività critica ch’accompagna il sorgere della letteratura nazionale è da vedere La Critica  letteraria dall'Antichità  classica, di Bacci, Milano, alla quale T. rimanda anche per altre notizie di circostanze e fatti aventi qualche relazione col suo argomento. potevan esser ugualmente trattati, e non avremmo così dovuto aspettar Biondo perchè tosse intravvista  e riconosciuta una certa regolarità nel nostro idioma: pure all’ipotesi d'una  grammatica italiana non si venne. Las razos de frodar sono anch'esse una  grammatica, ma in servizio delle forme poetiche, e, appunto perchè nate in suolo provenzale, non eseguiscono tutta intera la trattazione grammaticale e contengono dichiarazioni simili a quelle dei primi nostri grammatici che, avendo  ancora in mente LA LINGUA DEL LAZIO e credendo molto fosse il conoscerla, dicono non esser necessario svolgere questa o quella categoria o esemplificazione. E notevole altresì che vi si trovano considerazioni intorno alla proprietà dei vari volgari e  vi si vada come in cerca d'un volgare illustre. La parladura PARLATURA galla vai mais et plus avinenz a far romanz e pasturellas;  ma cella de Lemosin vai mais per far vers e cansons e serventes. È un orientamento, come ben si vide, simile a quello del De vulgari eloquentia, e appunto per questo c’è davanti l'abbozzo d'una  grammatica provenzale, come materia grammaticale abbiamo nel trattato dantesco; ma quale  differenza! Quella che nelle Razos è un'osservazione fuggevole e quasi inconscia del pratico che  vuol giovare ai rimatori, qui è lo sforzo e l'ardimento di chi vuol creare una lingua pella vita e pelll'arte. Anche le Regles de trobar di Jaufré de Foixà, che sono un seguito dell'opera di Vidal, sono compilate per domanda del re di Sicilia, Giacomo. Osservazioni di metrica, parte forse di opera più vasta e perduta, contiene la doctrina de compondrc dìctats. E per tacer d'altri rimaneggiamenti  delle Razos e d’altre arti  metriche, grammatica, metrica e rettorica sono Las Leys d'Amors o Flors del gay saber che Molinier ha l'incarico, qual segretario o cancelliere, di comporre in Tolosa dalla compagnia della Gaya scie?isa, perchè fossero un codice della buona poesia, e dove il provenzale è appunto legiferato grammaticalmente come una lingua lette- [Vidal, Las razos de trobar,  ed. Stengel, Die beideìi  àltesten  provenz.  Gra/tim,,  Marburgo. Si confrontino a questo proposito anche Las leys d'amors. Anche per Donatz, questa  edizione. Su J.  de  Foixà  Meyer,  Romania,. raria. La  lingua GALLICA nella GALLIA non ha nulla di simile, allora, e le sue prime vere grammatiche le ha  appunto molto più tardi, dopo di noi, per effetto del medesimo movimento  critico che determina il sorger delle nostre. In terra italiana, oltre il trattato delle  Rime volgari di Tempo, e l'imitazione che un contemporaneo de'nipoti del giudice Sommacampagna ne fa in veronese di corte, pure arti metriche, e il trattatela metrico di Barberino, si ricorda un trattateli simile che avrebbe composto, ma che in realtà non compose. CAVALCANTI (si veda), secondo la  testimonianza di Villani che l'avrebbe avuto tra mano e di Fausto che 1'avrebbe visto e lo cita. Un confronto tra Las  razos e Donatz istituì Ovidio in  Giorn. st. d. lett.  il. Sugl’ammaestramenti  grammaticali  pella LINGUA GALLICA nel  medioevo,  Brunot, Hist. d. la langue gallique. L'abitudine, a lungo conservatasi nella Britannia, d’usare la lingua gallica (Honi soit qui mal y pense – “anglo-normanno” di H. P. Grice, originariamente ‘gris,’ grigio), fa sorgere tutta una serie di saggi, che rimaneno senza paragone per molto tempo sul continente d’Europa e costituiscono la sola letteratura grammaticale anteriore.  Delle rime volgari, trattato di Tempo, giudice  padovano, dato in luce integralmente per cura di Grion, Bologna. In rhetoricis delectatus studijs eandem  artem ad rhythmorum vulgarium compositionem eleganter traduxit. Villani, De Florentiae famosis civiòus. Fausto, Introduzione alla Untiuà volgare in Gkio, nel capitolo dell'ordinare la prosa: delle parole bisillabe e trisillabe sono alcune aspirate come honore, alcune hanno geminate le liquide, come novella, fiamma, anno, carro, lasso; consonante dopo muta doppia, fabbro; ovvero  muta in mezzo liquide, sepolcro: e cotali Dante chiama nella sua volgar Eloquenza, e Cavalcanti  nella sua Grammatica, irsute: chi fa combinazione di questa senza dubbie, seria dura e roggia orazione. Qui evidentemente la parola grammatica è usurpata per significar metrica: fatto comune nell'erudizione, tanto  che Bacchi  nel suo elogio di Cavalcanti, Elogia, Firenze, attribuisce a CAVALCANTI una vera e propria  grammatica: quod multa CAVALCANTI scripserit, non desunt qui affirment, ut de eloquentia sui seculi, de regulis linguae etruscae, de natura verborum, quibus fit oratio numeris astrictior, artifieijs ornatior. Il trattato di Tempo traduce nel suo dialetto Barati-Ila, sedicenne, figlio di Laureo.] Ma  NON GRAMMATICA, come la chiama appunto  Fausto, come GRAMMATICA NON È la sua Introduzione alla lingua volgare, ch’è invece metrica e RETORICA. Insomma, quanto di grammaticale o SINTASSI – MORFO-SINTASSI (“rules of formation” – “syntax” – H. P. Grice – SYSTEM G -- vi può essere in tutte queste somme romanze escluso Donatz è solo in servizio della metrica e della rettorica, senza alcuna vera funzione  propriamente grammaticale, e assolutamente indipendente dal realmente parlato; mentre Dante ha coscienza d'uno schietto criterio della regolarità grammaticale, onde anche sia disciplinabile sull'esempio del latino il volgare italiano, e l'applica: nel che egli differisce da Biondo in quanto questi riconosce nel volgare una regolarità di fatto, e Dante gliela riconosce solo in germe: resta di  fargliela acquistare. Così, e questo è tempo ornai di concludere, prima dell'autore della grammatichetta vaticana ch’integra i due criteri e fa il primo tentativo, una vera e propria grammatica dell'italiano non è stesa. Lo studio strettamente grammaticale è fatto esclusivamente ne'riguardi del latino sull'Ars minor di Donato: l'insegnamento ne'riguardi del volgare, quando l'arte de'Dictamina  è fatta  passare dal latino al volgare, rimane, com'era stato pel latino, di carattere  rettorico, alla H. P. Grice nella caratterizazione di G. N. Leech, ‘pramatic, not logical.’ Certo, in quelle Sutnmè dictaminis, in quelle Artes dictandi, ?w/ariae, concìonandi, non mancano osservazioni che potrebbero chiamarsi di dominio puramente grammaticale. Una parte di' viltà, che in principio della  Summa di FABA (si veda) si raccomandano d'evitare,  riguarda Loreggia. Nel  proemio di Tempo s’avverte che alla versificazione giova la conoscenza della  grammatica, s'intenda  IL LATINO; si nota che lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis. Item ultimo notandum est, s’avverte, quod quemadmodum in  oratione literali  [il  latino] debet vitari barbarismus et soloecismus, ita in vulgari rithimo. Ma si tene ben distinta la trattazione grammaticale dalla  metrica: Vocales autem literæ secundum grammaticos sunt V,  scilicet a e i o u, reliquae vero sunt literæ consonantes. Est tamen alia etiam differentia inter consonantes literas: de quo nihil ad praesens disputare intendo, quia satis per  grammaticas est ostensum. Invece il ragazzo compendiatore si distende sulle vocali, sulle sillabe, sui dittonghi, sull’elisione, il troncamento e altre figure: il bisogno della trattazione grammaticale s’è andato facendo sempre più vivo! Il compendio di Baratella sta insieme coll'ed. delle rime volgari di Tempo, ed. Grion. Guidonis  Fabe, Summa dictaminis in II Propugnatore, ed. Gaudenzi.    la collisio, il frenum, lo hiatus, il metacismus, il laudacìsmus, ossia figure grammaticali. Nella parte seconda, non tutto ciò che riguarda la pronuntiaiio è garbo, ma correttezza – H. P. Grice on stress as garbo, non corretteza.  Il dictamen è locutio ne'due aspetti di competens et decora: competens dicitur quantum ad congruitatem vel incongruitatem tam  bone sententie quam recte  gramatice. Il dictamen dicitur autem pròsaycum a proson, quod est longum, quia ne legi metrice vel rythmice subiacens, congrue se potest extendere. Circa dispositionem si vuole che il dictator laboret ut ordinetur sub verborum serie competenti, et postmodum ad colores – GRICE FREGE FARBUNG --  procedat rethoricos.  Poi vi sono le osservazioni de punctis et virgulis et regulis  eoruni; quelle della  constructio, in cui duplex est ordo: Naturalis est ille qui pertinet ad espositionem, quando nominativus cum determinatione sua precedit, et verbum sequitur cum sua, ut  ego amo te. Artificialis ordo est illa compositio que pertinet ad dictationem, quando partes pulcrius disponuntur; qui sic a CICERONE (si veda) diffinitur. Compositio artificialis est constructio  dictaminis equabiliter per polita. Si parla de regulis occurrentibus in dictamine: nello zeugma l'aggettivo concorda col nome più prossimo: es. Socrates et Berta est alba: nella concepito PREVALE IL MASCHIO:  vir et mulier – i promesi sposi -- sunt albi; il neutro prevale sul maschile e il femminile: mancipium vir et mulier sunt alba. Si tratta dei verbi trasmissivi, de origine, possessione  et significatione quofundam ver borimi, al de relativis et antecedentìbus; e quando anche s’è in pieno campo rettorico  De ornatu orationis et colorìbus – FREGE GRICE FARBUNG -- retkorìcis, si trova indirettamente tutta la declinazione perchè, parlando de  inseptione nominis per omnrs casus tanto al singolare, ((pianto al plurale, le forme vengon tutte fuori, e medesimamente accade  pei verbi e l’altre parti del discorso, gerundio, supino, participio, pro-nome,  pro-posizione, pre-posizione, avverbi, di cui si passano in  rassegna gl’usi che se ne fanno al principio e alla  fine dell'orazione – The exhibition was visited by the King of France. Sicché sotto l'efficacia de’due insegnamenti d'alta e umile grammatica, dei dettatori e dei grammatici, dove venirsi praticamente e  indirettamente elaborando anche la grammatica del volgare, la quale poi appare direttamente quando appunto il dictamen passa dal latino al volgare. Era un movimento,  insomma,  fecondo in favore del volgare quello dei dettatori di BOLOGNA, e in genere di quanti avevan che fare colle due lingue: e da qualunque aspetto le fossero coltivate, a qualsiasi fine fosse rivolto l'esercizio, la  grammatica del volgare spunta accanto a quella del latino, ombra d’essa. Quel di-rozzamento del volgare fatto dai maestri nelle scuole e nei libri a pratici fini rettorici, nelle prime come nell’ultime scuole, non poteva non far sorgere ne'principianti, negli studiosi, negli scrittori come la coscienza riflessa delle forme grammaticali del volgare, apprendendole loro senza che s’accorgessero,  senza somministrarne paradigmi, definizioni, classificazioni. Tra il  volgare e il latino e il latino e il volgare sono continui e necessari i confronti sia nella scuola letteraria che in quella giuridica. Tanto per chi s'avvia per i pubblici uffici, che richiedeno faconda e ornata  parola, e possesso dello stile epistolare, quanto per chi si dedica al notariato, lo studio del volgare sia pure pella via  della grammatica latina era una  necessità. Negli statuti che la società de’notaj di Bologna promulga, gl’aspiranti al diploma di notaro doveno dimostrare qualiter scirent scribere et qualiter legere scripturas quas fecerint vulgariter et literaliter, et qualiter latinare et dictare. E a ciò non poteva bastare uno studio stilistico, ma occorre anche lo studio delle  forme e delle relazioni sintattiche.  A un tale studio dovevan esser invitati o condotti anche i discepoli di quel Signa, che fu de'primi a far sentir l'influsso della Toscana alla sua scolaresca di BOLOGNA, e, meglio ancora, di quel Faba, il cui conato di  far trionfare il volgare sul latino non potè esser solamente individuale. Faba, osserva Monaci, viene a prendere il primo posto nella serie di quei maestri che, facendo passare  dal latino al volgare l'arte dei dictamina, contribuirono assai più di quel che non si creda alla formazione del nostro idioma letterario, e perciò alla determinazione sia pure orale delle regole d’esso. Che l'insegnamento fosse porto in volgare confermano anche i testi grammaticali esplorati da Thurot, il  (piale osserva: On einsegnait la gram- [È superfluo ch'io ricordi quanto e insegna su  questi argomenti  Xovati, di cui ora si può vedere il saggio, a Milano, su  Le Origini. Intorno alle Artes dictandi discorre anche Lisio, L'arte del periodo nell’opere volgari d’Alighieri, Bologna. Sulla Gemma purpurea e altri scritti volgari di FAVA (si veda) o FABA (si veda), maestro di grammatica in BOLOGNA, in Rend. Lincei.] maire aux petits enfants sous une forme tout  élémentaire,  d'après le Donatus minor, et mème en langue vulgaire; car, quoique je n'aie rencontré que deux manuscrits qui contiennent des grammaires élémentaires rédigées en francais, le traduction de casus par le substantif féminin case et de modus par meuf  montre que ces termes étaient assez souvent employés pour avoir été accomodés au genie de la langue vulgaire. Nel prepararsi inoltre a  pronunziare in volgare le dicerie preparate in latino, nel leggere nel testo volgare, dato per disteso o in compendio, le formule epistolari modellate in LATINO, ognuno era naturalmente tratto a osservare le regole del volgare. Medesimente gl'innumerevoli traduttori dal  latino e dal gallo, e anche dal  provenzale, come avrebbero potuto condurre l'opera loro, così minuta e analitica, senza  notare le differenze morfologiche e sintattiche fra l'una e l'altra  lingua? Codeste stesse volgarizzazioni, specie di opera di filosofia pratica e di varia erudizione storico-letteraria e retorica, così diffuse e popolari, venivano indirettamente ma non per questo meno efficacemente a propagare la conoscenza e l'uso della regolarità del nostro volgare. Anzi le riduzioni e le traduzioni dei testi  di rettorica Notices et extraits de diverses manuscrits latins, pour servir à l’histoire des doctrines grammaticales aie moyen àge, in Noi. et extr., ecc. dell'Istituto  imp. di Francia, Paris. Gli stessi testi di grammatica latina dapprima redatti, com'era naturale, in latino, e poi, quando e dove la conoscenza del latini' si era venuta facendo più scarsa, corredati della versione volgare almeno nelle parti più necessarie tvocaboli, verbi, nomi, avverbi, locuzioni, esempi, temi, finiron coll'esser redatti unicamente in volgare. Son note le vicende di quel fortunato trattatela di grammatica latina che fu tramandato di generazione in generazione, di paese in paese sotto il nome di Janna, e che usurpa spesso il nome a Donato e gli disputa la supremazia nelle scuole. Copiata e ri-copiata  e ri-stampata talvolta anche col titolo di Donato al Senno, adottata nel corso preparatorio di Guarino, edita da Mancinelli col titolo di grammaticae aditus tanna, fu ben per tempo volgarizzata non soltanto da un anonimo bergamasco, ma da Mancinelli stesso, e nuovamente in Milano col titolo di Donato al Senno con il Calo volgarizzalo; trad. in greco da Planude, servì ai Costantinopolitani per impararvi IL LATINO, come  agl’umanisti per impararvi nella versione di Planude il  greco. Sabbadini  Fior di rettorica, la Retorica di Tullio,  ecc., se non contenevano precetti di grammatica volgare, mirano però direttamente  a metter in grado gl'indotti che ignorano il latino, di parlare ornatamente nel volgar materno. E il compilatore del Fior di Retorica riduce in volgare gli  esempi latini. Chi non vede gl’effetti di simili libri e ammaestramenti? Ben a ragione Villani, parlando  nella  Cronica, Vili,  io, di Latini, lo chiama digrossatore de'fiorentini in farli scorti in bene parlare, ed in sapere guidare e reggere la repubblica secondo la politica; e con non minor verità la critica afferma di lui che mostra un certo presentimento degli alti e utili uiticj a'quali eran  chiamati i nuovi volgari  romanzi: lode che in parte spetta anche a Barberino. Per quanto concerne il latino, sorsero ben presto vocabolari e grammatiche latino-volgari, che rappre  [Ancona e Bacci, Manuale. Sull'insegnamento che potè aver impartito Latini a Firenze intorno all'ars dictandi, v.  Fr. Novati,  Lect.  cit., Le  epistole. Nei  Reggimenti e costume  delle  donne Onestate dice  a Elocjuenza:  E parlerai sol nel volgar toscano E porrai mescidare alcun volgar consonante ad esso di que'paesi dov'hai più usato pigliando i belli e i non belli lasciando. Cito, tanto per far qualche  esempio, il dizionarietto latino-volgare contenuto nel cod. della comunale di  Perugia; il VOCABOLARIO LATINO-ITALIANO contenuto nel cod. della Riccardiana, diviso per materia, o  meglio per gruppi di parole aventi un identico significato, una specie di vocabolario de'sinonimi: di contro, p. es., alla colonna di sepultura, tumulus, baralrum, sepulcrum, pilum, tumba, monimentum, monumentimi, colossus, cenothaphius abbiamo le corrispondenti voci volgari la sepoltura, el monimento; la grammatichetta latino-volgare contenuta nel  cod.  di Verona, Biadego,  Cai.  descr. d. mss. d. Bibl.  Coni,  di  V. Verona. Un frammento di grammatica latino-bergamasca ha illustrato negli Studi medievali Sabbadini, il quale ci ricorda l'osservazione fatta da Thurot che nelle grammatiche latine del Mezzogiorno d'Europa, dove era più scarsa la conoscenza del latino, sono interpretati in volgare i thaemata che servivano all'applicazione delle  regole. Una nuova  grammatica  latino-italiana  [veronese]  ex ha fatto cono sentano, in ogni modo, l'ingresso del volgare nelle scuole e nei libri scolastici, come strumento necessario allo studio del latino, e il primo passo d’esso mosso nel campo teorico sulla via dell'emancipazione da questo, dove procedette sì ostacolato ma senza mai fermarsi. Tuttavia, questo ed altro di che si potrebbe agevolmente  dire, non spinse alcuno a trattar di proposito la regolarità grammaticale ne nei libri né, a quanto si può sapere, nelle  scuole. Anzi quanto si fece a prò del volgare, agevolandone il naturai uso orale, può considerarsi come un ostacolo ad avvertir la necessità di quella trattazione. Il concetto teorico scere Stefani, Revue des langues romanes. È notevole, secondo T., che vi s’espongano significazioni e costruzioni irregolari e difficili. Un glossario latino-bergamasco è pubb. da Grion in  II  Propugn., e da Lorch ne'suoi Altbergamkischc  Sprachdenkmaler. Altri  testi  grammaticali indica Rajna,  Introd. cit. Per la spinosa questione,  v. Zenatti, Dante e Firenze. La tesi di Zenatti è che Dante a Ravenna potè aver insegnato nello studio retorica volgare. La Romagna annunzia che Amaducci pone fine a un lavoro in cui crede d’aver dimostrato che Dante in Ravenna tenne l'insegnamento della  rettorica. Noi ammettiamo la possibilità dell'insegnamento dantesco di retorica e anche di grammatica volgare, solo per ciò che abbiamo detto della dottrina d'Alighieri circa la grammatica, e del carattere precettistico del  De vulgari eloquentia; che, comunque s'andassero ormai modificando le condizioni e l’esigenze degli studi, un insegnamento di lingua, grammatica, retorica volgare con intenti letterari non è possibile. Se Dante lo imparte, fu solo, come solo fu a elevare l'edificio del De Vulgari Eloquentia in quanto ha di nuovo circa la lingua e la grammatica. Colgo qui l'occasione per dichiarare che dalla vasta letteratura dell'insegnamento pubblico nessuna luce ho potuto trarre pel mio argomento, non riguardando essa che fatti del tutto esteriori. Non giovò neppure il fatto die ormai nel corpo stesso della grammatica latina se ne veniva introducendo tanta parte di quella volgare da quasi bilanciarla, se s’eccettuino le definizioni. Le nostre biblioteche sono ricche non solo di Prisciani, di Servi e di Donati, e di grammatiche latine di  noti e ignoti, ma di compendi e trattati grammaticali latino-volgari veramente preziosi anche pella storia della lingua, come, p. es., quello contenuto nel cod. della  Riccardiana,  in  margine: Bucinensis Epistolae quinque de nonnullis Piscium, Avium,  Herbarum, Anima della grammatica identifica la grammatica col latino, la lingua immutabile, regolata: e checché si pensa dell' origine  e dello svolgimento del volgare, questo non appare al certo in quella sua anche troppo vistosa mobilità capace d'esser regolato; anzi i prodigiosi monumenti letterari che il genio dei tre coronati produce, di tanto superiori a quelli pur così ammirati del periodo precedente, distolsero vie più dall'idea che fosse necessario osservar le regole della grammatica d'una lingua in cui, senz'esse,  Dante, Petrarca e Boccaccio avevano assegniti, sì alti fastigi. Né alla grammatica si fa ricorso ne'momenti in cui, cessando il primato toscano, riaffermandosi le letterature regionali, che innanzi a quello avevano quasi d'un tratto ammutito, spezzatasi l'unità linguistica nella stessa Toscana, potè lium Artificium vocabuli, che raccoglie liste di vocaboli assai importanti (berlingozzi, insalata,  erbastrella, starna, fagiani, merla, giandaia, ecc. Il riccard. L, contenente una traduzione latina dell’Iliade, ne' Rudimenti grammaticali, ha lunghissime liste di avverbi, preposizioni e verbi con tutte le corrispondenze italiane; gli è simile il I3 della nazionale di Firenze; altre liste di verbi volgari contengono gli Ashburnam della Mediceo-Laurenziana, il riccard., il misceli. della Casanatense  frammento colle corrispondenze romanesche, vardare, robare, cengere: notevole, tra quanti ho potuto consultare di siffatto genere, il  riccard. contenente un tractatus grammaticalis ne'cui margini, in corrispondenza del paradigma latino, è, segnata sempre rosso per miglior uso e servizio mnemonico, la parte morfologica e sintattica del volgare, che, presa a sé, è abbondante quanto quasi  le regole di Fortunio. E gli esempi vanno dalla singola parola, el poeta, la musa, lo homo, la donna, la forestiera a costrutti participiali e gerundivi insegnando ogni dì, intesi bene principia, volendo il discepolo imparare, e periodici di più ampia tessitura, avendoti io amato e servito più volte, tu dovevi richordartene. Questi testi grammaticali, oltre che al comodo comune, servirono all'istituzione degl’appartenenti a famiglie di qualche importanza. Nell'ultima pagina del Prisciano contenuto nel cod. riccardiano, è detto: io Lorenzo de girolamo di Domenico di tingho o venduto q" Prisciano a Alexandre de Romigi degli Strozzi e al prezzo de lire nove e per fide, ecc. Noto qui, come per incidente, che molto sarebbe da raccogliere di prezioso materiale linguistico  dialettale o semi-letterario anche nelle grammatiche latine umanistiche, essendo che i loro autori, Guarino, Perotti, Scoppa,  ecc., abbiano fatto uso, pelle corrispondenze, del loro dialetto o del dialetto  italianizzato.] parere che la letteratura nazionale è signoreggiata come d’uno spirito d'indisciplina: il che veniva a ribadire il concetto tradizionale della grammatica. Gello racconta che i  literati, che primi  usano all'orto de'Rucellai si maravigliarono di alcuni literati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in prosa di questa lingua senza alcuna osservazione: parendo loro impossibile che, avendo pur veduti gli scritti di que'tre famosi, e'non avessero aperti gli occhi alle loro osservazioni e non si fossero accorti in quanta corruzione fusse incorsa la bellissima  lingua che parliamo. Neppur la lettura pubblica nello studio, che pur non poteva non dar occasione ad avvertimenti grammaticali, suggerì l'idea della compilazione delle regole prima di Landino, che avvenne pelle ragioni che già vedemmo. Che più? Dalla morte, anzi dagl’ultimi anni di Dante, che dove ascoltare i rimpianti di Giovanni del Virgilio del non avere egli scritto in latino il  poema, sin oltre l’invettiva di Rinuccini, cioè fino agl’ultimi echi del giudizio di Niccoli, che ha dopo morte un difensore in Poggio la quistione sulla preferenza di Dante pel volgare, che è di quelle che parrebbero fatte apposta per fecondare la critica sulla natura e la struttura delle lingue e il modo di studiarle, fu a questo proposito inutilmente agitata: tanto le accuse come le difese non  andarono oltre i termini vaghi e generali di bruttezza e bellezza. Di fronte agl’attacchi e ai dispregi rivolti ad Alighieri pella forma e la lingua onde compone la commedia non cessati neppur dinanzi all'opera mirabile compiuta, Guido da PISA (si veda),  nel commento latino della dichiarazione poetica dell'Inferno, si scaglia contro gl’ignoranti che, perchè scritta in volgare fructum qui  latet in ipsa, quaerere negligimi et abhorrent. Corteccia è la lingua anche per BOCCACCIO (si veda), che in tre momenti per lui solenni, Epistola a Petrarca per accompa- [È discretamente abbondante anche la letteratura dei commentatori di Dante e di Petrarca, ma ben pochi elementi fornisce al nostro tema dal punto di vista teorico. È largamente trattata da Zenatti in Dante e Firenze,  I brani che T. cita in proposito son tutti di qui, e a questo saggio rimanda per molte altre notizie che gettano luce sul  nostro tema. gnar il testo della commedia, trattatello in laude d’ALIGHIERI (si veda), lettura in Santo Stefano, difese con tanto calore il suo ammirato poeta di tutte le accuse. E quando l'intemperante e intollerante umanista lancia contro Alighieri il titolo di poeta da  calzolai, Rinuccini risponde osservando che gl’umani fatti dipigne in volgare più tosto per far più utile a suo'cittadini che non farebbe in latino, e affermando ch’il volgar rimare è molto più malagevole e meritevole che'1 versificare litterale. Ser Domenico di maestro Andrea da Prato anda più in là. dicendo che esso volgare nel quale scrive Dante è più autentico e degno di laude che il  latino e'1 greco ch’essi hanno. Dopo questo stadio acuto della questione i giudizi s'andaron facendo più miti. E quegli stessi che vi partecipano d’avversari del poeta, finirono coll'ammirarlo: Bruni, p. es., che dichiara ne' noti dialogi ad Petrum Histrum, di pensarla come Niccoli, scrive contro questo 1'oratio in nebulonem maledicum e la vita di Dante e di Petrarca. Il  Eilelfo  non  isdegna  leggere tutte le domeniche al popolo la commedia. S' intende, anche ora detrattori non mancano, e Filelfo stesso dove purgare il poeta degli spregi d'ignorantissimi emuli. Ma ormai l'umanesimo trionfante poteva guardar la passata  letteratura senz'inimicizia, avvicinarla, ammetterla: il certame coronario fu pos- Il dissidio, s'intende, era più apparente che reale, era più nella mente de'  dotti colpita dall’esteriorità e imbevuta di pregiudizi che non nel fatto: quel latino e quel volgare sono legittimi prodotti dello spirito italiano, sono due modi d'esprimersi che apparentemente designano una doppia serie di spiriti diversamente conformati; ma non era né poteva esser cosi. Era un'età di transizione, e come tale presenta i suoi contrasti, che sembrano e sono più stridenti  quando il nuovo irrompe colla sfrenatezza e l'intemperanza che gli è consueta. Negli stessi singoli individui s’avvertono apparenti discordanze: anche nei tre maggiori non mancano a proposito di questa stessa questione, del riconoscimento cioè del volgare: semhrano contraddirsi, sembrano oscillare, ma in realtà essi son sempre d'accordo e coerenti con sé stessi e coll'età. Così avviene  per Bruni e per Niccoli: il primo muove dal latino per andar verso il volgare; il secondo dagl’entusiasmi pel volgare che gli fanno imparar a memoria la divina commedia, passa agli oltraggi contro il poeta divino. Poi tutta la gloriosa schiera degl’umanisti accoglie in sé latino e volgare, e Alberti,] sibile appunto, perchè le ire sono sbollite, e il volgare poteva presumere di misurarsi col  latino. È appunto, cred'io, per questi raffronti istituiti senza fiere opposizioni, se non in amichevole accordo delle parti contendenti, che le discussioni, che dovettero derivarne, poterono avviarsi a qualche conclusione utile; ora era proprio di lingua, che si poteva parlare, indipendentemente dalle persone e dalle dottrine poetiche. Il fatto è che appunto di questi tempi ha luogo, comunque  originata, la già accennata controversia di Biondo e di Bruni, donde abbiam visto uscire il concetto della regolarità grammaticale del volgare, concetto veramente rivoluzionario rispetto a quello che si aveva prima della grammatica. E coll'implicita affermazione della possibilità della grammatica del volgare, sorgere la grammatica. Anzi  ci fu anche qualcosa di più che quell'affermazione;  Landino, nell'orazione tenuta incominciando a leggere i sonetti di Petrarca, accenna esplicitamente al bisogno di scoprire e rissare le regole grammaticali del volgare, intorno appunto agl’anni in cui una mano stende la prima grammatica della lineria italiana. Poliziano,  Lorenzo, Sannazaro son glorie di tutt'e due le letterature. é Medesimamente, quando si parla dello scadimento della  lingua volgare, s’adopera un termine improprio, pelle ragioni che non importa ripetere. Per quel che concerne poi la copia della  produzione, basta, pella poesia, vedere il volume di Flamini, La lirica loscatia anteriore ai tempi del magnifico, Pisa, e pella prosa, quel che ne discorre Baco,  nel libro Prosa e Prosatori, Palermo, al qual volume rimando pell’abbondanti notizie bibliografiche  concernenti i rapporti tra il latino e il  volgare. E pell'interesse onde fu proseguita la tradizione nazionale, basta pensare alla lettura di Dante, al circolo di Coluccio, a quello del paradiso degl’Alberti, alle conversazioni del convento di  S. Spirito, all’improvvisazioni de'canterini in S. Martino, alle radunanze di  S. Maria  del Fiore, all'ufficio dell'araldo della  signoria, all'opera letteraria  de'giudici e notai della cancelleria, al circolo della bottega di Calimala, a quello della bottega del Bisticci, all’accademia senese, agl’Orti, e, in genere, all’esercitazioni poetiche mantenute tra le faccende giornaliere della vita, nelle cancellerie, nelle case signorili, nei ritrovi, ne'fondachi. In Corazzini, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze. LANDINO (si veda) è eletto professore pella poesia e l'oratoria. Ma il caso rimane isolato appunto perchè ormai il movimento a favore del volgare fu così intensificato, che non ci fu il tempo perchè la via segnata dalla grammatichetta vaticana potesse essere ila altri battuta. Si sa che dopo l'anno del certame, L’ITALIANO anda guadagnando sempre maggiori sim-[Avemmo tentativi parziali d’ortografia, e, anche più particolari di punteggiatura. Onesta precedenza nella costituzione di regole ortografiche e di punteggiatura ebbe due diverse cause, oltre quella del dissidio tra il latino e il volgare: le esigenze create dall'invenzione dell'arte della stampa, e il gusto che il classicismo veniva sempre più raffinando e che voleva dimostrare anche nei minimi particolari della scrittura. Per tale rispetto il costituirsi di  questa parte della grammatica in norme speciali era un avviamento di progresso, perchè moveva dal bisogno sentito dall'artista di conservare alla sua parola tutta quella vita o la parte di quella sua vita di cui egli aveva coscienza. È, al proposito, della  massima  importanza il vedere quello che recentemente s'è  scoperto praticasse  PETRARCA (si veda) in armonia con una teoria quasi  certamente sua nello stendere in definitiva forma il suo canzoniere, egli che da quel grande umanista che era e artista di squisitissimo sentimento, il più squisito che noi avemmo, ben è in grado d’avvertire le più impercettibili sfumature d'accento e di suono ne'suoi schietti e luminosi fantasmi. Egli, oltre il suspensivus  (/), la nostra  virgola, il colon  (.), il nostro punto, l' interrogativus  anche talora in forza d'esclamativo f., il nostro interrogativo, adopera per speciali atteggiamenti di pensiero DUE ALTRI SEGNI speciali: un punto sottostante a una virgola (.'), simile nella forma al nostro esclamativo, pella clausola non chiusa  nell’INTENZIONE (vide Grice, “I KNOW vs. I know” -dello scrittore – R. M. Hare sub-atomic particles of logic; e un punto attraversato da  una virgola (/), per esprimere un'idea  enfatica – cf. Grice on stress - di particolare interesse per lui. Do un esempio del primo segno. Da be rami scendea dolce nella memoria. Una pioggia di fior sovral suo grembo. Ed ella si sedea  Humile  7  tanta gloria couerta già de lamoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo. Qual sulle trecce bionde Choro forbito e perle  Eran quel dì  a vederle.   Ed ecco un esempio del secondo. Voi cui fortuna a posto in mano il freno delle belle contrade Di che nulla pietà par che vi siringa. Codesti segni, che si trovano adoperati anche nel vat. hit., contenente il bucolicum cat'tnen e nel vat. lat., contenente  il de sui ipsius et multorum ignorantia, corrispondono perfettamente a quelli di cui si discorre in un’ars punctandi, attribuita a PETRARCA,  e che questi avrebbe esposto in una lettera a Salutati in risposta a un quesito di lui. L'edizione è fatta a Lipsia con i tipi d’Arnaldo da Colonia, e comprende tre opuscoli riuniti certo per uso scolastico: Il modus epistola/idi di Saphonenn, l'ars patie e aiuti da parte de'dotti, e dalla Toscana il moto si propaga con molta rapidità nelle altre regioni d'Italia, specie nel Veneto, dove scrissero o  insegnarono le regole della lingua volgare Augurello e Gabriello, e punctandi di Petrarca, e il Dyalogus de arte punctandi di Giovanni de lapide. Società filologica  romana, iI canzoniere di Petrarca riprodotto letteralmente dal cod. vat. lai., coti tre foto-incisioni, cur. Modigliani, in Roma, presso la Società. Ili, Prefazione. Per altro, devesi osservare che questi trattatelli di ars punctandi,  come altri d'altro argomento affine, quale il trattato De aspiratione di Pontano, erano dettati non in servizio del volgare, ma specialmente in servizio del latino. Il volgare v’entra in ispecie pelle varietà che veniva offrendo rispetto al latino, e l’osservazioni erano poi più o meno seguite dai nostri grammatici del volgare. P. es., Fortunio ci dice. Come che il dottissimo Pontano nel suo  trattato d'aspiratione dice, la pre-posizione di questa lettera g  a'vocali  [come  in Giano, gioco, Giove] nella volgar lingua esser processo da barbari: ma, la Tosca pronunciatione seguendo, a me par che vi si convenga. Se non s’ebbero speciali trattati ortografici, non manca peraltro chi nelle trascrizioni seguisse un sistema determinato di pronunzia. Mi basti citare 1'esempio messo in  luce da Rajna, Osservazioni fonologiche a proposito d’un ms. della  Magliab., il libro della storia di  Fioravanti, in  II  Propugu., Dell'insegnamento di Trifon  Gabriele, autore d'una Institutione della grammatica volgare, uno de'grammatici e critici più riputati, e chiamato il Socrate di quella età, Sanctis, Storia, ci lascia notizia in uno de'suoi dialoghi Speroni, dove introduce a parlare de'  propri studi Brocardo. Questo nostro buon padre primieramente mi fa noti i vocaboli, poi mi die regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni di nomi e verbi toscani, finalmente gl’articoli, i pronomi, i participii, gl’avverbi e l’altre parti dell'orazione distintamente mi dichiara. Tanto clic accoltein uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica con la quale scrivendo io  mi reggevo. In Sanctis. Per ogni notizia riguardante  Augurello, Gabriello e altri, rimando al cit. libro di Cian, Un  decennio ecc. Per Augurello, in particolare, Serena, Attorno ad Augurello, Treviso, e Pavanello, Un maestro: Auguralo, Venezia. 11  P. non sa dirci  nulla se  l'A. scrive la grammatica; ma afferma l'esistenza dell'insegnamento a Padova, a Venezia, a Treviso, e dà altre  indicazioni importanti circa uomini e cose di questo periodo e di quanti sono  in  relazione con Bembo. Bembo anda meditando quelle che poi divennero le sue celebri prose, mettendo  insieme, a richiesta d'una sua amica, un libretto di Votazioni. La grammatica ormai cade sotto il dominio della poetica del ri-nascimento e si sottopone al principio dell'imitazione: la qualità di Toscano  non era più necessaria per occuparsi autorevolmente ed efficacemente del volgare, che veniva a esser considerato come lingua morta, e come tale studiato e regolato nella grammatica. E senza negare che pur in Toscana le cure spese intorno ad esso né s'arrestano né s'affiochirono, che anzi troveremo non pochi tra i Toscani escogitatori di concetti e di riforme veramente originali, pure  il movimento si svolge segnatamente fuor di Toscana, almeno nei rapporti della compilazione scritta delle regole. Ci basta il ricordare che a confessione stessa di Bembo, sono alquanti che scriveno della lingua volgare. Codesti dovevan esser certamente fuori di quel circolo cui egli dirige il manoscritto delle sue prose e che era composto di Trifon Gabriele, suo principale corrispondente,  d’Augurello, di Tiepolo, di Valerio, di Ramusio e di Navagero. Chi fossero non è ben chiaro, ma nella mente di Bembo dovevan esser con ogni probabilità, oltre il Calmeta, che accusa di plagio,  Fortunio, Liburnio,  Colocci. Se tutti costoro insegnassero o scrivessero, come Augurello e Trifone, regole della volgar lingua, non sappiamo; come non sappiamo se e come si concretassero  l’osservazioni della lingua che, secondo la testimonianza di Trissino, sarebbero andati facendo Dolfin, Fracastoro, Giulio Su Calmeta  v. specialmente  Rajna,  La lingua cortigiana Anche a Colocci sono attribuite d’Ubaldini regole della lingua, che però dovrebbero essere state confuse, come ben suppone Cian, non tanto col vocabolario, che effettivamente esiste nei due codd. vaticani,  sì bene coll’annotazioni su varii autori volgari e latini o  colla Colleclio vocum Petrarchae et aliorum, die realmente esistono ancora  Oggidì fra i codici vaticani. Per Colocci,  Rajna,  recens. cit. del libro di Belardinelli, nella quale  -ohm anche messi a profitto due altri scritti riguardanti Colocci, l'uno di Neri, Nota sulla letteratura cortigiana del Rinascimento, in Bull. il. di Bordeaux, e  l'altro di Debenedetti, Intorno ad alcune  postille di A. C, in  Zeit. f. rom. Philol.. 4S  Sforici  della  Grammatica  Camillo, e quel Amaseo di cui, mentre pronunzia una gonfia orazione a BOLOGNA in difesa del latino, ormai detronizzato, si sa che spiegava al proprio figliuolo e a un  altro scolaro le regole della volgar Ungila, e l'altro gruppo di letterati di cui ci tiene parola Dolce nelle  sue Osservazioni, Cappello, Veniero,  ZANE (si veda), Gradenigo, Baroer,  Amalteo,  ecc. – TUTTI VENETI. Ma se non tutti sono stati intenti a scriver e compilar grammatiche, di cose grammaticali certo s'occupano e molto s' intendevano, specie coloro a'quali Bembo richiede l'opera di correttori e di consiglieri, e, per tornare in Toscana, i frequentatori di quegli orti Oricellari, alle  cui discussioni presero parte, tra gli altri, TRISSINO (si veda), che vi espone le sue dottrine ortografiche, e il grande segretario fiorentino che bolla d'inonestissimi i seguaci di Trissino, sostenendo che quella tale lingua curiale non  esiste se non in quanto il fiorentino de'sommi si sarebbe imposto all'uso letterario di tutta Italia, arricchito nel vocabolario, ma invariato nella grammatica,  e che,  primo Per una grammatica  di Camillo  v. più  innanzi. Zambaldi,  Delle teorie ortografiche in Italia, estr. dagl’Atti del R. Istituto veneto, Venezia. Sensi  (M.  Claudio  Volo/nei e le controversie sull'ortografia  italiana, non è disposto a cedere la priorità e la maggior importanza del movimento grammaticale toscano di contro a quello delle altre regioni d'Italia, e raccomanda che  questo punto sia meglio riveduto. Egli anche a parer mio ha perfettamente ragione, (pianilo parla d’un interessamento dei Toscani vivo, continuo e intenso versoli loro idioma, che manifestano specie in radunanze e ritrovi, nello sforzo di parlarlo meglio che  possono; ma in fatto di produzione di grammatiche, fatto concreto e accertabile e accertato quella vaticana è l'eccezione che ha  il valore che abbiam visto il posto d'onore spetta a non toscani. Quella stessa testimonianza di Pazzi quel che noi ridiente diciavamo, loro si sono messi a far sul serio indica la coscienza che di questo fatto avevano i toscani; e vedremo che fino a Giambullari, la Toscana non ebbe un vero e proprio grammatico del volgare, e quando i Toscani vi posero mano tu proprio anche per un certo  sentimento di vergogna che li punse nel vedersi legiferare la loro lingua dagl’altri – “which reminds me of Otto Jersperson!” H. P. Grice. Su gl’Orti, Scott, The Orti Oricellari, Firenze. Pella composizione del Dialogo intorno alla  lingua di Machiavelli, v. Rajna, in  Rend. d. Acc. d. Lincei, fra tutti, intuì il valore dell'elemento sintattico nella  lingua, come fecero poi, tra gli altri, il   Martelli e Gelli. Tutto questo è detto per dimostrare che, quando Fortunio pubblica le sue regole, la necessità dello studio grammaticale del volgare era largamente  riconosciuta, sia come effetto della sorta coscienza dell'importanza della letteratura, sia in tanto in quanto a parlar bene nel patrio idioma occorr, in ordine al canone dell' imitazione formulato dal classicismo, osservare la  regolarità de'nostri sommi. Quando Fortunio pubblica le sue regole, due fatti si maturano, la vittoria definitiva del volgare sul LATINO e il comporsi della dottrina dell'imitazione in una salda unità di principi. Anzi  esse ne sono la  prima comune manifestazione. Primo e principale effetto di quella dottrina è lo studio della forma esteriore così nella  letteratura antica che nella moderna, elevata ai medesimi onori di quella: della forma nessun aspetto fu  trascurato,  parendo essa  quasi tutto il meglio  del- [Regole grammaticali della volgar lingua di  i/tesser  FORTUNIO (si veda), reviste, e con somma diligentia corrette. Aldus. La prima edizione ne è fatta in Ancona per Vercellese. In poco più di trentanni sono ristampate diciotto volte. Un'altra edizione da T. consultata  è quella di Vinegia, per Bindoni e Pasini compagni.  Una  bibliografia de’nostri antichi grammatici s’ha nella Biblioteca dell'eloquenza italiana di FONTANINI (si veda) annotata da Zeno, Venezia. Di grammatici s’occupa di proposito anche Tiraboschi nella sua storia della letteratura italiana, Roma. Grammatici italiani in volgare;  Contese ortografiche, sul titolo della  lingua, ecc.;    GRAMMATICI FILOSOFICI TOSCANI. Notizie a loro relative si possono raccogliere in tutte le storie letterarie: T. cita per tutte quella scritta d’una società di professori e edita per cura di Yallardi, ma ricordando in particolare la storia di Canello, Milano. Ai meriti di Sanctis anche verso la  storia, l'opera d'arte,  ivi  scoprendosi tutto l'artifìcio dello scrittore: quindi sceltezza di lingua,  correzione, regolarità, eleganza, armonia nel disegno totale e in ogiir-rniirimo particolare sono le doti volute alla perfezione d'un' opera: si discusse dove e come studiarle: sono studiate, poi legiferate, codificate in altrettanti particolari trattati: grammatiche, vocabolari, disamine linguistiche, metriche, rettoriche: l'osservazione è tradotta in legge: sorge così il purismo  classico: l'erudizione  cede il passo all'estetica. Di queste particolari trattazioni, se stiamo alle date delle principali  opere  critiche, sorge prima la grammatica: che le prose di BemboT  dove, oltre la grammatica, son trattati l'effetto poetico dei diversi suoni e il valore onomatopeico delle varie vocali e consonanti, sono del 25, il De Arte poetica di Vida, dove si danno le leggi d’armonia imitativa, è del 27, la  Poetica di Trissino, che discorre di lingua e metrica toscana, è del  29, del 35 è il  primo vero vocabolario toscano,  al  39  risale il tentativo di Tolomei d'introdurre i metri classici nella poesia volgare ecc. Se ciò non dipese dal caso, la ragione è da ricercare nel fatto che, come la regolarità grammaticale è la caratteristica che prima colpisce l'occhio del lettore e dello studioso ed è, diremo,  la dote essenziale della forma esteriore d'una scrittura, così è o sembra più  facile e nel tempo stesso più utile e necessario il codificarla. La grammatica inoltre, e questa della  grammatica ho già accennato, e torna a discorrerne direttamente a suo luogo. Notizie di grammatici s’hanno, naturalmente, in tutti i libri che trattano la questione della lingua: bastera che T.  ricordi qui: Caix, Die  Streitfrage ilber d. ital. Sprache, neh' Italia dell' Hillebrand; Ovidio, Le correzioni ai promessi sposi e la questione della lingua; Napoli; Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua; Catanzaro, Foffano, Giorn. si. d. leti. il., dove si tien conto de'grammatici con molta diligenza; Luzzatto, Pro e contro Firenze, Sensi, Pass. Bibl.; ora,  Belardinelli, La questione della lingua. Un  capitolo di storia della letteratura italiana. Da Dante a  Muzio. Con una fonte,  Roma, cit.  receus.  Rajna Su i primi grammatici della lingua italiana è scritto, oltre che da Morandi  già  cit., da Ferrari,  Rivista europea. Anche nel Canone è la prima scienza. è ragione forse di maggior peso che non la precedente, è in intima connessione con ognuna delle trattazioni che possono esser  condotte anche separatamente; perchè è linguistica, se indaga l'origine e lo sviluppo della lingua che studia, è vocabolario in quanto registra, nei paradigmi e negl’esempi, molte serie di  parole, è storia dove tratta d'etimologia, è metrica, e, fino a un certo segno anche  rettorica, specie dove discorre dell'uso e della collocazione delle parole e delle figure grammaticali. Lo sguardo del  grammatico, insomma, può spingersi in ogni aspetto della  forma, s’è largo e profondo. L'opera del nostro Fortunio, infatti, di cui abbiamo i primi due libri soltanto, l'uno del dirittamente parlare, morfologici, l'altro del correttamente scrivere, ortografia, comprende, secondo quant'egli afferma nel proemio, in altri tre libri, la trattazione delli più riposti vocaboli, etimologia, stilistica,    della costruttione varia delli  verbi, sintassi, e della volgare arte metrica, svolgendo così tutta o quasi la materia grammaticale, senza dire che nel primo e secondo libro sono spesso discusse delle questioncelle di critica ermeneutica, quasi saggio d'un'ampia appendice, che pure aveva tracciata nel suo disegno. Ad ogni modo, questo primo tentativo d'abbracciar tutta la forma della lingua  che s’offre ora allo studio e alla imitazione, rivela il calore onde la critica s'applica alla letteratura. Ma, in generale, all'elaborazione della grammatica volgare, com'è  già avvenuto per quella vaticana, presede il modello della latina. Dei grammatici latini quelli che conservano fino al ri-nascimento la maggiore autorità, sono Donato,  ch'alla prima arte volle pella mano, e Prisciano  Cesariense, della  turba grama dantesca: Donato specialmente, nell’Ars minor, pella prima istituzione grammaticale, e Prisciano, il più completo fra tutti, pello studio più elevato; ma il ri-nascimento sente il bisogno d’adattarli per i tironi riducendoli e integrando l'uno coll'altro. Un primo tentativo di riduzione ha eseguito per tempo Zonino da Pistoia, che è il primo a imporre il nome di  Reguìa~e~?i\\%. grammatica  latina; ma non ha molta  fortuna. Assai più largamente adottati sono invece Guarino e Perotti. Quest'ultimo gode ancora il vivo favore dei discenti, come vedremo sulla  testimonianza del Conte  di  S.  Martino, che lo copia letteralmente nelle sue osservazioni di grammatica toscana. T. da in nota, per comodità  dei  lettori e per evitarsi continui raffronti e  ripetizioni, un'indicazione sommaria delle due arti di  Donato e  dell’instituzioni di Prisciano, valendosi delle loro stesse  parole: di Prisciano, che non si presta pella sua abbondanza di  Ecco lo schema della Donati De partibus orationis ars minor, ed. Kiel, Lipsiae. Partes  orationis VIII – I nomen II pro-nomen III verbum IV adverbium V participium  VI coniunctio VII praepositio VIII interiectio.Nomen est =df pars orationis cum casu corpus aut rem  proprie communiterve SIGNIFICANS (Grice ; ‘shaggy.’) Nomini accidunt, sex: qualitas, proprium – FIDO --,  appellativum – shaggy conparatio positivo comparativo supperlativo, genus, maschile, femmenile commune promiscuo numerus singulare duale – ‘ambedue’ --, plurale, figura, simpice, conposta,  casus VI. Pro-nomen est =df pars orationis – Grice, “Someone, I, is hearing a noise, quæ pro nomine posita tantunden paene SIGNIFICAT PERSONAMque – Grice, “PERSONAL IDENTITTY: “Something is hearing a noise” -- interdum  recipit.  Pronomini accidunt, sex) :  qualitas, genus, numerus, figura.   Verbum est (=df) pars orationis cum tempore et persona sine casu aut agere aliquid aut pati aut neutrum SIGNIFICANS. Verbo accidunt septem qualitas in  modis indicativo imperativo ottativo coniuctivo infinitivo impersonale. In formis perfecta meditativa frequentativa inchoativa. Coniugatio PRIMA,  AM-o, -as, -bo, -bor;  SECONDA,  doceo;  TERZA,  lego genus attivo passivo neutro deponente com.ì; numerus f singolare, duale, plurale  figura  isimplice composta tempus praesens,  praeterito imperfetto perfetto plusquamperfectum;  futuro),  persona prima – Grice, “I am hearing a noise”, SECONDA TERZA “Someone is hearing a noise).   Adverbium – e. g. ‘non,’ compostodi ‘ne’ e ‘on’ – est =df pars orationis, quæ adiecta verbo SIGNIFICATIONEM eius explanat atque inplet. Adverbio accidunt tria: significano loci temporis numeri NEGANDI (‘non’) affirmandi demostrandi optandi hortandi ordinis interrogandi similitudinis qualitalis quantitatis dubitandi personæ vocandi respondendi separandi iurandi eligendi congruendi prohibendi eventus comparandi comparatiti figura. Participium est =df. pars orationis partem  capiens  nominis,  partem  verbi;  nominis genera et casus, verbi tempora  et  SIGNIFICATIONES,  utriusque numerimi et figuram. Participio accidunt sex: genus casus tempus  SIGNIFICATIO  numerus  figura. Coniunctio est =df. pars oratiois adnectens  ordinansque  sententiam. Coniuctioni  accidunt irta: potestas coppulativa – e -- disgiunctiva – o -- expl. – ‘se’ --,  caus., ration. figura ordo praep., subs., coiti. Prae-positio est =df. pars orationis quæ praeposita aliis  partibus orationis SIGNIFICATIONEM casum aut conplet aut mutat aut minuit. Praepositioni accidit unum: casus. Interiectio est =df. pars orationis SIGNIFICANS MENTIS [ANIMAE] AFFECTUM VOCE INCONDITA. Interiectioni accidit unum: SIGNIFICATIO (la  intelligimus cum multis aliis etiam comprehensivum, verbale, principale, adverbiale. de comparativis et sup. et eorum diversis  extremitatis: ex quibus positivis et qua ratinili formantur; de diminutivis: quot eorum species, ex quibus declinationibus nominimi, quomodo formantur de denominativis et verbalibus et part. et  adv.:  quot eorum species, ex quibus primitivis, quomodo nasenntur. de  generibus  dinoscendis  per  singulas  terminationes;  de  nunieris;  de  figuris  et  earum  compage;  de  casti.   Genera: masculinum, femininum, commune et neutrum vocis magis qualitade quam natura dinoscuntur, quae sunt sibi contraria, epicœna vel promiscua. clnbia. Numerus dictionis forma, quae discretionem quantitatis facere potest. singularis vel   pluralis. Figura  quoque  dictionis  in  quantitate  comprehenditur:  vel  eiiim  simplex,   vel  composita,   vel  decomposita. Casus  est  declinatio nominis vel aliarum casualium dictionum quae fit maxime in fine. de nominativo casu per singulas extremitates omnium nominnm, tam in vocales quam in consonantes desinentium, per ordinem; de genetivorum  tam  ultimis  quam  penultimis  syllabis,  de  ceteris  obliquis  casibus,  tam  singularibus  quam  pluralibus, de  verbo  et  eius  accidentibus. VERBVM est  pars  orationis  cum temporibus et modis, sine casu, agendi vel patiendi SIGNIFICATIVM. accidunt octo. Significatio sive genus, tempus, modus, species, figura, coniugatio et persona cum numero, quando  afifectus  animi  definiti. Significatio: activus, passivus, neutrum (absolutum i, deponens. tempus: praesens, prateritum et futurum: praeteritum in tria, imperi"., perf.,  plusquamp.   modi  sunt diversae inclinationes animi, varios eius affectus demonstrantes. sunt autem quinque: ind. sive definitivus, imp., opt., subiun., infinitus. ind.us, quo indicamus vel  definimus, quid agitur a nobis vel ab aliis, qui ideo primus ponitur, quia perfectus est in omnibus tam personis quam temporibus et quia ex ipso omnes modi accipiunt regulam et derivativa  nomina sive verba vel participia ex hoc nascuntur, et quia primo positio verbi, quae videtur ab ipsa natura esse prolata, in hoc est modo,  quemadmodum in nominibus est CASVS NOMINATIVS, et quia substantiam sive essentiam rei SIGNIFICAT, quod in aliis modis non est. neque enim qui imperat neque qui optat nequi qui dubitat in subiunctivo substantiam actus vel passionem significat, sed tantummodo varias animi voluntates de re cavente substantia. Species sunt verborum duae, primitiva et derivativa, quae inveniuntur fere in omnibus partibus orationi. diversae species inchoativa, -sco, meditativa, -urio, frequentativa, desiderativa, et aliæ a nominibus  (patrisso) et a verbis  (albico). Impersonalia Figura quoque accidit verbo, quomodo  nomini. Coniugatio est consequens verborum declinatio. Sunt igitur personae verborum tres. Numerus accidit verbis uterque, quomodo et omnibus casualibus, singularis, pluralis. de regulis generalibus omnium coniugationum. de praterito perfecto. de participio. de  pronomine. est pars orationis, quae pro nomine proprio  uniuscuiusque  accipitur  personasque  finitas  recipit.   accidunt  sex:  species,  personae,  genus,  numerus,  figura, casus. species: primitiva derivativa, persona prima et secunda persona singula habent pronomina, tertia sex  diversas voces. demonstrativa, hic, relativa, is, praesens iuxta, iste, absens vel longe posita, ille, demonstrativa et relativa. genus: m., f., n. figura: s., e. numerus: s., pi. casus: quemadmodum  nominibus. De præpositione. Apolloni auctoritam in omnibus    sequendam  putavi. pars orationis indecl., quae prep. aliis part. vel appositione vel comp. cognationes de potestate separatae praepositiones vel acc. vel  abl. adiunguntur. De adverbio et interiectione. Pars orationis ind., cuius significatio verbis adicitur. accidunt species,  significatio. figura species prim. der. conp. sup. dim. significatio  adverbiorum  diversas  species  liabet tempus locum dehortativa confirmativa figura: simpl. conp. deconp. iurativa dub. discretiva ord. intentiva comp. super,  etc. Interiectionem  Graeci inter adv. ponunt, quoniam haec quoque ve]  adiungitur  verbis  vel  verba  ei  subaudiuntur,  ut  si  dicam papae,  quid  video?',  vel  per  se  'papae',  etiamsi  non  addatur  'miror',  habet  in  se  ipsius  verbi  significationeni.  quae res maxime fecit, Romanorum artium scriptores separatim liane partem ab adverbiis accipere, quia videtur affectum habere in se verbi et plenam modus animi significationem, etiamsi non addatur verbum, demonstrare. interiectio tamen non  solum quem  dicunt græci oxerMao/uóv significat, sed etiam voces, quae cuiuscumque  passionis  animi  pulsa  per  exclamationem  intericiuntur.  habent  igitur  diversas  significationem:  gaudii,  doloris, timoris, etc  optime  tamen  de  accentibus  earum  docuit DONATO E PRISCIANO, quod non sunt certi, quippe, cura et abscondita voce, id est 6r non piane expressa, proferantur et prò affectus commati qualitate, confunduntur in eis accentus De coniunctione. e. est pars orationis ind. coniunctiva  aliorum o. quibus  consignìflcat, vini vel ordinationem demonstrans: vim, piando simul essires aliquas significat, ut et pius et fortis fnit Ænaeas; ordinem,  quando  consequentiam aliquarum  demonstrat  rerum,  ut si ambulat, movetur. accidunt: figura et species, quam alii poteitatem nominant, quae est in significatione coniunctionum, praeterea ordo. figura: s., e. species:  copulativa,  continuativa, subcontinuativa adiunctiva causalis effectiva approbativa disiunctiva subdis. disertiva abl. praesump. advers. abneg. collect. vel rationalis dub. completiva ordo: praeponuntur. subponuntur. de constructiono  sive  ordinatione  partium orationis, inter se. Quoniam  in  ante  expositis  libris de partibus orationis in plerisque Apolloni auctoritàtem sumus secuti, aliorum qtwque sive nostrorum sive Graecorum non intermittentes necessaria et si quid ipsi quoque novi potuerimus addere, nunc quoque eiusdem maxime de ordinatione sive constructione dictionum, quam Graeci ovvra^iv vocant, vestigia sequntes, si quid etiam ex aliis vel ex nobis congruum inveniantur, non  recusemus  intercipere.  necessariam  ad  auctorum  expositionem.   est oratio comprehensio dictionum aptissime ordinatarum, quomodo syllaba comprehensio literarum aptissime coniunctarum, et quomodo ex syllabarum coniunctione dictio, sic etiam ex dictionum coniunctione perfecta oratio constat. Exempla: per abundantiam: literae, relliquias, syllabae, tutudi, dictionis, me, me adsum qui feci; literae prorfest, syllabae, inafoperator, dictionis, sic ore  locuta est: per defectionem: literae, audacter, syllabae, commovit, dictionis, urbs antiqua fuit quam, Tyrii tenuere  coloni. Quomodo autem literarum rationem vel scripturae inspectione vel aurium sensu diiudicamus, sic etiam in dictionum ordinatione disceptamus rationem contextus, utrumque recta sii an non. nani si incongrua sit, soloecismum faciet, quasi elementis orationis inconcinne  coeuntibus, quomodo inconcinnitas literarum vel syllabarum vel eis accidentium in singulis dictionis facit barbarismum. sicut igitur recta ratio scripturae docet literarum congruam iuncturam, sic etiam rectam orationis compositionem ratio ordinationis ostendit: dementa, syllabae, dictiones, orationes praeponuntur et postponuntur, dividuntur et coniunguntur, transmutantur, aliae prò  aliis accipiuntur. Solet quaeri causa ordinis elementorum, quare a ante b et cetera; sic etiam de ordinatione casuum et generum et temporum et ipsarum partium orationis solet quaeri. restat igitur de supra dictis tractare, et primum de ordinatione,collocatio, partium, quamvis quidam suae solacium imperitiae quaerentes aiunt, non oportere de huiuscemodi rebus quaerere, suspicantes  fortuitas esse ordinationum positiones. sed quantum ad eorum opinionem, evenit generaliter nihil per ordinationum accipi nec contra ordinationem peccari, quod existimare penitus stultum. si autem in quibusdam concedunt esse ordinationem, necesse est etiam omnibus eam concedere, sicut igitur apta ordinatione perfecta redditur oratio, sic ordinatione apta traditati sunt a doctissimis  artium scriptoribus partes orationis, cum primo loco nomen, secundo verbum posuerunt, quippe cum nulla oratio sine iis completur, quod licet ostendere a constructione, quae continet paene omnes partes orationis. a qua si tollas nomen aut verbum, imperfecta rit oratio; sin autem cetera subtrahas omnia, non necesse est orationem deficere, ut si dicas: idem homo lapsus ben bodie concidit, en omnes insunt partes orationes ausane comunctione, quae si addatili, aliarti orationem exigit. Possumus autem et amplioribus rationibus de ordinatione partium demonstrare; sed quia non de ea propo sitimi nobis est, sumciat hucusque dicere. Quaestio quare interrogativa dictionum in duas partes orationis solas concesserunt, id est in nomen et in adverbium: an haec etiam approbatio est, principales duas esse partes orationis nomen et verbum, quae quando in notitia non sunt, habere de se interrogationem frequenter  accipiendam?  Ouoniam de bis, quae loco articulorum accipi possunt apud Latinos in supra dictis ostendimus et de generaliter infinitis vel relativis vel interrogativis nominibus, quae relationis causa stoici inter articulos ponere solebant, et de adverbiis, quae vel ex eis nascuntur vel eorum  diversas  sequuntur  SIGNIFICATIONES, consequens esse existimo, de pronuininimi quoque constructione disserere. Partes orationis ad aptam coniunctiones ferri debent. per figurarti, quam Graeci à.kkoiòxt\xa vocant, id est variationem, et per nQÓÀrjynv vel  ovMeipiv, id est praeceptionem sive conceptionem, et per geBypia, id est adiunctionem et concidentiam, quam  ovvé/ATtxcùOiv  Graeci  vocant,  vel  procidentiam,  id  est  àvrwirwow, et numeri diversi et diversa genera et diversi casus et tempora et personae non solum transitive et per reciprocationem. sed etiam intransitive copulanti, quae diversis auctorum exemplis tam nostrorum quam Gra osservarle, a insegnarle, a compilarle sono ormai una schiera, e il fine questo conta ancor più è in tutti unito: trovar i principi onde condur con profitto lo studio e la 1 Vó stretto; per la s dolce propose il 0, per il eh seguito da i atono il  k, per il suono gì la grafia Ij, lasciando il e e il g col suono gutturale dinanzi a tutte le vocali, e il eh e gh pel palatale, e il digramma se. Sicché il suo alfabeto, quale ci è messo sott'occhio nella Grammatichetta, presenta 33 rappresentazioni: a b e d e f g eh e gh k i 1 j m nopqr^stouz v § x y th ph h, delle  quali  fa  28 SIGNIFICATIV, cioè,  rappresentative  degl’elementi  della  voce,  V  oziose -- x, y, ph, th, h -- benché  “h” non  lo  consideri  una  *lettera*,  ma  un  accento aspirato.  Le SIGNIFICATIVE distingue  in VII vocali  (aeeiocju) e 2i  consonanti.  Colle vocali  forma  13 dipthomgi, ai au ei eu ei ia ie ie io ico iu oi uo e un triphthngG>  (iu 99 renze e a Siena se ne fosse parlato, non mancali prove che l’attestino. Lasciando dell'atteggiamento preso contro Trissino e quant'è di personale nella polemica, e la contestata possibilità di conseguir l'intento in materia siffatta, gl’oppositori accettarono la distinzione per  Vu  e il v, quella dell',  per convenzione. Tratta poi del nome, e non va più innanzi, perchè da  lui  rivegna a noi, di  tutte le cose conoscimento, forma e sostanza. Secondo il novero e il grado, secondo che SIGNIFICA Corpo o ver Cosa, che sia d'altrui qualità  propria  o  comune,  otto  ne  sono  gli  osservamenti: Specie Qualità Comparazione Geno Novero Forma Grado e  Terminazione. Date  tutte [È  la  vera  traduzione  dell' alviariKÓv  de’greci. Trattandosi  della prima  grammatica dove si affacci  un  intendimento classificatorio – o tassonomico, i. e., non-esplicativo – adequazione descrittiva --,  credo meriti la spesa il riferire le definizioni di quest’accidenti grammaticali. Specie ee, una natia disposizione, di che che sia voce; per cui de'1 primo suo essere discernimento riesca, o soccedente dopo. Geno ee egli, uno racconoscimento dell'un sesso all'altro, dallo anziposto articolo, naturalmente tratto, o dall'autorità degli scrittori, alle genti rimase. Novero e egli, uno accrescimento di quantità, d’uno a più procedente; per terminazione distinto. Forma ee ella, uno racconoscimento della parola sempiamente detta, o congiunta e apposta altrui. Grado fia egli, un certo movimento della  variazione,  ne  '1  Novero, racconoscimento per anziposto articolo sempiamente  addetto, o con preposizione riposto. I casi son detti: nominativo vocativo genitivo acquisitivo causa-] guaito le relative definizioni, porge i paradigmi delle terminazioni, declinazioni, di cui fa cinque classi a; o; e;  i; Gerì, Portici, Napoli; cons. David,  Babel e infine un Notamente vocabolarietto de Nomi di che sia detto nello costui  ragionamento. La  medesima  applicazione del concetto di TRISSINO D’ORO del volgare illustre al canzoniere fa un altro curioso seguace di Bembo, il conte di  S. Martino nelle sue osservazioni grammaticali e poetiche della lingua d’ITALIA, dove lo schematismo grammaticale acquista quanto e più che nella grammatica dell'Ateneo un considerevole sviluppo. Difendendosi dall'accusa rivoltagli d'incapace, qual  nato sul confine, a osservar le regole del volgare, egli fa intendere che non occorre esser toscani per comprender Petrarca, il quale non iscrive nel puro fiorentino, ma nell'ITALICOi, che rappresenterebbe per noi quel che per i Greci la Kotvfj  òià/.EKTos(l).  Egualmente dichiara d’attenersi ai modi facili e intesi da tutti, non tolti di mezzo la Toscana, e usando anche vocaboli latini un  m. Nicolò Tani dal Borgo a  S. Sepolcro che, pur trattando della nostra lingua toscana, scrive i  suoi avvertimenti sopra le regole toscane colla formazione de’1 verbi, e variatione delle voci, non pe'toscani, tivo, Terminativo. Qualità ee, un partimento di nomi, de gl’uni agl’altri, altri fatto commone o proprio, a cose divertevoli tratto.Comparazione ee un accrescere o scemare di qualificato accidente, con anziponimento di se: per l’additioni fattone, significanti diminuzione, o accrescimento d’appellazione che sia. Terminazione, osservamento sezzaio, una fine esser diciamo, di che che sia  Appellazione; variata per gradi, et in uno de vocali pello sempre finiente; con barbari alquanti in consonante formati. I nomi son divisi in essistenti, sostantivi, e adherenti, aggettivi, shaggy. La doppia uscita è chiamata geminamente  chiostro,  -a;  calle,  -a;  martire,  -o. Delle parti del  discorso fa nove classi: nome,  pronome, articolo, dittione, verbo, partecipante, additione, avverbio, preposizione, congiuntione, interposizione: che corrispondono press'a poco alle nostre, tranne che fa una classe del participio e non dell' 'aggettivo, che fonde col nome. A questo raffronto hanno ricorso altri propugnatori dell'italiano comune, a cominciar da CALMETA, che se ne sarebbe servito per persuadere, ma indarno, la sua dottrina a TRIFONE.  Cfr.  Ra.ina,  La  lingua  cortigiana  cit.In  Venezia,  per  Giovita  Ripario. Sono lodati da Fedeli  in una sua lettera posta dietro le rime di Torelli. E infatti pell'uso a cui la destina l'autore, sono esposti con certa bravura didattica, e ricchi principalmente  di paradigmi.    S'in- [ma per quei fuori d'Italia. Un bel riscontro alla precedente offre questa dichiarazione che Citolini, autore della Tipocosmìa, fa nella sua lettera in difesa della lingua volgare: io voglio starmi nella Toscana non come in una prigione,  ma come in una bella e spaziosa piazza, dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono. Né mancarono de'seguaci di Trissino più trissiniani di lui – more Griceian than Grice -- come Arezzo nelle sue osservaniii della LINGUA SICILIANA  O e Achillini  nel dialogo dell’annotazioni della volgar lingua [Arezzo, partendo dal concetto che l'antico siciliano è lingua più pulita che non sia il moderno, e tale concetto appoggia coll'autorità di Dante, scrive la  grammatica _p_er icojr^  regger questo e ridurlo all'antico splendore, sicché i siciliani  possano adoperarlo come lingua propria letteraria. Non è una  grammatica completa, perù  che io non altro fari intendo chi purgar la nostra lingua mutando alcuni palori non ben usati. Cita l'autorità di poeti siciliani viventi; ammette per necessità l'uso di parole latine e fiorentine per ragioni di stile italianizzate. E dà una raccoltina di sue canzoni per mostrare come sarebbe da scrivere, ponendo in margine il commento. dugia molto sui mutamenti di vocali in principio, nel mezzo e nel fine delle parole; dei vocaboli composti; del troncamento e dell'accrescimento. E notevole l'osservazione riguardante i participi sincopati,che sono ancor  oggi una delle caratteristiche del dialetto della regione di cui è l'autore: ingombro, cerco, scuro, inchino, desto, franco, molesto, stanco, lasso, ecc. da ingombrato, cercato, scurato, inchinato, ecc. Oggi vi si sente, p. es., 'nsénto per insegnato. La lettera è datata da Roma; ed è edita in Venezia per Marcolini  da  Forlì.  Vi  si  dice  che  il  Citolini  conversava  con  m.  Trifone;  e  che  la  lettera  trovavasi  manoscritta  nelle  mani  di Zane.  Fu  ripubblicata  in  compagnia  d'una  lettera  del  Ruscelli  al   Muzio,   in  Venezia al segno del Pozzo Osservaniii; Della lingua siciliana ecanzoni,  j  in  lo,  proprio idioma,  Arezzo,  | gititi/'  Homo, sa | ragusano. Ad instantia di  Siminara. In Missina per Spira. Annotationi della volgar lingua d’Achillino, Bologna da Bonardo da Parma e Marcantonio da Carpo dall'originale dell'Autore. Eccone un  esempio: Vinci  disdegno d'ogni amor la forza: Volsi diri: chi  cosa  Muta lo cori, e trasforma la vogla: nixuna pò mutar [Achillini loda ed esalta Dante, Petrarca e Boccaccio perchè lo meritano, e quando gl’accade volentiera gVimita: gli piace anche il fiorentino quando è pronunziato bene, ma ritiene più corretta, in qualche parte, la comune e bolognese nostra: perchè derogar' alle più belle parole nostre non intendo, non sol alle nostre bolognesi, ma di quale altra si voglia patria, che sono delle thosche migliori, le piglio, e le thosche abbandono. Non però di libertà privando coloro, che thoscanamente vogliono procedere. E con pieno sentimento della bontà della parola viva, argutamente soggiunge; A noi ìntraviene come a coloro ch'hanno in casa bianco e ben cotto pane, e vanno in prestanza dal vicino a tuorne de'1 negro et mal cotto. E s' argomenta rafforzare questo sentimento estetico della lingua colla ragione storica. Così preferisce Olempo ad Olimpo, perchè questi due elementi i ed e hanno sì grande insieme l'amicitia che quando quella / dalla romana ovvero latina si parte per farsi volgare, ed ella in molti dittioni in e si trasforma, come in ancella da anelila; più Olempo gli fa comodo perchè rima con tempo! E preferisce zeloso, che viene da zelo, -as, a geloso, perchè noi bolognesi, toscanizzando geloso, si fa come il gentil che butta via la gentil moglie, e ne piglia una bastardella. Bologna docet dal tempo di Teodosio: dunque Bologna è la madre, dunque a Bologna la lingua volgare nostra il suo rifugio sempre mai d'aver deve, specialmente ne'1 bene, e che li figli cordialmente ama. Achillini è E lo mio cori mai forzao: nen forza: lo cori so, di lo amor Ne lo rimossi di l'antica dogla: della sua donna, Anzi la vidi vigurosa smorza stanti la fidi e Foco, chi di disdegno si ricogla, la constantia, E la costantia: chi di novo sforza: la qual costringi la Costringi la radici a nova soglia. radici di l'arboro di lo amori a novi effetti. Pulejo Ettore, Sul più antico abbozzo di grammatica siciliana, Atti e rend. dell' accad. dafnica d’Acireale; e Sabbadini, Studi medievali. Con questi criteri Achillini compone un suo poema didascalico ad imitazione del Dittamondo, intitolato il Fedele. Frati, Giorn. st. d. leti, it. Ad Achillini dobbiamo quelle Collettame grece, latine e vulgari sulla morte dell'ardente AQUILANO (si veda) in un corpo redutte, che Ancona illustra, Studi, e dove sono rappresentate quasi tutte le città della pe- [l'unico che voglia parlar la propria lingua, lasciando piena libertà agl’altri, ai toscani di parlar la loro. Ed è il più logico. O meglio, chi mostra anche più buon senso in tanto variar d'opinioni e meno vaga coscienza di quel che sia la lingua, è Bolzani, il cui dialogo è male che non vede la luce che quasi un secolo dopo da che era stato disteso, sotto l'impressione di dispute avvenute, presente Trissino. Lelio, uno degl’interlocutori, a' quali nisola. Non possiam forse parlare d'una dottrina del volgare illustre dantesco che gli serva di fondamento ideale; ma nel fatto nulla vieta di considerarlo un omaggio a tutte le parlate di Italia che l'Achillini egualmente rispettava. Dialogo della volgar lingua di Valeriano, Bellunese, non prima uscito in luce. In Venetia, nella Stamperia di Gio. Battista Ciotti. Fu ristampato dal Ticozzi, Storia dei lett. e degli artisti del Dipartim. della Piave, Belluno. La composizione di questo Dialogo, il secondo dopo quello del Machiavelli, in cui si riflettono le discussioni sulla lingua che il Trissino avvivò discorrendo del De Vulgari Eloquentia, di cui possedeva uno de' pochi esemplari, si suol riportare (G. Percopo, Giorn. st. d. lett. il., cioè a un tempo di poco lontano alla composizione del dialogo machiavelliano e alla breve fermata fatta dal Trissino in Firenze e alla probabile visita dell'anno successivo alle medesime radunanze. È ben noto che discussioni simili a quelle degli Orti e nelle quali medesimamente, come apprendiamo in ispecie dal Cesano, il trattato dantesco era oggetto e materia, avvennero in Roma, presente anche qui il Trissino, che risiedette colà. (Rajna, Introduz. eh., p. L'I. Ora, il Dialogo del Valeriano, che, come ogni scritto consimile, se non è riproduzione dal vero, è finzione che nel vero deve avere qualche radice, a me sembra che rispecchi assai meglio le radunanze romane del 24 che non le fiorentine del 13 e 14. La scena è collocata in Roma e ne sono interlocutori Lelio, il Marostica, e Angelo Colotio (il Colocci): e il Colocci vi riferisce agli altri due il dialogo avvenuto la sera innanzi in altra casa, dove egli fu trattenuto, in Roma stessa. Può esser tutta finzione questa e il contenuto del riferito Dialogo appartenere alle discussioni fiorentine; ma l'allegazione del pensiero del Papa e il richiamo della tirannide che il fiorentinismo aveva impiantato alla capitale e le macchiette di quei canzonatori fiorentini, sono indizi a' quali mal si sa dare una realtà tutta immaginaria. Quel che, per altro, secondo noi, basta a dirimer la questione, è la teoria del Tolomei intorno al volgare, la quale corrispondeva perfettamente a quanto il Tolomei veniva pensando e scrivendo appunto in quel bat- il Colocci riferisce il Dialogo avvenuto tra il Trissino, il Tolomeij il Tibaldi e il Poggi, dice: Io non sento la più sciocca cosa, che '1 parlar toscano da uno, che non sia Toscano; e riesce ridicolo per lo più, chi vuol parlar la lingua d'altri, perchè non può star tanto sull'aviso, che a lungo andar non iscappi nel naturale, poiché la radice tien sempre della sua natura (p. 15). Il Marostica, un altro interlocutore, si duole in modo veramente spiritoso di non aver assistito al dialogo. Dio, perchè non mi smi io trovato a questi ragionamenti per poter finalmente risolvere, se ho da parlar con la mia lingua, o con quella d'altri, eh' è una compassione il fatto mio, ogni volta, che ho da scrivere a un amico, star a freneticar, s' io ho da usar la mia lingua, 0 mandar per un'altra al macello. Messer Angelo, non si può più vivere, dapoichè son usciti fuora certi soventi, certi eglino, certi uopi, certi chenti, e simili strani galavroni; non posso passeggiar per Parione, che vengano questi giovanotti dottarelli, barbette recitanti, e stanno ascoltando, quel che ragioniamo insieme, e ci puntano negli accenti, nelle parole, e sulle figure del dire, che non sono Toscane senza una compassion al mondo, ridendosi di noi, che se ben ha verno messo la barba bianca tagliero 24, e che non so da quale altra fonte, se non dal ricordo delle radunanze romane, Valeriano avrebbe potuto attingere. E anche la presenza del Pazzi è ben significativa. Cosicché io inchino a credere che questo caratteristico scritterello sia da riferire a un tempo non anteriore. L'oggetto della disputa che vi è riferito era stato: se questa lingua Volgare era nostra, o d'altri, e se l'era toscana, e di che paese, e se si poteva scriver in volgare altramente che con forme Toscane. Poi si trattò, se per Lingua Toscana, s'intendeva solo la Fiorentina, e sopra tutto qual convenisse a un galant'homo. La disputa, invece, quale è rispecchiata nel Dialogo del Machiavelli, che da ogni accento mostra esser vero, è ben diversa. E anche le parole, che si potrebbero allegare per metter il Dialogo del Valeriano in relazione con le discussioni degli Orti: Misser Giangiorgio [disse], che stava sopra una fantasia di certe lettere, che mancavano nel nostro alfabeto, poiché avendo la pronuntia diversa, si notavano con la medesima figura, vanno assai meglio pel 24, l'anno appunto in cui la riforma trissiniana fu resa pubblica. Noto con piacere che anche Rajna nella già cit. recens. (che vedo ora nel riveder le bozze) del saggio di Belardinelli, su cui parimenti getto lo sguardo ora appunto per la spinta di quella recensione, con quest'ultimo de' miei argomenti e altre parole propugnata nuovamente dal Belardinelli.] negli studi, non sapemo quello, che mai non ci sognassemo d'imparare. Non dico già, che, poiché havemo un Principe Toscano, e di tal dottrina, virtù, e benignità dotato, non debba ogniuno accomodarse, ingegnarse, arfaticarse con tutta l'industria, che può, di fargli cosa grata. Ma io povero vecchiarello, come posso hora imparar di nuovo a parlare, che, come vedete, m'incominciano cascar li denti? Certo, che m'è venuta qualche volta tentatione di partirmi di Roma per non esser tenuto forse per ribello, perchè non parlo toscano, e mi scappa di quando in quando mi, e ti (pp. io-ii). E il Colocci risponde con altrettanta arguzia, e fors'anche verità storica: Messer Antonio, la cosa non passa in questo modo. Il Principe non ha fantasia, ne pensier, ne interesse alcuno in questa materia; è homo universale, dotto come sapete, in lettere greche, e latine, et esercitato in tutte l'arti, che appartengono a un vero, e gran signore; e si prende piacere d'ogni esercitio d'ingegno, ma particolarmente di queste dispute, et osservationi; perchè havendo la lingua nativa, e libera, se ride di questi, che la mendicano, ma molto più di quelli, che la vogliono restringere, e limitar tutto il dì, e farla star a regola nelle stinche, si che non pensate che questo si faccia per adularli, che tanto amerà egli una cosa ben detta nella Cappella di Bergamo, quanto un'altra detta sotto la Cuppola di Firenze. La quistion è fra questi begli ingegni e scientiati de', nostri tempi. E tale quistione è riassunta nel Dialogo con molta esattezza, s' intende riguardo allo spirito: le dottrine del Tebaldo, che rappresenterebbe la corrente dialettale non toscana; del Pazzi, sostenitore del fiorentino, del Tolomei, propugnatore del Senese o meglio del Toscano in genere, del Trissino, che vagheggiava dantescamente l'uso cortigiano, sono con obiettività tale riferite, da far apparir appena che il Valeriano stia più dalla parte del Trissino che non de' Toscani. E anche l'ultimo pensiero messo in bocca al Trissino a conchiusione del dialogo e come sintesi dei principi da seguire, è di tal forma che i Toscani stessi avrebbero potuto accettarlo. Infatti, ciascuno, come avrò più volte osservato, aveva perfettamente ragione dal suo punto di vista, e tutti, come su per giù convenivano, per quant' era possibile, nella pratica (ciò che avviene poi in ogni secolo, perchè in ogni secolo o periodo storico gli spiriti sono su per giù tutti conformati all'ìstesso modo), così, tra tante divergenze e contradizioni anche con sé stessi, finivano per convenire nella teoria d'una lingua letteraria comune, che, fatta ragione di particolari predilezioni dialettali o letterarie, era e non poteva non essere che il fiorentino (piale la letteratura nazionale l'aveva adoperato. Il Machiavelli stesso si trovava più d'accordo con Dante, di quel che certo egli e gli altri non credessero. Era proprio come diceva il Colocci: La quistione è fra questi begli ingegni e scientiati de' nostri tempi. L'importanza derivava dal modo e dalle ragioni della disputa: e anche per noi quel che importa, è che una tale questione fosse stata agitata, e si tenesse così vivo l' interesse per il linguaggio. Ma i più camminavano sulla via nella quale s'era messo il Bembo, trattando nelle grammatiche la regolarità trecentesca, specialmente del Canzoniere, e raccogliendola in dizionari. Annotazioni su vari autori volgari e latini e una Colleclio vocum Petrarchae et aliorum , intorno a cui avrebbe lavorato nel medesimo tempo in cui il Bembo stendeva le Prose, ci ha lasciato, come vedemmo, Angelo Colocci suo grande amico, cui, pertanto, spetterebbe il merito di priorità nella compilazione d'un vocabolario volgare sul Liburnio {Le tre Fontane), sul Mi nerbi che diede una raccolta di voci del Decameron e ne prometteva una del Canzoniere, sul Luna che nel 36 ne diede una di cinquemila vocabulì toschi del Furioso, Bocaccio, Petrarcha ed ALIGHIERI, sul Di Falco, autore d'un Rimario, dove rimanda al J Vocabolario della Fingila Volgara di prossima ma non mai avvenuta pubblicazione. Osservazioni sopra Petrarca, puro lessico della lingua, come lo chiamano Carducci e Ferrari, del resto utilissimo, ma qua e là arricchito di qualche breve spiegazione , come aggiunge il Morandi, compilò Francesco Alunno, che nel 50 ne diede fuori una seconda edizione meglio ordinata e più compiuta, dopo che aveva messo in luce le altre due voluminose raccolte delle Ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio e della Fabbrica del mondo, che con- Sono ancora tra i codd. vaticani. Cfr. Cian. Cfr. Morandi] tiene le voci di Dante, del Petrarca e del Boccaccio e di altri, ed è anche una specie di enciclopedia. Di grammaticale nelle opere di questo eccellente anatomista delle composizioni volgari , come egli stesso modestamente si fa chiamare in una lettera che finge direttagli dal Petrarca medesimo, c'è poco più che la classificazione dei vocaboli nelle varie categorie delle parti del discorso. Il di più consiste in qualche notazione etimologica come in Donna, quasi domina levata la / et mutata la M in N...; nell'unione degli epiteti o agiettivi ai loro sostantivi; in regolette e osservazioni riguardanti le particelle; e nell'indicazione de' vari modi in cui i verbi si variano secondo le variationi de i suoi tempi; nelle osservazioncelle ortografiche che sono in fine alla raccolta; non entrando nel campo strettamente grammaticale, non dico alcuni cenni biografici o storici, ma le dichiarationi delle voci , onde le voci sono accompagnate. Le Ricchezze furono ristampate da Aldo in Venezia, con le dichiarazioni, regole, osservazioni, cadenze e desinenze di tutte le voci del Boccaccio e del Petrarca per ordine d'alfabeto, e col Decameron secondo l'originale ecc. La forma tipica di questi zibaldoni tra lessicali e grammaticali e spositivi quali eran richiesti dai bisogni di chi s' introduce nello studio e nel culto del volgare con la guida del Bembo, ci è data nella sua opera intitolata Vocabolario, Grammatica et Orthographia de la Lingua volgare, con ispositioni di MORANDI. Lombardelli giudica così l'Alunno: Fin'oggi, è il più facile, più comune, e più utile scrittor di questa schiera, per quanto però da una semplice e debol Teorica si penda alla pratica, per ordinario può far benefizio ai Giovani e a' principianti; a certe occasioni levar fatica a' bene introdotti; e per dubbi che nascono all'improvviso intorno all'uso delle voci Toscane giovare ugualmente a' nostri, forestieri, deboli, gagliardi. Nelle osservazioni sopra il Petrarca esamina principalmente le voci, e le locuzioni poetiche; nelle Ricchezze i parlari, che alla prosa convengono; nella Fabbrica le voci e le guise di dire comuni, e popolaresche, scelte però da lui con assai buon giudizio da tre principali scrittori Toscani e talvolta dal Sannazaro, dall'Ariosto e dal Bembo. In certe dichiarazioni se ben per lo più vi è gito pesato, o sospeso, non è la più sicura cosa del Mondo. / fonti, pp. 55-6. Delle opere lessicografiche dell'Alunno riconosceva l'opportunità il Giraldi, Scritti estetici, Milano. Cfr. L. Arrigoni, F. Alunno da Ferrala, ecc., Firenze.] molti luoghi di /laute, di Petrarca e Boccaccio, d’Accarisio, che già nel 38 aveva mandato Cuori separatamente una grammaticheita, certe regolette latte leggendo il Bembo e grammatici, spositioni delle prose del Bembo in brevità redotte, et tale che chiunque vorrà imparare, piglierà speranza in breve di vedere il fine. L'Accarisio ha cura di tener distinto il linguaggio della prosa da quello della poesia, come aveva inteso di fare il Minerbi col vocabolario petrarchesco da lui annunziato, e come su per giù intendevano ormai far tutti più o meno esplicitamente: Regole, osservanze, e avvertimenti sopra lo scrivere correttamente Cento. Una seconda edizione con Privilegio di N. S. et d'altri Principi per anni A" ne fu fatta in Venetia alla bottega d' Erasmo di Vincenzo Valgrisio. La Grammatica volgare di M. Alberto de Gl'Acharisi da Cento. In Venezia per Nicolini da Sabio. Ad instantia di M. Merchiore Sessa. Fu ristampata più volte. Di questo libriccino io ho potuto vedere, per cortesia del prof. Teza, l'edizione del 43: La Grommati ca volgare di M. Al | berto de gli Acha | risi da Cento. Dopo II fine: stampata in Vinezia per Francesco Bindoni e Mapheo Pasini, piccolissimo di fogli 4. È dedicata al sig. Conte Giulio Boiardo signore di Scandiano. Alti lettori l'A. dice di non aver voluto essere scrittore di regole volgar, ma che per imparar leggendo le prose del Bembo e altri auttori, da i loro scritti per mia utilità questa brevissima regoletta mi feci... saranno spositioni delle prose del Bembo in brevità redotte. Raccomanda di studiar Bembo, Boccaccio, Petrarca e Dante: apprendete la facilità del dire, l'abondantia, le belle sententie, le clausole numerose, et fuggite gli antichi vocaboli, che hoggi se eglino vivessero non userebbono, per lo nuovo uso mutatisi, et scrivendo thoscanamente, scrivete con tale facilità, et vocaboli sì, che da chi gli scritti vostri leggerà, siate intesi, acciocché del vitio deiraffettione non siate ripresi. Poi scrive: Incominciamo le regoli (sic) volgari dell' Acharisio , e tratta degli Articoli, del Nome, del Pronome. È notevole che nella trattazione de' pronomi parli della forma latina, che declina in tutti i casi, sicché si ha una doppia declinazione italiano-latina di ipse, ille = quegli (per Egli non trova la corrispondente latina), iste, alius, idem, nullus, quis. Poi espone le quattro regole o maniere del verbo, e toccato dei Gerundi e Partecipi, tratta Degl'avverbi locali, e qui ritorna la corrispondente latina, hic, huc, hinc, ecc. Molt'altre ne lascio facili d'apprendersi da sé. Accenna, al proposito di tornar sopra all'argomento per mostrar che sia da fuggire ciò che non è toscano. S la li?igìia Toscana, indifferente (l'aquila, il passero), comune (portatore, -trice). i') Definisce l'accento temperamento, et armonia di ciascuna sillaba, o lettera significante, dividendolo in grave,' acuto, misto "•), converso (', apostrofo). Capitolo quarto 127 espressivo. Il che accade sempre quando si perdono i contatti con la parola viva. Fra tutte le parti, due sono di maggior pcrtettione, che l'altre. Il nome, et verbo, li quali giunti insieme fanno per sé stessi concludere una perfetta sententia come Rinaldo scrive. T. Dico per tanto il nome esser tra le parti, diesi variali, quello, per cui l'essenza, et la qualità di ciascuna cosa corporale, o non corporale che sia particolarmente et in universale si discerne: corporali son quelle cose che toccar si possono, et vedere come libro. Rinaldo. Homo. Non corporali son quelle, che con l'intelletto solo si comprendono, come studio. Ingegno et valore. Da questa funzione logica attribuita alle categorie grammaticali e dalla conseguente interpretazione di regolarità data alle forme, deriva l'accoglimento fatto dal Corso ne' suoi fondamenti alla parte della concordia delle parti principali insieme (sintassi di concordanza), e delle figure, che sono deviazioni di pronunzia, di forma, di costrutto, di ortografia dalla regolarità tipica. Per la strada in cui s'era messo il Corso, ritroviamo un altro poligrafo assai più prolifico, Lodovico Dolce, del quale il Lomdardelli disse che può dare una facile introduzzione, e commoda assai per li principianti , e che da sé si rannoda al Fortunio che poteva esser più copioso nelle cose necessarie , e al Bembo, che volendo vestir questa materia con i ricchi panni della eloquenza, ragionò solamente a Dotti. Egli si rivolge, pertanto, ai principianti, e tratterà la grammatica volgare, come gli antichi grammatici trattarono della latina. Le osservazioni constano di quattro parti: la I contiene le regole della volgar gramatica; la II l'ortografia, nel modo che c'è insegnata dalla ragione, dimostrata dall'uso, e conlermata dall'autorità; la III X ordine del puntare e gli accenti; la IV poetica, metrica e ritmica. Della concordanza delle parti discorre nella I sezione, dove non tralascia le figure grammaticali : di fonologia discorre sotto l'ordine dell'accento. Di molta importanza è anchora l'ordine e la testura delle parole; Dove, quando fosse chi della Volgar Grammatica trattasse in quel modo, che gli antichi Grammatici trattarono della Latina; senza dubbio essi quel medesimo profitto ne trarrebbero, che ne hanno tratto molti appo i Latini, senza niuna contezza haver della Greca. Pref. all'ottava ediz. di Gabriel Giolito de' Ferrari.] ma questa è parte, che appartiene al Rhetore, e non a scrittore di Grammatica. Si propone anche il Dolce il quesito se La volgar lingua si dee chiamare italiana o thoscana , e lo risolve nel senso voluto dal Bembo, cui prodiga grandi lodi anche di scrittore e poeta, ripetendo per lui il detto di Quintiliano: ille se proferisse sciat cui Cicero valde placebit; crede perciò che si debba chiamare volgare e thoscana, ma non in modo che i Toscani se ne insuperbiscano ! La facultà di lettere, com'anche è chiamata l'arte di parlare e scriver bene, si divide in lettera, sillaba, parola, che da i latini è chiamata Dittione , e parlamento, detto da' medesimi oratione. Ammette (citando particolari trattatisti, non escluso Pontano) 22 lettere: a b e d e f g h i 1 m n o p q r s t v x y z, di cui V vocali e XV consonanti (escludendone l' “h” e il “v” semivocale), così distribuite: 8 mutole, bcdgpqtz; 7 mezzevocali, f 1 m n r s x, di cui 4 liquide, 1 m n r. Delle parti del discorso due sono principali, il nome e il verbo, le altre secondarie, pronome, participio, avverbio, preposizione, interiezione, congiunzione. A proposito del nome, distinto in sostantivo e aggettivo (shaggy), che a sua volta si suddistingue in generale e particolare, tocca il problema dell'origine della favella se per natura o per convenzione. Discorre poi, pur non avendone fatta una categoria, de gli articoli, e di quei segni che a i nomi invece di casi si danno : a di da valgono per i casi retto, strumentale o effettivo o operativo, e locale. Molto assottigliata, rispetto al Bembo, è la trattazione de' pronomi, distinti semplicemente in principali (io) e derivati (mio). Al verbo, parte principale e più nobile del parlamento , indicante o operazione, o cosa operata, attribuisce cinque tempi: pres., impf., pass., pperf., avvenire; cinque modi, dimostrativo, inip., desiderativo, cong., in/.; tre figure: semplice, composta, ricomposta; due numeri; tre pe?'sone; due ma?iiere (coniugazioni), secondo il criterio della 3 ps. ind. pres. Dà i paradigmi dalle due maniere, degli irregolari (come sono e vado), degl' impersonali; tratta de' g erondi e participi, e degli anomali. Parla degli avverbi secondo le significazioni (tempo, qualità, affermare, accrescere, paragonare, luogo); delle preposizioni, divise in separate o aggiunte, e delle loro combinazioni; dell' intergettione, che esprime vari sentimenti, come mostra con molti esempi di versi; della congiun Capitolo quarto 129 tionc che va incatenando e ordinando il parlamento. Le figure grammaticali sono villose o bellezze: le prime dipendono dal cattivo suono (onde si ha il bischizzo, che qualche volta ha grazia come nel v. del fiorir queste inanzi tempo tempie ), dall'ai- giunqer paro/e di soverchio, dal tacerle, dall' invertirle, dall' usarle iniproprianiente (ellissi, pleonasmo, inversione ecc.); le bellezze dall'uso dell'ai, alla greca ( h umida gli occhi ), della parte per il tutto, della ripetizione, del polisindeto ecc. Nella trattazione dell'ortografia segue un criterio opposto a quello del Trissino, che chiama eretico, senza nominarlo, ma limitandosi alle cose più elementari: Basta haver dimostro come si debba fuggir il porre insieme alcune consonanti; come le lettere si cangino l'ima nell'altra; come si ha ad usar 1' h, come a raddoppiar esse consonanti sì ne' nomi come ne' verbi. Nel terzo libro segue la bellissima inventione del Bembo. Tratta dell' accento (da ad-ca?itus, concento ), che è acido, grave e rivolto (apostrofo). Sulla scorta delle dottrine degli antichi (Donato, Sergio, Fortunantiano, Diomede) sul puntare, tratta della distinzione, suddistinzione, mezzadistinzione, che si hanno secondo che il periodo ( clausola ) è terminato in tutto, in metà, o in parte. Illustra così l'uso del punto, ., della coma,,, del punto coma, ;, de' due punti, :, dell 'interrogativo, ?, della parentesi o traposizione (()). Raccomanda infine lo studio del Petrarca e del Boccaccio, ma non lascino da parte Dante. Perciocché anchora che egli non sia, (come nel vero non si può negare) molte volte, delle regole osservatore; dal suo divino Poema molte belle forme di dire si potranno apprendere. Il libro IV sulla Poetica, che occupa quasi un terzo dell'opera (pp. 87-115)0 si fonda principalmente su Antonio da Tempo e sul Bembo. L'opera di Dolce, specie nella sua prima edizione ("), non Osservazioni nella volgar lingua. Di 31. Lodovico Dolce divise m quattro libri. Con privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari. La più completa e corretta è la seguente: I quattro libri delle osservationi di m. Lodovico Dolce di nuovo ristampate et con somma diligenza corrette. Con le postille e due tavole: una de' capitoli e l'altra delle voci, et come si deono usare nello scrivere. In Vinegia presso Salicato. Nuove osservazioni C Trabalza. q Storia de/la Grammatica andò esente né da critiche né da beffe, da parte soprattutto del Ruscelli, col quale ebbe una fiera polemica, e dal Muzio, ai quali certo non potevano mancar appigli: essa è una compilazione abborracciata secondo il costume del Dolce, che vi mise di suo ciò che poteva metterci un compilatore in questo periodo, la parte schematica e 1' ordinamento, favorendo il processo di cristallizzazione delle osservazioni condotte personalmente dai primi grammatici con discreto senso della lingua sulle opere degli scrittori. Un piemontese, Matteo Conte di S. Martino e di Vische , riattaccandosi egualmente al Fortunio, al Bembo, da cui forse più di luce prende , e al Trissino, delle cui dottrine abbiam visto 1' applicazione fatta alla forma petrarchesca, nelle sue Osservazioni grammaticali e poetiche della lingua ita/iana (1), adottò interamente, con piccolissime varianti, lo schematismo dei Rudimenta gramatices di Perotti divulgatissimi(!)/ Basti recar l'esempio della trattazione del nome. Esso è diviso: A secoyido la sustanzia: I proprio; II comune: 1. -a) primitivo (es. Giulio), primitivo-appellativo (terra), derivativo proprio (Giuliano); derivativo-appellativo; corporale proprio (Pietro), corporale appellativo (huomo); incorporale proprio e appellativo; 5. univoco proprio e appellativo; 6. equivoco proprio o sinonimo appellativo; B secondo la qualità: 1. sustanziale a) proprio; b) aggiuntivo (epiteto); 2. (il sostanziale e l'aggiuntivo comprendono poi) 17 classi di appellativi: I. intelligibile al detto (patre, tìglio); 2. id. (giorno, notte); della lingua volgare scelte da Lodovico Dolce con gli artifici usati dal T Ariosto nel suo Poema. In Venezia per li Sessa (-8n). Si devono al Dolce anche Modi a/figurati^ e voci scelti et eleganti, Venezia, 1564. In Roma presso Valerio Dorico e Luigi fratelli. Le osservazioni poetiche (che l'autore intitola // Poeta) sono una poetica che l'autore stesso dichiara compilata sul Filosofo e sui nostri principali trattatisti, Dante, Antonio da Tempo, Bembo e Trissino; ma riguardano particolarmente l'elocuzione e la metrica. 1 Nicolai Perotti, ed. cit. (:t) Quod est ad aliquid dietimi? Quod sine intellectu eius ad quod dicitur proferre non potest: ut fiiius: pater. (Perotti). Quasi ad aliquid dictum quod est? Quod quamvis habeat contrarium et quasi semper adherens: tamen neq. ipso nomine significat etiam illud: nec secum interimit: ut nox: dies. (Perotti.). gentilizio (greco); patrio (torinese); interrogativo (chi?); infinito (quale); relativo (larga esemplificazione); collettivo (volgo); distributivo o dividilo (ciascuno); io. faciisio (crich); generale (animale); speciale (elefante); ordinale (primo); numerale (ventuno); assoluto (Dio); temporale (ora); locale (vicino); C secondo la qua?itità, dal derivativo uscendo 9 maniere: patronimico; comparativo; superlativo; possessivo; diminutivo; denominativo; verbale; partecipiate; adverbiale. Abbiamo dunque una cinquantina di classi o categorie solo del nome ! Il quale ha cinque accidenti: genere (m. e f.), mimerò (s. e p.), caso (diritto e obliquo in sei forme), specie (primitiva o derivata), figura (sempl. o comp.); sette regole (declinazioni): i.a sing. -a, pi. -e, opp. sing. -a, pi. -i; i.a -e, -i, opp. -o, -i; 3." -o, -a opp. -ora; 4." eterocliti; 5.11 -a o -e, -i; 6.a comuni; 7/1 di doppia forma {lodo, loda). Una vera ridda. Di contro a tale interesse per lo schematismo, che corrispondeva, anzi derivava dall'esaurimento dell'attività osservatrice delle forme realmente prodotte dagli scrittori, dalla infecondità stessa del criterio d'osservazione assunto fin da principio e che aveva dato quanto aveva potuto dare e da tutte le circostanze alle quali siamo venuti alludendo, sorse il bisogno non che di ristampare le grammatiche più o meno originali che s'erano desunte dalla diretta osservazione delle opere letterarie, non che di ridurle a metodo, di raccoglierle come in un corpo unico d'erudizione grammaticale, dove le une integrassero le altre e sodisfacessero così all'esigenze ancor vive e urgenti dell'apprendimento della lingua e del complicato maneggio di essa richiesto dalle teoriche poetiche e rettoriche. Per tal modo si ebbero ben presto le Osservazioni della lingua volgare di diversi uomini illustri, cioè del Bembo, del Gabbriello, del Fortunio, dell' Accarisio e d'altri scrittori^) (che si riducono tutti al Corso), per opera del Sansovino, distinte in cinque libri, quant' erano appunto le grammatiche integralmente ristampate, con brevi relative notizie caratteristiche: del Bembo (lib. I), riprodotto specialmente per la questione dell'origine e del nome della lingua, vi è detto che imitò YOrator; del Fortunio (II), che imitò i Grammatici In Venezia per Francesco Sansovino; più volte ristampate. 132 Storia della Grammatica antichi della lingua latina : del Gabriello, che ebbe le regole da suo zio Trifone; del Corso (IV), di cui è dato il giudizio che già conosciamo; dell' Accarisio (V), che ha tenuto l'ordine de' latini o per meglio dir di Donato... Ma io direi che innanzi che altri leggesse le cose del Bembo, o del Gabriele, o del Corso, si arrecasse innanzi quelle dell' Accarisio, conciosia che risolutamente abbozza nella mente degl' imparanti le regole pure et semplici de' nomi, de' verbi, e de gli altri membri di questa lingua, li quali appresso ria poi agevol cosa il capir ciò che ne ragionali gli altri scrittori. Voglio anco che lo studioso, habbia innanzi /'osservatone del Petrarca fatte dall'Alunno, la Fabrica e le Ricchezze pur del medesimo... Più tardi un f. Giovanni da S. Demetrio, Aquilano, O.F.M., diede un manuale di Regole della lingua toscana con brevità, chiarezza, et ordi?ie raccolte, e scielte da quelle del Bembo, del Corso, del Fortunio, del Gabriele, del Dolce, e dell' Accarisio (son gli stessi del Sansovino, aggiuntovi il Dolce) che trattano quelle parli che ?iella seguente faccia si notano: Nome, Articolo, Pronome, \erbd, Gerundio, Participio, Verbo passivo, impersonale. Avverbio, Preposizione, Interiezione, Congiunzione, Lettere. Punti. Accenti, Ortografia, forma di comporre o vero scrivere. Le Prose del Bembo, già ristampate con indici e tavole, furono ridotte a metodo sotto il nome di M. A. Flaminio a Napoli. Prima degli Avvertimenti del Salviati, appena due o tre grammatichette (") dell'indirizzo che fin qui abbiamo esaminato, furon pubblicate: (*) meritano appena tra queste d'esser particolarmente menzionate Venezia. Minturno e il Tiraboschi ricordano un'Opera divina sulla toscana favella di Giambattista Bacchili i modenese (Vivaldi, Le Controversie), che io non ho potuto vedere. (iraniniatiche vere e proprie non si posson chiamare né la Regola della lingua losca dell'ortografia volgare e latina raccolta da m. Girolamo Labella dalli discorsi fatti dal diligentissimo //umanista Girolamo Gafaro nella Accad. Cafarea. Novamente mandata in luce. In Venetia, Appresso Fr. Rampazetto (vi si danno avvertimenti vari sull'art., sui nomi sost. e agg., sui pronomi, sulle coniugazioni: poi alcune regole ortografiche: 1. santo da sanctus; 2. dotto da doctus, ecc.), uè II Tesoro della votgar lingua di Reginaldo Acceto. In Napoli per Cacchi (contiene appena XXIII regole grammaticali delle CLVIII che secondo Zeno dove contenere). Capitolo quarto 133 le Regole della Thoseana lingua di m. Yinckntio Menni Perugino, con un Breve modo di Comporre varie sorti di RimeQ), sunterello elementare del terzo libro delle Prose del Bembo e poco più'(e). Rimasero inediti alcuni scritti grammaticali di Alberto Lollio(3) e nuli' altn che zibaldoni latino-volgari sono al[In Perugia per Andrea Bresciano (di pp. 40 un. nel recto). Al M. dobbiamo la versione della Bucolica (Perugia, Bianchini) e dei primi sei libri dell' Eneide (Perugia, Bresciano. M. esalta su tutti il Bembo di supreme lodi dignissimo veramente.... Ma perciocché [le regole in cui egli ridusse la lingua toscana] paiono a molti ardue, et difficili, mi è caduto nell'animo di riducere.... le regole della Toscana lingua in brevissimo volume, con tale facilità, che.... qual si voglia persona senza alcun principio di latina grammatica potrà facilmente apprendere il modo del parlare, et scrivere Thoscanamente: Alla quale opera ho voluto aggiungere alcuni brevissimi precetti circa il modo del comporre varie sorti di rime, acciocché da questa mia fatica si possano cogliere vari), et diversi frutti. Senza l'aiuto [de' Grammatici] non possiamo venire ad apprendere scienza alcuna. Del Bembo conserva anche la dicitura dei termini grammaticali, e tutti i criteri d'armonia, ma meccanizzandoli al punto da specificare quali sono le vocali più buone e quelle meno buone. Un punto è tolto dal Cesano del Tolomei, quello cioè in cui si parla dell'eccezione di alcune parolette terminanti in consonante piuttosto che in vocale {in, con, per, ecc.). Come il Petrarca è il modello degli antichi, co sì il Sannazzaro e '1 Bembo sono vivacissimi lumi della moderna poesia. Chiude ponendo per ordine di Grammatica e d'Alfabeto quelle voci che sono del verso et non della prosa, et così anchora quelle che alla prosa et non al verso si concedono. Cf. Filippo Cavicchi, Scritti grammaticali inediti di A. Lollio in Rass. bibl. d. lett. it. Sono in due cedici della Com. di Ferrara: a\ tav. di alcune voci delle Prose del Bembo (dalla Historia vinitiana: a doppia colonna, vocaboli e frasi, confrontata col latino, osservazioni ortografiche e sintattiche, dichiarazioni storiche, quasi un indice analitico); b) brevi regolette sopra la volgar lingua (sono 79 senz'ordine, ma riferentesi a tutte le parti del discorso, con esempi tratti dall'uso vivo, e riferimenti al latino, le più di morfologia, poche di sintassi); e) due lunghi spogli di Dante e Petrarca (questioncelle metriche); d) Osservazioni di M. Giulio Costantino sopra la volgar lingua; Compendio di alcune voci proprie della lingua toscana e provenzale (ma delle voci provenzali promesse non ci dà nulla affatto: il resto è un vocabolarietto italiano-ferrarese ì; b) Proverbi e motti. A stampa abbiamo un'Orazione della lingua toscana, Venezia, ripubblicata nel 63 e poi in Prose fiorentme del Dati. Il L. è per l'opinione del Tolomei, che vuole doversi chiamar toscana la lingua. 134 Storia della Grammatica cune delle molte abborracciate compilazioni di cui riempì il mondo letterario per più d'un ventennio Orazio Toscanella, e elucubrazioni superricialissime quelli, in genere, epistolari del Citolini, il noto miracolo di natura, cui già s'è accennato. Le ristampe come le raccolte e le riduzioni a metodo, che tennero il campo in vece di più recenti grammatiche dove quasi nullo era il contenuto e sviluppatissimo lo schematismo, e che anzi impedirono il moltiplicarsi di siffatte manipolazioni, se da una parte attestano d'una diminuzione di fervore e d'interesse nella ricerca diretta o, per lo meno, d'un' incapacità ad allargare e ad approfondire il campo dell' osservazione, sono indizio però, dall'altra parte, d'un certo bisogno di mantenersi a contatto almeno con la voce e l'esempio degli scrittori che più erano stati studiati, d'un interessamento confa dire estetico, più o meno fervente e cosciente, verso l'opera d'arte, piuttosto che verso lo schema per sé stesso. Il cinquecento è secolo di passione artistica, che la critica formalistica non riesce a smorzare, e pur sotto l'imperio sempre più assoluto di essa e tra lo svolgersi d' una letteratura grammaticale-retorica conserva sempre j vivo il sentimento della bellezza sia pure esteriore: passione I multiforme, che intendeva sodisfarsi pienamente nel possesso cTP^ I soli titoli delle opere del T. ci rivelano i caratteri di certa produzione scolastica del tempo: Istituzioni grammaticali volgari, et latine a facilissima intelligenza ridotte da O. T. della famiglia di maestro Luca fiorentino: et dichiarate per tutto dove è stato necessario, con piena chiarezza dal medesimo, fatica utilissima a tutti quelli che ad imparare Greco, Latino e volgare si datino. Et con una tavola copiosissima. In Vinegia Appresso Gabriele Giolito de' Ferrari. Nella chiusa, pp. 507-23, è un trattatello Dell'ortografia volgare e punti, e in fine dichiara che stamperà a parte la metrica, e la grammatica greca che egli insegna con la lingua latina. Ma in codeste Istituzioni, d' italiano non e' è che la traduzione dei vocaboli e frasi latine, e la grammatica è soprattutto in servizio del latino. L'ortografia è divisa in a) parola; b) punti; e) accenti. Delle congiugationi dei verbi qui non scrivo; perchè ne ho scritto a pieno nel volgareggiare le congiugationi dei verbi latini; come si può veder più su al luoco loro. Concetti e forme di Cicerone, del Boccaccio, del Bembo, Venezia per Lodovico degli Avanzi, Eleganze latine con i suoi volgari. Venezia per Bariletto. Dictionariolum latino gallicuvi, Ciceroniana Epitheta, Parisiis per Michaelem Sonnium.] tutti gli clementi formali della prosa e del verso, e della lingua voleva saggiare tutte le essenze. Un libro che mirava ad appagare codesta passione, qualunque sia il suo valore speciale come esecuzione, e che è sulla linea di svolgimento che abbiamo seguita sin qui, sono i Commentari della lingua italiana^) d' un fecondo quanto abborracciante poligrafo, Girolamo Ruscelli, usciti postumi per cura del nipote nel 15H1, ma terminati almeno un decennio innanzi, e composti tra il 55 e il 70, nel periodo cioè in cui si conchiudeva l'attività grammaticale esercitata sull'opera dei primi grammatici originali, quando già erano usciti i Tre discorsi a Dolce, coi quali il Ruscelli aveva preso posto fra i grammatici del suo tempo. Questi Commentari sono un grosso zibaldone di 574 pagine in-8": de' sette libri onde si compongono, solo il secondo, che però è il più lungo, tratta di vera e propria grammatica: il primo discorre dell'origine e dell'eccellenza della favella ; il terzo è un' epitome del secondo, in servizio de' meno introdotti; il quinto è un ricettario degli vitii da fuggire, ma non di quelli commessi da' forestieri o dagT Italiani delle varie Provincie, sì bene da' Toscani o Toscanizzanti, e ne parla sistematicamente seguendo l'ordine delle parti del Discorso (Articolo ' parte principale del Nome ', Nome, ecc.), per ciascuna delle quali fioccano i vitii, libro ben caratteristico del purismo grammaticale del Ruscelli (?); gli altri sono un miscuglio di precetti di ret In Venezia per Damian Zenari. Dei Commentarti della lingua italiana del sig. Girolamo Ruscelli Viterbese, Libri VII. In Venetia, appresso Zenaro, alla Salamandra. Dobbiamo al Ruscelli Tre discorsi al Dolce: Atmotazioni sopra il Decamerone, Annotazioni al Furioso, un Vocabolario: più un Dialogo ove si ragiona della ortografia, cioè del modo di regolatamente scrivere, così nelle parole come ne gli accenti, et ne' punti. Cavato novamente dalle scritture di m. Girolamo Ruscelli. Et agiuntovi la sottoscrittione, et soprascrittione di componimenti di lettere. In Venetia, Appresso Pietro de' Franceschi. (") De' vitii son fatte due categorie: a) contro l'eufonia (il spirito, il studio non lo spirito, lo studio; ma li scogli non gli scogli); b) contro la grammatica ('vitii espressi'): l'osservo/gli osservo, con il/col, con i/coi, dalli/da i, d' i/de i, per i/per li, de '1/del, el/il, gli, o li/a loro, a lei, i/li, o gli/a lui, cotesto per questo/questo, le gente/le genti, dua/due, leggeno/eggono, pariamo/par- [torica grammaticale (Dell'ornamento): specchio, per quanto appannato, se non riassunto, delle varie indagini condotte sull'organismo della lingua dai precedenti grammatici e retori, le cui opinioni vi sono spesso richiamate, con le antiche e nuove definizioni di termini, con la loro varia nomenclatura; ricco di confronti dell'italiano con altre lingue, specie la ebraica; discorsivo, frondoso. Da alcuni luoghi della trattazione degli articoli e de' verbi, parrebbe che il Ruscelli avesse dovuto aver sott'occhio la prima Giunta castel vetrina (1562), ma del metodo del grammatico modenese, egli è la negazione: la sua è grammatica empirica; il suo principale maestro e autore è il Bembo. Fu raccomandato dal Lombardelli con qualche riserva, e dal Meduna, ma biasimato da altri, e specialmente da un intendente sicuro di cose linguistiche, il Borghesi. Ma non è sull'ordinamento e la compagine del libro né sulle trasgressioni contro la lingua, che si ferma la nostra attenzione, sì bene sul principio che serve di fondamento alla grammatica, logica e necessaria conchiusione dell'elaborazione a cui avea dovuto soggiacere: il principio della perfetta regolarità, dell' ordine più assoluto della nostra divina favella, col quale è accolto nel corpo della gram liamo {havemo, senio si possono adoperar con discrezione, perchè li adoperano anche i Trecentisti), amono = amano, andavo = andava, andorno, andassimo, andaressimo, andarci, venesti, contenirà, odesti, habbi, facci, ecc. Questa trattazione rettorica incorporata in un trattato grammaticale dimostra che ormai la poetica in quanto elocuzione si era staccata dalla rettorica e che la prosa richiedeva una trattazione a parte. R. altresì può giovare et a' principianti, ed a gli introdotti, parlo, ne' Commentari; perchè tratta la nostra Gramatica distesamente declinando, e dando molti avvertimenti comuni, e utili. Ha ben certe oppenioni che se non gli passano agevolmente, e spende anche molte parole nel suo discorrere, riavendo hauto per natura dell'Asiatico. Ne'discorsi a Dolce ricerca di belle sottigliezze, e contengono un certo gastigo di coloro, che troppo ardita, e baldanzosamente si mettono a scrivere in questa lingua. Nell'Annotazioni al Furioso, e sopr' al Decamerone, e nel detto Vocabolario, dichiara e voci e modi di dire, ove un forestiero può imparare assai. Fu studioso di più lingue, e di questa particolarmente: onde mi sovvien d'avvertire, che egli corresse, o illustrò molti scrittori: per lo che si potranno quasi legger sicuramente, quando nel principio si troverà suo proemio, giudizio, censura, o elogio. I fonti.] matìca tutto ciò che è regolato (l), e ripudiato, cacciato nel vocabolario, come in luogo di pena, tutto il resto che non si presta a misurazione, o abbandonato a sé stesso: lo spirito estetico animatore della favella è così completamente distrutto, e conservata dell'espressione soltanto la forma geometrica. La ripugnanza all' irregolare si esprime nel Ruscelli in una forma che ha del comico, come (piando se la prende coi moltiplicatori delle difficoltà con dir Muta in questo, Togli in quello, Aggiungi in quell'altro. Né codesto principio è professato così all'ingrosso: anzi è dedotto a fil di logica, in un ragionamento che vai la pena di riassumere, e porre qui come pietra miliare sul cammino della nostra storia. Prima fu il parlamento che le leggi sue. L' uomo ha da Dio o LA NATURA (GRICE) il dono di comprender coll’intelletto e ESPRIMER COLLA FAVELLA quanto si contiene nella gran macchina dell'universo in forma perfettamente ordinata, ripugnando la mente nostra dal disordine. Onde nell'osservazione delle lingue, i grammatici scartarono tutto ciò che è scorrezione d'ignoranti, usando dello stesso criterio de’giudiziosi che nel fare le regole delle bellezze d'un corpo, o d'un volto, elessero o i volti più belli, e più conformi con l'ordine, riuscendo a prevalere sull'USO SCORRETTO (Grice: meaning not = use) di chi neh' usarla o nel porla in regola s'attenne al peggio. La nostra grammatica si stampò sulla latina per la dipendenza della nostra lingua e anche della greca, e l'averla compilata primi il Bembo e altre persone rare, fa che non gioverebbe rinnovarla. Perciocché, s'ella fosse lingua [l'italiana], che hor nascesse, et che noi fossimo i primi che la riducessimo in osservatione, et in regole, ci governeremmo con la ragione, et con l'ordine della Natura, come fanno gli Ebrei, et come nella Greca era opinione d'Aristotele, cioè che le parti del parlamento fossero solamente tre... Et in queste potean veramente contentarsi di divider la loro i nostri Latini, et ogn'altra natione. Nondimeno, perchè, come cominciai a dire, non scriviamo hora regole di lingua, che hor nasca nella sua grammatica, et perchè ancora questa nostra ha fondamento, imi Nel secondo de' Tre discorsi al Dolce (Venezia, cioè nelle Osservazioni di lingua volgare, infierisce contro l'autore delle Osservazioni anche perchè oltre ai discutibili errori di grammatica vi aveva trovato scorrezioni di questo genere: lotto per lóto, ametto per ammetto e Ameto, bevvo per bevo. 13S Storia della Grammatica tatione, ornamento, et forma dalla Latina, per questo parve a i nostri di volerle tenere congiunte, et conformi tra esse quanto più sia possibile ne i modi principali, et nell'ordine universale di tutto il composto con le sue parti (pp. 72-6). Insomma, il Ruscelli in omaggio alla venerabile antichità, all' imperio della tradizione, mantiene la grammatica così come lui T ha trovata, ma se la cosa dipendesse da lui, ne divorerebbe per lo meno due terzi: tanti ne sono superflui, e la ridurrebbe a due o tre categorie, sotto le quali dovrebbe ubbidire servilmente l'umano pensiero, inquadrandovisi nel più perfetto ordine. Giustificare e difendere, di fronte e di contro il latino, la lingua volgare, studiare i mezzi adatti a condurla alla perfezione, secondo la corrente concezione del linguaggio, era ornai intento comune de' letterati italiani: la differenza sorgeva ne' criteri da adottarsi per conseguir codesto intento, differenza che corrispondeva alla varietà della cultura, delle disposizioni, e delle condizioni etniche de' letterati medesimi. La dottrina bembesca raccoglieva le maggiori adesioni, anche presso i Toscani, i quali, però, come quelli che sapevano di non essere stati punto estranei al movimento in favor del volgare e, si badi, al tentativo di una legiferazione grammaticale di esso nel fatto, codesto movimento nel Quattrocento era stato quasi esclusivamente toscano, anzi fiorentino, né tra il chiudersi dell' un secolo e l'aprirsi dell'altro, rispetto alla sorta attività degli altri Italiani, era punto diminuito l'interesse de' Toscani per la loro lingua non potevano aver caro che [Sensi, M. Claudio Tolomei e le controversie sull'ortografia italiana. Nota da tener presente anche per altri luoghi di questo capitolo. (2) A non rammentar molte prove, basti la cit. lettera di Alessandro de' Pazzi a Francesco Vettori, e il Dialogo du Machiavelli, donde appare quanto vivo fosse in Toscana e in Firenze il culto dell' idioma natio e l' interesse che si poneva nello studiarlo anche analiticamente. Tra i criteri onde negli Orti si 140 Storia della Grammatica i non Toscani si fosser mossi e gareggiassero a discorrer di lingua toscana e a dettarne le regole: una tale legiferazione non poteva non risolversi in una violenza contro il loro senso linguistico, tanto maggiore quando a fondamento di quelle regole non era assunta la toscanità trecentesca, ma l' italiano parlato presentemente nelle varie corti d' Italia. Sicché, tra le cercava di determinare le affinità e le differenze tra le varie lingue e i vari dialetti, si applicò anche quello strettamente grammaticale. Il Machiavelli, appunto, ci dice: e dicono che chi considera bene le otto parti dell'orazione, nelle quali ogni parlar si divide, troverà che quella che si chiama verbo, è la catena, ed il nervo della lingua, ed ogni volta che in questa parte non si varia [cioè non c'è differenza tra la lingua e lingua], ancoraché nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue abbiano una comune intelligenza, perchè quelli nomi che ci sono incogniti, ce li fa intendere il verbo, il quale infra loro è collocato, e così per contrario dove li verbi sono differenti, ancoraché vi fusse similitudine ne' nomi, diventa quella lingua differente: e per esemplo si può dire la provincia d'Italia, la quale è in una minima parte differente nei verbi, ma nei nomi differentissima, perchè ciascuno Italiano dice amare, stare e leggere, ma ciascuno di loro non dice già deschetto, tavola, e guastada. Intra i pronomi quelli che importano più, sono variati, siccome è mi, in vece di io, e ti, per tu. Quello che fa ancora differenti le lingue, ma non tanto che elle non s'intendano, sono la pronunzia, e gli accenti. Li Toscani fermano tutte le loro parole in sulle vocali, ma li Lombardi, e li Romagnoli quasi tutte le sospendono sulle consonanti, come Patte, Pan. Discorso. Qui abbiamo un germe, se non un cenno schematico di grammatica italiana, ed è il primo, come s'è già osservato, nel Cinquecento avanti delle Regole del Fortunio. Il più notevole è, oltre la verità estetica, che con questo e con altri argomenti il.Machiavelli dimostra acutamente l'origine fiorentina della lingua letteraria d'Italia. Quella lingua si chiama d'una patria, la quale converte i vocaboli ch'ella ha accattati da altri, nell'uso, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro, perchè quello ch'ella reca da altri lo tira a se in modo, che par suo.... Ma tinello che inganna molti circa i vocaboli comuni, è, che tu [Dante], e gli altri che hanno scritto, essendo stati celebrati, e letti in varj luoghi, molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti forestieri, ed osservati da loro, talché di propri nostri son diventati comuni. Quanto poi sia calzante la dimostrazione che Dante scrisse in fiorentino, è cosa già ben assodata. Non così esatta è l' interpretazionidel trattato dantesco, ma il dedottone ammaestramento, gli uomini che scrivono in quella lingua, come amorevoli di essa, debbono far quello ch'hai fatto tu [Dante], ma non dir quello ch'hai detto tu, è tra le cose più acute che siano state osservate in tanto e tale dibattito. Capito/a quint 14 [ voci ili protesta impregnata talvolta di sarcasmo, venner fuori ben presto anche inviti ad accingersi alla compilazione della grammatica. Il Norchiati nel dedicare al suo molto honorando messer Pierfrancesco Giambullari il Trattato dei Dittonghi^, constatando che rin allora molti non Toscani avevano scritto ordini, regole e modi d'imparar la lingua, senza voler giudicare, pur ringraziandoli, se avessero giovato o no, ammoniva che era ormai tempo che i Toscani si ponessero a dettar essi quelle regole: ciò che egli intanto faceva per i dittonghi. E nel trattatello notevole, nell' esaltare sui Greci e Latini i suoni Toscani, assai più abbondanti, perchè rendono gratia et leggiadria inestimabile all'orecchio , osserva che al pronuntiar bene quadrisona {tuoi) bissogna grandissima pratica et attitudine a far sonare in essa gli quattro suoni delle sue quattro vocali, senza lassarne adietrio o gittarne via alcuno: e che tutti si sentino chiari speditamente in tal pronuntia, come noi in Firenze, e gli altri toscani con grandissima facilità, sonorità, et dolcezza perfettamente pronuntiano; e avvertiva che nell'elisione i fiorentini non gettai: via nulla, pronunziando assa' meglio 1' i che non sappian fare i non Toscani. Il Lenzoni nella sua Difesa della lingua fiorentina se la prendeva più tardi coi grammatici non Toscani che pretendevano insegnar la grammatica, e, con una certa bravura schermistica, postillava in margine le sue osservazioni con questi motti: questo va al Ruscelli et all'Alunno, et questo al Bembo. Ma all'elaborazione della grammatica volgare i Toscani avevano contribuito anche a prescinder dalla grammatichetta vaticana e contribuirono più di quanto essi stessi non credessero, e certo con effetti assai migliori per lo sviluppo delle idee sul linguaggio. (M Trattato de Diphthongi Toscani, di messer Giovanni Norchiati canonico di S. Lorenzo. In Vinezia per Giovanni Antonio di Nicolini da Sabio. Ad instantia di Sessa. Difesa della lingua fiorentina, e di Dante con le regole di far bella, e numerosa la prosa. In Firenze per Lorenzo Torrentino. Fu pubbl. da Cosimo Bartoli, e avrebbe dovuto esser pubblicata dal Giambullari, che preparò per la stampa, gli appunti lasciati dal Lenzoni. La p. Ili è costituita tutta di frammenti. Dalla pag. 76 incomincia la mano del Giambullari. 142 Storia della Grammatica I Toscani, che si trovavano in possesso della lingua adottata dalla letteratura, non sentirono mai il bisogno d' apprenderla dai libri, e nello sforzo di perfezionarla, secondo l'esempio dell'Alighieri, perchè potesse competere con le lingue classiche, non solo non perdevano il senso della parola viva, ma eran condotti a dar assai minor importanza al precetto grammaticale, che seguiva non produceva il fatto linguistico: questo affermarono il Tolomei, il Gelli e il Salviati medesimo. Essi, vedremo, ammettevano la possibilità e l'opportunità della grammatica sol quando si fosse potuto giudicar giunta alla sua perfezione, la lingua, e le attribuivano ufficio di conservazione, più che di regola. Questa riconosciuta forza intima del linguaggio, la sua capacità a svolgersi e perfezionarsi sotto il soffio delle idee e della civiltà progredienti è il vanto della scuola toscana, anche se la grammatica che ne usci, quella del Giambullari, non supera d'un grado solo la contemporanea letteratura grammaticale, e tutto il movimento toscano non potè sottrarsi al dominio dello spirito classico. Alcune delle idee espresse nel suo Dialogo dal Machiavelli, vero principe, per l'altezza del suo punto di vista, di questa scuola, valgono assai più di parecchie grammatiche di questo periodo prese insieme: come quella già riferita sulla forza che ha la lingua particolare d'un popolo intellettualmente forte, di convertire in proprio uso i vocaboli accattati da altri, non solo senza rimanerne disordinata ma in modo da disordinar essa loro, perchè quello ch'ella reca da altri lo tira a sé in modo, che par suo: concetto a cui non mancherebbe nulla per esser profondamente estetico, se nella mente del Segretario fiorentino il linguaggio fosse stato tutt'uno con l'espressione, perchè, nel vero, il realmente parlato non è se non il vecchio materiale linguistico rielaborato nelle nuove espressioni. Nello studio grammaticale, storico e poetico della lingua che si fece per oltre un trentennio, dal sorgere delle controversie ortografiche all'inaspriménto della battaglia linguistica provocata dalla famosa Canzone de' Gigli d'oro, il senese Claudio Tqlprnei, si può dire che faccia parte per sé stesso in virtù della sua maggior cultura e penetrazione filologica, onde anche'a ragione è reputato uno de' più fecondi precursori della grammatica storica. Non digiuno di filosofia, cultore appassionato delle muse, oratore politico di qualche nerbo, epistolografo de' meno sonnolenti, egli cercò sempre di slanciarsi a più alto volo che le penne del puro grammatico non consentano, benché la grammatica restasse pur sempre la sua principale occupazione, e alle scoperte e innovazioni ivi fatte, ortografiche, metriche, fonologiche, sia legata la sua rinomanza. Stando alle testimonianze che si posson raccoglier dalle sue lettere, il suo animo fu sempre diviso tra le compiacenze che pur gli procuravano i resultati in gran parte nuovi delle sue ricerche e il fastidio che un tale studio recava con sé. In una lettera al signor Alessandro V. dichiara d'aver trovato per li campi della grammatica... più tosto spine che fiori , e chiama la grammatica cosa fastidiosissima. Non che non la ritenga una scienza vera e propria come le altre; non che giudichi inutile l'apprenderla come corpo di dottrina e come mezzo indispensabile alla piena intelligenza degli scrittori; ma nega che possa mai apprendersi indipendentemente dallo studio degli autori, e annette la più grande importanza a la destrezza del maestro, il qual deve con bei modi infiammare il discepolo a li studij, sforzandosi di agevolarli, e addolcirli queste vie spinose de la Grammatica, acciocché si possa senza troppo offesa caminare. Lo scritto che ora tocca più davvicino il nostro tema, è il Cesano, divulgatissimo, e meditato, se non abbozzato, contemporaneamente alla collaborazione al Polito del Franci. Consta nella Delle lettere di m. Claudio Tolomet, libri sette. In Venetia, Appresso i Guerra. Cesano, Dialogo di m. Claudio Tolomei, nel quale da più dotti Huotnini si disputa del Nome, col quale si dee ragionevolmetite chiamare la volgar lingua. In Vinegia Appresso Gabriel Giolito De Ferrari, et Fratelli, MDLV, pp. 198-9. Sulla composizione, la fortuna e i manoscritti del Cesano, e le sue relazioni col trattato dantesco, è da vedere l'importante % 2, Le allegazioni di Tolomei della più volte cit. Introduz. del Rajna alla 'sua ediz. crit. del De Vu/g. Eloq.. p. LX sgg. Il Dialogo ci riporta a Roma e agli anni 1524-5; il signor mio Illustrissimo a cui il Cesano è diretto, sarebbe il card. Ippolito de' Medici, patrono del Tolomei, che apparisce propriamente a' suoi servigi da una lettera; è probabile che a scrivere il Cesano deva il Tolomei essersi messo per effetto del mancato Concilio di cui s'è parlato. Del Cesano, a conoscenza del Rajna, sono quattro testi a penna: uno è a Firenze (Magliabech.), due si trovano a Siena (Bibl. Com., G. e K, e il quarto è a Roma, alla Vittorio Emanuele (Fondo S. Pantaleo, S6 [5.8]. Il romano fu nelle mani di Celso Cittadini, il quale, per 144 Storia della Grammatica '-1 esposizione del Cesano di due parti oltre l'obbiettiva esposizione delle teorie del Bembo, del Castiglione, del Trissino, del Pazzi: T una, generale, riguarda il linguaggio e il nome da dare alla lingua volgare, l'altra, speciale, il confronto tra le forme del latino e quelle del toscano, propugnato dal Tolomei. Il parlare , basterà metter in rilievo alcuni particolari pensieri per riassumere la questione speculativa, a gli huomini è naturale, ma i vocaboli, che le cose ci mostrano, sono non dalla natura: ma dall'arte, o dal caso in sul fondamento della natura formati, la quale ci fece tutti et disposti al parlare, et a sceglier la lingua in queste parole et in quelle. Né fu mai l'oppinione di Nigidio Figulo ricevuta per vera, il quale istimava che tutti i vocaboli fossero naturali, perchè quantunque alcuni se ne trovino, che par sieno dalla natura, et midolla della cosa, che significano, cavati fuori: come strepito, crepito, fischio, tuono, et altri simili a questi non però il monte grande de' vocaboli si governa da [questa avvertenza. E come sorgono le lingue particolari? Il parlar chiaro , cioè la facoltà di esprimer chiaramente i propri pensieri, data dalla natura all' uomo ( non alli angeli per non esser loro necessaria, non alle bestie per non esserne degne ), riceve ne' suoi effetti varie modificazioni dalla varietà de i tempi, et la differentia de' luoghi, che sono sempre di diversi vocaboli et di diverse lingue produttrici . E superfluo avvertire qui l'eco delle antiche dispute circa l'origine del linguaggio: a noi importa rilevare l'importanza che ha l'averle riprese, e l'applicazione fattane. Non essendo altro vero Idioma, che un raccoglimento di più e più vocaboli ordinato a servire a una diversità di più huomini per potere isprimere i secreti de gli animi loro, certo di coloro sarà sempre, compiacere, a quanto pare, al desiderio di Belisario Bulgarini, che doveva esserne il possessore, vi segnò molte correzioni, tenendo a riscontro la stampa del Giolito, e spesso vi restituì le usanze linguistiche dell'autore di cui nessuno per certo poteva avere maggior pratica di questo suo grande depredatore. La fonte del Tolomei parrebbe risultare il codice di Grenoble del De l'ulg. Eloq. La prerogativa del Tolomei si riduce secondo ogni verosimiglianza ad essere il primo studioso a cui apparisca noto il codice del D. V. E. che perverrà nelle mani del Corbinelli, e forse l'avrà visto a Padova nell'estate o autunno del 1532 nell'occasione di una sua andata in Austria. che da teneri anni con le madri et co i padri hanno imparato, et poscia cresciuto ad ogni movimento del pensier loro, con gli altri di quella Città parimente usato. Cosi è naturale che il Tolomei prenda posizione pel se?iese, lasciando che il Bembo adduca le ragioni in favor del nome volgare, il Trissino per Vitaliano, il Castiglione per il cortigiano, e Alessandro de' Pazzi pel fiorentino. Affermato il carattere peculiare de' vari Idiomi, esce in un'osservazione acuta, che, se meglio meditata e fecondata, avrebbe gettato un insolito sprazzo di luce sulla natura del linguaggio, là dove afferma che il parlar prima dee esser notissimo a colui, che lo parla, perchè con lui è più unito, che con alcun altro. Di qui al riconoscere che il linguaggio è individua creazione spirituale il passo non sarebbe stato davvero lungo. Dalla questione speculativa passando alla storica, il Tolomei si fa a seguire le vicende della nostra lingua, derivandola dalla trasformazione del latino operata, come si credeva general Su questo punto, che, come sappiamo, non è una scoperta del Tolomei, mentre è suo peculiar vanto l'aver tracciate alcune ben ferme linee di grammatica storica, debbo osservare che mi sembra caratteristico l'atteggiamento onde il Tolomei guarda il problema. Il filologo moderno, descrivendo il trasformarsi della parola latina nelle varie parole romanze, non solo tratta il suo tema, sereno, senza predilezione per il latino o per i nuovi volgari, ma vede in quella trasformazione un fatto che si svolge naturalmente con le sue leggi precise e costanti, un divenire continuatamente regolare, che, quasi facendo scomparire agli occhi di lui l'esistenza di due lingue distinte, attira sopra di sé tutto il suo interesse e glielo esaurisce. Invece, il Tolomei, volendo dimostrare che la lingua toscana è propria lingua, indipendente dal latino, bella per conto proprio, e libera da ogni debito verso quello, ha sì coscienza di quella trasformazione e, se non nel Cesano, ne' suoi trattati inediti, ne addita e ne determina le leggi, ma guarda il fatto non come una necessità, in cui il latino almeno come materia ha la sua funzione, ma quasi come un continuo sforzo di riazione e di ribellione compiuto dal volgare per differenziarsi dal latino, staccarsene, anzi voltargli bruscamente le spalle, per ricomparirgli poi dinanzi, sotto forme nuove e in abito di gala per dirgli, tra il gnive e il canzonatorio, ' eccomi qua, ci sono anch'io, e posso anche misurarmi teco'. Questa è l'impressione che desta la lettura del Cesano; onde non è maraviglia che chi potè esser informato dei discorsi del Tolomei o direttamente o indirettamente, fosse tratto ad attribuirgli l'erronea opinione che il toscano non derivasse dal latino: Non vi concedo , si fa dire al Tolomei nel Diati. Trabalza. io 146 Storia della Grammatica mente, dalle incursioni barbariche e dalla questione storica è condotto a comparare le caratteristiche del toscano con quelle I del latino, concludendo che, se bella è la lingua latina, nulla / deve invidiarle la nostra che, pur essendo stata manomessa dai barbari, si piegò mirabilmente a esprimer con arte efficace i| nuovi pensamenti del popolo e si concretò e si organò in opere di letteratura immortali. Ecco i risultati di tale comparazione dedotta per tutti gli -4 ordini della grammatica, e che riesce, però, quasi a un abbozzo della grammatica stessa del toscano: 1. I suoni e gli ' elementi ' (lettere), come fu dimostrato dal Polito, non son più nel Toscano gli stessi che eran nel latino, perchè alcuni di quelli si perdettero ed altri se ne produssero di nuovi. 2. Nella testura degli elementi il Toscano fugge l'asprezza come non fa il Latino: a) due mute diverse che fanno aspra testura il Toscano non le tollera; ò) né ogni muta può trovarsi innanzi alla.S; e) lo / e lo V liquido si usa dopo ciascuna consonante, che addolcisce con quel distruggersi et liquefarsi tutta la parola : nel latino questo avviene solo in due casi. IL LATINO fugge generalmente il RADOPPIAMENTO delle consonanti. Nulla di questo aggrada più al Toscano. logo del Valeriano, messer Giangiorgio, che LA LINGUA TOSCANA si' peggior della cortigiana, o come voi dite, della commune, perchè si discosti più della latina; ne vi concedo, che la toscana venga dal latino, perchè è lingua propria e separata, e indipendente, et ha le sue proprie inflessioni, e forme, e figure, et eleganze di dire forse assai più, che non ha la latina. Et come questa vostra commune, Italica dite esser derivata dalla latina, così la toscana moderna potemo creder, che venga dall'antica lingua Etrusca, ecc. Aggiungerò che il tentativo di riformar la nutrica italiana, secondo quella classica, mosse nel Tolomei dal medesimo principio della virtuosità e dell'eccellenza del toscano rispetto al latino. Ora questo atteggiamento in uno che pur seppe stabilire qualche principio irrefutabile di grammatica storica, da che era determinato se non dalla coscienza della bellezza della nuova lingua, cioè dall'attribuire alla parola viva la virtù artistica propria dell'espressione? Ma qui debbo avvertire che, come vedremo parlando del Cittadini, codesto atteggiamento muta nelle operette grammaticali inedite, dove di proposito s'indaga il modo della derivazione dell'italiano. Lo L in mezzo delle mute e delle vocali cambiasi nel Toscano in un / liquido ('pieno, chiave, fiato'): e i vocaboli in cui lo L si trova (come in ' Plora, implora, splende, plebe') • non furono presi dal mezzo delle piazze di Te scana: ma posti innanzi da gli scrittori : il popolo avrebbe detto ' piora, implora, spiende, pieve', come di quest'ultimo ne habbiamo manifesto segno, che volgarmente pieve si chiama quella sorte di Chiesa ordinata alla Religione d'una Plebe. I vocaboli latini finiscono spesso in consonante, o mute, o liquide, o mezze vocali: il Toscano termina sempre in vocale, tranne alcuni pochi monosillabi (' non, in, con, per, il, ver = verso, pur, ancora che il Boccaccio usi pure '). Questi fenomeni avvengono nelle ' pure dittioni ', ossia in quelle di formazione popolare. 6. I vocaboli si partono da la natura o per prolungamento o accrescimento e per accorciamento (cfr. il d eufonico e epentetico; i suffissi ' facissigliene gli si ce ne fa ', nel primo caso; nel secondo, oltre la sinalefe, comune ai Latini, Greci e Toscani, il troncamento delle sillabe in liquida / m n r, spesso anche quando la liquida sia doppia: ' augel, han = augello, hanno '): a) codesto troncamento non può aver sempre luogo in causa dell'accento: nel Toscano non si patisce mai che per qualunque o accrescimento, o sminuimento della medesima dittione l'accento trapassi di una sillaba in un' altra ; non è possibile il troncamento nel fine de' nomi femminili in a, tanto nel sing. che nel plur. Gli altri casi raccogliere con ogni cura minutamente lascieremo a coloro, che la Toscana Grammatica ci vogliono interamente insegnare. A noi basta per hora intender, come questa usanza dello sminuir così le parole nel fine, è bella et varia, et de' Toscani molto propria. Ma passiamo più oltre a ragionare di quegli ornamenti, che vestono la parola, che sono tempo, accento et fiato, overo aspiratone, et veggiamo per Dio se in questa parte ha la nostra lingua ricchezza alcuna propria, che a' Latini renderla non bisogni. La quantità. Noi non abbiam più lunghe e brevi, benché et forse non senza ragione io non istimi, che ancora nella lingua nostra vi sia la misura, tempo lungo et breve, lo quale se conosciuto ben fusse a musiche regole temperato, vie più dolce renderebbe il parlare et il comporre de' Toscani. Vedremo dell'esito della folta caccagio?ie alla quale annunziava il Tolomei di porsi per ritrovarli e dell'uso che dei trovamenti egli fece nella sua nuova poesia. \J accento. Più largo certo et più spazioso è '1 corso de gli accenti Toscani, che non è quel de' Latini , che non s'estende più là dell'antipenultima, mentre i Toscani si sospendon lontan dalla line otto sillabe, quattro per conto della prima parola, et tre per conto delle affisse: es. ' favolanosicenegliene '. E torna a ribadir la regola dell'immutabilità dell'accento, ancora, che vi si aggiunghino quattro particole, ciò che non avvien del Latino, dove l'enclitica que basta a trasportar l'accento di pattern all'ultima sillaba: patremque. L ' aspiratio?ie è anche diversa, perchè i Latini aspiravano il principio delle sillabe, se pur honor e hieri e simili non succedessin dal greco, mentre i Toscani non aspirano niuna sillaba che habbia in principio la vocale, ma quelle sole, che incominciano da quattro lettere, et l'altre due giunte dal Polito, secondo eh' egli brevemente et per verissime regole ne parla, nelle quali non si trova simiglianza alcuna con l' aspiratione latina. io. I dittonghi toscani o non si spatriano per la Toscana quali erano i cinque latini, o molti più di questi senza dubbio alcuno. Gli articoli. Usangli anchora i toscani, come i greci, e ne' maschi et nelle femmine e nel maggior numero, et nel minor differenti. Li quali oltre, che distinguono l'un sesso dall'altro, et questo numero da quello, hanno forza di terminare et far più certa quella cosa, alla quale sono applicati. Et evi differenza di sentimento in quelle parole, che hanno l'articolo in quelle, che non lo hanno. I casi. Variasi per cagione de' casi molto più. La struttura (sintassi de' casi). Et ordina senza dubbio diverso in tutto et differente forma di struttura. La tela et V orditura delle nostre parole (costruzione) son diversissime nell'una e nell'altra lingua, com'è dimostrato dalle traduzioni, perchè chi voglia far toscano Cicerone o latino il Boccaccio col medesimo filo e corso di parole, s' avvedrà chiaramente quanto la prima fatica sia sciocca, la seconda fasti-' diosa. E sintetizzando le riassunte osservazioni, conclude: Che direni dunque? non esser questa propria lingua, (piando et ne' suoni.Ielle voci sue, et nella struttura delle sue lettere insieme, et nel finimento delle parole, et nel modo dell'accrescere, o sminuire quelle, ne' gli accenti, et ne’tempi, nell' aspirationi. Che più? ne' dittonghi, ne' gli articoli, ne' casi, nelle costruttioni, et ordinatimi delle parole, nelle figure del dire, et finalmente nella maggior parte delle cose sia dall'antica Romana cotanto differente? Forse perchè ella serba molti Latini vocaboli, ma epiesto che ci noia, per Dio, non ha ella nel thesoro suo cpiasi infiniti, ancora, che non dirò forma, propria pur ritengono dal Latino? Leggasi Dante, trascorrasi il Boccaccio, odansi gli huomini parlar da' paesi nostri, e vedrassi quanto quella heredità, che gli fu da' Latini lasciata, ella fusse riccamente vestita.... ben si può dire quasi della vecchia moneta esserne nella Zecca stampata moneta nuova. E all'obiezione dell'alfabeto risponde che questo è un meccanismo, un espediente qualsiasi inventato dall'arte, dove la lingua è dono della natura per aprire le fantasie di ciascuno a coloro, che intorno gli sono. Dall'aver descritti i caratteri naturali del Toscano, passa a magnificarne l'eccellenza, la bellezza, la ricchezza, la dolcezza, scagliandosi contro tutti i pedanti che s'astengono dallo scrivere perchè i loro pensieri non nacquero già nella mente de' tre sommi trecentisti da poterli dipingere col loro colore. Che ci bisognerebbe fare se '1 Boccaccio non havesse il suo Decamerone scritto, o Petrarca i suoi versi? tacer forse per questo, o punto non scrivere? Insomma la nostra lingua non è tutta ne' libri: le sue ricchezze ella con la viva voce le va a parte a parte discoprendo. La misura della ricchezza è nell'avere per ogni cosa un distinto vocabolo. Così è condotto a far l'elogio della nostra letteratura, dove trova che ciascuno scrittore nel grado suo, et nello stil suo arriva a ogni maggior finezza di pregiata eccellenza. All'obiezione che la lingua Toscana non obbedisce a regole di grammatica, il Tolomei risponde che è la Grammatica che nasce dalla lingua e non questa da quella, e che se non sono state trovate le regole ancora (il che tutto non si può dire, essendoci stato già il Fortunio e aspettandosi le Prose del Bembo), le si troveranno, e saranno complete quando altri tragedie, altri Comedie, Satire altri, et altri altissime Poesie partoriranno: né mancherà chi l'infiammato stile dell' Oratione, il piano e l'aperto della Historia, il familiare della Epistola faccia illustre, adornarsi con questa lingua quella parte di Philosohia, che a' costumi s'appartiene, quella che al disputare, et l'altra forse, che alla natura, et finalmente non fia o arte nobile, o bella disciplina, che dipinta con le parole di Toscana non si mostri agli occhi de' riguardanti vaghissima, et '1 potersi con quelle honoratamente le cose scrivere, facendo segno non oscuro i nostri antichi scrittori, i quali quello, che volsero così facilmente con la penna scolpirono, che si conosce esser più tosto insino alla nostra età mancata copia di eccellenti scrittori, che ella sia già alli scrittori mancata . A questo accrescimento, a questo perfezionamento del volgare, il Tolomei veniva pazientemente dissodando il terreno della fonetica, per ritrovar i principi su cui fondar la nuova poesia onde doveva aumentarsi la patria letteratura, sì che non avesse nulla da invidiare alla latina, pagando così il suo tributo a quel classicismo, contro cui intendeva innalzare l'edificio delle nuove lettere. Furono indagini laboriose, e di cui aveva piena coscienza. E notevole ciò che scrisse al Benvoglienti circa taluni belli ingegni co' quali ebbe a ragionare dell' inve?itione della nuova poesia, e che crederono, e dissero che tutta quest'arte si doveva risolvere in queste poche regolette, che voi udirete. Tutte le sillabe, dove è l'accento acuto son longhe. Tutte le sillabe, che son dinanzi a l'accento acuto son brevi, se già non v' è l'addoppiamento. Tutte le sillabe, che son dopo l'accento acuto son brevi, ancora che vi sia l'addoppiamento, e così volevano, che tessonsi, romperne, volgerlo havessero la sillaba di mezzo breve Io alhora assomiglia' costoro a medici, che da sé stessi si chiamavan Metodici, li quali per lo contrario Galeno soleva chiamare àjiièvoòovs; perchè con quattro, o sei regolette volevano, insegnar tutta la medicina, omne laxum astringendum, omne strictum laxandum, omne cavum implendum: e in ciò non considerava!! né età, né veruna altra cosa buona. Ma veramente sì come ne la medicina fa mestiero riguardar tutte queste cose distintamente, così nella nostra inventione bisogna contemplar tutta la lingua insieme, le parti separatamente, e veder molto Concluderemo più presto esser mancati alla lingua uomini, che l'esercitino, che la lingua as;ii uomini e alla materia. Lorenzo de' Medici, Commento alle rime, in Torraca, Manuale d. I. bene da qual fonte nasce la Longhezza, o la brevità del tempo, e come ciascuna parola con l'altre e con sé stessa si misuri e si contrapesi; e per qual riferimento e jroog to il longo sia longo, e '1 breve sia breve, e come in questa contemplazione si pigli il mezzo e l'estremo. Che più? bisogna sottilmente considerar, se tutte le sillabe longhe, sono egualmente longhe, e le brevi, brevi, e le communi, communi parimenti: il che è principio e origine di grande intendimento. E oltre di ciò è forza scoprir alcuni segreti, li quali insieme con l'altre cose spero vederete distintamente dichiarate ne la nostra operetta sopra di ciò fatta . L'operetta usci col titolo Versi e Regole de la nuova poesia toscana^), contrassegnando, come è stato ben avvertito, un'epoca nelle lettere del secolo XVI , per il movimento che presto se ne propagò in tutta l'Europa occidentale (). Scopo dell'operetta era di difendere l'uso de' metri classici nella lingua volgare, offrendone le regole e gli esempi, forniti da un gruppo di letterati riuniti in un circolo, Y Accademia della nuova poesia, di cui il Tolomei doveva esser ritenuto fondatore e espositore dell'innovazione. All' inventione non dovè esser estraneo quel medesimo spirito aristocratico, che palesemente affermarono in Francia il Du Bellav, l'autore della Défence et illustration de la langue fra?icaise), il programma della nuova scuola che si chiamò la Pleiade, e Jean de la Taille, autore di La manière de faire de vers en franfois, comme en grcc et in latin e che ispirò Jean Antoine de Bai'f a istituire sull'esempio appunto de\Y Accademia della nuova poesia, un' Académie de poesie et de musique, accettando le riforme fonetiche propugnate da Ramus nella sua Grammar. La concezione aristocratica che della poesia si sarebbe fatta il Tolomei non sfuggì agli stessi cinquecentisti : così il Ruscelli raccontava che la facilità di far versi volgari.... comune ad artegiani, femminelle, et perfino a fanciulli di X o XII anni fu prima et perfetta cagione di muovere Tentativi d'introdurre i metri classici nella poesia volgare e relativi saggi risalgono, è noto, in Italia al Quattrocento. Carducci, La poesia barbara, Bologna. Nel voi. carducciano ora citato. E cfr. G. Mignini, Saggio di gramm. st. it.: i versi italiani in metrica latina, Perugia Spingarn Spingarn Tolomei, et tutta quella bellissima schiera a ritrovare una sorte di versi nella lingua nostra, per li quali si conoscessero i dotti da gli indotti, che per far versi il Molino, il Veniero, il Contile, il Varchi, il Costanzo, il Rota, il Tansillo, il Tolomei, il Caro, il Cinthio et ogn'altro dotto, et giudicioso scrittore, non venissero a farsi fratelli, et d'una schiera, o scuola stessa con Baldassare Olimpo e mille altri tali . Con la De f enee del Du Bellay il Cesano ha non pochi punti di simiglianza, non solo quanto alla condotta e tessitura generale, ma anche ai vari elementi classici e romantici che vi sono egualmente contemperati, come dove, rispetto alla lingua, di contro alla necessità che l' idioma volgare s'elevi alla perfezione de' classici, si afferma l' indipendenza dagli scrittori, decidendosi in quella contro les tradictions des règles, in questo contro l'avversione dei timidi a parlare e a scrivere per non essere altrettanti Boccacci e Danti. Più notevole è la corrispondenza nella motivazione di queste decisioni: il non esserci regole che si possano accettare, non essendosi raggiunto ancora quel grado di perfezione che sarebbe desiderabile. Quanto al problema capitale le due opere mostrano un'altra corrispondenza: nella prima parte esso consiste in questa tesi, che niente vieta alla lingua volgare di conseguir la sua perfezione; nella seconda, riguardante i mezzi, la corrispondenza non è altrettanto piena: pure se nella determinazione di essi il Du Bellay non vede altra via che l' imitazione del greco e latino, in molte premesse e in certi altri resultati l'accordo è abbastanza notevole. Entrambi sostengono che la diversità delle lingue ne' vari paesi si deve ascrivere al capriccio degli uomini (il Tolomei aggiunge anche quello del caso e le modificazioni d ell'ambiente), e che perciò il perfezionarla è dovere di quei che la parlano, e a nessuno è lecito esimersi dall' obbligo di concorrere al perfezionamento dell'idioma nativo: che non basta attenersi agli antichi autori nazionali, perchè altrimenti non ci sarebbe progresso. Qui il Du Bellay consiglia di studiare i greci, i latini e gl'italiani, astenendosi dal comporre rondò, ballate, strambotti e épiceries, che corrompono il gusto, e di adoperare le migliori forme poetiche, epigrammi, elegie, odi, ecloghe, sonetti; il Tolomei non insiste (1j Discorsi.] troppo su queir imitazione, ma, oltreché pel verso, p. es., propugna la quantità degli antichi, fa derivar la perfezione della lingua dal trattar tragedie, commedie, satire, orazioni, istorie, epistole ecc., che vuol dire le forme più elevate delle letterature classiche. La lingua, la poesia, la letteratura, la filosofia, dei moderni devono venire, insomma, per vivere e prosperare, a patti con quelle degli antichi, nonostante l'affermata totale indipendenza della struttura del toscano dal latino. Altri resultati delle ricerche del Tolomei venivano comunicati occasionalmente agli amici nelle lettere, spesso, com'era l'usanza, scritte con lo scopo della pubblicazione, e che furono Questo ravvicinamento occorrerebbe dirlo? non importa che la Défence derivi dal Cesano; ma, poiché lo Spingarn ha additato come probabile fonte della Défence il De Vulvari Eloquentia e il Yossler ha sollevato de' dubbi su tale derivazione, e il Farinelli li ha confermati di sue ricerche, senza che però lo Spingarn abbia rinunziato alla sua tesi, che anzi ha ribadito col dire che l'affinità è tale che merita ulteriori studi e più particolari, il nostro ravvicinamento potrebbe gettar un po' di luce sulla questione, e servire a dimostrar che il problema del volgare, quale era stato impostato dall'Alighieri, veniva ora ripreso, con e senza l'aiuto dell'operetta dantesca, alle medesime basi da più parti, per le condizioni in cui di contro alle lingue classiche permaneva ancora il volgare. Quel problema è in fondo una gagliarda espressione della coscienza della nuova letteratura e da Dante al Salviati, per tutto cioè il periodo in cui si maturò la dottrina poetica del Rinascimento, tutti i maggiori letterati vi si travagliarono intorno. In ogni modo, che al Cesano dia molta materia il trattato dantesco è fuor d'ogni dubbio: anzi, si può affermare che, seguendo le varie esposizioni che ciascun interlocutore (Bembo, Castiglione, Trissino, De' Pazzi) fa della propria dottrina appoggiandola con passi del trattato che sembrano confermarla, siamo per un buon pezzo in compagnia dell'Alighieri; e con esso ci ritroviamo ancora coll'ultimo interlocutore, il Cesano, il quale, fatto il dilemma che il trattato (come aveva sostenuto il Martelli non è di Dante, o, se è di Dante, non prova nulla contro i Toscani per la promiscuità dei termini da lui adoperati a designar il toscano, penetra nella sostanza della distinzione circa il latino e il volgare e nel significato stesso dell'operetta, nel modo, secondo noi, più acuto: quand'ella [la lingua] è chiamata Volgare, è all' hora da coloro, che così la chiamano considerata, come distinta dalla latina, la quale in questi tempi non era più nelle bocche del Volgo, né naturalmente da ciascuno si parlava, ma per arte e studio solo s'acquistava. Parmi finalmente che il Tolomei avesse veduto anche il Discorso del Machiavelli, specie per la parlata che mette in bocca al De' Pazzi e, in genere, per l'opposizione a Dante.] pubblicate infatti in un grosso volume. Sono tra esse assai notevoli, oltre le citate al Firenzuola e ad Alessandro V. per quanto concerne il Congresso bolognese e l' insegnamento della grammatica, quella al Caro, dove avvertisce alcune cose sopra l'ortografìa grammatica Toscana, come dir s'egli è meglio dir celarò nel frutto [futuro] che celerò, et altri simili, una al Citolini, dove dichiara che cosa sia H in Toscano, e dove si proferisca con aspiratione, e quale uso sia d'essa , e quella al Benvoglienti, dove ragiona di una disputa fatta sopra l'inventione nuova del verso Hesametro in Toscana . Tolomei morì nell’anno stesso in cui il Giolito gli pubblica il Cesano, che forse sarebbe rimasto inedito, quantunque il Giolito dicesse d'averlo pubblicato per sottrarlo a una cattiva stampa, come inedite rimasero le molte operette grammaticali del filologo senese. Perdute del tutto gli andarono, vivo ancor il Tolomei, un'opera de V eccellenza de la lingua Toscana (svolgimento, forse, d' idee già sostenute nel Cesano) ed altre scritture, durante quello scellerato sacco di Roma, il quale oltre agli altri gravi danni che mi fece, non si vergognò por la brutta mano ne le scritture, e dispergermi questa insieme con alcune altre mie povere, e misere fatiche. Frequenti sono i cenni e i richiami nelle sue lettere ad altre scritture. Nella lettera al Caro in cui rispondeva circa l'uso di celarò per celerò e simili e di alcune forme ortografiche, diceva che l'avrebbe giustificato a suo tempo, quando avesse condotto a compimento altri suoi lavori: onde mi sarà forza finir prima e poi stampar que' libri, ch'io ho incominciato de' principi '/, e de gli altri delle nature, e que' terzi delle forme della lingua Toscana, oltre a certi piccoli volumi di grammatica, che io ho scritti sopra questa nostra lingua. Dell'anno della pubblicazione delle due Orazioni è un'altra sua lettera al Citabili da Parma, nella quale gli annunziava di acconciarsi per iscriver una operetta de le quattro lingue di Toscana , da mandare a M. Annibal Caro, la quale aprirà una grandissima finistra per illuminar il corpo de la nostra lingua, e crediate per certo che senza questo lume ci si cammina al buio. Notevole è anche sotto il rispetto grammaticale l'altra al Caro sopra l'abuso del dire altrui Sua Signoria, Sua Eccellenza, intorno a cui molto allora si disputò. È riprodotta nella bella raccolta del Faxfam. Lettere precettive di eccellenti scritturi, Firenze. Le operette grammaticali che ci restano del Tolomei e formano il noto cod. della Comunale di Siena, vertono tutte su questioni di fonetica, anche quando riguardino la morfologia e la metrica: Grammatica Toscana (lettere dell'alfabeto e loro classificazione); Tratta/o delle forme (passaggi de' suoni latini negl'italiani la teoria de' suoni in relazione con le loro rappresentazioni grafiche); 3. La rima che cosa sia e quante lettere bisogna rimare; Delle rime proprie e delle improprie; De lo e chiaro e fosco; De l'o chiaro e fosco (che sono i due trattati che andarono a costituire il cap. VI delle Origini del Cittadini); Stili'* sordo e sonoro; Stillo z sordo e sonoro. Su di esse, che certo rappresentano il maggior titolo di lode pel Tolomei e gli assegnano un posto eminente nella storia della filologia romanza, crediamo opportuno discorrere quando incontreremo il Cittadini col quale vedono in qualche modo la luce, entrando direttamente nel circolo delle idee. Intanto osserviamo che fu male che questi trattatelli, che avrebbero potuto fecondare un più intenso e metodico studio storico della lingua, non vedessero la luce; ma una discreta parte si deve credere che ignota del tutto non rimanesse al mondo letterario, date le relazioni del Tolomei e il costume letterario dell'età. In ogni modo l'opera del Tolomei, considerata nel suo complesso, avanza in valore la comune produzione grammaticale del tempo, per le idee critiche generali sul linguaggio e gì' idiomi in particolare e le conoscenze positive circa l'evoluzione del Toscano. Se non così notevoli, certo importanti, non pel fatto della grammatica concreta che ne derivò, ma sì per i canoni linguistici ripresi in discussione e le vedute per cui die luogo circa la possibilità della grammatica, furono i resultati a cui menò l'iniziativa presa dall' 'Accademia fiorentina l'anno stesso in cui si rinnovellava sul tronco non vecchio ma infrenato degli Umidi, allegroni ben degni di godere il frizzo del Lasca, che dai solenni uomini della riformazione generale fu con l'espulsione punito de' suoi ribelli sdegni contro la pedanteria stravincente sulla giovialità. Gelli e Giambullari furono de' quattro che l'Accademia elesse all'ordinamento grammaticale della lingua, divenuta l'oggetto della sua attività dalla compiuta riforma. E l'uno e l'altro si diedero infatti a osservare e a comporre le leggi della lingua fiorentina. Ma Gelli, dopo un anno di studio amoroso, rinunziò all'impresa, che gli parve fortemente difficile, anzi quasi impossibile ad essere attuata. Egli, se non fu un filosofo, esercitò però il pensiero sui problemi morali meglio di molti suoi contemporanei : da questi suoi amori con la filosofia dovette esser tratto naturalmente a considerare il difficile problema d'una grammatica toscana, e, con acume degno del suo fine intelletto, lo risolse negativamente; in ciò è sopratutto il suo merito, anzi per questo merita una nota particolare in una storia come questa, anche se a codesta soluzione non giunse con ragioni critiche sempre e in tutto fondate e dedotte da un criterio scientifico. Egli ne fece l'esposizione (a richiesta del Giambullari stesso, che nella prima tornata era stato rieletto nel numero di quegli uomini, che debbono riordinare et ridurre a regola la nostra lingua fiorentina , e dell'esposizione si valse come di acconcia prefazione alla sua grammatica già da tre anni composta e in quello stesso della rielezione pubblicata) in un Ragionamento, che egli finge avvenuto o che avvenne il giorno stesso di quella tornata e poi distese per iscritto, infra Bartoli et Gelli (sé stesso) sopra le diffìcultà del mettere in Regole, la nostra lingua. Le ragioni , comincia col confessare il nostro critico, et le diffìcultà che non solo mi hanno fatto levar via l'animo da questa impresa; ma ancora giudicarla quasi impossibile, sono et molte, et molto potenti: et quanto più vi pensava intorno, più mi se ne offerivano sempre alla mente, dell'altre nuove. Così mentre che io stava lontano al mettere in atto questa formazione delle Regole; me le imaginava piccola cosa. Ma Egli apprende ed applica tenacemente; sì che un' idea sola, il contrasto fra so/so e ragione, regge tutta l'opera sua, nei dialoghi morali e ne' commenti, anch'essi morali, a Dante e al Petrarca; ma non è ingegno che avanzi, nemmeno d'un punto, che sulle cognizioni apprese operi attivo per arricchirle, per trasformarle in sé, per acuirle a nuovi concetti. F. Ne., recens. delle pubblicazioni gelliane dell'Ugolini e del Fresco in Giorn. st. d. lett. il. Giambullari, Della lingua che si parla e scrive in Firenze, e un Dialogo di Gelli, Sopra la difficoltà dell'ordinare detta lingua, In Firenze, per Torrentino.] quando poi tentammo porla ad effetto, quanto più la considerai, tanto più mi parve difficile. L' impresa anzi sarebbe al tutto impossibile per la diversità di nomi et delle pronunzie che si trovano per le città di Toscana: ciascuna delle quali pregiando più le sue cose, che quelle d'altri, stimerebbe et terrebbe errore quello che in Firenze sarebbe regola : che è già un bel principio positivo contro la possibilità d'una grammatica che voglia abbracciare un nucleo di linguaggio più ampio di quel che sia il proprio d'una sola città, e dal quale non era difficile dedur l'altro che, un fiorentino non essendo l'altro, la grammatica d'uno non può esser la grammatica dell'altro. Ma per meglio esplicarvi ancora questo capo, mi bisogna cominciarmi da un altro principio. Ditemi chi fa l'ima l'altra, o le regole le lingue, o le lingue le regole? E chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle innanzi che queste: et non essendo fondate queste in altro uè avendo altra pruova chi le confermi, se non la autorità di esse lingue? Et da questo essendo egli com'egli è vero, nasce che e' non si può far regola alcuna che sia veramente regola: non solo alla lingua Toscana; ma anche alla Fiorentina . Solo delle lingue invariabili come quella sacra della Bibbia, certamente cosa fuori di Natura; et che non può attribuirsi se non a Dio , si posson far regole: e è pur cosa certa che anche si posson agevolmente metter in regola le variabili morte, come sarebbe la lingua latina: ma de le vive che e' non sia solamente difficile il farvi regola alcuna perfetta e vera; ma che e' sia quasi al tutto impossibile. Perchè le lingue vive progrediscono fino a un massimo di perfezione e poi, dopo una certa stasi, come avviene del sasso che lanciato a una certa altezza, per calare, deve pur fermarsi un istante, decadono; ma, non potendosi conoscere questa loro stasi di perfezione, perchè, la civiltà continuamente avanzando, non e' è grado di perfezione che non possa esser superato da un grado più eccellente, viene a mancare la fonte più pura donde si cavino regole perfette ed intere. Dice molto meglio di noi il Gelli> Non si potendo sapere nelle lingue vive, quando sia questo loro stato et questo colmo della loro perfezione: Egli non si può ancora conseguentemente farne regole perfette ed intere. Perchè sebbene e' si può sapere mediante gli scrittori di quelle quando meglio che mai, elle si sierto favellate per il passato: Nessuno è però che si possa promettere per il futuro, che insino a che elle non mancano, elle non si possino favellar meglio; Et così che e' non possino surgere ancora alcuni scrittori, ch e le iscrivino molto meglio. Qui appaiono evidenti tutti i concetti erronei che servono di base al ragionamento del Gelli: quello della lingua considerata come organismo staccato dal pensiero, quello della sua evoluzione coi relativi gradi di ascensione, perfezione, decadenza, quello della lingua perfetta o modello e l'altro, che ne conseguita, della facoltà acquisibile di parlar con piena correttezza mediante regole perfette ed intere cavate da una lingua nel colmo della sua perfezione. Qui l'atto del linguaggio come cosa viva non è più libera creazione spirituale, e la grammatica viene argomentata possibile: conclusione assolutamente contraria alla tesi annunziata: la grammatica è ineseguibile ignorandosi il grado di perfezione della lingua e mancando altre condizioni, come una ricca letteratura; ma, eliminati questi ostacoli, è possibile. L'altra difficoltà è la seguente. Quel che fu concesso ai Grammatici latini non si può fare nella lingua Fiorentina, et molto meno nella Toscana, che et vivono ancora, et non hanno scrittori da fondarvi lo intento suo, non si sapendo, se elle sono ancor pervenute a '1 colmo dello Arco. Et se questo non si può fare per via de gli scritti; chi vieta che e' non si faccia almanco per via dello uso? Et di quale uso? Oh questa è l'altra difficoltà, et non punto minore della precedente. Et perchè? In sostanza, perchè i Romani, padroni del mondo, potevano imporre la loro lingua, e noi Fiorentini che si vale? Noi non ci abbiamo Imperio alcuno così grande, che e' muova (come i Romani) le città sottoposteli, a cercare spontaneamente di favellare et onorare quella lingua, che favelli che le comanda. Nientedimanco e' si vede pur manifestamente ne' tempi nostri che molte persone di qualche spirito, così fuor d'Italia come in Italia, s' ingegnano con molto studio, di apprendere, et di favellare questa nostra lingua, non per altro che per amore. A questo punto il Gelli tira il ragionamento a sostenere garbatamente il primato di Firenze, nella lingua, non che sul1' Italia, sulla Toscana stessa, e a dar ragione del decadimento di esso dai tempi del Triumvirato e del suo risorgimento presente avvenuto per effetto della rinascenza, dell'amore e del culto, cioè, degli studi classici, latini e greci. Et da che vi pensate che nasca questo? Se non da l'essere oggi in Firenze così gran numero di Persone che hanno bonissima cognizione) della lingua Latina: La quale essendo state necessitate nello impararle, a vedere i veri Poeti hanno assai chiaramente conosciuto, che cosa sia Poesia; et quanto sia verbigrazia contro i precetti dell'Arte, il ridurre, tutta la vita di un huomo, o pur le azzioni di XXV o XXX anni, in due, o tre ore di tempo che si consuma nel recitare. Oltre a questo, avendo appreso per via di Regole, quelle due lingue, conoscendo quante e quali sieno le parti del Parlare, et in che modo elle debbino accompagnarsi j cominciano a favellare tanto rettamente, et con tanta leggiadria, che io mi persuado gagliardamente la nostra lingua esser molto vicina a quel sommo grado della perfezione, oltre il quale non si può salire. I nostri tre massimi scrittori stessi, aggiunge il Gelli, furono i primi in questi Paesi ad aver notizia e a diffondere la conoscenza del latino e del greco, essi stessi cominciando a parlare rettamente et ordinatamente, migliorando et inalzando tanto il nostro Idioma da quello che egli era Ma che e' non furon già poi seguiti né imitati nello allevarla, secondo i modi posti da loro , come ora s'è tornato a fare in gloria della lingua. Inoltre concorrono a ciò altre cause: l'imitazione di coloro che non voglion esser da meno e nel parlare e sì co '1 tradurre, arrecandoci le scienze et l'arti che elli imparano nelle altre lingue; l'uso più esteso della lingua materna fatto da parte dei principi e gli uomini grandi et qualificati, a scrivere in questa lingua, le importantissime cose de' Governi degli Stati, i maneggi delle Guerre, e gli altri negotij gravi delle faccende che da non molto indietro si scrivevano tutti in lingua latina. Perchè non vi date a intendere che una lingua diventi mai ricca et bella, per i ragionamenti de' Plebei, et delle Donnicciuole, che favellali' sempre (rispetto a lo avere concetti vilissimi) di cose basse: che e' sono solamente gli huomini grandi e virtuosi, quelli che inalzano, et tanno grandi le lingue. Imperoche avendo sempre concetti nobili et alti, et trattando et maneggiando cose di gran momento, et ragionando benespesso et discorrendo sopra quelle in prò et in contro, persuadendo o dissuadendo, accusando o lodando: Et tal volta ancora ammonendo et insegnando; fanno le lingue loro, copiose, onorate, ricche, et leggiadre . Conseguentemente il Gelli conclude che la lingua fiorentina non essendo però ancor pervenuta a lo stato suo, non se ne i6o Storia della Grammatica possa far regola, che in tempo non molto lungo, non abbia a scoprirsi defettuosa; et non più tale, quale oggi forse ci apparirebbe . Ma si fa opportunamente obiettare dal suo interlocutore: Orsù, ponghiamo per le tante cose allegate da te, che alla Accademia non si convenga il fare queste Regole: vuoi tu però affermare al tutto, che una Persona privata et particulare; lasciando favellare ad arbitrio loro qualunque Città et luogo della Toscana, senza difettargli, o riputargli da meno per questo: Non possa almanco da i tre primi nostri scrittori et da l'uso di Firenze, formare le Regole, che a' tempi d'oggi, insegnino favellare rettamente a Fiorentini stessi, et a chi pur volesse imitargli ? E gli risponde: Oh questo Nò, messer Cosimo, perchè io mi credo pure, che un' solo, in suo nome proprio, et non di Accademia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente le possa fare . Fattosi poi domandare et con qual'ordine? e in che maniera? quelle regole si potrebber formare, risponde distinguendo nella lingua due parti principali, la materia ciò è et la forma: la materia sono le parole de le quali ella è fatta: et la forma è quel modo et quell'ordine, col quale son' contestate et tessute insieme l'una parola con l'altra, che si chiama ordinariamente la costruzzione . Quanto alla materia, trova facile ordinarla in un Vocabolario, ricordando a questo punto il lavoro poi perduto del Norchiati, e permettendoci cosi da questa citazione di argomentare che il Gel li avrebbe voluto un Vocabolario metodico. Quanto alla forma, dopo aver accennato alla maggior dolcezza del periodo e delle clausole della favella fiorentina, osserva che i grammatici anteriori troppo s' indugiarono e si distesero nelle declinazioni solamente , passandosi della costruzione senza parlarne se non pochissimo: come cosa troppo difficile; et ad essi forse (appunto perchè forestieri!) mal riuscibile. Là onde circa al formar queste regole, non mi affaticherei molto nella prima parte: Ma dichiarate le parti della Orazione, et dimostrate le declinabili et le indeclinabili, et gli esempli de' verbi massimamente con quella diversità che è tra l'uso moderno, et quello che è dicono de' nostri antichi, me n'andrei tutto alla costruzione. Nella quale, consistendovi (come ho detto) tutta la importanzia eli questa lingua, vorrei io certamente usare una diligentia più la che estrema: Togliendo da' tre sopra detti, tutto quel che fusse ben detto. Il che al giudizio mio solamente sarebbe quello, che l'uso di oggi si ha mantenuto: Essendo l'orecchio nostro inclinato naturalmente a lasciar sempre le cose aspre, dure, et difficili; et seguitare le dolci e le facili . Ho riportato questo brano anche perchè mi risparmia un più lungo discorso sulla grammatica del Giambullari, in quanto che il Gelli si fa dire dal Bartoli: Questo è appunto l'ordine stesso, et il modo che il nostro Giambullari, tenne in quelle sue Regole, che egli già son tre anni, donò allo illustrissimo signor Don Francesco de' Medici primogenito di S. Eccellenza . E il Gelli lo conferma aggiungendo d'averle viste, poiché il Giambullari gliele aveva conferite molte volte et massimamente l'anno passato, quando eravamo in questo maneggio , e parergli che egli avesse trovato la vera via, et con una diligenzia maravigliosa, fatto ciò che fusse possibile farsi in questa materia . E chiesta la ragione per cui ormai non le comunica con la stampa a tutte le Genti che le desiderano , il Bartoli gli annunzia d'aver finalmente a ciò indotto il Giambullari: et così fra non molti giorni, comincerò a farle stampare, che di tanto son convenuto co '1 Torrentino. Nell'eseguire però il programma tracciatogli dal Gelli, il Giambullari, secondo quanto anche afferma il Lombardelli, sulla fede del Giambullari stesso proemiante all'operetta, tenne per quanto gli fu lecito, la maniera del vostro Linacro in quella eccellente opera de struchira latini sermonis, e seguitò anco la strada comune de' Gramatici latini, e forse di Costantino Lascari greco; onde può ammaestrare i principianti, e giovare agl'introdotti; e io per me gli ho grande obbligo; come anco voi dite di avergliene, persuaso a pigliarlo in pratico da quelle lodi, che io già gli diedi nel Proemio della Pronunzia Toscana . Degli otto libri onde il trattato si compone, due son dedicati alla morfologia, e non senza rincrescimento dell'autore, che ne avrebbe voluto far un solo (p. io), e gli altri sei alla sintassi. Definite le lettere, le sillabe, le parole, l'orazione (diceria, parlare, la nostra ' proposizione ' ) che divide in perfetta o imperfetta (' elittica '), e classificate le parti di essa (nome, pronome, articolo, verbo, avverbio, participio, preposizione, inframesso = interiezione, legatura = congiunzione), passa a trattare i ' | I /otiti delle cinque declinabili nel primo libro, e delle quattro indeclinabili nel secondo, dando di tutto poco più che gli schemi. Così nella trattazione del nome, son quasi del tutto abolite le declinazioni ; del pronome ha tagliato via tutta l'esemplificazione che trovammo nel Fortunio e nel Bembo; dell'articolo fa una sola classe; del verbo conserva solo la distinzione di transitivo e intransitivo, distinguendo invece tra i modi l'esortativo, il desiderativo, il potenziale; ammette una quinta coniugazione dei verbi che partecipano della terza e della quarta, come porre; del participio tratta anche il passivo futuro {reverendo). Più rapida e schematica è la trattazione del secondo libro. Distingue le preposizioni in a) segni di casi (de, di, a, da) e b) preposizioni vere e schiette: più parla delle affisse; enumera le varie 'specie' e 'sottospecie' di avverbi, dell' inframesso (es. d'inframessi ' timidi ': sta sta, zi, babà, appartenenti al linguaggio degli uomini bassi, non degli scrittori); chiude con alcune poche specie di legature. E viene a trattare della ' costruzione '. L'esposizione è notevole, perchè ci richiama una recente distinzione della sintassi in regularis e figurata nelle relative forme di ellissi, pleonasmo, inversione o per imitazione . Infatti Giambullari ammette della costruzione 'due spezie' principalmente: l'ima delle quali non manca e non soprabbonda di cosa alcuna, né ha in sé stessa trasmutamento, od alterazione, come p. es., la bellezza diletta l'occhio: Et l'altra per l'opposito, manca [ellissi], e soprabbonda [pieo?iasmo] di qualche cosa, o riceve alcun mutamento [inversione^, come p. es. La vita il fine, e '1 dì loda la sera . Chiama la prima ' costruzzione intera ' [' syntaxis regularis '], la seconda ' figurata ' [' fgurata ']. Quanto al giudizio dell'una e dell'altra, il Giambullari approva e raccomanda ai giovinetti la prima, e giustifica l'altra sull'esempio de' grandissimi nostri scrittori, che non debbono però essere imitati dai giovinetti. La costruzione intera è trattata in tre libri, abbracciando la SINTASSI del nome, dell'articolo, del pronome, nel IV quella del verbo, nel V quella delle parti indeclinabili: hi fgurata comprende gli ultimi tre, di cui il VI è tutto dedicato allo scambio (enallage, antimeria), il VII alle figure di parola, ('] L'ordine con cui tratta dello scambio, è questo: comincia da] nome, e parla di tutti gli scambi del nome (una spezie per un'altra, l'YIII alle figure di sentenza: oggetti questi del rettorico, ma di competenza anche del grammatico, perchè anche il grammatico spiega gli scrittori (enarratio poetarum). Delle figure ne sono inventariate coi loro rispettivi nomi greci, latini e italiani, coniati bizzarramente dal Giambullari, circa dugento! Così, teoricamente, neppur con questo valoroso gruppo di Toscani, che avevano invocato per sé il diritto di legiferare in punto grammatica, nessun punto di vista nuovo veniva conquistato con cui meglio scrutar la natura del linguaggio: praticamente, la grammatica normativa, diremo così, ufficiale era elaborata sul vecchio stampo, ridotta nella parte morfologica, accresciuta in quella SINTATTICA, gonfiata a dismisura in quella retorica delle figure (quella che fu appunto compilata da Giambullari, non esiterei a chiamar un regresso rispetto all'abbozzo grammaticale che troviamo nel Cesano del Tolomei, appunto perchè qui si notavano le caratteristiche del toscano vivo senz' intendimento precettistico): teoria e pratica, prese a trattare con certo spirito nuovo, quasi di ribellione, e non nascosto intendimento di progresso, rimanevano sostanzialmente sotto il dominio del classicismo e delle regole. Pure, guadagni se n'ebbero e non scarsi. Il maggiore e più positivo fu l' indagine storica condotta con così bei resultati dal Tolomei: i suoi accertamenti vanno soggetti a correzioni non poche né lievi, ma contengono un elemento conoscitivo irrefutabile per la filologia moderna, né del tutto disutile per la stessa ricerca speculativa: quei fatti linguistici (come li chiamano) da lui de ovvero il proprio per lo appellativo, p. es. Imagine per Imaginazione: Petrarca, ' Et sì diviso | da la imagine vera ' |; lo appellativo per il parti/ivo; il proprio per il possessivo, ecc.), e del nome scambiato per un'altra parte del discorso (il nome per il participio, per la preposizione, ecc.); poi dello scambio del pronome, e così di seguito, di quello di tutte le altre parti del discorso: litania interminabile di classificazioni, definizioni, esempi. Come a Gelli un Trattatello dell'origine di Firenze, così al Giambullari dobbiamo un Ragionamento, intitolato il Getto, della prima ed antica origine della Toscana e particolarmente della lingua fiorentina, dove, com'è risaputo, il famoso storico tanto spropositò nella spiegazione di quest'ultimo problema. Per entrambi i libretti, cfr. M. Barbi, // trattatello sull'origine di Firenze di G. G. Gelli, Firenze, 1894. Sul Giambullari, cfr. Valacca, La vita e le opere di P. F. G., Bitonto. scritti non sono il linguaggio reale, ma non sono neppure semplici e astratte categorie: e certo valgono assai più del precetto, delle regole come aiuti a penetrare la natura dell'atto che li crea. Nell'ordine delle idee, germi di progresso contengono quella calda difesa del volgare, e particolarmente di quello parlato in Toscana di contro al latino e all'italiano del Trissino, astrazione d'un'astrazione, che il Tolomei fece con tanto acume; la poca simpatia di lui per la grammatica come disciplina precettiva, in cambio della quale era consigliata più francamente la lettura degli scrittori; quel travagliarsi del Gelli intorno alla difficoltà e all' impossibilità del mettere in regola la lingua viva che è in continuo moto, anche se il fondamento della dimostrazione è erroneo; quel riconoscer necessaria una maggior trattazione della sintassi, un'altra categoria di più, che permette di veder meglio per entro lo spirito della lingua; il riconoscere che la lingua s'accresce e si perfeziona non tanto per la virtù del precetto quanto pel predominio del popolo che la impone, per l'aumento della cultura, il dibattito delle idee, il coltivar nuovi generi letterari; e quant'altro s' è messo particolarmente in rilievo: lievito, di poca forza espansiva, se vuoisi, ma lievito, senza cui la scienza non si sviluppa. La revisione della grammatica e il consolidarsi del purismo. Svolgimento della grammatica storico-metodica. (A. Caro L. Castelvetro B. Varchi G. Muzio). Il naturale determinarsi e permutarsi del principio direttivo della critica letteraria del Cinquecento nelle sue forme di imitazione, teoria, legge, fu rapido quanto intenso era il movimento che il ricomparire delle opere classiche e segnatamente della Poetica aristotelica aveva avvivato. Col codificarsi delle regole, lo spirito critico divenne, come doveva accadere, sempre più restrittivo e sottile, e, nelle applicazioni, pervicace e litigioso: nacquero così, com'è noto, numerose dispute letterarie e polemiche personali che, peraltro, giovarono assai allo sviluppo della ritica medesima: né la grammatica, meno d'altre discipline, potè rimanerne immune. Già prima che il Sansovino nella sua raccolta dei principali grammatici della prima metà del secolo, aveva il Varchi ristampate le Prose del Bembo: ora, se tali ristampe erano, come abbiamo mostrato, una conseguenza dei metodi ond'era stata elaborata la grammatica del volgare, questa, in quella forma tanto poco sistematica e tanto, incompleta e così poco imperativa, non corrispondeva più al nuovo spirito critico, al nuovo orientamento: quindi doveva necessariamente soggiacere a un lavoro di revisione e di correzione. E l'uomo proprio ad hoc fu Ludovico Castelvetro, che impersona e incarna, meglio d'ogni i66 Storia della Grammatica altro di quei gagliardi letterati, lo spirito e la cultura della sua età. E dalla ristampa del Varchi mosse appunto a rivedere tutta l'opera bembesca tanto favorevolmente accolta. Ne venne fuori un volume molto grande , in cui, a detta del Castel vetro iuniore, erano minutissimamente [trattate?] tutte le parti della grammatica della lingua volgare, nella guisa che fa Prisciano quelle della latina . Di codesto volume, a cui l'autore dovè attendere parecchi anni, e che si perde a Lione di Francia, quando si ruppe la guerra la seconda volta tra il Re ed i suoi sudditi per conto della Religione, una parte, la Guaita fatta al ragionamento degli articoli et de' verbi, era già venuta fuori anonima, ma con l'indubbio segno della paternità, pei tipi del Gadaldini di Modena : altre, non sappiamo se rifatte o superstiti alla perdita, riguardanti il secondo e il terzo libro delle Prose, furono pubblicate postume a Basilea. Sembra che l' incentivo alla edizione della prima Ghinta sia stata la polemica col Caro, che non aveva ancor permesso al Castelvetro di mostrare tutta la sua valentia di linguista e di grammatico. Comunque, è certo che il contenuto di questa lunga polemica dal primo Parere del Castelvetro sulla Canzone de' Gigli d'oro del Caro sino all'ultima sua fase esclusa (Ercolano del Varchi, composto verso il 1560 ma pubblicato solo nel 70, e Correzione del Castelvetro), è, sotto il rispetto puramente filologico e grammaticale, molto scarso. Poiché la controversia tranne, s'intende, nella parte diremo personale, che è senza dubbio divertente e anche, pel costume, interessante s'aggirò tutta e sempre, nelle varie scritture dell'un partito e dell'altro, sul potersi o no usare questa o quella parola nel rispetto della loro legittimità e del loro significato {falli di parole e falli di sentimento sono le due categorie della Ragione^*) del Castelvetro); e, per quanto l'uno e l'altro polemista abbian Nel 1536 aveva recato in ordine d'abicì li vocaboli latini di Valerio con la spositione volgare, fiducioso che tale fatica sarebbe stata a ognuno utile. Castelvetro jun., Biogr. di L. C. {Race. Calogerà), in Bertoni, op. qui appresso cit.. C) In G. Cavazzuti, Lodovico Castelvetro, Modena, 1903, p. 122. (:i) Giunta fatta al Ragiona \ mento degli articoli et \ de verbi di Messer Bembo. | KEKPIKA. In fine: In Modona, Per gli Hcredi di Cornelio Gadaldino. Parma] cercato di deviare dalla question principale nello svolgersi del dibattito, pure il carattere di essa riman sempre quello che benissimo è espresso nelle tanto discusse parole del Castelvetro: il Petrarca [codeste voci adoperate dal Caro] non le isserebbe. La polemica verte essenzialmente sur una questione di elocuzione poetica: argomenti e sofismi son sempre cavati dai comuni criteri estrinseci e arbitrari della forma: tra l'aspra selva delle osservazioni del Castelvetro e i fiorami umoristici e eleganti del Caro e compagni di difesa, potete sempre scovare il serpentello della rettorica corrente, il criterio delle voci belle e delle voci brutte. Valga quest'esempio: Inviolata. Se questa voce non vi piace, vi puzzano le viole, e le rose. Non potendo essere, ne la più soave, né la più moscata di questa. Se '1 Petrarca non l'annasò; forse quando le capitò alle mani, era infreddato. Ma il Boccaccio, che non aveva si delicato bocchino, né sì schifo naso, come voi; la volle pure in certe sue insalitine (sic): e la fiutò volentieri. Leggete ne l'Ameto. E però con solecitudine i fuochi nostri, che di qui porterai, fa che Inviolati servi. Et appresso. Acciocché quelle di costumi, e d'arte, Inviolata serbandomi ornassero la mia bellezza. La Ghmta castelvetrina, invece, ha ben altra importanza, ed è veramente a dolere che le sue compagne relative alle altre parti del discorso siano andate perdute, perchè avremmo avuto un ammirevole esempio di grammatica metodica e storica: essa in ogni modo è, anche così, un documento de' più significativi! perchè, per la prima volta, viene svolto di proposito nella grammatica normativa l'elemento propriamente storico e introdotto il vero metodo. Questo avea già ben visto un giudice di grammatiche assai autorevole, come quegli che le leggeva e le sapeva leggere da un punto di vista elevato, Francesco De Sanctis. Il quale, dopo aver osservato che la grammatica italiana dapprima non fu se non una raccolta di regole ed osservazioni sulla nostra lingua succedentisi a caso , mette bene in rilievo i pregi delle opere grammaticali di grammatici superiori come il Bembo, il Castelvetro e il Salviati per quanto concerne la parte storica, la diligenza del raccogliere, la conoscenza delle proprietà de' vocaboli, ecc., e segnala particolarmente il Castelvetro e il Salviati ('i Apologia, Parma, pp. 52-^ i68 Storia della Grammatica come perfezionatori della grammatica storica e avviatori di quella metodica . E su questa Guaita fermeremo in particolare la nostra attenzione, benché a chi voglia portar un giudizio complessivo sull'attività filologica del Castelvetro, quale ricostruttore e interprete di testi, indagatore dell'origine e della natura dei linguaggi, esploratore di etimi ignoti ("), convenga tener presenti, oltre la Poetica, tutte le altre opere di lui. Castelvetro, nella grammatica come nella poetica e nel resto, manifesta assai chiaramente il carattere del suo ingegno. L'avevano ben capito gli stessi suoi contemporanei, tra i quali mi basti citare il Lombardelli: Il Castelvetro, con le sottigliezze di sua dottrina, fa star sospesi molto dallo scriver toscano, tanto in teorica quanto in pratica, e di vero può molto aiutare i fortemente introdotti, sì per gli avvertimenti particolari, sì per la finezza del giudizio, che altri vien acquistando in legger le costui scritture, fondate nelle scienze, e nelle lingue più famose . Lambiccato e falso nelle sue sottigliezze lo disse già Sanctis. Recentemente, per un fortunato incontro della storia letteraria e della filosofia, il Castelvetro ha avuto il suo degno biografo e i suoi degni critici, sicché ora la sua figura sorge intera e vera: le analisi del Vivaldi e del Capasso da un lato, la biografia critica del Cavazzuti da un altro e per un terzo i cenni del Croce e dello Spingarn e [Sulla notevole pagina dei Nuovi Saggi Critici (Napoli), riportata opportunamente dal Fusco nella sua Poetica del Castelvetro, Napoli,si deve peraltro osservare che il Bembo trattò la parte storica della lingua non nel senso di Castelvetro: il Bembo ci mette sott' occhio V uso storico della nostra lingua; il Castelvetro ci dà la storia, dirò, interna, delle forme, quali si svolsero dal latino, subordinandone però l'indagine al precetto grammaticale che veniva così incorporato a un elemento conoscitivo. Fusco. Un notevole posto tra queste occupa la Spositionc a XIX canti dell Inferno (Modena. I fonti. SANCTIS. Una polemica e le controversie intorno alla nostra lingua, Napoli. Note critiche su la Polemica tra il Caro e il Castelvetro, Napoli. la monografia del Fusco hanno ormai messo in piena luce così la vita come l'attività individuale e il pensiero vario di lui. Acato l'uomo e sottili le cose da lui scritte , torna a ripeter l'ultimo suo critico, il Fusco, sia che si affatichi a dare un certo che d'armonico al sistema e a farne vedere le parti legate L'ima all'altra dal vincolo di causalità; sia che per distinguersi proponga dimostrazioni originali di tesi in sé sgangherate e interpetrazioni bizzarre di problemi insoluti e insolubili; sia finalmente che, conscio de' vuoti, cui non gli riesce di colmare, si sforzi di dissimularli e di coprirli con foglie più trasparenti che pietose dommatico come un pontefice, dottorale, fiero, soprattutto insopportabilmente lungo e secco, innegabilmente lambiccato e falso nelle sue sottigliezze; [sempre] lui, lo scolastico colla somma di difetti propria degli scolastici, pe' quali la presunzione di essere a priori in possesso della verità è ostacolo a trovarla, arzigogolanti in un mondo, che è quello delle nuvole, aventi a supremo fine la forma, non la sostanza del discorso; di tutto sprezzanti che non si adagi nel rigido schema di un sillogismo: lui, il critico ottuso, più che mai ottuso alle pure e immediate impressioni dell'arte; lui, "un curioso miscuglio di dotto acume e di vuota sofisticheria che ondeggiava tra un pedantesco timore e un linguaggio scorretto, artificiale e provincialesco, come nello stile riusciva insieme arido e prolisso,, ("). Specialmente in fatto di poetica, dalla prima all'ultima pagina rivela costante l'oscillazione del pensiero, la perplessità psicologica, l'incertezza tra il sì e il no. Il risultato... ein bedenklicher Rùckfall in die Unklarheit der ersten theoretischen Versuche, come si esprime il Klein (3). Ed era inevitabile quando il metodo della ricerca e dell'esame, comunque allargato, restava invariato nella sostanza: al fatto particolare e mutabile dato il valore di legge universale e meccanica: il capriccio dell'artista di ieri assegnato come norma all'artista di oggi: l'empirismo sostituito alla scienza; l'arte messa alla dipendenza immediata del lavoro scientifico e della storicità; la poesia, che si appartiene tutta alla fantasia, edificata e giudicata con criteri Son parole d’Ovidio, Le correz.) Der Chor in den wichtig sten Tragòdien der franzòsischen Renaissance, Erlangen und Leipzig] logici o pratici, morali o intellettuali: l'estetica fondata sempre o quasi sempre su motivi extra od anti-estetici . Sicché il volerlo mettere in linea, caratterizzarlo, ridurlo sotto uno degli indirizzi che dominarono nella coltura italiana è impossibile o difficile e non senza pericolo di confusione; tutti i venti lo fecero piegare un po', nessuno lo vinse. Non classicista, non romantico, non aristotelico, pure lascia tracce non lievi e di classicismo e di romanticismo, figura multiforme, a diverse facce, changeante, che sta sola a sé e per sé in tutto il suo secolo: novatore e continuatore di pregiudizi; progressista ne' gesti e retrogrado nel fatto... ebbe acuto ingegno, indipendenza di giudizio, superiorità di critico: nondimeno sopravvive pedante tra pedanti: primus inter aequales . Filosofo del linguaggio, dunque, il Castelvetro non poteva essere né fu: anzi, quant'egli scrisse intorno al lato teorico della forma poetica e intorno al lato pratico {precettistica), non lo pone certo al di sopra d'altri grammatici che, come vedemmo, ebbero più d'una felice intuizione circa la natura dell'espressione. N'ebbe anch'egli, a dir vero, come quando scrisse queste che sono veramente come il Fusco le ha chiamate auree parole: Con lo splendore della favella non si deve oscurare la luce della sententia...; perchè deve essere stimato vitio che la favella sia in guisa vaga che altri riguardi più in ammirar lei che in considerare il sentimento, essendosi trovata la favella per lo sentimento e non lo sentimento per la favella. Ma i precetti della vecchia rettorica, teoria dell'ornato e teoria del conveniente, l'arbitraria distinzione di prosa e versi, ecc. ecc., son tutti dal Castelvetro mantenuti, anzi moltiplicati. Dove, invece, il Castelvetro, per comune consenso, eccelle, è nella filologia (erudizione linguistica spicciola, grammatica storica) e nella grammatica normativa; e se è impresa tutt'altro che facile il tirare la somma di tanti suoi accettabili o no accertamenti e dati positivi in fatto di lingua, fonologia, etimologia, morfologia, ortografia, lessico, sintassi, versificazione, tuttavia dalla limacciosa e dilagante corrente di tanta sua dottrina quasi tutta d' intonazione vivacemente, ostinatamente, sofisticamente polemica, balzano fuori in tutta la loro chiarezza la giusta tesi Fusco.] dell'origine del volgare e il diritto metodo della dimostrazione e della relativa indagine delle forme. Egli, infatti, non si limita ad affermare che il volgare italiano (e, è lecito ammettere, anche il provenzale e gli altri idiomi romanzi) , derivò dal latino e dal latino parlato, che non era quello che i dotti scrivevano o gli oratori adoperavano ne' pubblici discorsi, ma osserva che la diversità del nostro idioma volgare da quel volgare latino è nella declinazione, principalmente, non nel lessico, ossia nella variazione che le voci hanno subito e non in una diversità di etimi: e, prescindendo per ora dalle leggi fonetiche da lui poste, ingegnosissimo si mostra nello spiegare le circostanze, le cause esterne delle trasformazioni del volgare (:ì): e la nostra ammirazione certo aumenterebbe se di molta parte de' suoi studi sull'antico italiano non dovessimo lamentare la perdita. Non è cosa, peraltro, da maravigliar troppo chi ripensi quanto propizi volgessero ormai i tempi per gli studi romanzi, di cui bene può il Castelvetro, nei rispetti della grammatica italiana, considerarsi uno de' principali campioni anche a fianco del Barbieri e del Corbinelli, per citar solo i maggiori, i quali, per l'uso sapiente fatto del criterio comparativo, godono, l'uno nell'ordine storico letterario, l'altro nell'ordine linguistico, un vero primato ( "). Meno coerente e avveduto fu forse nella famosa que (' Cavazzuti. Delle prove dell' esistenza del latino volgare il Castelvetro non fu ricercatore compiuto, poiché non ebbe l'occhio specialmente, come doveva, al materiale epigrafico, ma quelle che indicò in vocaboli e modi di dire popolari della letteratura scritta e massimamente nelle commedie, colpiscono nel segno. Cavazzuti. Castelvetro non ignorò altri idiomi neolatini, ma in essi non acquistò una speciale competenza: quanto al provenzale, p. es., sono state ridotte a cinque o sei note linguistiche quella che dal Canello era stata chiamata straordinaria erudizione; in questo campo valse assai più, non dico il Barbieri, che a dir del nipote Ludovico avrebbe insegnato il provenzale al Castelvetro e se lo sarebbe associato nel trasportar in volgare le vite de' migliori trovatori (Cavazzuti), ma il Bembo stesso. Cfr. V. Crescini, Di J. Corbinelli, in Riv. crii. d. leti, il., II, col. 189 (cit. dal Bertoni nell'op. qui appresso cit.). Per la storia degli studi romanzi in Italia nel sec. XVI, v. V. Crescini, J. Corbinelli in Per gli studi romanzi Saggi ed appunti, Padova, e Bertoni, Barbieri e gli sludi romanzi nel sec. XVI, Modena. stione della lingua italiana; ma ciò dipese dall'essere in sostanza, ossia nella veduta e nella direttiva principale d'accordo col Bembo, col Caro e anche col Varchi, e dall'aver voluto, troppo indulgendo al suo bollente genio, combatterli ad ogni costo e ad oltranza, per abbattere il loro edificio e costruirne un altro con diverso materiale e diverso metodo ma d'eguale architettura e decorazione. Il D'Ovidio dice: La sua polemica col Caro rientra solo di sbieco nella questione generale della lingua... Se si prescinde dal modo come il Castelvetro scriveva e criticava le scritture altrui, se si riguarda alla sua astratta teoria quale si disviluppa dalle infinite perplessità delle sue Giunte alle Prose del Bembo, si può dire che col Caro egli s'accordasse interamente, proclamando che si debba scrivere nella lingua del proprio secolo e che sia impossibile gareggiar nella lingua del Trecento coi trecentisti, e che i fiorentini si trovino per lo scrivere in condizioni migliori di tutti gli altri (Giunta. Il Castelvetro non era ingegno da star saldo in un principio e concentrarvisi tutto intorno. A note di fonetica lo conduceva da una parte la sua passione per l'etimologia, dall'altra il proposito di combattere Bembo nelle questioni specialmente morfologiche. Codeste note, per altro, sono sparse un po’dappertutto. È miracoloso, scrive Castelvetro iuniore, nel DEDURRE L’ETIMOLOGIA DALLA LINGUA LATINA per servirsene nella lingua volgare. Il PARTICIPIALE DI SPERANZA-GRICE: “Etymologically speaking, ‘mean’ means ‘mind.’” Scelse tutte le parole oscure e non intese dagli altri, che sono nelle Novelle antiche e l' interpretò tutte coll'etimologie, e le mise in un volume sotto ordine dell'alfabeto, il qual saggio s'è perduto con altre scritture in Lione. Conviene pertanto spigolare le sue note etimologiche. Cavazzuti segnal, illustrando il metodo che Castelvetro segue nel cavarle, alcune etimologie di lui, quella di mai, di punto, di cavelle o cove/le, dell'articolo il, di arancia, di bozze, di niente, e altre. Ma più che queste e le moltissime altre che con speciale predilezione si sofferma a tirare, è da ammirare in Castelvetro, a giudizio di Vivaldi, l'aver ammessa la possibilità della scienza, quando altri, come Varchi, contro cui validamente la sostenne, la nega. Un esem- [Le correz. V. anche Cavazzuti. In Cavazzuti] pio caratteristico dell'acume che Castelvetro adopera nel terreno della fonetica, è la spiegazione ch'egli da del futuro italiano, dove puo dimostrare la sua dottrina in tatto di consonantismo. V non vuole, egli dice, innanzi a sé C, G, P; 15. D, H; LI, M, Nn, Rn, Ou, T, Tt, Ct, Nt, V; quindi avviene che accostandosi le predette lettere a V consonante, essa si tramuta in S, e quelle sono costrette a tramutarsi in quelle consonanti, o a prendere di quelle, che possono comportare la compagnia della S, o a dileguarsi; sì come B è costretto a tramutarsi in simile caso in P {scripsi), o in S (iussi); D in S (cessi), H in C (traxi); M in S {pressi); Mn in Mp (tempsi); V in C (yixi), ecc. .Su queste basi egli osservava: è da sapere che la lingua nostra non ha voce semplice futura, se non tre sole in un verbo disusato, o non usato mai... ma le ha composte del presente del verbo avere, e dello infinito del verbo, il cui futuro si richiede; dicendosi dire ho nella guisa che si dice appresso i Greci Àsyrive^to, e appresso i Latini dicere habeo, significandosi il futuro Aé^oj, dicam , spiegazione integrata da un luogo della Correzione, dove riferisce un colloquio avuto su tale argomento col Varchi: .... mi domandò come del verbo Amo la voce del tempo imperfetto Avi ab avi veniva in vulgare. Et io gli dissi che mutata B in V, et gittato M finale riusciva Amava. Perchè, adunque, soggiunse egli, se B si muta in V in Amava, non si può ancora in B in Amabo vegnente in vulgare mutare in R con trasportamento dell'accento, et dirsi Amerò? Non si può, gli risposi io, perciò che B si può mutare, e si muta in V, conciosia cosa che V, B, P, F sieno lettere pazienti et cambievoli l'una nell'altra, della schiera delle quali non è R, senza che non si potrebbe mostrare quando anchora concedessi questo, come di Legam et d'Audiam si potesse dire leggerò et udirò. De' mutamenti fonetici vide la causa in quei principi fisiologici che tentano di resistere ancora alla critica negativa di essi Q: Non ha dubbio, scriveva, che [In Cavazzuti. Corr. /.éyeiv è/o secondo l'Errata Corride del Castelv. stesso non vista dal Cavazzuti. V. più innanzi. Giunta LXVIII, in Cavazzuti. In Cavazzuti. Croce, La Critica.] la diversità dell'aere generi diversità di lingue; poiché opererà che si proffereranno le parole più o meno addentro nella gola; e appresso che alcune consonanti si distingueranno o più o meno l'ima dall'altra; e per avventura ancora alcune vocali; e si darà il fine alle parole o più o meno perfetto. Questo egli scriveva molti anni prima, dunque, che del massimo fonologo del Cinquecento, Bartoli, fosse apparso quel mirabile trattato che il Teza illustrò da par suo con tanto compiacimento. E, valga o non valga una tale dottrina, non si può lesinare l'ammirazione che il Castelvetro certo si merita, anche non dimenticando i progressi del Tolomei su questa parte della grammatica storica.Vero corpo di scienza grammaticale, storica e precettiva e metodica insieme è la prima Gninta. Consta di due parti: ia, [15] corpi [de' quali la maggior parte suddivisi in paragrafi] delle cose contenute nella Giunta di ciascuna particella degli articoli (pp. 2-16); 2a, [70] corpi [suddivisi parimenti in paragrafi] delle cose contenute nella Giunta di ciascuna particella de' verbi. In tutto dunque 85 giunte, in 77 -h 273 (2U parte) = 350 paragrafi, ossia osservazioni (selva selvaggia ed aspra e forte!); che son poi altrettante contraddizioni a quelle del Bembo. Nella prima parte, Degli Articoli, non parla soltanto di questi, come parrebbe, ma trova modo di toccare anche delle parti declinabili del discorso (nomi, [sostantivi e adiettivi], vicenomi) ; trattazione metodica perchè condotta quasi sempre sul filo conduttore della storia. Dove il Bembo aveva chiamato gli articoli parte de' nomi, egli, fondandosi sull'origine dell'articolo dal pronome latino, ne rivendica V indipendenza. Dove il Bembo aveva ammesso i vicecasi non sapendoli distinguere dai veri proponimenti, egli par escludere l'esistenza de' vicecasi, sostenendo che la decimazione volgare ha due soli casi (il diretto e l'oggetto), e riconoscere solo l'esistenza de' proponimenti co' quali si formano tante combinazioni (complementi) quanti essi sono. Tratta ampiamente della declinazione e dell'uso degli articoli: il, lo, 1", la, i, gli, le, che deriva non solo da ille, ma da hoc, citando per i pi. da hi e o sing. (1 In CAVAZZUTI.] da hoc le vecchie stampe e l' iscrizione a un quadro esistente in una sala del palazzo Fulvio Rangone di Modena in cui era dipinta l'historia della Teseide del Boccaccio: O re Theseo, A o re Theseo = il re Teseo, al re Teseo, della cui forma afferma esser riscontri nella lingua gallica più antica e del regno di Napoli (o re = il re). Qui comincia a delinearsi il metodo del Castelvetro, che se non coincide con quello della filologia moderna (è facile vederne le differenze), lo precorre però almeno per l'uso del criterio storico genetico e comparativo insieme, e in ogni modo non è il puro empirico degli altri grammatici. Invece di seguire passo passo il Castelvetro nella sua confutazione del Bembo e di istituire un confronto perpetuo, abbiamo creduto meglio di ricavarne una specie di trattatello grammaticale, onde insieme con la materia da lui esposta ne appaia anche il metodo della trattazione, pienamente sistematica pur tra tanto apparente intrigo. Dell'articolo. J articolo è voce separata e non parte di nome perchè ha origine dal vice-nome ille e ne conserva la forza, tanto che può esser sostituito da quello, ed è declinabile. Di da de, al da ad, da da de non sono vicecasi neppur essi, ma proponimenti, come tutte le altre propositioni e sono d'altronde altrettanti supplimenti de segni di casi, essendo che la nostra lingua ha due soli veri casi, l'operante e l'operato, ne' sostantivi come in molti vicenomi, e gli altri casi essendo tanti quante sono le combinazioni del sostantivo o del vicenome con i proponimenti. Gli articoli vulgari si originano dai vicenomi latini e si adoperano nel modo seguente: o da lioc. Es. O re Theseo neh' " historia della Theseida di Boccaccio dipinta non molto tempo dopo la morte di lui in una sala del conte Fulvio Rangone in Modena Il re Theseo. O re (nel regno di Napoli e nell'ant. frane.) = Il re b) i, pi. m., dal pi. di hoc, cioè hi '). S\ota. Il co in compagnia, puro o mutato, non è più articolo, perchè non si declina (cotale, questo, quello), eccetto in uguanno da Così, analogamente, qui da hicqui, qua da hacqua (per hoco orig. da hocquo, cfr. hoco + ilio quello. Non è biasimevole chi li deriva dai greci o e 01! 176 Storia detta Grammatica hoco-anno, dove rimane in forza d'articolo, perchè uguanno è voce fermata in su un senso e in su un numero, né di nuovo può ricevere altro articolo, anchora che io l'habbia per voce averbiale di tempo . il sing. m. dinanzi a cons. nel i° e 4" caso, da ilio, per essersi dovuto restringere sotto l'accento del nome come bel giovane, quel giovane da bello e quello giovane. b) lo sing. m., dinanzi a vocale, o s impura, o, nei casi né primo né quarto, a semplice cons., come non si può troncare bello e quello davanti a Intorno e scelerato. Lo si usò (cfr. Petrarca e Boccaccio) in. tutte e due i casi, e come rimase nelle combinazioni con mi ti si ci vi, onde melo, telo, ecc., dove potè troncarsi dinanzi a cons., così rimase e si potè troncare in tutte le proposizioni articolate: del (= delo), al (= alo), dal, col, ecc., voci che non si devono spiegare con di -f il, ecc., perchè da di + il verrebbe dil e non del. Quindi è errato scrivere de 'l, co 'l, da 'l cielo, ecc. A. i da hi, pi. m. dinanzi a cons., non comportandosi il contrario per l'iati) (l'it. non ha voci comincianti da ia, ie, ii, io, hi; quindi non è lecito i amori, i heretici, i italiani, i homicioli, i humidori; né i stormenti, perchè potrebbe confondersi con istormetiti). B. li da i/li, pi. m., dinanzi a voc, a s impura, a semplice cons. di nomi non usati al primo e quarto caso. li diventa gli dinanzi a vocale per la forza di questa (cfr. vaglio, voglio); ma dovrebbe restar //davanti a s impura; li stormenti, e non gli stormenti. Li, come lo conservato in del, ecc. da delo, ecc., conservasi nel pi. de' casi secondo, terzo, sesto: quindi deli, ali, dati, ecc., riducibili a de, a, da, come quali si riduce a qua, e elli a e, e tolti a to, poiché non iscrivesi de', a', da' per dei, ai, dai da de i, a i. da i, essendo questa derivazione errata. la da illa, sing. femm.; le, pi. di la; e) sta da ista in stamane, stamattina, stasera, stanotte, benché siano avverbi. 2 4. L'elisione della vocale finale dell'articolo è regolata da questa legge": che la lingua nostra non comporta ordine di vocali per accidente se non le può comportare per natura , Spesso si elide, invece che la finale voc. dell'art., la iniziale del nome quando comincia per in o im disaccentata: es. lo 'nventore, la 'mperfettione. ('i Monsignor lo, Messer lo son comuni; analogamente: tutto il mondo, ambe le mani ecc. Nel Petr. quattro nomi hanno lo: qua/, cuor, mio, bel, per conservar l'uso antico. Boccaccio n'ù pieno. I lei ha sempre //, nel Petrarca. Capi fola sesto Lo e // o;7/ si conservano con /éT dinanzi a consonante nei casi secondo, terzo e sesto analogamente a lo delle preposizioni del, al e da/, ecc. Es. per lo petto, per li fianchi. Per quanto s'è detto, non si deve raddoppiar 17 in de/o, alo, da/o, ne lo, ecc. (benché anche l'autore segua l'uso invalso di raddoppiarlo: mirabile e raro esempio d'ossequio in un tal contradittore); ma sì in collo perchè viene da con e lo. Il d di ad volgare è eufonico e non d'origine latina, come od, sedi ned, c/ied. A/lui, asse, dal/ui, dassc sono errori, ma non son tali accendere, apportare e simili. Il ri da re, in composizione. 2 8. Sottrazione di di a Colui, Colei, Coloro, Costui, Costei, Costoro; di a, a Lui e Lei (da il li /mie, illae ei); di di e a a Loro, Altrui, Lui; di con, di, a, in, per, da a Che; di di a nome dipendente da Casa, a Dio dipendente da Mercè; di di e dell'ara, a Giudicio dipendente da Die e a nomi dipendenti da Metà, e a nomi delle famiglie dipendenti da nomi propri maschili, e a Quattro Tempora dipendente da Digiuna: di per a Mercè, a Gratia, a Bontà; di per a Tempo; di a a Malgrado. Nei complementi di specificazione l'uso dell'articolo (prep. articolata) è determinato dal significato o forza che l'art., analogamente al vicenome quello, ha di preterito (reiteramento), futuro (premostramento), presente (additamento), dal suo scopo di particolareggiare o universalizzare il significato del nome, e dal significato particolare o universale del nome disarticolato. Ci sono poi dei nomi (Capo, Testa, Collo, Tavola in compagnia d' In z: Su; Piede, Dorso, Gola in compagnia d' In = Intorno) che rifiutano l'art.; altri (Città, Casa, Piazza, Palazzo, Chiesa in compagnia d' A, d' In, di Di, di Da; Mano in compagnia di Con, e Cintula in compagnia di Da, e Lato in compagnia di A e di Da, e Bocca in compagnia d' In e d' A) e gli aggettivi Mio, Tuo, Nostro, e Vostro antiposti a nomi, possono lasciare l'articolo. \ io. I nomi propri femminili comportano l'art, det.; de' ma X schili solo quelli in cui operi una notabile qualità (antonomasia), o che siano preceduti da un aggettivo e in cui l'agg. funga da sostantivo il cattivello d'Andriuccio). Quando l'aggiunto si pospone, l'art. segue il nome sia maschile che femminile. I nomi femminili di continente, d'isole maggiori (eccetto Lift~^ pari, Cresi, Ischia, Maiorica, Minorica e simili), stati e regioni, seguono la regola de' nomi propri di persona, cioè possono ricevere l'articolo. I maschili non seguono la regola de' nomi propri maschili; ma anch'essi possono ricevere l'articolo. I nomi di città e castelli rifiutano l'articolo (eccetto gli edificati dopo la perdita del latino: Il Cairo, La Mirandola, ecc.i; de' fium i, possono riceverlo e rifiutare; de' fonti, i più lo rifiutano. Preceduti da un aggiunto, tutti lo ricevono. Fratelmo, Patremo, Matrema, Mogliema, Figliuolto, Signorto, Moglieta, fiammata, Signorso; Dio; gli honorativi (Papa, Sere, ecc.); i pronomi personali o no e il relativo rifiutano l'articolo; i nomi antonomastici e i congiunti con tutti e numeri seguenti, e i vocativi possono ricevere l'articolo. Ma Vaghe le montanine e pastorelle è dell'uso della favella vile, non della nobile. Le quattro coniugazioni del verbo si determinano solo dall'infinito (-are, -ère, -ere, -ire), essendo in volgare la 2a ps. ind. uguale in tutt' e quattro. La primiera voce (cioè, meglio, la ia ps. pres. ind. att.) ne' verbi volgari varia. Agli esempi del Bembo: Seggo Seggio Siedo, Leggo Leggio Veggo Veggio Veo Vedo, Deggio Debbo, Vegno Vengo, Tegno Tengo Seguo Sego, Creo Crio Credo, Voglio Vo, sono da aggiungere: Muoro Muoio, Paro Paio, Salgo Saio, Doglio Dolgo. Toglio Tolgo Sono Son So, Ho Habbo Haggio, So Saccio, Fo Faccio, Deo (Deggio Debbo), Supplico Supplico, Rimagno Rimango, Coglio Colgo, Chiedo Chieggio, Vado Vo, Scioglio Sciolgo, Scieglio Scielgo, Fiedo Feggio Beo Bibo Descrivo Describo Appruovo Approbo Ripiovo Repluo Priego Preco Miro Mirro Replico Replico Foe Fo Soe Sono Do Doe Vo Voe (Vado) Haio (Ho) Deio (Debbo) Creio (Credo) Cado Caggio Sospiro Sospir Uccido OccidoAncido Ubedisco Obedisco Allevio Alleggio Cambio Caggio Manduco Mangio Manuco, Giudico Giuggio, Vendico Veggio, Simiglio Semblo Sembro Annumero Annovero, Ricupero Ricovero Valico Varco, Sepero Scevro, Delibero Delivro Dimentico Dismento, ecc. Ragioni fonetiche: D, B davanti a voc. i (da e) seguita da voc. = g geminato: Deggio (Debeo), Haggio Habeo), Seggio (Sedeo). Veggio (Video;, e, per analogia, Creggio (come da Credeo), Feggio (come da Fedeo), Caggio (come da Cadeo), [Tu] Regge (Dante) da Redeo. Il gg e ce si dileguarono nell'ant. ital. agevolmente. P davanti a voc. i seguita da voc. = Ch: Schiantare (da Piantare), Schiazzare (da Piazza), Saccio per Sacchio (da Sapio), cfr. prov. Sapche. e) L, N \i -j-'voc. vogliono g avanti, o anche L, N -je -fvoc: Nap. Chiagnere Piangere. Consiglio, Bologna, Sanguigno, Oglio. Quindi Saglio, Vegno, Tegno, Rimagno e, per analogia, Voglio (quasi da Voleo) come Doglio (da Doleo). Il g e 1 si possono posporre: Doglio, Dolgo. d) R prec. da A o O e seguita da I o E prec. da voc, si dilegua via: Frimaio, Cuoio, Aia (Primarius, Corium, Area). Quindi Muoio, Paio. L tra vocali = i: ìtaXóg gaio, pitllus buio. Quindi Voio (da volo) lomb., Yoo \'o. f) L'è paragogico di doe, foc, ecc., tue, sue, ecc., coste, ecc., die, ecc., è avvenuto per cagione di più soave e riposata preferenza . I di Seggio è naturale. In Debbo, Habbo ecc. è caduta. Di queste voci alcune sono poetiche altre prosaiche. La ia ppl. ind. pres. att. si è formata dal pres. del cong. confuso col pres. ind. in due modi: a) dalla ia pi. della 2a e 4" valeamus, sentiamus = sentiam, valeam); b) dalla i" ppl. della 1* (amemus), amemo e, per analogia, valemo, leggemo, sentemo. Mai leggerlo deriverebbe da legimus! E lo conferma anche il senio da shnus. \ 4. La 2H ps. ind. pres. è presa dalla 2a ps. sogg. o dall'indicativo, confusamente. Non mai si origina dalla 1" ps. ind. pres. La voce volgare si origina sempre dalla latina! Un argomento fortissimo della derivazione dal sogg. sono: giacci, dagli, pai, vinchi, proferiscili, sagli. \ 5. La 3a ps. pres. ind. si passiona per tre vie o per mutamento, o per levamento o per aggiugnimento. Esempi e ragioni fonetiche. La 2a ppl. deriva dalla 2a ppl. latina. Nella 3a coniug. avviene egualmente per analogia. Leggete quasi da Legetis. Neil' uso antico anche sull’esempio della quarta: leggile, vedile. Bembo aveva detto che Vi di tieni da tengo, di siedi da seggo, Vii di duoli da doglio, di vuoti da voglio, di suoli da soglio, di puoi da posso, è vocale di compenso per la caduta del g e del ss. Il C. dimostra che quelle vocali sono effetto d' uno scempiamento, tant'è vero che scompaiono fuori d' accento, e che il g è naturale nella ia ps., e sarebbe fuor di luogo nella 2*. Quanto a. posso rimanda alla trattazione di sono. 2. I verbi che nella 2" ps. perdono la cons. o le cons. della ia appartengono alla 2* e 3" coniug:. e quattro sole sono in effetto le cons. che si perdono (C e G, V e P, D e T, L). Verbi in -io di tutte e quattro le coniug. che nella 2a ps. perdono o non perdono una vocale o una cons. nella 2a ps. 3. Altre particolarità fonetiche sulla ia e 2a ps., specie sulla fogliazione di L e R, sulla geminazione di GG, di RR in Trarre, ecc. sull'elisione di R in Paro e Muoro. Del G e dell' N naturali si ragiona nella Giunta. Il G fognato nei GERONDI. La 3a ppl. dalla corrisp. latina, esemplandosi la 3* coniug. sulla 2*. Eccezioni, dipendenti dai mutamenti fonetici. Particolarità di altri verbi. \ Il pendente (= imperfetto). Il V della i" e 2* ppl., poiché è in sillaba accentata, non può dileguarsi. Nella 3 sin^. e pi. e nella 2a sing. il V non si elide quando lascerebbe due vocali eguali: dunque non amaa, amaano, e [tu] udii (per udivi), come vedea, vedeano, dovei. Riguardo alla forma della 3a ppl. haviéno, moviéno, serviéno, conteniéno, si osservi che la ia e 3" ps. pres. ind. della 2" e 3a coniug. in provenzale e italiano si modellarono sulla 4" che aveva audibant e andiebant onde udivano, udiano e udieno, quindi havia, solia, credia, potia, vincia, vinia. Analogamente la ia e 2a ppl. della 2a, 3" e 4" coniugaz. si modellarono sulla 1"; quindi credavamo, credavate. Del preterito. La ia ps. ha sei regole; la ia ppl. due. in cong. 2a e 3B 4'1 /' ps.: -ai (o -iaij -ei (iei) -etti, -si, e lat. -i, son tutte dalle corrisp. latine. I finienti in -si e i ritenenti il fine latino non mutano l'accento della sillaba radicale, come tutti gli altri finienti ne' modi predetti. I mutamenti di -avi lat. in ai vulg., di -idi, in -etti e, per analogia, anche in quelli non provenienti da -idi, sono facili a spiegarsi. Così il -si'. Di questo son due classi, secondo che conservano l'istesso numero di consonanti che nel presente, o ne hanno di meno o di più. I verbi col finimento latino sono io della 2", 11 della 3", 1 della 4a: malagevolmente possono cadere sotto la regola d'un fini-. Nella 4a più forme: audivi, udij (udì), e udìo. Verbi in -are e in -ire (colorai, colorii) ecc., cioè della ia e 4", della 2" e 4" (offersi e offerii). j" ps. i° conili"-, -ó, -io. Ant. dial. siciliano: Passao, Mostrao, Cangiao, ecc. 2a e 3° coniug. -é, o -ié (-éo), se la ia è -ei o -iéi; -ette, -se, da -etti, -si. 4a coniug. -i (-io), -ie. 3" Ppl- -ero, -ono; -éttero, -éttono; -àrono o -iàrono, -aro e -iàro quando la 3" sg. è -ó, -io; -érono, -iérono, -èro, -iéro, se -é, -ié; -irono, -irò, se -ì. L'o finale è troncabile. Questa 3a ppl. deriva dalla corrisp. latina. In poesia si sincopa: levórno, usato anche in Lomb. Finalmente c'è la terminazione -enno, -eno, -inno, -onno. Faro e Foro. /"ppl1° e 4a coniug. da -àvitnus, -ivimus, àvmus, ivnuis, -animo, immo e per analogia -emrao nella 2* e 3", come se si dicesse valevimus, legevimus. l) finimento lutino, per ora. Medesimamente si formò la jK ppl. e sitig., osservandosi: i" l'accento si trasporta sulla seguente sillaba: da vàhti, valeste, da legi, leggeste (fummo come da fùvimus e non fuimus, gimmo da ivimus); che si dice udiste e sonaste, benché la i" è odo, suono. \ io. Pariefici preteriti. -ato, -ito, -uto, -so dalle corrisp. latine. In quei in -ato si ha il raccoglimento, che del resto già era avvenuto nei latini Saucius, Lassus, Lacerus, Potus per Sauciatus ecc. In quei in -ito (4" coniug. sulla quale si modella anche Resistito benché sia della 3'), ant. -uto n'è rimasto venuto) per l'analogia che alcuni verbi della 4" avevano con quelli della 2" e 3" (cfr. uscì e uscetti, udì e udetti, feri e ferretti, venni e vennetti). Quando nel part. -ito, e' è r, avviene la sincope: morto, proferto, ecc.; ma non ferto, perto, smarto e sim.; ratto da rapito, sepolto. Nella 2a e 3" coniug. -uto e iuto a) to puro 6) to con cons. o impuro; -so puro e -so impuro. a) -to puro (dalla forma di /oattiis, tribntus, cautus e sim. e sui preteriti in -èi o -ici e -ètti e -ietti della 2" e 3a coniug., e su quelli che hanno il finimento latino. Irregolarità e doppioni (pentuto e pentito, perduto e perso, conceputo e concetto ecc.). b) -io impuro, 1" e 3" coniug. pret. in -si prec. da cons. che si conserva se è L, N, R, e si muta in T se è S. Tuttavia -si prec. da R o R dà -so, conservandosi R e S. Es. volsi volto (assolto e assoluto), (ma salito, caluto, valuto); giunsi giunto (ma stretto da strinsi); sparsi sparto (in verso sparso; porretto per porto nel volgarizzator di Giudici), strussi, strutto (fisso per fitto). -so puro, scesi, sceso (impeso e impenduto; accenso e acceso, offenso e offéso, nascosto e nascoso). Ma risposto, chiesto, posto e messo (poet. miso). -so impuro, pret. -si con r o s; tersi, terso (presso e premuto) scossi, scosso (visso e vivuto); scisso da scindo, ma scosceso da sconscindo. Ma arroto (da arroguto) e non arroso, pret. arrosi. Poet. priso preso e altri partefici che sono latinismi veri anche in prosa: digesto, deposito, inquisito, ecc. Critica della trattaz. De’partefici di Bembo. Si può osservare: la vocalizzazione del v cons. di ivi in docni, explicui, sapui ecc. non potendosi dire dóc(i)vi, explìc(i)vi, sàp(i(vi; la sibilizzazione del v cons. in duri, finxi, repsi, non potendosi dire dic(i)vi, fìng(i)vi, rè- [Morto sarà da morsi (morii) come dicesi in Lombardia , a Lombardia ha in Castelvetro il senso generico che ha anticamente) e quindi profferta e simili non saranno d;escludere dalla schiera de" participi in -ito? pCi)vi. Sicché il x non sarebbe da cs ma da cv, gv, pv. Medesimamente il V non può avere stato dopo B, D, H, LL, M, MN, RN, QV, T, TT, CT, NT, V (cons.). Indi il V di ivi, volendo conservar natura di consonante, si tramuta in s, obbligando le precedenti cons. a dileguarsi o a assimilarsi. Onde B = P o B = S ecc. con tutta la lunga e facile tramutazione. Insomma il si de' pret. latini non è mai originario. TEMPI COMPOSTI. SIGNIFICATO. “Havere” congiunto col partefice passato affigge termine certo all'attione perfetta, il qual termine si ferma nel tempo del verbo “Havere”. PASSATO PRESENTE: “ho amato”: affigge il termine del fatto al principio del presente [cf. H. P. Grice, on von Wright, “Actions and events”. PASSATO IMPERFETTO (haveva amato): congiunge il fine del fatto col principio dell’imperfetto. PASSATO PASSATO: hebbi amato”: congiunge il fine del fatto col principio del fatto. PASSATO FUTURO, “havrò amato”, congiunge l'estremità dell'unione perfetta col principio del futuro. Consecutio temporum. Concordanza del participio de' tempi composti col soggetto o coll'oggetto, secondo il valore del termine dell’AZIONE [cf. Grice, “Actions and events”). Il futuro. La lingua nostra non ha voce semplice futura se non tre sole in un verbo disusato, o non usato mai, e sono queste: Fia, Fie, o Fia, Fieno o Fiano b Fiero. Ma le ha composte del verbo “havere”, e dell'infinito del verbo il cui futuro si richiede, dicendosi “Dire ho,” nella guisa che si dice appresso i greci Xèysiv ryo>, e appresso i latini, “dicere habeo,” SIGNIFICANDOSI IL FUTURO. M§6ì Dicam . I verbi della itt coniug. si modellano su quella della 2*. Quindi “amerò” e non “amaro” (ma cfr. sen. “amaro”, “sarò” per “serò”, Possanza da Possendo, Sanza da Absentiaì. Avendo avere nella r' ps. ho, haggio, habbo, avremo: amerò, risapraggio, torrabbo. Analogamente, amerai, amerà, ameremo, amerete, ameranno. Consonantismo. Dileguo della cons. verb. e della voc. anzi terminante. Es. “farò”, per “faceró”. Dileguo della vocale: “andrò” per “anderó. Dileguo della vocale e mutamento della cons.: merrò per menrò per menerò. Madonna Iancofiore havendo alcuna cosa sentito de fatti suoi gli posa gli occhi addosso. Qui alcuna cosa fa dell'averbio. Eccezioni e casi speciali. Del comandativo. a) Possiamo comandare non pure cose presenti, ma future anchora, et non solamente con le seconde voci, ma con le terze. Il comandativo ha una sola voce propria, la 2a sing. della i" coniti gaz. Troncamenti della vocale e della sillaba tinaie. L' inf. pel coni. nelle frasi neg. secondo i greci e gli ebrei: salvo se non vogliamo dire, che v'habbi difetto di dei. Non dire in quel modo, Non dèi dire in quel modo. Il che a me pare assai verisimile. \ 15. Dello infinito. 1 Nervazione. Habbiamo mostrato infin a qui le voci de' verbi vulgari nascere dalle latine, dalle future dell’indicativo infuori, sì come anchora nascono queste dell’infinito. Perchè non è da dire, che esse o reggano, o formino le altre voci trattene le voci del futuro dell’indicativo, e quelle del POTENZIALE, come si vedrà, o sieno rette, o formate da alcune delle altre. Uso dell'infinito. Sono quattro casi molto tra se differenti, ne quali lo 'rifinito richiede il primo caso della persona, o della cosa che fa. i° quando si pone in luoo di gerondio, il che si fa: con le particelle Per, In, Con, A, Senza e simili: In farnegli io una; o con 1' art. masch. sing. Il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'é di questa infermità stata cagione . 20 con Chi, Cui, Quale, Che, Dove, Come, per ellissi del verbo: Qui è questa cena e non saria chi mangiarla ecc. 3° quando ha forza di comandativo, forse per ellissi del verbo: non far tu . 4° nelle frasi consecutive: queste cose son da farle gli scherani. Uso dell'ausiliare coi partefici Potuto e Voluto, e coi verbi stanti cioè intransitivi: verbi che finiscono in sé 1' attione . Infinito futuro. Non ha voce propria, ma un’espressione fraseologica. La teoria generale del MODO [cf. Grice, Mode, not Mood] si può restringere nel seguente prospetto. Su essa torna Castelvetro nella Spositione della Poetica aristotelica. o E o re ~ n O O O c £ •- = ór. "1 ' £ 5 o o,-> . .5 c/5 tO l_l re -E ? T" E ° ^ (u -a a u o o a> s 3 o 3 u O S cr > cr +: o ^ v . x > P e ^ o T3 •*-• a o e e q w O) ~ )Z -1 'o *** v -2 a e -O e r re re -E 2 2 "re re] È dunque una concezione del modo un po' diversa dalla comune, derivando dall'interpretazione diversa del sentimento che racchiude. Formazione del comunemente detto Soggiuntivo', amerei 0 ameria, e amassi : amerei da amare 4 liei = hebbi ameresti + hesti = havesti amerebbe + hebbe ameremmo + hemmo = riavemmo amereste + heste = riaveste,, ero i hebbe amerebb + ono I hebbono parrave da pàr(eire + have (lomb.) =3 hebbe ameria ia ps. da amare + ibam ameria 3* ps. -fibat (ameriamo 1" ppl. + ibamus ameriano 3' ppl. + ibant opp. amerieno (per analogia con udieno). satisfarà (Dante) per satisfarla (eug. e prov.) Così Fora, Forano, = foria, fonano da fore -fibat. Per e da a in amerà, cfr. formaz. futuro (ma sarei e non serei). amassi da ama(vi)ssem. Nella 3 ps. perciò anche amassi come in Dante e Petr. amàssimo da ama(vi)ssimus amaste da amàs(sijte da amà(vi)ssetis amassero e amassimo quasi da amavisserunt per analogia della 3 ppl. pret. perf. ind., invece di amassino (come in alcuni poeti o amasseno (come nel Petr.) da amai vi)ssent. La 2a e 3R coniug. in queste voci si modellarono per analogia sulla ia e 43, leggessi e valessi come da legé(vi)ssem e valé(vi)ssem ecc. Significato di amerei e ameria, e amassi. Amerei (quasi Habbi ad amare; gr. potenziale con àv, lat. Amareni) significa deliberatione, o ubligatione, o potentia cominciata già nel passato, et riguardante all'adempimento futuro. Ameria ha questa medesima forza. Perciocché deliberatione, o movimento a far significa, et poi che niuno comunemente si muove a far, se non è ubligato, significa anchora per questa cagione ubligatione, et oltre a ciò potentia essendo anchora il preterito imperfetto appresso i greci potentiale. Secondo' l'uso di que d'ogobbio dove abitò | Dante] alcun tempo. Amassi (benché derivi da Amavissem) significa tempo presente o futuro a noi, che parliamo, ma passato havendo riguardo all'essecutione della deliberatione, o dell'ubligatione, o della potentia, che va avanti . Alcune particolarità di forma e di significato. Formazione del presente del soggiuntivo. Le voci di questo tempo derivano dalle corrispondenti latine, tranne la ia e 2a ppl. della 1" e 3a coniug. che si modellarono sulla 2R e 4", amiamo e amiate, leggiamo e leggiate quasi da ameamus o amiamus, ameatis o amiatis, legearnus o legiamus, legiatis o legiatis, e non amemo e anche, leggamo e leggate come sarebbe naturale. Spiegazione delle terminaz. in -e, -i, -a nella 3* p. sing.: vegga, vegghi, vegghe e veggi, vegge. Gerondio. Formazione, Uso. I Gerondi vulgari seguitano i vestigi de latini, conservando la consonante, o le consonanti loro verbali, che prese la prima volta non si lasciano per modi, persone, tempi, et numeri del suo verbo... et si contentano d'essere simplici, ma ne verbi che non continuano la consonante, o le consonanti prese la prima volta per tutti i modi, persone, et numeri: si truovano essere i gerondi doppi, cioè o con la consonante o con le consonanti sue naturali, o con le prese di nuovo, o con alcuna delle prese. Il gerondio dei verbi intrans, riceve indifferentemente il primo e il sesto caso (cfr. l'uso del come da quomodo e da cum, del verb. essere, e del grido affettuoso o schiamazzo, il nostro vocativo o esclamativo) ; quello di trans, solo il primo. Osservaz. sui pronomi relativi e dimostrativi, e su luì e lei. \ 21. Il passivo. Il si rende passive la 3" ps. e pi. e l'inf. (benché questo sia fatto passivo dal veggo, da resto, da sono con le particelle r7 da di da per per licenza e quasi per errore, essendo propri e regolati [passivi] que del partefice preterito col verbo sono). Il si ha significato riflessivo (Narcisso amasi o s'ama, cioè ama sé stesso), o reiterativo ossia intensivo (Eco s'ama o amasi Narcisso). Nelle orìgini del volgare, quando il soggetto in questo secondo caso era sottinteso per essere un nome indeterminato (nel qual caso dicevasi anche huomo cfr. il fr. on e i nostri scrittori antichi), si perde la nozione del quarto caso e questo sembrò primo. In s'ama la dorma, non si vide più il soggetto alcuno o uom, e la donna sembrò soggetto, e il s'ama verbo passivo. Così il si acquistò la virtù di far passivi i verbi. Verbi anomali. (Accenniamo, per brevità, solo alla trattazione del verbo sostantivo, la quale è fondata su questo principio, che le voci procedano da sei verbi: esso, ero, o, fuo, fio e sto, cinque dei quali non usitati sono, ma alcune intere, alcune diminuite, alcune dimuite insieme e accresciute, alcune diminuite insieme e tramutate, e alcune dileguate ). Participio futuro attivo e passivo. Mancano al volgare, benché abbi. insi futuro, venturo e reverendo, e, in Dante, fatturo, passino, e, in Bocc, redituro, venerando, ammirando. Questa sorta di participi futuri passivi hanno perduta la loro forza di tempi futuri. Ma la lingua volgare usa alcune formazioni analoghe per i sost. femminili sul part. fut. att.: scrittura, natura, creatura, lettura, ventura, tagliatura, copritura, sull'esempio del latino (cfr. natura da nascitura). Ma non i maschili: habituro è formato su tugurio. Cfr. il lomb. alturio, aiutorio, aiuto. Sul part. fut. pass.: facenda, merenda, vivanda, randa (da haereo) cfr. arente opp. a rente a rente. \ 24. Participio pres. att. e passato passivo (preterito). I partefici vulgari che derivano dai corrispondenti latini significano attione o passione, ma non mai tempo, tranne i preteriti in tre casi: i° col verbo havere; 20 col verbo essere; 3" usati assolutamente. Dai partefici presenti si formano i sost. in -anza e -enza. Dai partefici preteriti si formano i sost. in -ione, -aggio, e gli aggiunti in -ivo, -iva. -ore, -trice. Concordanza del participio e uso del gerondio. Giunti al termine del nostro rapido riassunto, possiamo molto facilmente stabilire i meriti di Castelvetro verso la grammatica. Confrontando il trattato castelvetrino con le analoghe parti delle recenti grammatiche storico-comparative dell'italiano, in quanto concerne le conclusioni della storia delle forme, ci accorgiamo subito che una non iscarsa parte di esse ebbe la sua prima sistematica elaborazione dal Castelvetro: osservinsi, particolarmente, la derivazione dell'articolo, le desinenze delle persone verbali, la derivazione de' tempi, e specialmente del futuro e del condizionale, e molti mutamenti fonetici specie consonantici." Fuori del campo strettamente fonetico e morfologico, sono poi da segnalare specialmente, come altra proprietà esclusiva del Castelvetro, il tentativo d' interpretazione psicologica de' modi, la spiegazione del significato del futuro e della doppia forma del condizionale (amerei, ameria), e la determinazione del significato de' tempi composti dell' indicativo. Senza dire delle etimologie e dei ravvicinamenti nuovi se non sempre esatti disseminati per entro la Giunta; ne della trattazione incidentale delle altre parti del discorso (vicenomi, sostantivi, aggiunti, verbi, segnacasi, congiungimenti, schiamazzi). Ma tutti questi accertamenti, come si vogliono .chiamare, positivi, veri in gran parte, non sono propriamente quel che iS8 Storia della Grammatica costituisce il principal merito del Castelvetro; questo è soprattutto, in linea generale: i" sulla conoscenza quasi completa del materiale linguistico di studio, che si può dire che non c'è forma, non dico d'articolo, ma verbale dell'antico e del moderno italiano (senza distinzione di dialetti toscani, meridionali e lombardi) che il Castelvetro non conosca, o mostri di conoscere, come si può vedere da un confronto con le forme studiate nella Grammatica del Meyer Li'ibke; 2° il metodo dell'indagine, arieggiarne nella sua naturale e parziale imperfezione, quello che informa la moderna filologia: è poco dire che il Castelvetro muove sempre dalla parola latina e che si serve della comparazione (estesa al greco e all'ebreo, oltre che al provenz. e al francese): egli ha anche altre virtù, come quella essenziale di porre la fonetica a base d'ogni sua ulteriore ricerca; 30 il metodo della trattazione: abbiam visto che, a proposito de' verbi, p. es., eglb muove dallo stabilire le coniugazioni, poi, tempo per tempo, studia le desinenze delle persone, e la formazione de' tempi e de' modi, con l' illustrazione degli esempi ricca e varia. In linea particolare : i° l'importanza data 2W accento: 2" la funzione della legge de\Y analogia. Qui anzi, più che in qualunque altra parte, per noi è il merito principalissimo del Castelvetro. L'importanza dell'accento non era stata ignota neppure al Fortunio, come vedemmo: di fonetica ammirammo la competenza nel Tolomei; ma l'analogia, prima di Castelvetro, era un fatto pressoché ignoto ai nostri grammatici: e anche sorprende di meraviglia il modo, se non sempre sicuro e preciso, sempre però acutissimo, che il Castelvetro usò nell' applicarla nella spiegazione delle forme. Col Castelvetro fa un passo notevole non solo la grammatica storica, ma la metodica e la precettistica: egli nelle parti che elaborò e con tutte le sue manchevolezze è il grammatico più completo, per larghezza d'indagine e pel metodo, non solo di tvitto il Cinquecento, ma di tutto il periodo anteriore alla moderna filologia. Il che vuol anchedire che non solo le sue ricerche non furono proseguite e fecondate sistematicamente, ma che, salvo forse pel Salviati e pel Buommattei, che pure si deve confessare che non seppero in tutto profittarne, avemmo certamente un regresso: un regresso rispetto s'intende a (pul ehe, nel terreno puramente empirico, si suol chiamare progresso. Nella polemica originata dalla Canzone de' Gigli d'oro e chiusasi con la pubblicazione postuma della Correzione del Ca Capito/o sesto 1S9 stelvetro all' F.r colano di Varchi, l'esaminata Giunta castelvet rina alle Pi ose del Bembo è, piti che una parentesi o una digressione, un assalto di fianco da schermidore destro e coraggioso: codesto scritto pare ed è, di fatto, rivolto ad abbattere l'edifìcio grammaticale tanto ammirato del Bembo, ma il fine dell'affrettata e parziale pubblicazione, non v'ha dubbio, fu quello, come ha bene intuito il Cavazzuti, di mostrare al Caro e compagni la soda e straordinaria dottrina filologica dell'autore. Abbiam visto se un tal fine fu conseguito e con (pianto buon aumento della scienza grammaticale. Dobbiamo ora vedere se Y Er co latto di Varchi, nato ed elaborato nel modo che si sa, portò a codesta scienza un ugual contributo. benedetto Varchi fu tutt'altro che un meschino e puro grammatico: è nota la risposta data al Celimi che l'avea pregato della revision della Vita, piacergli più il simplice discorso di quell'opera, in quello stile, che essendo rilimato e ritocco da altrui . Ed è la l'ita il capolavoro più sgrammaticato che abbia la nostra letteratura, e forse non la nostra soltanto. In una di quelle lettere dirette allo Strozzi, che, come benissimo ha dettoli Manacorda, racchiudono come un piccolo trattato di propedeutica allo studio delle umane lettere , quanto a' conienti, lo confortava, non solamente a non leggergli, ma a non gli havere pure in vicinanza, non che in casa, salvo Donato sopra Terentio et Virg. et Servio sopra Vir. et simili; dico simili, ciò è che non siano moderni d' hoggi, perchè Asconio sopra Cicerone è divino, et volessi Dio si trovassi tutto, e '1 Vittorino sopra la Rettorica di Cic. non solo si può, ma si clebbe leggere: io intendo i commenti: il Beroaldo, il Pio, Ascensio et tutti gli altri simili veneni et pesti, et se peggio è che peste et veneno, che sono da sbandire non meno che i gramatici. L' Ercolano dialogo di M. Benedetto Varchi nel quale si ragiona delle lingue ed in particolare della Toscana e della Fiorentina. Culla Correzione ad esso fatta da ///esser Lodovico Castelvetro; e colla Varchino di ///esser Girolamo Muzio. Impressione accuratissima come si può vedere nella seguente Prefazione. In Padova, Appresso Giuseppe Cornino. Benedetto Varchi, l'uomo, il poeta, il critico, Pisa, 1903, (Estr. dagli Annali della R. Scuola Normale di Pisa.Carte Strozz., e. 95, in Manacorda. Varchi fu tra i più enciclopedici de' letterati del Rinascimento. Critico, ripete con Manacorda, poeta, storico, filosofo, in quasi tutti i rami dello scibile umano diede prove della mirabile sua operosità . Si procurò una discreta conoscenza delle lingue antiche e moderne; ebbe cultura giuridica e artistica; ma, come la sua cultura, se pur svariata, non fu profonda, così la sua erudizione fu pedantesca, grave, spesso non ben digesta. Forse il meglio che produsse fu nella critica letteraria e nella poetica: dalla monografia dello Spingarn s'argomenta che non fu solo un divulgatore della Poetica aristotelica, ma fissò dei canoni nuovi ed ebbe qualche veduta modernista non in tutto trascurabile: ma resta sempre vera l'affermazione del Manacorda che la critica letteraria del Varchi portò in sé il gran difetto d'essere applicazione rigida sempre e inflessibile di principi, che avrebbero dovuto intendersi con molta larghezza D'altra parte non la palesa matura la tendenza a voler costringere entro limiti troppo precisi le manifestazioni letterarie anche più complesse, a considerare l'opera d'arte semplicemente qual'è, non quale s'è formata. L'opera più importante del Varchi, una delle più importanti fra le migliori trattazioni cinquecentesche sulla lingua, sia o no, come s'afferma dal D'Ovidio e si nega dal Manacorda, un capolavoro, è V Ercolano. Esso, nella sua parte essenziale, è veramente, come il Manacorda l'ha definito, una trattazione compiuta (s) de' tre punti del problema a cui principalmente si riducono tutte le questioni per tanto tempo dibattute: l'origine, la struttura e l'apprendimento e l'uso della nostra lingua, con l'immancabile preambolo metafisico circa l' origine della favella e la classificazione dei linguaggi. A non ripeter cose per noi non più nuove, ci basti qui ricordare che il Varchi fu un sostenitore della fiorentinità (che esaltò anche sul greco e il latino) sia nel rispetto storico che pratico, d'una fiorentinità scelta ma rinfrescata via via nell'uso de' meglio parlanti e del popolo {letterati, idioti, (Da vedere per la storia degli studi romanzi: De Benedetti, B. V. Provenzalista, Torino, (Estr. dagli Atti d. Acc. delle scienze di Torino; ma v. tutto il riassunto del Dialogo. iqi non idioti)^ e la propugnò specialmente contro il Trissino, giovandosi indubbiamente del Dialogo cK-1 Machiavelli, che però non cita, come e pel preambolo e per la rassegna de' quattordici volgari italiani ebbe ricorso al trattato dantesco. Di esso a noi interessa la parte strettamente grammaticale, la quale, anche col complementi! di altre scritture linguistiche del Varchi, come le due Lezioni di lingua, il Discorso sopra le lingue, la Lettera a*, la Lezione sul verbo farneticare (a tacer della Grammatica provenzale, versione del Donato provenzale^, e il frammento del Trattatello ms. delle lettere e dell' alfabeto toscano (*), non è davvero un gran che: anzi, non solo a confronto della Giunta castelvetrina, ma di altre grammatiche anteriori, non rappresenta alcun progresso, se non in quanto, allargando la trattazione linguistica e sollevando l'importanza del problema, riscalda e tiene vivo il dibattito e prepara il trionfo del fiorentinismo : che, del resto, non solo il suo naturale carattere empirico, è, dirò troppo empirico, ma non contiene alcun elemento storico. Che ci sembra strana cosa assai. Forse la sua tendenza più filosofica che filologica, il suo guardar l'arte e il linguaggio più attraverso i canoni aristotelici e rettorie! che non nella loro vita reale, lo distolse dal ricercare nella parola le leggi della sua formazione storica: il certo è che, come nella parte generale della grammatica non disse nulla di nuovo ne di originale, così nelle parti speciali, a prescindere da un certo contributo che reca all'arricchimento del Vocabolario, col registrare parole e locuzioni raccolte dalla viva parlata, non fu più che un osservatore comune. La GRAMMATICA RAZIONALE O RAGIONATA è, per VARCHI (si veda), una facilità o disciplina come la Rettorica, la Logica, la Storia e la Poetica, che FA PARTE DELLA FILOSOFIA. Solo per traslato puo dirsi scienza od arte, ma non è l'una cosa né l'altra, perchè l'arti e le scienze fan parte della filosofia e la superano quindi in nobiltà. Dovendosi d’ogni disciplina ricercar sempre il subbietto ed il fine, si dice che subbietto della grammatica è IL FAVELARE. Fine: 'l'insegnare FAVELARE RETTAMENTE. Più propriamente tuttavia lsu subbietto la dittione, cioè le lettere, le sillabe e le parti del discorso. Nelle ('i Biadexe, in Studi d. FU. rovi.. Ili 1SS5. Manacorda. prime dovranno considerarsi il numero, il nome, l'ordine e la figura (la rappresentazione grafica): nelle seconde il numero, l'accento, lo spirito e il tempo. Le parti del discorso poi sono VIII. Quattro sono DECLINABILI: Nome, Pronome, Verbo e Participio. Quattro sono IN-DECLINABILI: Preposizione, Avverbio, Interiezione e Congiunzione. Ciascuna delle declinabili presenta naturalmente vari accidenti, come sarebbero: genere, numero, caso, persona, e cosi via discorrendo. Manacorda, che ha riassunto la parte generale della trattazione grammaticale sparsa nell' Ercolano e altrove, dopo aver ricordato la definizione e le classificazioni della grammatica e la funzione attribuitagli da Varchi, gli ha fatto merito d'aver riconosciuto, meglio che non fa Bembo, il valore speciale di ciascuna delle parti declinabili. Ma tra Bembo e Varchi corre quasi un quarantennio di produzione grammaticale, nel quale c'è stato chi tratta delle parti del discorso con maggior compiutezza di Varchi. Anche nell'escogitazione dell’alfabeto rimasta ms. non sappiamo vedere nulla di notevole, tranne appunto la riconosciuta importanza della rappresentazione grafica delle parole, che non è ormai più un merito particolare. Nei punti specialissimi poi, come sarebbero quelli indicati da MANACORDA (si veda), e cioè gl’articoli, gl’affìssi, i gradi degli aggettivi, il valore dell’etimologia, troviamo ragioni più di sorpresa che d'ammirazione. Mentre Castelvetro fa le scoperte che abbiamo dovuto veramente ammirare, Varchi non sa osservar altro che LA LINGUA VOLGARE HA GL’ARTICOLI I QUALI NO HA LA LATINA, ma sibbene la lingua grecia, i quali articoli sono di grandissima importanza, e apparare non si possono, se non nelle citile, o da coloro clie nelle zane, cioè nelle cune, apparati gl’hanno, perchè in molte cose sono diversi dagli articoli greci così prepositivi, come suppositivi; e in alcuni luoghi, senzachè ragione nessuna assegnare se ne possa, se non l'uso del parlare, non solo si pos [ i1) Op., II, 796 e passim e Lett. a * in .Manacorda. Ecco l'alfabeto proposto da Varchi: a b e (ten.) eli fasp.i d e (chiuso) è (aperto) f g tenue gh (aspirato g molle i voc. e consonante, o ver liquida), ! m u (> 1 chiuso, lungo) o (aperto, tonda) p qu r s dura s molle / u (voc.) V consonante v liquida z zeta dolce Z aspero. .Manacorda] sono, ma si debbono porre. E quando osserva che “ del” e “al” NON sono articoli, ma segni de' casi, fa esclamare. Questa vostra lingua ha più regole, più segreti e più ripostigli, che io non avrei mai pensato! Nulla sa della legge dell'accento né dell'analogia. Ognuno pronunzia nel numero del meno. Io odo, tu odi, e in quello del più. Noi udimo, ovvero udiamo, voi udite; ma ognuno non sa (neppure Castelvetro?) perchè “vo” si muti in “u.” Similmente, ciascuno pronunzia nel singulare. Io esco, tu esci, e nel plurale, noi uscimo, ovvero lisciamo, voi uscite, ma non ciascuno sa la cagione perchè ciò si fa, e perchè nella terza non si dice “udono” ma “odono”, e non “uscono” ma “escono.” Buona, quando è positivo, si scrive per u liquida innanzi Vo; ma quando è superlativo, non si può, e non si deve profferire, né scrivere buonissimo, COME FANNO MOLTI FORESTIERI. Ma bisogna per forza scrivere, e pronunziare bollissimo senza la u liquida (:t). Per dimostrare la ricchezza di lingua meravigliosa fa un interminabile trattato degl’affissi, intorno ai quali già tanto a lungo vedemmo indugiarsi Bembo, ma non riuscendo ad altro che a fare infinite combinazioni di forme e radici verbali con particelle pronominali da servire per ottimo esercizio di scioglilingua. In luogo del vocalismo e del consonantismo, tratta così, sull'esempio di Bembo, Dolce ed altri, le qualità fonetiche delle parole e delle sillabe. Tutte le lingue sono composte d'ORAZIONE (Grice: SENTENCE), e l'orazioni di PAROLE (Grice: WORD), e le parole di sillabe, e le sillabe di lettere, e ciascuna lettera ha un suo proprio, e particolare suono diverso da quello di ciascuna altra, i quali suoni sono ora dolci, ora aspri, ora duri, ora snelli, e spediti, ora impediti, e tardi, e ora d'altre qualità quando più, e quando meno. E il medesimo, anzi più, si dee intendere delle sillabe, che di cotali lettere si compongono, essendone alcune di PURO suono, alcune di più PURO, e alcune di PURISSIMO, e molto più delle parole, che di sì fatte sillabe si generano, e vie più poi dell’orazioni, le quali dalle sopradette parole si producono ; onde quella lingua è più dolce la quale ha più dolci [Vi IJ Er colano.] parole, e più soavi orazioni. Dunque la dolcezza delle lingue nella dolcezza consiste delle orazioni. E seguita così a parlare delle tre dimensioni delle sillabe : lunghezza, altezza o profondità, e larghezza. Di questo spirito rettorico è tutto pervaso ERCOLANO (si veda), il quale deve la sua celebrità, non solo alla storia della controversia in cui venne a trovarsi episodio importantissimo, non solo a certe sue qualità formali di stile e di classica struttura e larghezza di variata esposizione, non solo a qualche indubbiamente ammirevole intuizione, ma soprattutto a una felice contemperanza di tante argomentazioni altrui a prò della tesi che dove poi esser ripresa e fatta trionfare, in quel che è possibile, da MANZONI (si veda) e al lucido e elegante riassunto delle teoriche dell’elocuzione quali sono lungo il secolo eloborate. Nessun valore scientifico nella trattazione concreta di tutte le questioni linguistiche connesse a codeste tesi. Ma per la scienza non è del tutto trascurabile il (significato e la tendenza della difesa che Varchi fa del volgare e della sua letteratura, che è un'altra più profonda affermazione d'una coscienza critica dell’importanza e dell’indipendenza artistica di esso dalle antiche letterature, e spiana la via al trionfo che specialmente per opera di Salviati avrebbe ha il fiorentino nell'elaborazione della grammatica. Le vicende d’Ercolano non sono certo ingloriose. Ha ristampe e commenti e postille, ma le scritture più celebri che ad esso si congiungono direttamente sono la Difesa d’ALIGHIERI di MAZZONI (si veda), la Correzione di CASTELVETRO (si vda) e la Varchina di MUZIO (si veda). Ma grammaticalmente, com'è naturale, poco o nulla c'è da raccogliere sia nelle postille, sia nelle opposizioni, data la scarsezza con cui è trattato di grammatica propriamente detta neh' Ercolano stesso. La tartiniana di Bottari, la cominiana diSeghezzi, la milanese di Mauri, la fiorentina del Dal Rio, quella che fa parte delle Opere di Varchi, tra l'altre. Bottari, Seghezzi, Mauri, Dal Rio, Alfieri, Tassoni, Volpi. Mi meraviglio non poco di lui, dice Castelvetro (Cor)e:., che avvilendo tanto la materia della mia disputa, nobiliti tanto quella del presente suo Dialogo delle Lingue, dove non si parla, co- [La parte più notevole che e' interessa della Correzione, fatta astrazione, s'intende, da questioncelle minute di linguistica, è quella che concerne Y etimologia. E facile immaginare quel che poteva osservare l'autore della Giìinta al filologo n>iatica cese (e tedesca) raffrontate alla nostra: comparazione non ispregevole e di cui piacemi dar qui un esempio. Nello spagnolo: i. talvolta / non si pronunzia; 2. //si pron. come il gì del nostro egli; 3. nn si pron. come il nostro gn ; 4. lo j si usa pel nostro ii e si pronun. come il g del nostro seggio; 5. x si pron. come se del nostro sciocco, ecc. Nel fraticese: 1. ai ora si pron. a: lignaige pr. lìnnage, ora £.• satisfaire, pr. satisfere. 2. ajy si pron. £: z^raj/, wumenlo sopra alcuni versi della Cometa del /J/7 dove anco si dimostra la nobiltà e Capitolo settimo 217 Il Sai viari occupa un posto notevole anche nella storia della poetica: ma il vero suo regno fu la grammatica, dove potè meglio sfoggiare tutta la sua vasta e minuta erudizione linguistica. L'impulso all'opera principale e maggiore in tale campo di studi gli venne dalla correzione del Decameron (1582) che gli fu commessa dal Granduca Francesco di Toscana, per compiacere a Sisto V, entrambi mal contenti che i Deputati alla correzione del 73 non avessero castrato a bastanza e a dovere il grande novelliere fiorentino. Il Decameron fu da quanto il Canzoniere e ancor più nella seconda metà la bibbia grammaticale del Cinquecento, poiché offriva il miglior modello di prosa numerosa secondo le teorie rettoriche che si venivano svolgendo: e le ristampe più o meno corrette e le correzioni che se ne fecero per ridurlo a edificante universal lettura, dimostrano quanto viva fosse la fede nella forma esteriore di quel libro veramente per il rispetto dell'arte maraviglioso, e qual fosse il credo grammaticale di quell'età, come anzi fossero andati in generale sempre più restringendosi i criteri linguistici e grammaticali del secolo a mano a mano che quella forma accresceva intorno a sé l'ammirazione, nonostante il progredir della grammatica storica e l'allargarsi del giudizio critico e certe parziali intuizioni della vera natura del linguaggio. Il meglio che e ristampe e correzioni produssero nel campo linguistico-grammaticale furono, oltre varie osservazioni del Borghesi e del Castel vetro, giustamente aspri censori delle storpiature del Ruscelli, da un lato le Annotazioni dei Deputati alle correzioni del 73, dall'altro gli Avvertimenti del Salviati. la vera pronuncia della lingua italiana, Venezia, 1579; Alberto Bissa, Gemine della lingua volgare et latina ( dotte locutioni e modi eloquenti di parlare usati da più illustri : la parte latina è indipendente dall' it. (Milano, Pacifico Pontio); Institutiones linguae italìcae cum interpretatione gallica in gratiam exterorum, opera et sedulitati Lentuli Scipionis neapolitani, Antonii Francisci M addii f. Patavini editio postrema, Patavii, 1641 (La lettera del Maddi. Il Fontanini ricorda due opere perdute di natura etimologica, l'una di Niccolò Eritreo, Lo Stoico, Dialogo delle origini della nostra lingua volgare, l'altra, Seminarla linguae vertiaculae di quel Celio Calcagnimi che, contrariamente a quanto sosteneva li Salviati circa l'eccellenza del volgare, in un lavoro indirizzato al Giraldi Cintio.... manifesta, fra l'altro la speranza che la lingua italiana e tutte le opere in essa scritte vengano dimenticate dal mondo. (Spingarx). Di quelle già il Lombardelli ne' suoi Foriti ebbe ad osservare che arrecano in mezo avvertimenti diversi intorno alle voci et alle forme del dire, che possono in gran maniera giovare a chi vuol da vero, e solennemente studiare in questa favella: perchè son guidati con fondamenti saldi, con ragioni isquisite, e con esempi notevoli . Le Annotazioni furono nella massima parte opera di quel Vincenzio Borghini che è stato ben a ragione chiamato il principe de' critici (critici nel senso di editori di testi) e eruditi del Cinquecento , e interessano così direttamente il linguista come il filologo, contenendo osservazioni di lingua e di grammatica storica e pratica illustrate dalla comparazione di esempi perspicui quasi sempre criticamente vagliati. Vincenzo Borghini fin dal 1569 aveva avuto in animo di scrivere un trattato sulla lingua, che né la Difesa del Lenzoni né la Grammatica del Giambullari erano tali da sodisfar i Toscani e ridurre al silenzio gli avversari: anche dopo la Giunta castelvetrina aveva scritto al Varchi non aver nessuno sino allora aperta la natura della lingua italiana. Quando arò parlato dell'origine, sito, edificazione, territorio, et altre particolarità di Firenze, e risposto alle opposizioni e contradizioni che ci son del Mei e d'altri e che ci potessero per avventura essere, et a questo proposito tocco tutto che bisogna, della cittadinanza romana, delle colonie, delle legioni, delle divisioni de' terreni e molte altre cose, venire a parlare di questa lingua, ove ho questi capi: onde ella è nata e cresciuta, che ella è nostra propria, perchè è sì bella, e della sua qualità, ultimamente il modo di conservarla e liberarla dalle forestiere che la imbrattano e guastano. Sicché, quando il Granduca ordina una compilazione delle regole della lingua fiorentina da leggersi in tutte le scuole, Borghini fa plauso con gioia al magnifico decreto e scrisse a B. Baldini, suggerendo con- [Per la stima in che è tenuto già da' suoi contemporanei BORGHINI (si veda), si ricorda qui le parole che, quanto all'edizione del Decameron, scrisse Corbinelli in una delle sue lettere già ricordate al Pinelli. Quel che non ha fatto a sufficienza Don Yinc." Borghini non credo il possa fare [non che il Salviati] altri, in Ckkscim. Quitti., Naz. Firenze, cit. in Barbi, Degli studi di V. Borghini, sopra la storia e la lingua di Firenze [Il Pr optigli.), di cui mi giovo per questi cenni intorno al Borghini. Capitolo sei ti ìlio 219 sigli: si deputassero alla bisogna tre o quattro intendenti con facoltà ili aggregarsi de' giovani. Nel 1574, come l'ordine granducale non aveva avuto effetto, tornava al proposito di far della lingua un trattato a sé. La conoscenza dei precedenti grammatici (dei quali taceva molto stima del Bembo, corifeo, che giudicava però scarsetto; il Giambuilari non gli pareva molto gagliardo né sicuro; migliore il Varchi, ma non finito; il Tornitane bisognoso d'essere burattato; il Castelvetro non meno sottile che sofistico nelle sue prose contro il Caro e il Bembo: Dubio non è che la sua dottrina non è generalmente sana. Io dico in conto di lingua, ma dall'altra parte e' non manca di letteratura ; ha visto assai e non è privo d'acume, e può essere sprone a far considerar molte cose; il Ruscelli, vano, pochissimo intendente di lingue; nomina il Fenucci, il Dolce, l'Acarisio, Fortunio, il Corso, il Gabriele, il Muzio, il Trissino), la conoscenza, dico, di tutti i precedenti grammatici e gli studi larghi fatti in specie per la rassettatura del Decamerone e del Novellino su tutti gli scrittori grandi e piccoli del Trecento, lo designavano veramente pari all'impresa ideata con tanta ampiezza. Ma il trattato non fu compiuto. Ne restano alcuni appunti su argomenti ne' quali era riuscito a esser sicuro: essere e qualità della lingua fiorentina; natura sua, delle sue parti e proprietà e aiuti e mancamenti (la lingua varia in una medesima provincia e città; l'italiana derivò dalla latina con le favelle degl'invasori); il nome (non ha casi, ma due generi; ha gli articoli); il verbo (non ha passivo), ecc. Il Borghini, essendo sotto la vecchia concezione della natura del linguaggio, che è 1 In una leti, a Varchi del 9 maggio 1563, l'anno della pubblicazione della Giunta castelvetrina, fin Salvini, Fasti Cons., cit. dal Fontanini), lo spronava a tirar avanti il suo Dialogo, lodando il Bembo e biasimando il Castelvetro, annunziando ebe l'Accademia Veneziana non sarebbe rimasta muta. Lasciò in vece un volume di Lettere filologiche e un altro di Discorsi. In Fiorenza presso i Giunti, oltre, s' intende quanto è suo delle Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decamerone di m. Giovanni Boccacci, fatti dai molto magnifici signori Deputati di loro Altezza Serenissima sopra la correzione di esso B. stampata in Fiorenza nella stamperia de' Giunti. Noto qui, come testimonianza del conto che s'è fatto modernamente dal Borghini, che dal suo nome fu intitolata una rivista filologica, // Borghini, non inutilmente vissuta. Storia della Grammatica mutarsi, crescere, abbellirsi e peggiorare ancora, perdere e pigliare voci di nuovo e simili altri accidenti , ritiene il Trecento il secolo d'oro della lingua: Io ho veduto (scriveva nella lettera del 71 circa la compilazione delle regole) libri scritti fino all’anno della gran mortalità, e scritti pur da persone idiote e semplici, e non vi si trova un error di lingua. Havvene alcuno intorno all'ortografia, della quale i nostri antichi non seppero né curarono troppo. Similmente ne ho veduti, e si veggono regolatissimamente osservate le coniugazioni, i numeri, i modi, i tempi, e tutto quello, ove oggi si pecca assai bruttamente. E si conosce, che la natura stessa o l'uso comune, che sia me' dire, era in quella età regola vera e sicura. Si comincia a trovare qualche errore, ma non tanti e un pezzo quanti oggi. Ella da un gran tracollo, e di questo tempo in qua è venuta di mano in mano talmente peggiorando, che quasi si può dir guasta in alcune sue parti, che quel tutto buono e come naturale corpo del vero e puro toscano si è per sempre mantenuto. Oltre a questa classificazione de' pregi della lingua per cinquantenni, il Borghini ne faceva un'altra per gradi: prosastica e poetica; nobile, media, plebea ecc. Così anche la lingua, come la poesia, era rigorosamente chiusa nel codice delle regole più assolute e ristrette: a tale che la grammatica diremo degl'Italiani, che aveva preso a fondamento l'uso letterario non pur del Trecento ma del Cinquecento, quando si trova e vi si trova spesso in discordia con l'uso fiorentino, qual era consacrato nel Decameron, veniva senz' altro combattuta e ripudiata. Cosi avemmo una singolare reazione contro la grammatica da parte di quegli stessi che vi dovevan necessariamente credere. A questo menava la correzione del testo del Deca?neron, ch*e col criterio dell'uso comune s'era venuto guastando dall'edizione ventisettina per tutto un cinquantennio e che ciascuno aveva tirato a documentar quelle regole che meglio gli piaceva di porre. I Toscani, e specialmente i Fiorentini, non potevano lasciar correre tanto strazio, e benché anch'essi fossero credenti nella grammatica, tra la grammatica e il Decameron, stavano per questo, naturalmente, e non si stancarono mai di ripetere [In Barbi, op. e loc. cit. Capitolo settimo che le regole furori sempre cavate dall'uso naturale, e non l'uso da quelle (l). Gli Annotatori all'edizione del 73 si giovaron perfino de' notai di que' tempi, la grammatica [intendasi il latino] de' quali era poco meno che un semplice corrente volgare che finisse in us et in as. Così parallela a quella del purismo grammaticale, vediamo svolgersi in Toscana e particolarmente in Firenze una tradizione che potremmo chiamare del purismo antigrammaticale, o che intanto accettava la grammatica in quanto essa rispecchiava fedelmente l'uso popolare trecentesco, che era quello seguito dal Boccaccio e dagli altri trecentisti e risonava ancora, salvo qualche modificazione di pronunzia, sulle bocche de' Fiorentini. Tutto era ridotto all'uso, appo il quale è tutta la balia, anzi, che direni meglio, il quale è la balia, la ragione e la regola del parlare. A proposito d'un esempio di quei molti ' AvavóXofìa o ' Avavranóbara ond'è pieno il Decameron, gli Annotatori escono in questa osservazione: Quegli che volsono fuggire questo o figurato o vizioso parlare che e' sia, e che pur hanno fitto nell'animo quello ' Ego amo Deum delle prime regole, mutarono Il quale in Del quale, e cosi appianarono questo scoglio. Queste sono dichiarazioni gravi contro la grammatica, e Annotazioni e Discorsi sopra alcuni luoghi del Decameroti di M. Giovanni Boccacci, fatti da' Deputati alla correzione del medesimo. Quarta edizione diligentemente corretta, con aggiunte di Borghini, e con postille del medesimo, e di A. M. Salvini, riscontrate sugli Autografi ed emendate da gravi errori. Firenze, Felice Le Monnier. È anche notevole quel che dicono dell'analogia: è una cotal regola che va dietro al simile, e suol esser il riparo di chi è straniero in una lingua, o sa poco della propria natura . (4) Op. cit., p. 70. In questo stesso luogo si conclude così: Noi in questi luoghi tutti abbiamo fedelmente mantenuta la lezione dei migliori libri, amando in questo più la verità, che o la facilità di quel parlar così piano, o la stitichezza di certe regole, che più servono, chi ben le guarda, a lingua composta e artificiata, che a naturale e propria. Altrove la lingua è assomigliata a un mare p. 91). Oltre le già addotte, eccone un'altra: E generalmente nelle voci del tempo, et in quelle del luogo, non è molto scrupolosa, né tanto fastidiosa la lingua nostra, quanto per avventura alcuni troppo sottili si credono, che lutto il di cercarlo di legarla, e (direni cosi) impastoiarla stranamente. Del resto si può dir che queste tanto ammirate e ammirevoli Annotazioni siano una protesta conti Storia della Grammatica devono essere ricordate per non mettere tutti in un fascio i puristi del Cinquecento. S' intende, anche codesti franchi assertori dell'uso, erano sotto l'imperio delle regole: seguire il Boccaccio perchè era stato il Boccaccio, era una regola anche più grave de\Y Ego amo Deiun; ma il Boccaccio era più vicino ad essi, che certi regolatissimi prosatori del Cinquecento, e stavano con Boccaccio. Non solo, ma essi riuscivano all'annullamento della grammatica anche per un'altra strada. Per loro ogni forma adoperata dal Boccaccio diventava legge: ora a far d'ogni più piccolo fatto linguistico una regola, la grammatica veniva ad annullar se stessa in questa sterminata selva di regole e il buon senso era vendicato. E tra le Annotazioni del Borghini, gli Avvertimenti del Salviati e le osservazioni del Borghesi, il volgar fiorentino veniva a esser codificato e preparato così per il travasamento nel Vocabolario della Crusca. Gli Avvertimenti nel Salviati erano stati concepiti in tre parti, ma videro la luce solo il i" e 2" volume. nuata contro la grammatica, tendendo esse a giustificare l'uso del Boccaccio, sia stato o no ratificato dalle grammatiche cinquecentesche. E si noti che la giustificazione non è fatta sempre con la ragion dell'uso, ma spesso s'appoggia a considerazioni anco artistiche. Citerò un esempio per tutti. In Landolfo Luffolo è detto: Venutagli alle mani una tavola ad essa si appiccò, se forse Iddio, indugiando egli lo affogare, gli mandasse qualche aiuto. Alcuni interpreti avevan interpolato sperando avanti a se forse Iddio. Orbene, gli Annotatori, restituendo, sulle testimonianze d'altre simili costruzioni, il testo antico, osservano: Queste locuzioni così un pochetto rotte (che in somma son proprie di questa lingua) danno talvolta più grazia, e mostrano più forza, e fanno il parlar più vivo, come poi avviene; dove questa costruzione non così piana e facile, ma alquanto alterata {alterata però quanto e a que' che vorrebbero le locuzioni sempre a un modo, e quelle senza industria o cura nessuna), scuopre più l'affanno e periglio del misero Landolfo, e par quasi (per dir così) che fortuneggi anch'ella , pp. 88-9. Non è critica neppur questa, ma per lo meno vi si avverte lo sforzo di penetrar la visione dell'artista senza la mediazione della grammatica. 1 Degli avvertimenti della lingua sopra ' l Decamerone. Volume Primo del cavalier Lionardo Salviati Diviso in tre libri: il I in tutto dependente dall'ultima correzione di quell'Opera: il II dì quistioni, e di storie, che pertengono a' fondamenti della favella: il III diffusamente di tutta l'Ortografia. Ne' quali si discorre partitamente dell'opera, e del pregio di forse cento Prosatori del miglior tempo, che non sono in istampa, de' cui esempli, quasi infiniti, è pieno il [La correzione fu fatta nel 1582 e fu edita non senza notizie grammaticali: gli Avvertimenti sono il necessario svolgimento di esse. Noi ci restringeremo qui a toccar delle questioni generali che più e' interessano e a esporre il metodo grammaticale del nostro e a dar conto dello sviluppo del corpo della grammatica precettiva, sebbene il Salviati tratti solo delle regole a cui porge occasione il Decameron, lasciando da parte quanto si riferisce alla critica del testo e all'ermeneutica boccaccesca. Vedemmo come Gelli rinunziasse a dettar le regole del volgare e ne dimostrasse l'impossibilità. Pare non sia stato solo a sostener questa ragionevole tesi, perchè il Salviati al principio del secondo libro del primo volume s'indugia a confutar gli argomenti di alcuni che tolgono alle lingue vive il ristringnerle, con ammaestramenti raccolti in iscrittura, sotto alcuna ferma regola. Gli argomenti addotti da quei tali, erano: 1. vivendo la voce del maestro, ciò si è il popolo, che la favella, quella fatica è soverchia; 2. la cosa esser vana, perchè il popolo, non tollerando che gli sia tocca la sua giurisdizione, seguita a parlare a modo suo; 3. quand'anche si potesse dettargli legge, l'effetto non potrebbe esser che dannoso. Noi non ci fermeremo neppure a -notare quanto sien giudiziosi siffatti argomenti, per quanto non si vedano fondati in una tesi filosofica; e indicheremo il pensiero del Salviati, il quale non può non riconoscere che quelle sian belle ragioni e che hanno forse dell'efficacia ; ma tuttavia, guardandole con alcune distinzioni, crede di potere e dover giustificar la grammatica così: si tratta non di formare, ma di raccoglier le regole per conservar i guadagni fatti, in modo che, deteriorandosi la favella, tutto non sia andato perduto. Né si lega per tutto ciò, come essi dicono, le mani al volgo, o se gli mette quasi la museruola; ma tuttavia lasciandolo nella sua libertà, si pone in sicuro il guadagno, che s'è fatto fino allora, sì che il tempo avvenire noi possa più portar via, e del futuro se gli lascia quasi libero il traffico nelle mani (p. 71). Né la fatica è vana, perchè il popolo non si può aver volume. Oltr'a ciò si risponde a certi mordaci scrittori, e alcuni sofistichi Autori si ribattono, e si ragiona dello stile, che s'usa da' più lodati. In Venezia. Presso Domenico, et Gio. Battista Guerra, fratelli S" gr. sempre appresso, né, se ciò fosse possibile, parla tutto a un modo. Onde conviene prender dal popolo il materiale e vagliarlo al vaglio degli scrittori, tra i quali, naturalmente, il Salviati dà la preminenza ai Trecentisti e al Boccaccio del Decameron in particolare. Risorge il vecchio concetto bembesco e con esso tutta la critica ammirativa delle qualità eccellenti del volgar fiorentino degli scrittori dell'aureo secolo, l'efficacia, la brevità, la chiarezza, la bellezza, la vaghezza, la dolcezza, la purità e la semplice leggiadria. Ma è facile notare come l'uso vivo venga solennemente affermato, e come sia largo il criterio fondamentale della grammatica. L'esempio e l'autorità degli scrittori sono appunto quelle cose, che le regole della lingua si chiamano comunemente. Del favellare sia arbitro il popolo, dello scrivere l'uso approvato dal consenso de' buoni: sicché nel formar le regole venga primo il Boccaccio, poi i contemporanei di lui, indi il popolo, il cui presente favellar è meno nobile di quello del Boccacio. Nel fondo, però, pur con tutte queste larghezze, il Salviati riesce un un gran purista. Disapprova il parlar degli scapigliati che non adoravano il bembesco e il boccaccevole stile; cita come un barbarismo X applauso universale da loro usato. Si scaglia contro il gergo cancelleresco cortigiano, segretariesco, contro V autore della Giunta che scrive al buio volendo imitare il Boccaccio; contro il latino, i latinizzanti e le scuole di latino che contribuirono a corrompere il volgare. Esalta invece le benemerenze del Poliziano e più di Bembo. Toglie parzialmente agli scrittori del buon secolo il vanto delle cose pertinenti a gramaiica, e glielo dà in purità di vocaboli, modi del dire, breve, vaga e semplice legatura. Propugna la pubblicazione d'un Vocabolario della Toscana linguai^. . Indi sbozza una storia critica degli scrittori del buon secolo. Conclude col dire che la grammatica resterà fissa sugli scrittori del 300, e che il vocabolario potrà continuamente migliorare, distinguendo tra prosa e poesia per quanto riguarda l'ortografia, i solecismi ecc., al qual punto rimanda alla sua Poetica.] in ultimo accenna alla prova [Questa discussione del Salviati fece fortuna, perchè, staccata dagli Avvertimenti, fu riprodotta a parte in una miscellanea di Regole, di cui avremo occasione di parlare, in Firenze, col titolo: Se le lingue sien da restringer sotto Regole e spezialmente il volgar nostro. Da chi si debbano raccor le Regole, e prender le parole nelle Lingue che si favellano, con un Sunto d'alcuni avvertimenti dilla Lingua, sotto il nome, s'intende, del Salviati.] proposta dal Varchi di paragonar il fiorentino con gli altri dialetti d'Italia, riportando in fin del volume varie versioni italiane della novella boccaccesca del re di Cipro. Il III libro svolge la parte dell 'ortografia. Dichiara che rispetterà la nomenclatura grammaticale ormai in uso (quindi pronome, non vicenome, participio non partefice, congiunzione non giuntura, esclamazione non schiamazzio, che fa ridere), e la comune esposizione, forma , cioè distribuzione e condotta, già ricevuta dall'uso delle scuole, benché in tutto non perfetta, sacrificando il suo particolar modo di vedere all'utilità comune che dalle novità sarebbe stata frustata. Sicché questi Avvertimenti del Salviati, sotto questo rispetto, ci rappresentano il consentimento ufficiale scolastico intorno al corpo e allo schema della grammatica; anzi essi si possono considerare la prima vera grammatica scolastica dell'Italia, quale la didattica secolare se l'era venuta formando. Consideriamo dunque brevemente il contenuto speciale che il Salviati, desumendolo dallo studio del Decameron, ha di suo versato in quello schema. Le Lettere sono nella vista (segni) della scrittura 21: a b e defghil. mn'opqrstuxz, ma nella voce (suoni) 32. Delle lettere h è mezza lettera, il q è inutile, il k è fuor d'uso perchè non dolce. Confuta la riforma trissiniana. Vocali Q) in scrittura son 5: a, e, i, o, u in fonetica 8: a, è, é, i sottile, i grasso, ó, ò, u. Diltongi, 49, quanti sono gli accoppiamenti ( distesi Es. làude delle vocali e sono . \ raccolti guato. Trittongi e quattrittongi che si possono raccogliere in una sillaba sola: lacciuoi. Ricorda le divisioni di Platone, nel Cratilo (vocali, mezze vocali, e mutole), ripetute da Aristotile nella Poetica. Nella Storia degli animali Aristotile accenna anche alla formazione delle vocali dalla voce e dal gorgozzule, delle consonanti dalla lingua e dai labbri. Su questa base fondarono retori e grammatici latini la loro fonetica. Platone dice le vocali la catena, e '1 legame senza '1 quale l'altre lettere esprimer non si potrebbero. Le consonanti in vista son 16, semivocali, che partono ^dall'ugola madre delta nella zw^, almen 25 (sauere, sapere), tra la / e la n (calonica, canonica), tra la / e la r (albori, arbori), tra la / e la d (olore, odore), tra la / e \\g (li, gli articoli, quelli, quegli, cavalli, cavagli, salì, saglì, dolgo, doglio), tra la n e il g (piangere, piagnere), tra la r e il d (dierono, diedono), tra la s e la z aspra (solfo, zolfo), tra la ^ e il e (Sicilia, Cicilia), tra la ^ e la f (sino, fino), tra la .? e il / (nascoso, nascosto), tra chi e sii (schiena, stiena), tra la. s e z aspre e sottili di altri popoli (pesso, pezzo; strossare per istrozzare; Orazio per Orazio), tra la z sottile o aspra e il e ora scempio ora doppio (beneficio, benefizio), tra la z rozza e il d (fronzuto, fronduto), tra la z e il g (ammonigione, ammonizione), tra il b e il g (abbia, aggia), tra il b e il p (brivilegi, privilegi), tra eh e ce (Antioco, Antioccio), tra il “c” e il “g” (“Caio,” “Gaio”), tra il de il g (vedendo, veggendo), tra il d e il / (cadmio, catuno). Passa poi alle jnllabe. Qui fa una distinzione curiosa: dice che quel che significa sillaba è stato determinato dai filosofi, e che a dividerle insegnano i pedagoghi, non più; ma sarebbe stato importante che ci avesse accennato qualcosa di particolare intorno alla definizione data dai filosofi. Chiude il trattato parlando del modo di scrivere molte parole, della copula, degli accenti, delle maiuscole, e de' segni di punteggiatura. Assennatissime le osservazioni sulla punteggiatura. Ricorda le moderne dottrine circa la storia della punteggiatura, inclinando a credere, sulla testimonianza di Aristotile, che gli antichi punteggiassero con minuzia. Si dichiara soddisfatto de' punti usati al suo tempo , ma riconosce che questa .:;, ? f ) cioè punto fermo, mezo punto, punto coma, coma, interrogativo, parentasi. Del fermo, per altro, fa, secondo la necessità della posa (pausa), quattro specie: fermo, trafermo, fermissimo, trafermissitno . ]materia è meno che altra atta a esser legiferata, e convien lasci.ire alla pratica degli scrittori la più ampia libertà, acciocché siano ben rese e la tela (costruzione) e la SENTENZIA (SIGNIFICATO) del discorso. Rispetto, non dico alla fonetica di Castelvetro, ma anche alle spiegazioni d'altri grammatici che s'occuparono di questa parte, non escluso il Fortunio stesso, il primo di quelli editi, questo trattato del Salviati è certamente un regresso, per quanto qualche osservazione supponga una teoria meno empirica: se non che, e la giustificazione della grammatica fatta dal Salviati e la relatività assegnata alle regole di esse da una parte, e la legiferazione così minuta dell'ortografia intesa nel senso più largo fondata su dati storici positivi, sui caratteri del volgare cinquecentesco usato dal popolo, non escluso quello della dolcezza e musicalità dell'idioma fiorentino, dall'altra, assegnano agli Avvertimenti del famoso accademico un discreto valore scientifico nel primo rispetto, e, nel secondo, un notevole posto nella storia di quei prodotti che indirettamente concorsero alla dissoluzione del loro stesso contenuto : nella somma di questa duplice qualità, dunque, il pregio di documento principalissimo per la nostra narrazione. Dell'importanza data dal Salviati alla grammatica abbiamo già fatto cenno. Quanto alle osservazioni donde son ricche le particelle della sua trattazione, in questo senso noi affermiamo che sono notevoli, che, legiferando un'infinità di esigenze formali dell'idioma nostro, sviluppando quasi all'infinito il corpo della grammatica e nell'istesso tempo assottigliandolo fino a ridurlo un'ombra di sé stesso, col fare d'ogni minimo caso una legge, riducono ai minimi termini il rigore, la rigidità, l'inflessibilità della legge grammaticale, preparandone il totale annullamento. Ho detto esigenze formali, ma non sono solamente tali. Quelli che sono stati chiamati i criteri formalistici dei letterati del Cinquecento dal Bembo, appunto, al Salviati, di fatto erano criteri estetici sostanziali. Gli abiti mentali di quella generazione di scrittori e di critici, il loro ideale di bellezza, il loro modo d'esprimere e riflettere nel verso e nel discorso sciolto il proprio contenuto, questo stesso contenuto, conducevano tanto chi esercitava l'arte quanto chi esercitava la critica a quella concezione della forma che a noi può sembrare pretta esteriorità vuota di contenuto, ma che per loro era la sostanza stessa del loro pensiero. Il formalismo dunque legife rancio sé stesso, sodisfaceva a un bisogno, esprimeva in regole la scarsa e superficiale vita interiore, che era vita formale essa stessa, riuscendo così a una critica indirettamente negativa della grammatica, dove a noi parrebbe di dover vedere un rafforzamento di fede grammaticale. In altre parole, a me par di poter mettere sulla stessa linea progressiva il Salviati e i migliori recenti costruttori di categorie grammaticali e rettoriche a base di psicologia, con questo profondo divario ridondante a tutto onore degli ultimi, che questi han coscienza di quel che fanno, cioè di fare una critica della grammatica, e il Salviati no. Il Salviati legifera gli atteggiamenti della lingua, gli affetti, quasi direi, delle parole e degli elementi di essa (tant'è vero che parla dell'a?nisià delle lettere) rispondenti alle tendenze del pensiero; quelli descrivono le forme in che si concretano i movimenti dello spirito: in fondo menano dritti sì gli uni che gli altri all'affermazione della formula tal contenuto tal forma, che non dà più luogo a grammatica, a legge veruna regolatrice della favella (l). Nel secondo volume degli Avvertimenti ("), dedicato a Francesco Panicarola architetto dell'arte del ben parlare , tromba del nostro secolo , tratta, ne' primi due libri, del nome, deWaccompagnanome, dell' articolo e del vicecaso; ma quello che fu il desiderio de' contemporanei e, particolarmente, del Lombardelli, che cioè venissero trattati con la medesima felicità l'altre parti, rimase inappagato, nonostante che l'impulso a pubblicar questo secondo volume venisse al Salviati e lo dichiara nella dedicatoria con viva compiacenza dal giudizio favorevole dato sul [Per questo problema fondamentale della critica della grammatica, si ricordi in particolare la polemica Vossler-Croce, originata dal saggio di Vossler sulla Vita del Cellini, e precisamente: Atti d. Acc. Pont., Literaturblatt f. gertn. u. rovi. Pini., 1900, 1; Flegrea, 1 apr. 1900; Zeitschr. f. rom. Pliil.; La Critica. Della polemica fa la storia lo stesso Vossler, nel suo recente libro, Posilivistmis inni Ldealismus, già citato, riuscendo ad un pieno accordo con la dottrina sostenuta dal Croce. Cfr. anche Rossi, Contro la stilistica, Firenze. Del secondo volume degli Avvertimenti della Lingua sopra il Decamerone. Libri due del Cavalier Lionardo Salviati. Il Primo del Nome, e d'una Parte, che l'accompagna. Il Secondo dell'Articolo, e del Vicecaso. In Firenze, nella Stamperia de' Giunti.] primo da tre valent'huomini di sottilissimo intendimento: il utilissimo Cavalier Batista Guarirli, delizie delle belle lettere de' nostri tempi, il Patrizio, le cui scritture e spezialmente quest'ultime della Poetica, hanno fatto stupire il mondo, e quel Mazzoni, huomo, se mai ne fu alcuno, in supremo grado scienziato, cittadino in tutti i linguaggi, maestro perfettissimo in tutte le l'acuità: che tanto sa, di quanto si rammemoria; di tanto si rammemoria, (pianto egli ha letto: cotanto ha letto, (pianto oggi si truova scritto, al quale sia sempre, per lo nostro maggior poeta, obbligata la patria mia. Nella trattazione di queste parti del discorso ritornano, per altro, le infinite e complicate classificazioni e distinzioni che rendono la morfologia fastidiosa e difficile e di scarsa efficacia all'apprendimento della grammatica. Il nome è diviso secondo la sentenza e secondo la voce: sotto questo rispetto, è semplice o composto, primitivo o derivato; sotto l'altro sostantivo o adiettivo: il sostantivo è proprio o appellativo e questo collettivo o no; V adiettivo è perfetto e ha 3 gradi {positivo, comparativo, superlativo) o imperfetto, e si divide in 3 gruppi: appartengono al primo il relativo, il rassomigliativo, il renditivo, V interrogativo, il dubitativo, il relativo indefinito; al secondo il partitivo, Y universale, il partictdare, il distributivo, il numerale o denominativo; al terzo il possessivo, il materiale, il locale (patria, nazione, distanza). Ha tre accidenti: il genere (maschile, femminile, neutrale, comune, dubbio, indifferente), il mimerò (singolare, plurale o maggiore; non duale altrimenti ci dovrebb'esser il triale, il quattrale, il cinqualé), il caso (uno pel singolare, uno pel plurale). Si declina in quattro modi: a) maschili sing. -a, pi. -i; b) femminili, -a, -e; e) comuni, -e, -i; d) comuni, -o, -i. L ' accompagnaìiome sarebbe l'articolo indeterminativo uno, una. Quasi un cento pagine son dedicate, al solito, alX articolo, il cavai di battaglia di tutti i maggiori grammatici del Cinquecento. Il Salviati ne ragiona in due pagine con gran solennità la definizione; polemizza contro chi non lo vorrebbe in italiano, non essendoci nel latino che è lingua più nobile: ne spiega la forza, V ufficio, V opera, che è di determinare la cosa precisamente....e di tutta insieme abbracciarla. E qui spiega un'infinità di sottili distinzioni, indulgendo a quel fine senso estetico formale di cui ho parlato più sopra. Ripiglia la questione del mortaio della pietra, affermando che nessuno, insomma, fin qui ebbe confutato in ptibblico il Bembo. Neppure il Castelvetro? Eppure spesso il Salviati si ferma a discuter col critico modenese, del quale non ha certo la sottile e abbondante dottrina filologica né il metodo. L'opera di Salviati suscitò un vero entusiasmo al suo tempo, e il Lombardelli, che fu quasi sempre il fedele interprete dell'opinione comune, cosi ne discorse ne' suoi Fonti: Il Salviati ha ritrovati i principi, le parti e gli ornamenti di questa lingua; et ha scoperto i modi, e le strade vere di conoscerla, d'affinarla e di tenerla in riputazione. Nel I volume scioglie molti bellissimi dubbi; fa la censura degli scrittori antichi, e tratta nobilmente i fondamenti più generali della lingua. Ne' due primi libri del II volume tratta del Nome, Accompagnanome, Articolo e Vicecaso, con tal copia, e spirito, e vivacità, e chiarezza; che ne fa desiderar di veder trattate con la medesima felicità l'altre parti. Queste e l'altre scritture sue, dove si tratta di teorica, possono arrecar giovamento aiuto e forza tanto maggiormente, quanto più fiero sarà l'intendimento di chi si metterà a studiarla, ed a trarne frutto. Non tacerò che, a chi legge, oltre a quel che impara capo per capo e parte per parte, se gli affina a maraviglia il giudizio di maniera che può aspirare alla perfezion dell'intender gli Autori, del parlar bene, e dello scriver con lode. Quest'affinamento di giudizio veniva certamente prodotto in altrui dal Salviati appunto con quel suo discuter parte per parte, capo per capo, gli esempi addotti in gran copia, secondo il suo fine sentimento formale. Di modo che, sia per questo sia per esser fondata la sua trattazione sopra la critica e l'esegesi del testo decameronico, cioè sopra una base concreta, sia ancora per la infinita serie di regole, il Salviati più che una grammatica nel senso pedantesco e scolastico della parola, in questi suoi Avvertimenti ci ha porto un esempio notevole della larghezza con cui dovrebbe esser condotto l'insegnamento grammaticale, mentre, dall'altro canto, ha sviluppato il corpo della grammatica in siffatto modo, che il progresso del disfacimento ne veniva certamente accelerato. Salviati, a cui dobbiamo anche oltre un giudizio alcune aii7iotazioni tra linguistiche e grammaticali sul Pastor fido del Marini, Ma l'ammirazione non fu senza contrasti. Accennerò alla polemica che, un anno dopo la pubblicazione del secondo volume, s'accese tra il Papazzoni e Beni. Il primo nella sua Ampliazione della lingua volgare ( fondata parte in ragion chiarissima, e parte in autorità d'autori principali) , rimproverò al Salviati il modo onde aveva legiferato intorno alla grammatica e la corruzione fatta del testo boccaccesco. Gli rispose nell'anno medesimo il Pescetti, uno dei più litigiosi grammatici che abbia avuto l'Italia. Era di Marradi dalla diocesi di Faenza passata alla signoria de' Fiorentini : un toscano un po' bastardo, dunque. Insegnò grammatica a Verona, dove, un anno dopo della polemica col Papazzoni, s'attaccò con Giandomenico Candido per la Difesa della Zeta, intorno a cui aveva pubblicato un'operetta il Lombardelli, e la contesa si fece così accanita, che dovette mettersi in mezzo Valerio Palermo dirigendo una lettera latina ad ambedue. Il Papazzoni replicò ancora con una Apologia in difesa dell' Ampliazione contro r opposizione del signor O. P. Ma ormai divampava la tremenda contesa tassesca, a cui prese parte quasi tutta l'Italia e le piccole gare grammaticali e ortografiche perdettero il loro interesse. Sicché, rimase senz'eco anche il dialogo di Pierantonio Corsuto, // Capece ovvero le Riprensioni, diretto contro gli Avvertimenti del Salviati. Non solo, ma anche la produzione grammaticale ora diminuì, intese alla compilazione non solo di quello dell'Accademia, ma d'un suo proprio Vocabolario, che però non vide mai la luce. In una di quelle annotazioni, egli stesso dice: Tutto che' io m' assicuri d'affermarlo assolutamente senza vedere la bozza del mio imbastito Vocabolario, il quale ora non ho appreso, crederei all'improvviso che di fora per fosse o per fossi, non vi abbia esempio sicuro.... Prose inedite del Cav. Leonardo Salviati raccolte da Luigi Manzoni, Bologna. Sembra ormai fuor di dubbio che del Salviati sia il Discorso nel quale si /nostra l'in/perfezione della Commedia, diffuso ms. piu tardi pubblicato. Cfr. Flamini, Avviamento allo studio della D. C, Livorno. In Venezia per Paolo Meietti, 1587, 8°. (2) Epistola lalerii Palermi ad Orlandum Pescettium, et Io. Dominicum Candiduiu de uso litterae Z disceptantes, In Verona, presso Girolamo Discepolo. In Padova, per Meietti.] tanto che avremo quasi da arrivare al Buommatteri per ritovare un corpo di regole da gareggiare con gli Avvertimenti e le altre fondamentali opere grammaticali del Cinquecento. Il s££q1ol_sì chiudeva con la ristampa delle Osservazioni del Dolce, e l'altro si apriva con la compilazione del Vocabolario della Crusca. Più gravi, per la competenza e l'autorità di chi li moveva, e un più vivo clamore avrebbero suscitato, se espressi in pubblico, gli appunti che contro gli Avvertimenti rivolse il Corbinelli nelle molte lettere dirette al suo amico Pinelli, tra le quali ha così proficuamente spigolato il Crescini . Il Corbinelli, che aveva avuto il Salviati quasi scolaro a Firenze, havendo il medesimo homore da giovinetti , non confidava troppo nella valentia linguistica del Salviati, che giudica uomo di non grandi spiriti, ma diligenti, giuditio mediocre , sofisticuzzo nelle sue cose , e torna a qualificare, dopo lettine gli Avvertimenti, vago di non lasciar nulla indetto , incline a spezzare il cervello in minutar mille e... nerie , principalmente per una sostanziale differenza circa i criteri e al metodo, coi quali condurre lo studio della nostra lingua. Il Salviati, come pareva anche al Corbinelli, tirava di lungo e non vedeva più oltre che la lingua sua; il Corbinelli, conscio della sororità o fratellanza delle due lingue cioè franzese et italiana , convinto che dalle lingue barbare [francese, provenzale] noi haviam ritenuto una infinità di cose: et che bisogna saperle per volere fare il grammatico: non dico per scrivere , procedeva nell' indagine linguistica col metodo comparativo, non per proporre niente da imitare e odiando le regole (%): l'uno era un empirico precettista, l'altro uno storico comparatore. Che il Corbinelli, anche non spiegando esattamente, come gli accadde spesso, le forme linguistiche nella loro formazione storica, potesse aver buon giuoco sul Salviati per ciò che riguarda questo [Per gli studi romanzi cit.. In Crescini, op. cit., p. 194, 195, 204, 206. Col Salviati il Corbinelli appaiò il Muzio, di cui così scrisse: Io lo trovo quasi quanto il Salviati et sì bene egli è ignorante nella maggior parte delle cose, ancor si ha egli osservate molte, se non altamente, curiosamente, et bene mi piace, che e' dice volentier male. V'ho trovato il mio povero Corbaccio . Crescini. In Crescini] aspetto del problema della lingua, è più che naturale ; mala presunzione che il Salviati, perchè non intendente del francese e del provenzale, dovesse essere impari al suo compito che era di grammatico normativo e non di storico, è illegittimo, poiché i due punti di vista sono protondamente diversi: con l'uno si descrive la lingua quale fu prodotta e fissata nella scrittura, con l'altro si compie uno sforzo, per quanto disperato, di apprenderne il valore espressivo: con l'uno si lavora in un piano, con l'altro in un altro, pur non disconoscendosi che la grammatica normativa, in quanto espediente didattico, sarà tanto più efficace quanto più fedelmente elaborerà le sue regole sui risultamenti dell' indagine storica. Il Corbinelli odia le regole, perchè il suo è un interesse storico, e come egli trova i libri scritti variare, così stima queste cose indifferenti, et se in parlando suol dire et udire ' andavo ', ' facevo ', ' stavo ', tanto scriverà così, se la penna harà fatto un v òvofiàrcìv) ; questioni agitate confusamente e che Alcune linee di questo brevissimo riassunto della storia della grammatica presso i Greci toljjo dalla Histoirc de la Littérature grecque par Alfred et Maurice Croiset, Paris. Per maggiori e più sistematiche informazioni, oltre l' Egger che citiamo più innanzi, H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft bei den Griechen uud Romeni mit besonderer Riieksicht auf die Logik,'Berlino, 1890-1. Y. l'interpretazione del Benfev, accettata dal Bonghi, nelV Appendici' seconda al Cratilo in Dialoghi di Plafone tradotti da Ruggero Bonghi, voi. V, Roma, 1S85, pp. 404-10. Capitolo ottavo 243 hanno il loro monumento nell'oscuro Cratilo platonico, che sembra ondeggiare tra soluzioni diverse . Poco o nulla progredì la teoria grammaticale coi teorici della grande eloquenza attica e gli storiografi che s'informarono ai loro principi e imitarono i grandi oratori, sebbene un d'essi, Eforo, scrivesse anche un trattato sullo stile (jtsqì Àé^eoc;), come nessun impulso era venuto alla grammatica dai primi retori siciliani. Ln_ Aristotile la teoria grammaticale si congiunge ancor più direttamente e intimamente con la logica che non con la retlorica e la poetica, dove ne' rispettivi capitoli sull'elocuzione, pur si parla di parti del discorso. Nella Rettorica (1. IID, affermato che il principio della buona locuzione è la correttezza, si spiegano i vari modi di conseguirla, che sono: 1. collocar bene le congiunzioni; 2. usare i nomi propri e non circoscritti; 3. non usare i dubbi; 4. dare a ciascuno il suo genere, maschile, femminile e neutro; 5. dare il numero suo, singolare, duale, plurale. Nella Poetica, tutto un capitolo (il XX), che sembra a ragione interpolato (2), è dedicato alle parti dell'orazione, che sarebbero: lettera o elemeyito, sillaba, congiunzione, nome, verbo, [articolo], caso, orazione. Ma le vere categorie grammaticali che Aristotile realmente e in modo chiaro elaborò, sono il no7ne e il verbo, i due termini della proposizione enunciativa, di cui tratta nei pochi capitoletti jtvoì 'Eoneveiag (De in Croce, Estetica cit., p. 176. •) Tale lo giudica l'ultimo editore della Poetica aristotelica, che espunge anche, come interpolazione nel brano interpolato, la categoria dell'articolo (òodQOv). The Poetics of Aristotle edited with criticai notes and a translation by S. H. Butcher, London. Osservo che l' interpolazione del paragrafo era stata già avvertita dal Barthélemy Saint-Hilaire, ma con una considerazione che non ci sembra del tutto opportuna. Il gran divulgatore d'Aristotile osserva infatti que toutes ces théories quelle sull'elocuzione, d'ailleurs très contestables, quand elles ne sont pas tout à fait erronées, sont très-déplacées dans un ouvrage tei que celui-ci. Cesi de la grammaire ; ce n'est plus de la poétique. Je n' hésite pas à déclarer qu 'elles ne peuvent ètre d'Aristote, et je me fonde surtout pour les repousesser sur V Herménéia, qui prouve une connaissance de ces matières, si ce n'est plus étendue, du moins beaucoup plus exacte. Les chapitres qui vont suivre [XX sgg.] sont donc une interpolation. Poétique d'Aristote trad. en fr. et accomp. de notes perpètuelles par]. Barthélemv Saint-Hilaire, Paris. De', meriti del nostro Castelvetro sotto il rispetto della critica del testo, s'è già accennato e torneremo qui a darne altre prove. 244 Storia della Grammatica terpretatione, o Della proposizione, secondo è stato tradotto il vocabolo). Uno svolgimento ancor più considerevole che in Aristotile ebbe la grammatica dalla dialettica degli stoici, pe' quali la logica era la scienza preliminare delle condizioni della conoscenza o del metodo, e che si servirono del linguaggio per determinare le leggi che segue la ragione: essi conobbero cinque parti del discorso, nome, pronome, verbo, avverbio, congiunzione. Fondata la Biblioteca d'Alessandria, con tante opere da curare e studiare, segnatamente i poemi omerici, l'elaborazione della grammatica ebbe la spinta verso il suo completo assetto con le dispute suW analogia e V anomalia. Aristofane di Bisanzio volle vedere in tutti i fatti linguistici una razionale regolarità, e si diede a svolgere la declinazione greca per darne la prova convincente, seguito da Aristarco che ne divenne un caldo sostenitore: Crate di Mallo, uno stoico condotto dalla sua stessa filosofia agli studi grammaticali seguendo Crisippo, sostenne invece la teoria dell'irregolarità grammaticale. La conclusione della disputa fu come sappiamo, l'accettazione del principio della recta coìisìictudine, cioè della contradizione organizzata . Chi sistemò tutta la scienza grammaticale dell'antichità fu Dionigi Trace, la cui Tèyyr) yQajufiaxatr} tenne il campo per oltre due secoli fino ad Apollonio Discolo, compendiata, commentata, amplificata. Per dare un esempio dello spirito ancor tutto greco sottile e classificatorio di Dionigi, è stato già osservato che egli coniuga anche le forme verbali logicamente corrette, benché non usate. I Romani, di questo periodo, copiarono i Greci: Varrone è sotto l'influenza della disputa tra analogisti e anomalisti, nella quale non riesce a veder chiaro. La sofistica ebbe ancora un'ultima e non meno forte efficacia sulla grammatica, con Apollonio, il quale si sforza di darle un carattere scientifico, rapportando ogni singolo fatto linguistico a una legge logica. Egli sostiene il principio che ogni parte del discorso procede da un'idea che gli è propria: 'Ekclotov òè ui'Tox' è§ ìòiag èvvoiag àvàyeuai, e vi fonda su tutta una nuova sintassi di reggimento, che, accettata poi dai grammatici romani, segnatamente da Prisciano, ritornò quasi integra dopo la deformazione che n'ebbe fatto il Medioevo, al Rinascimento, e in molti particolari accolta dai Portorealisti e dai grammatici logici dell'Enciclopedia, rimane ancora, con le debite mo Croce, Estetica cit., p. 498. Capitolo ottavo 245 dificazioni che il tempo apporta, in tutta la grammatica moderna. Ma, com'è stato ben osservato, Apollonio, non fondando la sintassi sullo studio della proposizione, ma sulle singole categorie grammaticali, non ha costruito una grammatica filosofica. Dopo di lui (sec. II) fino appunto a Prisciano (sec. VI) la grammatica ebbe dai trattatisti romani vari rimaneggiamenti, ma nella sostanza non fu modificata ('")• Con Donato (sec. IV), il più metodico, e Prisciano, il più infuso di spirito "filosofico, servì al Medioevo e risorse tal quale nel Rinascimento, che, come abbiamo già visto sull'esempio del Perotti, congiunse Donato e Prisciano, perduta però ogni coscienza dell'origine della funzione delle categorie. Codesta perdita era già avvenuta nel Medioevo, Apollonio ha avuto un diligente e acuto illustratore in un grecista di gran valore, l'Egger, il quale per altro lo critica dal punto di vista della grammatica generale quale era stata sistemata in Francia. V. Apollonius Dy scole. Essai sur l'histoire des thèories grammaticales dans l'antiquitè par E. Egger, Paris. À part des erreurs de détail qui seront relevées dans les chapitres suivants, sa classification des parties du discours est, en general, fort louable, parce qu'elle ne méconnait ni l'unite essentielle de la proposition, ni la variété très-réelle des mots qui concourent à former une phrase. Réduire à trois les parties du discours sous prétextes que la proposition n'a que trois termes élémentaires, c'est taire abus de logique; comme se serait, en quelque sort, faire abus de grammaire que d'admettre douze ou quinze partie du discours en donnant ces nom aux espèces secondaires au lieu de le réserver pour les véritables genres. L'observation des mots et l'analyse des idées, la grammaire positive et la logique sont deux sciences distinctes, dont l'alliance produit ce qu' on appelle la philosophie des langues. Pp73'4L'Egger è un credente nella grammatica e anche nella logica formalistica: come non si abusi né della grammatica né della logica a riconoscere otto o nove parti del discorso, invece di tre o di quindici, è un segreto che sanno solo l'Egger e i suoi compagni di fede: che cosa sia poi la filosofia del linguaggio fondata sull'alleanza della grammatica e della logica, ci è ben noto. (2) Un particolare contributo all'elaborazione della grammatica antica avrebbero recato i grammatici romani specie per ciò che concerne la sintassi dei casi, secondo il Sabbadini, Elementi nazionali nella teoria grammaticale dei Roma?ii, in Studi di filologia classica, dove, anche si nega, contro Golling [Ristorisene Grammatik der latemischen Sprache) che la riforma della grammatica scolastica latina risalga a Guarino, per la storia delle cui Regole il Sabbadini stesso rimanda al suo libro La scuola e gli studi di Guarino Guarirti veronese, Catania] in cui logica e grammatica si disciolgono dai comuni vincoli onde fin dalla nascita s'erano mantenute legate nei GRAMMATICI RAZIONALI come Apollonio, per sottomettersi entrambe a un processo di decomposizione e di degenerazione: la grammatica, prima delle scienze del nuovo canone, e, rimasta, ne' secoli di maggiori tenebre, quasi l'unica a esser coltivata, diviene un campo di esercitazioni pedantesche e di polemiche interminabili su argomenti oziosissimi (se tutti i verbi, p. es., abbiano il frequentativo; se ergo abbia il vocativo ecc.; la logica, analogamente, che pur con Aristotile s'è sollevata alla scoperta di principi di vero carattere scientifico, ha nella scolastica la sua massima espansione formale, perdendo tutta la vitalità che aveva avuto da Aristotile, il quale peraltro rimase al giudizio dei critici del Rinascimento il responsabile dello strazio che s'era poi fatto di lui. Contro la doppia degenerazione della grammatica e della logica sorsero ben presto le proteste. Rinuccini lamentato che i grammatici passassero tutto il loro tempo in fantasticherie, lasciando il più utile della grammatica; lunga da se la fanno lunghissima, ma la significazione, la distinzione, la temologia de’vocaboli, la concordanza delle parti dell'orazione, l'ortografia, il pulito e proprio parlare litterale niente istudiano di sapere. Di quelle terribili dispute è documento notissimo il Bellum grammaticale, così fortunato, di Guarna salernitano, dove quei due potentissimi re che sono il nome e il verbo inter se contendtint de principalitate orationis . Le riforme, già in qualche modo invocate dai corifei [Testimonianze varie e numerose delle lotte tra le scuole grammaticali del medioevo si possono raccogliere nella monografia d’Ancona, Le rappresentazioni allegoriche delle arti liberali nel m.-e. e nel rinasc., in L' Arte. In Wesselofskv, // Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1.389. Romanzo di Giov. da Prato, Bologna. (Vi Parisiis, Ex officina Roberti Stephani. VI (ma la prima ed. è Parmae, per Fr. Ugolettum et Octavianum Salàdum): a. e. 3, Griimaticale bellum nominis et verbi regi!, de principalitate orationis inter se contendentium, Andrea Salernitano patritio Cremonensi authore. La sentenza della lite fu che: in conficienda solenni oratione uterque Grammaticae rex cimi suis sequacibus conveniat, Verbum scilicet et Nomen, Participium, Adverbium, Prepositio, Interiectio, et Coniunctio. In quotidiana vero et dell' Umanesimo e particolarmente dal Petrarca, che si scagliò contro gli scolastici insanum et clamorosum vulgus , degeneri d'Aristotile, schiccheratori di frascherie , guastatori dell'insegnamento elementare (l), furono richieste con insistenza nei primi anni del Cinquecento: esse miravano al contenuto, al metodo e alla lingua dell'insegnamento scolastico della logica. Il Vives, nel II libro intitolato Grammatica della sua opera De causis corruptarum artìum sosteneva che la lingua dovesse esser presa dall'uso vivo (3). Ramus lamenta che VARRONE (si veda), Prisciano, Diomede, Festo non si leggessero più, e di sé racconta. Grammaticam puer miseris adhuc temporibus et dialecticam fere eodem modo doctus sum, disputando de praeceptis et altercando. La grammatica poi voleva che fosse insegnata sugli scrittori: nec familiari oratione, soli Nomen et Verbum, onus sustinebunt, arcessentes in patrocinium suum quos ex suis volent. e. 35. Qui s'è inteso fare all'ingrosso una distinzione di poesìa e prosa, di arte e pensiero, di fantasia e d’intelletto, insomma della funzione estetica e della funzione logica, su questo fondamento vacillante, sebbene fosse appunto qui da fondare la distinzione, che il parlare artistico, poetico, sia il solenne, il fuori dell’ordinario, e il prosastico, non artistico, puramente logico, il quotidiano e familiare. Altre minori sentenze in Bellitm riguardano i rapporti tra il relativo e l'antecedente, tra l'aggettivo e il sostantivo, tra il reggente e il termine retto, il determinante e il determinato, la orazione perfetta e la non perfetta, la novità, il barbarismo, ecc.: materia, come ognun vede, quasi tutta logica, che ci spiega, confermando la nostra tesi, la fortuna del libretto; ristampato spesso (p. es., Cremona), è anche tradotto in versi {Race, d'opusc.), e in sestine anacreontiche da Ricci, Firenze. In N. Busetto, Fr. P. satirico e polemista. Caldi, La critica contro la logica aristotelica e l' insegnamento scolastico, Udine. Le citazioni seguenti di Vives, Ramus e NIZOLI (si veda) son prese da questa esposizione riassuntiva. Vives è un gran propugnatore del metodo pratico nell'apprendimento delle lingue (cfr. De studii puerilis ratione, Oxoniae), e lo applica in un'opera [Flores italici ac latini idiomatis: ho l'edizione di Venezia), che ristampata con la traduzione nel 1779 (del Carlini, in Venezia, col titolo Colloquj latini e volgari), è raccomandata in nuova veste anche oggi, se non erriamo, dal Turri. E una conversazione perpetua tra maestro e discepolo su cose e fatti della vita ordinaria llevata della mattina, il primo saluto, l'accompagnamento a scuola, quei che vanno a scuola, la. lezione, il ritorno a casa e i giuochi de' fanciulli, la refezione scolastica, ecc.). grammaticam puerum solis grammaticae praeceptis futur.um putamus; sed exemplis poétarum, oratorum omnium denique hominum pure et latine loquentium eognoscendis imitandis. Anche il Nizoli raccomandava lo studio della grammatica e della rettorica senza cui omnis doctrina est indocta et omnis eruditio inerudita, e confrontandole con la dialettica e la metafisica diceva: grammaticae et rhetoricae praeceptiones ac traditiones sunt multo veriores dialecticis et metaphysicis, et omnino ad veritatem investigandam, recteque philosophandum longe utilior magisque necessaria est grammaticae et rhetoricae cognitio quam dialecticae et metaphysicae . L'anno in cui il Ramus otteneva il grado di professore nell'Università di Parigi, sostenendo vittoriosamente la tesi che le dottrine di Aristotile, nessuna eccettuata, erano false, e in cui in Italia si pubblicava la Poetica nel testo greco dal Trincaveli, nella versione latina del Pazzi, può essere riguardato, ha ben osservato lo Spingarn, come il principio della supremazia di Aristotele in letteratura e del declinare della sua autorità dittatoria in filosofia. Con la Poetica aristotelica, come poco appresso con la sua Retorica, risorgeva appunto la critica delle categorie grammaticali, che avevano nell'una e nell'altro la loro descrizione: nei medesimi anni si ripubblicava il De iyiterpretatione, già diffuso con lunghissimi commenti per le stampe sul finire del Quattrocento, e con esso medesimamente era ripresentata alla disputa la teoria della proposizione. Nelle versioni ed esposizioni di queste opere aristoteliche viene, come dicevano, esaurito quell'interesse per la grammatica generale che abbiam visto mancare alle grammatiche empiriche: e i medesimi problemi, benché sotto altra forma, ci ritroviamo dinanzi con BORDONI (si veda) Scaligero e il Sanzio critici della grammatica tradizionale latina, e rappresentanti d'un aristotelismo ammordernato. La differenza tra le opere critiche anteriori o estranee alla diffusione dei testi aristotelici e delle loro versioni e quelle posteriori, e che ne subirono gli effetti, è sensibilissima. Ba[ (1 Magentini in Aristotelis librum de interpretatione explanatio Joanne Baptista Rasarlo interprete, Venetiis apud Hieronymum Scotum. Aristotelis jtsqì 'JEQfirjveias, hoc est, de interpretatione liber, a magno Angustino Nipho Philosoplw Suessano interpreta tus et expositus, Venetiis, apud Octavianum Scotum D. Amadei.] sterà addurre qualche esempio. Un testo di rettorica che veniva ristampato intorno agli anni in cui si ripubblicavano i testi della poetica d'Aristotile, è la Retorica di Ser Rrtinetto Latini in volgar fiorentino . Orbene, la trattazione grammaticale di codest' opera è ridotta a semplici accenni. Nel Libro primo della inventione over trovamento di M. T. C. tradotto e comentato in volgare fiorentino per Ser Brunetto Latini Cittadino di Firenze è detto: Dittare è uno diritto et ornato trattamento di ciascuna cosa convenevolmente a quella cosa aconcia. Questa è la diffinitione del dettare, e perciò convien intendere ciascuna parola d'essa diffinitione. Onde nota che dice diritto trattamento, -perciò che le parole che si mettono in una lettera dettate debbono essere messe a diritto sì che s'accordi il nome col verbo, e '1 mascolino col feminino, e '1 plurale, e '1 singolare, e la prima persona, et la seconda, et la terza, et l'altre cose che s'insegnano in grammatica, delle quali lo sponitore dirà un poco in quella parte del libro, che sia più auenante, et questo diritto trattamento si richiede in tutte le parti di retorica dicendo, et dictando (z). E al luogo indicato l'esposizione va veramente poco più in là di queste semplici linee della sintassi di concordanza: tutto, come si vede, si riduce all' affermazione del principio della rettitudine: è il principio grammaticale puro e semplice della antica rettorica di CICERONE (si veda) quale conserva il medioevo, senza che tra esso e IL FONDAMENTO RAZIONALE (“logico”) DEL DISCORSO – Grice – è avvertito alcun altro nesso e sia affatto accennato il problema delle CATEGORIE grammaticali e sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Medesimamente nelle divisioni della Poetica di TRISSINO (si veda) apparse in luce nel 1529 (:ì), dove si seguono ALIGHIERI (si veda) e Antonio da Tempo (Aristotile, qui semplicemente nominato per la definizione della poesia, è invece il maestro seguito nella quinta e sesta divisione), la trattazione grammaticale non [Stampata in Roma In Campo di Fiore per M. Valerio Dorico, et Luigi fratelli Bresciani. Il testo è corredato di un'esposizione marginale. K. In Vicenza per Tolomeo Janiculo. Nel MDXIX, Di Aprde. La quinta e la sesta divisione della poetica di Trissino. In Venetia, appresso Andrea Arrivabene. ...e non mi partirò dalle regole, e dai precetti de gl’antichi, e spetialmenK' di Aristotele nel LIZIO, il quale scrive di tal arte divinamente.] si distende molto di più che nel De vidgari eloqueyilia, mentre è assai più sviluppata quella della scelta delle parole. Illustrata la elezione, che fa ALIGHIERI (si veda) de le parole, che si denno usare ne le canzoni: la quale ne in tutto loda ne in tutto vitupera , espone la particolare elezione che egli ha escogitato, le varie forme del dire (chiarezza, grandezza, bellezza, velocità, costume, verità, artificio), che si debbono adoperare, e le passioni de le parole , che è materiale .grammaticale, e che non son altro che le quattro tradizionali figure grammaticali: Soprabondantia, mancamento, mutazione e trasposizione (Div. I). A proposito de le rime (Div. II), tratta a) de le lettere; b) de le sillabe; e) de li accenti (*). Nella terza divisione ( De l'accordar de le desinenzie ) e nella quarta (Del Sonetto, delle Ballate, delle Canzoni, de' Mandriali, de' Sirventesi), nulla vi ha, naturalmente, di grammaticale. Viceversa nella quinta e sesta, le quali trattano della inventiva della Poesia, e della sua imitatione, e dei modi, coi quali si fa la detta poesia, cioè della Tragedia, dello Heroico, della Comedia, della Ecloga, delle Canzoni e Sonetti, e d'altre cose simili , ritorna, certo per effetto del maggiore svolgimento che la teoria dell'elocuzione aveva ormai avuto, a parlare più ampiamente delle conversioni, e le figure del parlare, di quello che nella Tragedia havemo fatto, la qual cosa apporterà molta utilità, et ornamento a tutti i poemi, che havemo detto, e che dicemo . Così tratta delle conversioni [tropi] delle parole (onomatopeia, epiteto, catacresi, metafora, metalepsi, sinecdoche, metonimia, antinomasia, antifrasi, ecfrasi), e delle conversioni della construttione (figure: pleonasmo, perifrasi, iperbato, parembola, pallilogia, epanafora, epanodo, homoteleuto, pariso, paronomasia, elipsi, asindeto, asintacto, che si ha scambiando il genere de' nomi, il numero (Enalage), spetie e casi, congiunzioni, preposizioni, adverbi, lasciando preposizioni ecc., benché queste cose si po Io sono stato un poco diffuso in questi toni, perciò, che sì come i Latini, et i Greci governavano i loro poemi per i tempi, noi, come vederemo, li governiamo per li toni; benché, chiunque vorrà considerare la lunghezza, e brevità di alcune sillabe, così gravi, come acute, trarrà molta utilità di tal cosa, e darà molto ornamento a li suoi poemi. Qui è come un germe della dottrina del Tolomei su la nuova poesia, quale espose dieci anni dopo.] trebberò anchora riferire all’elipsi, facendo apostrophe ecc., prosopopeia, diatyposis, ironia (e sarcasmo), allegoria, iperbole). Così nella Dichiaratione, onde SEGNI (si veda) accompagna la sua versione ITALIANA della Rettorica e della Poetica d'Aristotile, già si avvertono tracce d' un maggior interesse per le categorie grammaticali e sintattiche e MORFO-SINTATTICHE. Qui cade in acconcio un'osservazione. Saint-Hilaire, per impugnare l'autenticità di quella parte della poetica aristotelica, dove si tratta della locuzione, ha detto, come s' è visto, che ce n'est plus de la poetique, c’est de la grammaìre. Ma tale considerazione muove dal pressupposto che l'espressione linguistica è di esclusiva pertinenza della logica, mentre, se la grammatica non è ne la logica né l'estetica, in quanto materiale espressivo, è di pertinenza d'entrambe. Questo spiega come (sia o non sia, così come e' è pervenuto, d’Aristotile, il brano che si giudica interpolato) il filosofo, che fa un’osservazione capitale circa l'esistenza di altre proposizioni, oltre l’emendative esprimenti il vero e il falso (logico), che non dicono né il vero né il falso (logico), come l'espressioni delle aspirazioni e dei desideri (£##)) e che son perciò di pertinenza non già dell'esposizione logica, ma della poetica e della rettorica, spiega, dicevo, come il filosofo tanto nella poetica e nella rettorica qifanto nella logica è tratto a occuparsi in quelle d’analisi grammaticale-rettorica, in questa di analisi logico-grammaticale, nelle proporzioni e differenze volute da quelle discipline – o rami della filosofia -- particolari. Infatti nella poetica, la disciplina o rama della filosofia dell'arte pura, sono formate con maggior compiutezza le parti di tutta la locuzione non senza accennare alla bontà della locutione (barbarismo – solecismo, malaprop – A nice derangement of epitaphs --, METAFORA –you are the cream in my coffee --, nome ornato, nome proprio – Fido --, allungamento, concisione e cambiamento del nome). Nella rettorica, la disciplina o rama della filosofia della parola ornata in servizio della mozione degl’affetti -- prottesi di H. P. Grice -- e della persuasione, s' illustra con egual compiutezza la dottrina dell'oratione (pendente Rettorica, et Poetica d'Aristotile, Trad. di Greco in Lingua Vulgare Fiorentina da SEGNI (si veda), Gentil' Incorno, et Accademico Fiorentino. In Firenze, appresso Torrentino, Impressor' Ducale. Croce, Logica e grammatica. Croce, Estetica.] distesa (Caro ), distorta = ripiegata (Caro)) nel periodo; nel jteqì 'EQ/Lirjveias, teoria della proposizione emendativa, l'espressione più semplice dell'attività logica, si tratta del nome e del verbo in quanto nel giudizio rappresentano lLuno il sostantivo, il soggetto, l'altro il predicato. ypfL'autorità d'Aristotile ha perpetuato tali dottrine e tale sistematica, che l'era classica dell'aristotelismo letterario, e anche dopo, NON SOLO IN ITALIA, ma fuori, attrassero invincibilmente l'attenzione e lo studio dei dotti. Ripresa la disputa medioevale intorno alla classificazione delle rami o discipline della filosofia imperniata sul raggruppamento aristotelico, s'indagarono con sottigliezza pedantesca i rapporti delle varie rami o discipline della filosofia e particolarmente della grammatica razionale o filosofica, della rettorica, della poetica, della isterica e della logica, congiunte, come già la seconda, la terza e l'ultima sono state da Aristotile, nell'unica categoria di filosofia pratica. E anche in questo si può constatare il progresso del logicismo aristotelico, fin tanto che i termini di gusto e di fantasia non sorgono a detronizzare quello di ragione. Lìl isterica, iniziata dagl’umanisti (Pontano, Actius dialogus e Valla, Dialedicae disputationes contra Aristote lieo s), ha nella classificazione di Varchi il suo riconoscimento ufficiale, quando già flveva avuto dal Robertello, De historica facilitate, un ampio trattato, e, per effètto dell'importanza assunta dalla storiografia umanistica e di quella che vienne assumendo con gl’eminenti storici nostri, feconda in questo secolo una letteratura ricchisima. Pure alcuni dei medesimi trattatisti la mettono come in una posizione d'inferiorità rispetto alle altre rami o discipline della filosofia, quasi una loro schiava: l'historico, dice Speroni, bene accorderà, se in descrivendo le cose sue ricorrerà alla Gramatica, et alla Retorica, et tali' hora anche alla Poesia, a lor precetti artificiosi di tutto core obbligandosi; la Poesia esser arte [Rettorica d'Aristotile fatta in lingua Toscana dal Conmi. Annibal Caro, in Venezia. Essendo il parlare composto di nomi, et di verbi, et essendo i nomi di tante sorti, di quante nella Poetica s'è dimostrato: Intra tutte le dette sorti, dico, ecc.. Rhet.y III, nella cit. versione di Segni. Vedine i titoli in Bernheim, La storiografia e la filosofia della storia, trad. Barbati, Palermo, App. Bibliografica. Dell' Historia, Dialoghi II in Dialoghi.] più nobile dell'Historia, pruova Aristotile, perchè eli' è dell'Universale, e la Historia è del particolare. Insomma: la Grammatica – o letteratura --, insegna parlar drittamente, la Historia parla, la Poesia imita, la Rhettorica prova persuadendo nelle città, la Dialettica prova sillogizzando la opinione . Ma ZABARELLA (si veda), interlocutore, con Antoniano e Manuzio, nel Dialogo di Speroni), che è uno degl’ultimi rappresentanti dell'insegnamento aristotelico, nella sua ampissima opera sulla natura della logica, va ancora più in là, e, mentre fa della rettorica e della poetica due parti sì bene distinte della logica, nega quest'onore, non che alla grammatica, alla isterica, che bistratta spietatamente. Ars tamen historica non modo ab Aristotele, sed a nemine hactenus -- ma questo non era affatto vero -- scripta comperitur. nec fortasse digna est, in qua scribenda tempus conteratur: ea namque in simplici, ac nuda rerum gestarum narratone consistit. At Historia nil huiusmodi tractat. sed est nuda gestorum narratio, quae omni artificio caret, praeterquam fortasse elocutionis, quod quidem, et alia eiusmodi quisque sanae mentis extranea, et accidentaria ipsi historiae esse iudicaret; quicquid enim artificij in historia notari potest, illud omne vel a Grammatica, vel a Rhetorica, vel ab aliqua arte desumptum est. GRAMMATICA ENIM NON EST LOGICA, Historica ars non datur. ZABARELLA (si veda), Opera Logica, Coloniae, Sumptibus Lazari Zetzneri, CI3I3CII (ma la prima ed. del De natura Logicae è anteriore. In che senso ammetta lo Zabarella che la poesia sia una forma di FILOSOFIA, fu già spiegato dallo Spingarn. Quanto alla relazione della rettorica con la logica, basti qui osservare che ZABARELLA si fonda sull'autorità di Aristotile, il quale (Rhet.) dice che oratoriam artem in argumentationibus consistere, quas etiam ipsius orationis corpus asserit, e riprende i retori de’suoi tempi, che, lasciando la parte argomentativa, insegnano solo l’elocutio, estranea alla natura di quest'arte. Compito del retore è movere gl’affetti -- la prottesi di Grice, influencing and being influenced -- per mezzo degli argomenti. Elocutio autem est saltem accidentaria, et secundaria respicitur. Patet igitur non esse necessariam, neque perpetuala inter has duas artes differentiam illam quae per manum clausam et apertam significatur. L'immagine della mano chiusa e aperta per dinotare la dialettica e la rettorica è già definitivamente consacrata nell' Origini d'Isidoro. In queste trattazioni vienne naturalmente a esser elaborato il concetto della grammatica e delle sue categorie, e, più particolarmente ne’luoghi in cui veniva esposta la teoria dell'elocuzione specifica per ciascuna di quelle scienze o arti o facoltà, come variamente è apprezzata. Si determinarono così quattro diverse nature di periodo. Lo storico, il retorico, il poetico o ritmico, il logico, e la grammatica è riservata a insegnarne la dirittura formale. Questi nostri dotti si trovarono così per le mani il vero problema delle manifestazioni di tutte le attività nostre conoscitive, MA IL FILO D’ARIANNA, CHE È LA NATURA DEL LINGUAGGIO, NON È RITROVATO, E SI PERDE NEL LABIRINTO. Il periodo retorico e poetico, che la scienza moderna, identifica, è la forma espressiva della verità, intuita, il logico del concetto, l'istorico della realtà. Il filosofo, dirò con parole eioquentissime, che guarda il cielo e non riconosce la terra sulla quale pone i piedi, è un'astrazione o una deficienza: il concreto, il perfetto è l'uomo che immagina, pensa e riconosce l'immaginato: l'uomo, che vive la realtà nell'intuizione artistica, la pensa nel concetto filosofico, la rivive nella riflessa intuizione storica, nella quale si acqueta compiutamente, perchè il circolo del pensiero è chiuso (2). Delle categorie grammaticali e sintattiche elaborate fuori delle grammatiche propriamente dette e' informano largamente, e su esse pertanto fermeremo la nostra attenzione, due opere ben caratteristiche e. importanti, la Retorica deb Cavalcanti O e la Poetica_de\ Castelvetro. Quella, anche per quanto riguarda [Si ricordino a questo proposito e per maggiormente convincersi che non è possibile un'indifferenza teorica per uniforma che in pratica, cioè nella coscienza dei produttori di letteratura, ha un così grande valore, l’acute osservazioni di SANCTIS (si veda) sopra il periodoe l’ottava, le due forme analitiche e descrittive di Boccaccio, divenute la base della letteratura, Storia, e sulla parodia che della loro degenerazione ne fa col suo LATINO MACCHERONICO Folengo. Croce, Lineamenti d’na logica. La storia come il resultato dell'arte e della filosofia. La retorica di Cavalcanti. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de'Ferrari. Poetica d' Aristotele vulgarizzata, e sposta per Castelvetro. Riveduta, ed ammendata secondo l'originale e la mente dell'autore. Stampata in Basilea ad istanza di Sedabonis.] la logica, di cui olire un largo, minuto, chiaro riassunto. Naturalmente, la prima ci mette sott'occhio le CATEGORIE SINTATTICHE E MORFO-SINTATTICHE, la seconda le grammaticali. Della rettorica di Cavalcanti ci riguardano più direttamente il libro della dialettica, e quello dell'elocuzione. Le vie del persuadere riassumeremo quanto più brevemente è possibile sono tre. Provare con argomenti, muovere l'auditore -- o IL RECETTORE, dato che l’emissore puo ussare gesti – GRICE -- con passioni -- la prottetica di Grice: influencing and being influeced -- ; procacciarsi fede e favore da lui con quella maniera di parlare, la quale nomina costume. Di qui è manifesto, che questa facultà è quasi un rampollo della dialettica e di quella facultà la quale il LIZIO chiama civile. Le persuasioni sono artificiose e SENZA ARTIFICIO – Grice, “Those spots mean measles – Grice’s FROWN. L’artificiose si dividono in argomenti, affetti, costumi. Per trattar d’esse convien considerare quattro cose: la forma, la materia, i luoghi, il modo di sciorre gl’argomenti. In ultimo le sentenze. Argomento è ragione colla quale si prova una cosa dubbia; argomentazione è espressione dell'argomento, ed essa forma che gli si dà. Conclusione è quello che con argomento viene provato e manifestato. Ora, perciò che la retorica, quanto agl’argomenti, dipende dalla dialettica e gl’istrumenti, con i quali ella argomenta, e che come suoi propri le sono stati assegnati, rispondono agl’instrumenti della dialettica, e da quegli derivano: e' pare, che non si possa dichiarare bene la forma degl’argomenti retorici, se quella dalla quale questa ha origine, prima non si dichiara. Quest’inclusione dei principi logici nella rettorica è giustificata da Cavalcanti colla considerazione che IL LIZIO ne tratta separatamente, perchè i suoi libri della logica sono ben noti, mentre non ha ancora, ch'io sappia, la nostra lingua parte alcuna della logica, o dialettica, che dire vogliamo. Le maniere dell'argomentazione sono due: il sillogismo e 1'induttione, donde discendono l’entimema -- ragionamento implicito di Grice -- e l’esempio, che, secondo Aristotile, sono propri della rettorica. Il sillogismo categorico o assoluto si fa di proposizioni assolute. La proposizione assoluta è un parlare il quale afferma o nega qualche cosa [Non è perfettamente esatto. Per lo meno s’ha già la Loica di MASSA (si veda). In Venezia per Bindoni.] dì qualche altra, afferma quando a una cosa ne dà un'altra, come questa. “La virtù è laudabile.” Nega, quando toglie, come questa. “Lw ricchezze NON sono il sommo bene.” – Grice, “Negation and priation,” “Lectures on negation.” Quindi le proposizioni rispetto alla qualità si dividono in affermative e negative. Per quantità in iiniversali, particolari, determinate, ed indeterminate. Si hanno così queste varie CATEGORIE – kantiane --. Universali affermative e negative; particolari affermative e negative; indeterminate; determinate affermative e negative. La proposizione si compone di soggetto e di predicato (‘shggy’). Es., “L'uomo è animale.” Llhuomo è il soggetto, del quale si dice, e si manifesta l'essere animale. Il predicato è “animale,” o shaggy, che si attribuisce all'uomo, et si manifesta di lui. Il soggetto e il predicato sono i due termini –iniziale e finale -- della proposizione. Le altre particelle congiuntive NON sono termini. I termini sono semplici o composti. Semplici come uomo, arte, edifica, discorre, e in somma nomi e verbi. Composto è un parlare imperfetto fatto di più termini semplici, come questo: “l’arte della guerra”. Nella proposizione si possono trovare termini semplici e composti, un semplice e un composto, ambidue semplici, ambidue composti. Es. “l'arte della guerra” -soggetto, composto di termini semplici – “... porta ai soldati molti pericoli -- che è l'altro parlare simile, PREDICATO. Il sillogismo è una specie di parlare, nel quale essendo poste alcune cose ne seguita per virtù di quelle, una diversa da quelle; le quali sono, o universalmente, o per lo più. Vi concorrono TRE termini – Grice: Barbara --, due proposizioni, una conclusione. I termini sono maggiore – SOGGETO – iniziale --, minore (estremità) – PREDICATO, finale --, mezano (termine comune): perchè essendo il sillogismo un certo discorso, nel quale noi INTENDIAMO [Grice: intending is essential! -- ] di fare conclusione, e in quella unire l'una estremità con l'altra, non si può far questo, se noi non usassimo un mezzo, che con l'una, et con l'altra estremità ha qualche convenienza. La figura del sillogismo varia secondo la disposizione del medio. Essa è una ordinata disposizione dei termini: e ciascuna delle figure contiene più modi: e modo pare, che altro non sia che una certa ordinatione delle proposizioni: e circa la quantità, come universali e particolari; e circa la qualità, come affermativa, et negativa. Le figure sono tre: della prima, distinta in quattro modi, le conditioni sono due: l'ima che la maggiore proposizione sia universale: l'altra, che la minore sia affermativa -- Barbara; della seconda, in quattro modi, che la maggiore sia universale, et che la minore sia dissimile da quella; della terza, in sci modi, che la minore sia affermativa, e la conclusione particolare. I LATINI, come CICERONE (si veda), vuoleno estenderle a cinque, aggiungendo le prove. Ma queste fan parte delle proposizioni, o sono nuovi argomenti. L'entimema è sillogismo imperfetto, composto di verisimile, E DI SEGNI – semiotica di Eco. Aristotile vuole che esso è il sillogismo rettorico. Vi manca una proposta che è concepita mentalmente. Vi è poi, SECONDO I LATINI, il sillogismo hipotetico o SUPPOSITIVO o CONDITIONALE – da: con-dire – ‘se p, q” -- dove il legame delle assolute si fa col se e simili (o), onde le proposizioni risultano condizionali o disgiunte, e anche copulate o copulative. La condizionale dividesi in precedente e consegìiente. Analogamente si ha l’entimema condizionale. Nell’induttione le universali si conchiudono per mezzo delle particolari. Ma Aristotile le nega schietta natura rettorica. L'induttione rettorica per Aristotile è Y esempio, un modo cioè di procedere dal particolare al particolare, che si può moltiplicare e variare per affermativa, et negativa assoluta, et condizionale. Superflue, rettoricamente, sono le altre forme del dilemma ('complexio', sillogismo condizionale, congiunto o disgiunto), dell' enumeratio (entimema assoluto) e della subiectio (altra forma di enumeratio), submissio, oppositio, violaiio, collectio. Alcuni ammettono, infine, il sorite, che è una massa di sillogismi, e può esser anche condizionale. Sì come la forma, che io ho dichiarata, è la naturale, e (per dir così) pura forma degl’argomenti; così e' si può alterarla, et variarla senza mutare la sostanza, et la virtù di quella. Nel vero la eloquenza molto meno ammette (ed ecco che la natura fantastica dell'espressione non logica richiede i suoi diritti!) quella superstiziosa osservatione, e schifa volentieri ogni fanciullesca, minuta, et bassa cosa; abborrisce tutto quello, che porta seco odore di scuola, et di MAESTRO (Grice sotto Strawson), né può patire d'essere a così strette leggi sottoposta. Sì come adunque è necessario dichiarare la naturale, et pura forma de gli argomenti. Così fa di mestieri la tramutata et alterata dimostrare. E qui Cavalcanti si fa ad esporre tutta la varietà degl’esempi, spesso valendosi, come anche pel resto, degli schemi periodici del Decameron. Infine tratta della materia (il probabile, il verisimile, I SEGNI – la semiotica d’Eco), dei luoghi e del modo di scìorre gl’argomenti e delle sentenze. Basta, pel nostro argomento, riassumere la dottrina de' luoghi. Pongo i luoghi in tre gradi. Il primo contiene quegli, che sono nella sostaìiza della cosa: cioè la diffinitionc. la descrittione –cf. Grice, ‘the,’ definite descriptor --, 1' interpretatione del nome. Nel secondo pongo quelli che seguitano et accompagnano la sostanza, et sono d' intorno alla cosa; i quali, senza fare distintione di gradi tra loro, dico essere questi. Genere, spelte, differenza, et proprio, tutto, parte, numero di spetie, et di parti, overo divisione, forma, fine, causa efficiente, materia, effetto, uso, generatione, corruilioìie . adherenti, luogo, tempo, modo, congiogati. Nel terzo grado sono i luoghi presi di fuore, et disgiunti dalla cosa, sì che sono massimamente estrinsechi: e questi sono il simile, la proportione, il dissimile, i pari, il più et il meno, i contrari, i privativi, i rispettivi, i contraditlo?i, i ripugnanti, l'autorità, la transuntione . Quanto all' elocuzione, Cavalcanti dichiara di presupporre e di non voler replicare le cose che nella Grammatica di questa lingua lussino dichiarate, o si dovessino ancora (non era dunque molto sodisfatto delle grammatiche già compilate) più esquisitamente dichiarare circa la nettezza, et l'altre conditioni del regolato parlare . Ma già questa presupposizione dimostra, dato il fondamento di tutto il sistema, l' inscindibilità anche di rettorica e grammatica. Muove perciò dalle parole sole, che divide in proprie e improprie e, seguendo i grammatici, in animate e inanimate; tratta della composizione delle parole, che, specialmente rispetto al suono sono alte, basse, dolci, aspre, pigre correnti ; ma io non intendo far qui una fastidiosa e quasi fanciullesca (per dir così) disamina di lettere, sillabe, parole (era stata già fatta e minuziosa da Bembo, da Tomitano, da Lenzoni e da altri). Si trattiene perciò di più su quel che nella continuazione del parlare si richiede, circa 1" l'ordine e la commissura delle parole l'una coll'altra; 2" i membri, i concisi, i periodi. Due sono i criteri principali: 1" le parole di maggior forza e significazione devono 'esser collocate prima, e le altre dopo; 2" è necessario che qualcosa divida e posi il nostro parlare. Quel che in poetica è il verso, nella prosa è il membro, un parlare, il quale finisce, o tutto un concetto separato da per sé, o tutta una parte d'un intero concetto . Quando è breve, il membro si chiama inciso o conciso: es., conosci te stesso; questa fu la rovina d'Italia. Tanto i membri che gl'incisi sono legati o disgiunti. Il periodo, quale è definito da Aristotile, è un parlare che ha principio, et fine per se stesso, et grandezza da poterlo agevolmente tutto insieme comprendere: esso Capìtolo ottavo 259 é una composizione di membri, et di concisi bene acconci a far compito e perfetto tutto il concetto, che ella contiene, come dice Falereo . Qui, fatte altre distinzioni del periodo, si affaccia a Cavalcanti un altro grave problema, che egli risolve in modo in vero acuto e, date le premesse della dottrina generale, conseguente: v òè negi Tfp> Aètjiv . Altro è invece il quesito da risolvere, ed è precisamente questo: se le voci del verbo chiamato comandativo da grammatici possano ricevere il significato del pregare, si come si sa, che ricevono quello del comandare (l). E il Castelvetro lo risolve affermativamente, anzi affermando che quanto al significato tra le voci del verbo del modo chiamato da grammatici comandativo, e tra le voci del verbo chiamato desiderativo non vi è differenza alcuna. E qui richiamandosi a quanto ha già detto nella sua giunta al trattato de' verbi di messer Pietro Bembo , si fa a spiegare come la sospensione della certezza dell'atto, 0 della privatione , quindi il modo del desiderio e della preghiera (desiderativo, ottativo), si ottiene in due maniere, o manifestando i due sentimenti (del desiderio e della cosa desiderata) o uno manifestandolo e l'altro no: Ami io o Priego dio, acciocché io AMI, valgono la medesima cosa. Protagora, invece di vedervi una sospensione, vedeva nelYàeiòe una disposisione, mentre vi si può vedere e l'una e l'altra, il che è affar di grammatica. E confuta un altro difensore di Omero, Eusthathio, che intende Y àride come incitamento, perchè si comanda al minore, si conforta, o s' incita l'uguale, et si priega il maggiore , e nel comandativo non si ha determinazione di certezza, ma pure lo loda perchè mostra, meglio d'Aristotile, d' intendere e riconoscere il vigore del comandativo. La questione della funzione espressiva de’modi de’verbi è risorta anch'essa di recente con rinnovate teorie grammaticali. Ma la definizione di essi s'è dimostra inseguibile, perchè se può esser vero che, p. es., il CONGIUNTIVO – cf. Grice, INDICATIVE conditionals -- esprima il pensato, non è vero l' inverso, che cioè [Crediamo superfluo rilevare qui l'acutezza onde Castelvetro pone il problema, meglio che non abbian saputo i moderni editori d'Aristotile, non escluso Barthélemy Saint-Hilaire. La questione sollevata da Protagora, per quanto sottile, è di grammatica, e il Castelvetro l'ha risoluta colla grammatica e certo non meno acutamente di quanto avrebbe saputo fare un qualsiasi moderno credente nella grammatica. Sicché, per un certo rispetto, si potrebbe dir di lui, quel che è stato detto di filologi moderni, che ha ridotto la grammatica da muro di bronzo a un sottilissimo velo, in cui. basti soffiar dentro per distruggerlo, senza più adoperare il piccone: merito non piccolo, certamente.] il pensato si esprima sempre col congiuntivo. Ed è il problema di tutta la grammatica: dall'estetico al logico è lecito il passaggio, ma non è lecito ripassare dal logico all'estetico, e dare una funzione espressiva alla categoria ottenuta con una elaborazione logica dell'estetico e relativo annullamento dell'espressione. Neil' iniziare l'esposizione delle parti della favella poste da Aristotile (elemento, sillaba, legame,, nome, verbo, articolo, caso, diffinitione), Castelvetro fa una prudente dichiarazione preliminare, che cioè le cose di che si ragiona nella poetica possono anchora essere communi alla prosa, ciò è alla ritorica, o anchora ad altra arte, et ad altri, che a poeti, come alla grammatica, et a coloro che imparano a leggere: e su questa distinzione torna più spesso ad insistere, mentre altra volta non tralascia d'avvertire che queste differenze (delle vocali e delle consonanti) da quella della lunghezza, e della brevità in fuori pertengono alla compositione (prosa), et non a l'arte versificatola; e che versificatola e poetica non sono arti disgiungibili, il che menerebbe ad ammettere, ciò che per lui non è, potersi un poema comporre in prosa. Castelvetro sente vagamente il carattere intuitivo della parola, ma la concezione fornialistica gl’impedisce di penetrarlo e assumerne coscienza. Onde anche le infinite e minute distinzioni. Quelle parti della favella egli classifica come SIGNIFICATIVE, non significative – “pirot” --, divisibili e indivisibili, ricostituendole poi in tre gruppi: significative e divisibili (diffinitione, verbo, nome, caso); non-significative e divisibili (articolo – “the” – cf. “THE THE” Grice, ‘formal device’ --, legame, sillaba); non-significative e indivisibili (elementi). Divisi gl’elementi (lettere) in vocali e consonanti, classifica le une: per quantità di tempo; per diversità di snono: di spirilo; di acce?ito; di preferenza; di nome (osservando che questa consideratione tocca ne alla verificatola, ne alla compositione, ma alla grammatica, et a colui che insegna a leggere); e le altre: 1" per siniplicità, et compositione; per cominciare, et finire la sillaba; CROCE (si veda), Siile, ritmo e rima, in La Critica. La definizione, che, correggendo quella d'Aristotile ( OTOi%£tov /iri' inni' tp jteqì èQfir}veiag {Part.). Su questo punto essenziale s’osserva, seguendo CROCE (si veda), che Aristotile ha intuita la natura fantastica delle proposizioni non-logiche, ma che non riusce a separare la funzione linguistica dell’espressioni dalla funzione logica, il che lo conduce a gettare le fondamenta dell'estetica come è intesa modernamente. Né purtroppo Castelvetro riesce a vedere nel grave problema più chiaramente d’Aristotile. Ma è suo merito l'averne vista tutta l'importanza e l'averlo riagitato. Da questo punto fino alla fine della sposizione della terza parte della Poetica (Particelle) la trattazione esce dal campo strettamente grammaticale per entrare nel dominio particolare della teoria dell’ornato, che non c'interessa che indirettamente e per particolari punti di vista (p. es. pel barbarismo e l’aggiunto). Onde ci fermiamo nella persuasione d'avere sufficientemente dimostrato, esponendo, in ispecie, le teorie di Cavalcanti e di Castelvetro, che il problema delle categorie grammaticali e sintattiche è sebben fuori della grammatica propriamente detta, ampiamente e intimamente, per quanto i tempi lo concedevano, trattato: sicché tutti gli schemi grammaticali si può dire che sieno stati illustrati nelle loro origini e nelle loro funzioni, e non solo gli schemi, sì grammaticali che logici, ma tutte l’altre classi di accidenti grammaticali: il caso, la persona, il numero, il genere, il modo, il tempo, ecc. Il punto di vista generale rimane, s' intende, l'aristotelico, cioè il logico. Ma anche in questo, non che nel fatto stesso d'aver ripreso il problema fondamentale della grammatica, è un progresso. SI PREPARA LA VIA ALL’ELABORAZIONE DELLA GRAMMATICA RAZIONALE O FILOSOFICA alla Groce. E al medesimo fine e coi medesimi mezzi forniti d’Aristotile, riuscivano i critici della grammatica LATINA, BORDONI (si veda) Scaligero e SANZIO (si veda). La divampante polemica tassesca, attirando sopra di sé o le attività critiche o l'attenzione curiosa della maggior parte de' letterati d'Italia, non è l'ultima cagione per cui, smorzandosi le minori polemiche intorno agl’avvertimenti di Salviati e alle questioni linguistico-grammaticali, gli eruditi e i grammatici sono come distratti dall'opera di legiferazione del volgare, o meglio dalla continuazione d'un lavorio ormai secolare a cui per forza d' inerzia e per quel consenso che sempre viene accordato alla tradizione forse avrebbero, in mancanza d'altro, potuto attendere. Cade qui in acconcio un' osservazione già stata fatta da altri a proposito della smoderata letteratura dantesca contemporanea. Vi è in ogni periodo storico una folla di spiriti inerti e oziosi, benché nelle loro ilia ca Una sommaria esposizione degli studi e delle compilazioni di lingua, di grammatiche e di vocabolari nel Seicento, come complemento del suo contributo alla storia della critica, ' La critica letteraria nel sec. XVI ', diede in Ricerche letterarie, Livorno, 1897, pp. 2S8-312, F. Foffano, che, col Vivaldi, fu dei pochissimi a rivolgere l'attenzione su questi prodotti letterari. 1 Su questa e le altre, U. Cosmo, Le polemiche tassesche, la Crusca e Dante sullo scorcio del cinque e il principio del seicento, in Giorn. st. d. leti, il. (:,j Croce, // monoteismo dantesco, in La Critica. nifestazioni esteriori sembrino molto attivi, che ha bisogno di gettarsi sopra l'argomento di moda e sfogare in esso un' inutile avidità di sapere: dantisti oggi, manzoniani ieri, puristi ier l'altro, arcadi in tempi meno recenti, lettori accademici, legislatori del bello, grammatici in più lontane età. Tra il cader del Cinquecento e gli albori del Seicento, oltre la tassesca e quella non mai interrotta della lingua, più altre questioni tenevano agitata la repubblica letteraria, che ben rispondevano allo spirito che si rinnovava, a quel bollor di vita, che potè sembrare e fu in gran parte bizzarra, stranamente gonfia ed enfatica, ma che pur era vita: questioni che, come le altre due specificatamente accennate, si riducevano e rientravano in fondo tutte in quella generalissima della poetica, ormai cresciuta ed organizzata in corpo sistematicamente completo e sviluppatissimo di dottrina, che dall'Italia trasmigrava per tutta 1' Europa colta. Eravamo allora in quel più acuto studio della poetica in cui la teoria, uscita ben determinata dall' imitazione, nel diventar legge, cioè nel giungere alla sua codificazione completa per esser subito poi, con lo scoppiar del razionalismo e le formule dell' ingegno e del gusto, completamente disfatta, doveva essere applicata alle opere d' immaginazione o già passate o che ora venivano spuntando: l' Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, Y Orbecche, il Pastor fido, oltre che la Divina Commedia sempre immanente nell'ammirazione e nel cuore degl'Italiani, benché cedesse ora il campo al Tasso; e ben si comprende come i dibattiti teorici, intrecciandosi naturalmente alle polemiche personali la serie dalla caro-castelvetrina già da noi discussa alle più recenti sarebbe lunghissima e attirando su di sé gli spiriti accaldati, quasi non altro da fare lasciassero ai letterati in questo campo di critica, cioè nell'unico campo della critica allora aperto, che la parte d'attori o di spettatori appassionati nel gran torneo schermistico. La grammatica, che dalla poetica era ritenuta quasi vile strumento meccanico, cioè dunque facoltà considerata assai inferiore, perdeva necessariamente ogni attrattiva. Senza dire che un altro sfogatoio erane le lezioni onde risuonarono tutte le Accademie d'Italia, e specialmente ora quelle di Firenze e di Padova; e che uno sfogatoio anche maggiore sarebbe stato tra poco la prima edizione del vocabolario dell'Accademia della CRUSCA, su cui si dovevano versare in tutti i secoli posteriori tanti fiumi d' inchiostro. Capitolo nono 269 Ma all' infuori di queste circostanze clica taluno potrebbero sembrar troppo esteriori ed estranee al movimento grammaticale, due altre intimamente con esso connesse lo attenuarono in questo periodo: 1" l'ordinamento scolastico; l'essersi detto quanto s'era potuto dire in fatto di grammatica; cioè da una parte l' essersi con le ricerche e sistemazioni del Salviati conchiuso il vero periodo produttivo delle osservazioni delle redole, dall'altro il non schiudersi ancora le scuole all'accoglimento, non già del volgare, ma del suo codice grammaticale. In sostanza quella che fu detta, ma, come altrove accennammo, in fondo non fu, la reazione del volgare contro il predominio tirannico del latino, si era affermata inalberando con la ferma mano del Bembo il vessillo dell'uso trecentesco specialmente petrarchesco per la poesia, decameronico per la prosa, e sotto quel vessillo e con quel duce aveva lottato ostinatamente e finendo col trionfare, per tutto il Cinquecento: antibembeschi più o meno valorosi, più o meno coerenti, non eran mancati; ma, di contro ai comuni avversari, cioè i pedanti del latinismo, gli umanisti bastardi e in ritardo, la lotta era stata più o meno concorde, e l'aveva animata un medesimo spirito di modernità e d' italianità, e, felice espediente o necessità storica che fosse, il segreto della vittoria era stato appunto quell'essersi eletto a rocca di difesa un sicuro punto strategico, il Trecento, donde si poteva fronteggiare l'esercito del classicismo antico senza perder dietro sé le schiere dei novissimi soldati dell'arte moderna. In altre parole, la causa del volgare si sarebbe vinta con una concessione, cioè non legiferando solo sull'uso vivo, ma ponendo a base della nuova grammatica quanto della lingua ormai vincente poteva parere ed era già consacrato da un periodo non breve di due secoli. Comunque, con quell'orientamento o in quell'atteggiamento s'era combattuto e vinto: di maniera che, da quella bibbia, in cui era stata la fede, del Decameron e con quei fondamentali principi ond' era stata interpretata, del Bembo, s' era finito di cavare, con gli Avvertimenti del Salviati, tutto il nuovo credo grammaticale, con cui si doveva e parlare e scrivere raodtrnamente e italianamente, e, quali e quanti si fossero i seguaci di codesta dottrina, quali e quante fossero state le opposizioni, le restrizioni e le riserve, il certo si è che ormai tutto si poteva • msiderar come già detto, dimostrato, codificato, e nulla rimaner di nuovo da poter dire e fare in quel campo: come succede quando una legge è sanzionata, ormai si trattava di solo applicarla: in questo si poteva desiderare come un regolamento, cioè uno strumento facile, che servisse di guida e di lume nell'applicazione; e vedremo infatti tra poco il Lombardelli, il quasi credutosi incaricato di compilar codesto regolamento, desiderare una grammatica intera, piena, risoluta e facile, la quale appena si potrebbe cavare da tutt'i detti Autori ; ma di una nuova produzione o investigazione grammaticale non si sentì, e non si poteva nel fatto sentire, il bisogno, tanto più che, come ora diremo, nei quadri dell' insegnamento scolastico la grammatica del volgare non era ancora stata ricevuta come disciplina autonoma e necessaria. Anche qui, per riflesso della più vasta guerra combattuta nel campo della cultura in difesa del volgare, anzi per un conseguente movimento strategico (si pensi che nella scuola, di natura sua conservatrice, le novità si fanno strada quando non sono più tali), s'era lottato e, se non vinto, non anco per certo perduto, non dico imponendo, ma accettando un patto conciliativo : l' insegnamento grammaticale doveva esser impartito ancora con e per la grammatica latina e per l'uso del latino, ma per mezzo, e non sicuramente in opposizione violenta del volgare: così si sarebbe poi finito col conciliare in un medesimo insegnamento l'una e l'altra lingua, pur sempre tuttavia, s'intende, con lo schematismo grammaticale latino, sino a tanto che anche l' italiano non avesse avuto con la sua grammatica il suo insegnamento ufficiale autonomo, che invero per la generalità accadde assai tardi. Del resto, senza richiamarci alla più antica tradizione dell' insegnamento rettorico de' dettatori bolognesi e di Dante stesso, che potè esser maestro, se non di grammatica, di rettorica volgare ne' suoi cadenti anni ravennati, né alla meno antica de' lettori quattrocentisti dello Studio fiorentino disputanti anche di grammatica volgare intorno all'arte delle tre Corone, basti il ricordare qui un fatto già accennato da noi come prova d'un'altra dimostrazione, che cioè, vale a dire nel primo vero affermarsi della grammatica del volgare, e un anno o due prima di quell' imbelle e non estremo attacco del convegno bolognese in contradittorio preparato e fallito anche perchè non preso sul serio a' danni dell'italiano, un anonimo grammatico latinista, che, se è vera la congettura dello Zeno, del vetusto Donato portavaanche il nome, dato che fosse quel Donato, veronese, che s'era distinto nella pubblicazione di altrettanti lavori latini e greci col medesimo tipografo, non s'era peritato di stampare una Gramatica latina in volgare , invocando, si badi bene a questa assai eloquente circostanza, invocando, dico, perdono, se non ivi gli era riuscito di servare tutte le regole e osservazioni della lingua volgare: Avete già veduta rettorica in volgare, aritmetica, geometria, astrologia, medicina, filosofia, teologia, ed altre innumerabili scienze: avete veduta eziandio gramatica della lingua volgare: non vi rincresca vedere ancora questa della Ungila latina, non forse men necessaria di quell'altra. E se per avventura, troverete non aver lui [l'Autore] servate tutte le regole ed osservazioni della lingua volgare; perdonategli, perciocché non la volgare gramatica, ma la latina vuol insegnarvi hi parlar volgare C). Opera nuova questa non era, come l'anonimo autore non senza pur legittima compiacenza, asseverava: poiché di grammatiche latine-volgari in volgare, come anche latine-francesi in francese, argomentammo essersene divulgate necessariamente, sebben poche, nientedimeno fin dal sec. XIII: nel sec. XV, nel pieno rigoglio dell'umanesimo, codeste grammatiche latino-volgari, salvo rarissime eccezioni, s'era tornati a dettare naturalmente in latino: il che spiega il vanto dell'anonimo cinquecentista: ma sì era nuovo lo spirito e l'atteggiamento con cui la pubblicava, e che era quello di chi pur aveva e non poco da concedere così presto al volgare che veniva imponendosi perfino nei penetrali più intimi del latino, cioè nella sua grammatica, come più volte vedemmo. Per entro il più maturo Cinquecento numerose prove si potrebbero raccogliere di altrettali, ora più ora meno ampie, concessioni e nei dibattiti e nei trattati e nelle scuole, che per amore di brevità e perchè le istituzioni scolastiche non sono per l'appunto l'oggetto diretto della nostra ricerca, noi tralasceremo: ma non senza averne addotte alcune poche di età diverse quasi a stabilire le pietre miliari d'una lunga via che doveva condurre alla logica risoluzione d'un così complesso problema. Ne ho data una di poco posteriore al primo quarto del secolo. Verso la VI qui. La grammatica della lingua romana in volgare, assai più nota e divulgata, di Priscianese.] metà e poco prima d'essa, Fabrini da Fighine così annotava un luogo del Sacro regno, da lui di latino tradotto in volgare, del Patrizio: Discostandomi un poco dall'opinione del mio Patritio, dico che non manco ne la volgare si debbe affaticare , perchè tutti che s' hanno a dare a le scienze, debbono imparare prima bene la grammatica volgare, cioè della lingua loro (:), osservazione parsa fortissima al Gerini, memore del luogo del Varchi, in cui è affermato l'assoluto divieto, a cui non si mancava senza esser puniti, di servirsi del volgare nelle scuole, e del De liberis recte instituendis del Sadoleto, dove non si fa alcun cenno della lingua italiana (s). Se non che questo silenzio e quello stesso divieto che cos'altro dimostrano se non la forza irresistibile del volgare? Nel terzo quarto di secolo, e precisamente, una prova più forte ce la fornisce quell'arguto libretto, degno d'esser raccomandato ancor oggi a maestri di latino e di italiano, che va sotto il nome di Aonio Paleario, uno degl' interlocutori del Dialogo, anzi l'interlocutore, che, biasimando le false esercitazioni de' grammatici, addita sull'autorità di CICERONE (si veda), i sani precetti, dal titolo // graviatico ovvero delle false esercitazioni nelle scuole. L'operetta è diretta agi' insegnanti di latino e a condannare il metodo di chiosare il latino col latino già lamentato da Cicerone, e col quale in luogo delle buone, e proprie parole, che aveva usate il buon Poeta, dichiarando così, [il grammatico] poneva le non proprie, e non idonee (p. 37); così, cioè sosti I ' De la Teorica della lingua dove s'insegna con regole generali et infallibili a tramutar tutte le lingue ne la lingua latina . In Venetia, appresso G. B. Marchio Sessa et fratelli, Appresso Nicolini). Nella deci, a Cosimo de' Medici accenna a una. pratica della lingua da lui fatta, che è un volume grandissimo. Il canone del Fabrini si riassume in queste sue parole della medesima dedica: Non trovo né trovai mai, né il più fedele, né il più dotto, né il più pratico consigliere che la sperienza . La Teorica è una bella sintassi de' casi con altre regole concernenti i gerundi, (piai è stata poi esposta recentemente ne' volumetti tipo Gandino. In Venezia, appresso Domenico e Giov. Battista Guerra, fratelli; ma la prima edizione è del 47. (J) Gerini, Codesto libro fu (rad. da 1. Montanari con annotaz., Ili ed., Parma, Fiaccadori, 1S47. (4) Venezia: ma io ho l'edizione perugina del Costantini, MDCCXVII. Capitolo nono 273 tuendo ad Arma virumqiu amo ' Ego Virgilius canto bella et Aeneam illuni hominem fortissimum ', come farebbe chi, volendo chiosar la sentenza onde s'apre il Decameron, ' Umana cosa è aver compassione agli afflitti ', dicesse 'è, existe, appare: cosa, una faccenda, una impresa, una bisogna, umana di uomo, o mortale, o di mortale, aver compassione, aver misericordia '. E qual metodo suggerisce il Paleario? La parafrasi in volgare, la versione e la retroversione, cioè il metodo comparativo che importa lo strumento e l'uso della grammatica e della lingua volgare. Né, si badi, perdendo di vista gl'interessi del volgare, anzi intimamente collegandoli con quelli del latino, in modo che gli uni non si favoriscano senza insieme favorir gli altri. Voi dite , si fa dire Aonio dal suo interlocutore, che il modo che tegniamo, nel leggere e nel dichiarare le lezioni latine, farà, che non mai i fanciulli impareranno la lingua latina: e l'epistole, che noi diamo volgari, acciocché le facciano latine, faranno, che non mai sapranno scrivere non solamente un'Epistola latina, ma non pure una leggiadra lettera volgare (p. 16), per poi così ammaestrarlo: dichiarate le lezioni latine con la lingua volgare, e così esercitate i fanciulli che repetano volgarmente, e non corromperete la lingua latina, ma in un medesimo tempo insegnerete loro la copia, e la proprietà di due lingue, di maniera, che in breve potranno verissimamente scrivere coll'una, e coll'altra, ed avendo imparato da voi, potrannoi giovanetti esercitarsi in tradurre l'epistole di Marco Tullio, ed essendo loro mostro dal Maestro le maniere, ed i modi di dire diversi, scriveranno da loro stessi lettere, ed orazioni latine, e toscane leggiadrissimamente (p. 52). E contro l'uso, prevalente anc'oggi nelle nostre scuole, delle traduzioni dal volgare in latino, così esplicitamente ammonisce, dandone lumi anche per l'arte dello scrivere in italiano: l'idioma della lingua latina è molto diverso dal nostro volgare, ne è maggior sciocchezza al mondo, che voler esser volgar latino, o latino volgare. Da questi errori sono nati gli stili falsi Toscani del Polifilo, e gli stili falsi latini, o moderni, di che è impestato il mondo: a volere scrivere dunque leggiadramente nell'una, e nell'altra lingua, bisogna avere tuttavia l'occhio, e la mente a questa diversità, ed oltre alle parole di tali lingue, i modi, le maniere, i tratti, le grazie, gli ornamenti, li quali si mostrano sparsi negli scritti degli buoni Autori, non altrimenti, che nelle più serene notti le stelle, nel Cielo. E, additati i cattivi effetti che nascono e permangono per tutta la vita da codeste false esercitazioni, acutamente osserva: e quello, che è cosa maravigliosa, se alcuni si voltano, e si danno alla miglior letteratura, avviene, perchè sono di eccellentissimo ingegno, il quale essendo avvezzo in tutte le azioni sue a seguire la ragione, come verissima guida, veduto, e conosciuto il vero, si, muove con grande impeto, e spezza, rompe e fracassa ogni velo, ogni falsa opinione, che teneva occupato e prigione l'animo. Laonde camminando col lume della ragione per nuova via, fanno cose miracolose. E senza tuttavia abolire addirittura l' insegnamento della grammatica che riduce a' suoi veri termini e contro cui arriva a formulare questo rivoluzionario principio, " non fidarsi mai di regole di grammatico alcuno, manifestamente dimostra che, se un esercizio giova, questo è di leggere gli scrittori e in essi studiare le regole. Osservato che giovinetti riescono a scrivere boccaccescamente e alcuna donna a scrivere petrarchescamente, domanda: Chi insegnò a quella Donna? alcun maestro di grammatica le dette il Tema?... Chi adunque le insegnò, altro che la diligenza nel leggere, ed osservare le parole, conoscere i concetti, dilettarsi dell'armonia, de' numeri, ch'empiono le orecchie, accendono l'animo all' imitare?. Non è peraltro per illustrare il buon metodo consigliato da lui che noi ci siamo qm indugiati intorno alle vedute del Paleario, ma specialmente per dimostrare coni' egli, discorrendo di precettistica grammaticale latina, ha continuamente il pensiero al volgare, senza il (piale, non era ormai più possibile 1' insegnamento classico e al quale, ben s'argomenta, miravano le scuole stesse come a disciplina in cui non era più lecito ormai non erudire i fanciulli. Un altro pedagogista tutt'altro che moderno, Meduna di Motta [L'ufizio del gramatico, come poco dianzi elicevamo, è insegnare con la lingua che ha propria, e che è comune a lui, ed agli scolari; conoscere le parti dell’orazione, e variare, o declinare, come voi dite, le parti declinabili, e congiungere attamente le parole insieme sempre avendo l'esempio avanti cieli ì buoni autori, etc. Abbiam visto il Lapini scriver in latino la grammatica del fiorentino. Ricordisi anche la Contesa di cui si fece cenno. di Livenza nel Friuli, in una sua opera in tre libri intitolata Lo scolare nel quale si forma a pieno un perfetto scolare, discorrendo della Grammatica, che chiama, secondo l'antichissimo canone, madre di tutte le altre discipline, e che, secondo lui, impone leggi all' ortografìa, alla prosodia, all' etimo logia, alla sintassi, alle figure, ai tropi, alle sentenze, all' 'analogia, raccomanda egualmente lo studio teorico e l'esercizio pratico, il primo sui testi antichi e moderni quali il Valla e il Perotto, ma aggiungendo che non si sarà grammatico senza aver imparato a memoria tutto Donato con le regole di Guerino, per lasciar da un lato i Cantatici e i Mancinelli • una vera indigestione, insomma, di grammatica latina d'ogni età e d'ogni fatta. Eppure non dimentica la lingua volgare né di raccomandar in proposito le Prose del Bembo, le Osservanze del Dolce, le Annotazioni del Ruscelli, sparse, e la Grammatica del Castelvetro C), cioè tutti i veri grammatici stati in voga nel Cinquecento fino all'anno in cui egli scriveva e venivano in luce gli Avvertimenti del Salviati, che evidentemente ancora egli non conosceva. Anche l'Antoniano, che il Castelvetro chiamò miracoloso mostro di natura , ne' tre libri dell' Educazione cristiana de* figli ', dove consiglia di liberar i fanciulli dalle molestie della grammatica, di cui non intendono i termini, facendogliela apprendere indirettamente sugli autori, non riprende qualche studio della lingua volgare e a tal uopo consiglia le versioni. Finalmente, per arrivare al tempo in cui ci troviamo con la nostra narrazione, due altri notevoli esempi dovrei addurre, quello del Possevino, autore di un De cultura inge?iiorum e l'altro del perugino Crispolti, autore di un Idea dello scolaro che versa negli studi (fi), entrambi scriventi nel 1604, per confermare come la tradizione che Venetia, Fachinetti, -S ',yr. Cfr. Gekinm. op. cit., II, 405. Correzione all' Er colano cit., p. 54. In Verona, per Bustina delle Donne, 15S4. Il Castelvetro lo dice scolaro di L. G. Giraldi; il Varchi, nell'Ere ola no (ed. cit., p. 423 e l'annotatore delle Opere di Sp. Spero?ii (tomo II, p. 2ir) lo dicono scolaro del Caro, ma il Castelvetro ( Correa., in Ercol. cit., p. 32 lo nega. Cfr. Gkrini. Venetia, Ciotti. Cfr. Gerini, Ant. Possevino scrittore educativo, in L'oss. scolastico, Perugia.] si ricollega a quell'anonimo del 1529, fosse andata ormai mettendo sempre più salde radici. Tuttavia e concluderò così questa lunga parentesi l' insegnamento della grammatica volgare non era peranco ufficialmente riconosciuto , né aveva perciò programmi e testi suoi, se anche indirettamente venissero ad essere svolti gli uni e consigliati gli altri: e al consiglio bastavano i grammatici cinquecentisti or or nominati, aggiuntovi naturalmente il Salviati. Queste le varie cause onde secondo noi in questo periodo, che dal Salviati va al Buommattei e al Cinonio editi che il primo di questi due cominciò ad attendere all'opera sua non leggera né facile fin dal 1612, la rigogliosa fioritura grammaticale cinquecentesca s'arrestò; ma senza, naturalmente, avvizzire ne intristire del tutto. Non foss' altro, se anche non furono propriamente grammatici nel senso ristrettissimo e compiuto della parola, avemmo due diversamente benemeriti e orientati cultori delle discipline grammaticali, entrambi senesi, come senesi furono in questo momento ben altri partecipi del movimento linguistico, quasi l'accampamento di Firenze si fosse attendato a Siena, che di valore per tutto il Cinquecento aveva mostrato notevoli esempi, basti ricordare il massimo del Tolomei: Orazio Lombardelli, cioè, e Celso Cittadini: l'uno, precettista pur esso d'una parte della grammatica, 1' ortografia, la pronunzia e la punteggiatura, che, riassumendo e vagliando i meriti di precedenti grammatici e vagheggiando un nuovo tipo di grammatica più nei rispetti dell'assetto esteriore che del contenuto legislativo, additò, come conscio de' bisogni d' un' educazione intellettuale più vasta e moderna per gli effetti della produzione letteraria, se non un piano di riforma degli studi, certo un sistema più organico e complesso dove fossero mostrati nella loro rispettiva funzione i fonti dell'arte, gli strumenti, i metodi, i fini; l'altro, filologo per proprio o per altrui merito, che, plagiario o no, dimostrò d'intendere il valore delle indagini dei Tolomei, dei Castelvetri, dei Bartoli, divulgando i principi e gli elementi di quella gramma (,'j Una Cattedra di lingua toscana tu istituita, come s'è visto, dal Granduca: a Siena ne fu primo lettore il Borghesi nel 1589. Col decreto del 1571 ricordato dal Borghini il Granduca ordinò che fossero compilate regole della lingua fiorentina da leggersi in tutte le scuole.] tìca storica, che, già rosi ben promettente nel suo giovanil rigoglio e assurta già .1 fastigi veramente impensati, senza per altro che quei cultori si stringessero scientemente come pochi ma saldi anelli di una catena in una comune tradizione, doveva poi, a maggiore danno, almeno per tutto il Seicento, quasi miseramente perire o giacere dispetta e scura, di contro alle in gran parte inutili, infeconde e noiose logomachie intorno al vocabolario della Crusca. Il Lombardelli, anch'esso già da altri lodato di non aver mai disgiunto nella sua precettistica e nel suo insegnamento gli studi del volgare da quelli del latino, non fu davvero poco ferace nella sua vita che non dovette esser lunga: poiché delle sue opere, elencate tutte da lui stesso ne' suoi Aforismi scolastici^, le grammaticali o che con la grammatica hanno una certa relazione se non altro per il metodo, a prescindere dalla parte anche da lui presa alla polemica tassesca, sono nientemeno che dodici. le più d' indole strettamente ortografica o ortoepiche, altre quasi lessicali, e quasi tre pedagogiche o didattiche: di tutte la più notevole è naturalmente quella dei Fonti Toscani. Della principale di quelle ortografiche, V Arte del puntargli scritti edita nel 15S5, ma di cui aveva già dato un saggio molto bene accolto fin dal 66, sarebbe detto tutto quando, ri Gerini. In Siena presso Salvatore Marchetti, 1603 (sono 887, distribuiti in 68 distinzioni). \z L'elenco è ripetuto in Gerini. Quelle che più direttamente c'interessano sono: I. Dei punti e degli accenti, clic ai nostri tempi sono in uso tanto appresso i Latini quanto appresso i Volgari. In Firenze, per li Giunti, 1566. II. L'arte del puntar gli scritti, formata ed illustrata, Siena, presso Bonetti. Memoriale dell'arte del puntar gli scritti. In Siena, Bonetti, 158S (Verona, 1596). IV. La difesa del zeta (già cit.). V. / riscontri grammaticali. In Firenze, due volte e in Siena. VI. La pronuncia toscana. In Fiorenza, presso il Marescotti. VII. L fonti toscani. In Firenze, appresso Marescotti (cfr. Conte Silvio Feronio, // Chiariti, Dialogo, ove trattandosi de' fonti toscani d'Orazio Lombardelli, si va ragionando d'altre cose. In Lucca, presso il Busdrago. Le eleganze toscane e latine. In Siena, 1568, e in Firenze, Marescotti, 1587. IX. LI giovane studente. \\\ Venetia. Gli aforismi, S conosciutane l'abbondanza e la metodica trattazione della materia, si fosse ripetuto l'aforisma a cui egli s' ispirò nel forviarla ed illustrarla: lingua fiorentina in bocca senese, principio contradittorio, col quale egli cercò di trovare una via conciliativa tra il primato fiorentino e il diritto che Siena s'arrogò e le fu riconosciuto d'emular Firenze e che esprime, come vedremo, .issai bene uno de' nuovi aspetti della rinnovantesi critica letteraria; ma, a lode del libro, occorre aggiungere che ha il merito d'aver registrato, al cap. 4 della parte prima, per ordine alfabetico, tutti i precedenti trattatisti italiani e latini della materia con l'indicazione delle opere o de' punti particolari ih cui ne trattarono: tra i latini, Aldo Pio Manuzio in calce libri quarti grammaticarìim institutionum, il Valla al cap. 41 lib. YI Elega?iliarum, lo Scoppa, il Vives nel suo De ratione studii; tra gl'italiani, il Franci, il Firenzuola, Cavalcanti (5'1 della Rettorica), il Lenzoni (3a giorn. della Difesa della lingua fior, e di Dante), il Tolomei (in una lettera a m. F. Benvoglienti), V Alunno, il Trissino, il Ruscelli (in Del modo di comporre in versi e sopra il Furioso), il Salviati, il Castelvetro {Sposiz. della i& particella della V parte della Poetica di Aristotele), il Dolce, il Toscanclla, il Giambullari, il Bembo, il Neri Dortelata {Osservai, per la pr. por.). Quanto al contenuto, basterà osservare che, premesse alcune avvertenze per intender più agevolmente l'opera e servirsene con frutto, circa le persone a cui si aspetti la cognizione e il buon uso de' punti (maestri, stampatori, scrittori, pubblici ufficiali), sulle cagioni de' grandi abusi, che nell'arte del puntar si passano (3), sugli autori che hanno scritto de' punti (4), sulle stampe che sono più corrette nel buon uso de' punti, passa alla descrizione del punto trattando del trovamento, della necessità, e dell'ordine naturale de' punti, degli Autori che rendon testimonianza dell'autorità de' punti (3), della convenenza, e disconvenenza, o vero della comunità, e differenza, che si ritruova tra' Punti '4); indi a discorrere del sospensivo (la nostra virgola), trattando del nome, figura, ordine, necessità, descrizione, regole con appendici e eccettuazioni: poi del mezopunto, ;, del coma, :, (VI) mobile (.), interrogativo, affettuosa (la nostra esclamazione), Parentesi, Apostrofe, Periodo. Onesti trattati di punteggiatura, più o unno completi, ]>iù ci meno polemici, accompagnarono sempre in connessione 0 no con i vari sistemi ortografici in tutto il suo secolare svolgimento la vessatissima questione della lingua, non pure a partir dai precursori senesi e fiorentini del Trissino nella riforma delle nuove lettere fino agli ultimi manzoniani, senza che ancor Oggi, .1 proposito di vecchi e di nuovi sistemi di punteggiatura (si ricordino gli esempi del Leopardi seguiti da Carducci e ancor più dal D'Annunzio parchissimo eli punti e del Manzoni che n'è invece larghissimo), non si tenti con inutilità manifesta rinnovar le vecchie diatribe, ma anche nel precedente periodo che corre dal De vulgari eloquentia alle contese quattrocentesche prò e contra le tre Corone. Vedemmo già, a non ricordar altri, il Petrarca risponder con un trattatello dell'arte di puntar gli scritti al Salutati che gliene aveva mosso questione. Ho parlato d'inutilità manifesta: poiché, risoluto ormai, come dobbiamo ritener che s'è fatto, il problema filosofico sul linguaggio con identificare l'estetica con la linguistica generale, non s'intende proprio come si chieda, per es., al D'Annunzio perchè non si degni conformarsi all'uso ormai comune e intorno al quale l'accordo s'è ottenuto così nella grafia come, s' intende, essendo l'i - .1 questione, nella punteggiatura, quasi volendolo rimproverar come d'un'inutile bizzarria o d'una posa e chiamandolo responsabile de' cattivi effetti che il suo capriccio tirannico può produrre sull'arte e sulla scuola. O non sono anch'esse e le forme speciali ortografiche e le specialissime interpunzioni d'un poeta le sue parole interiori? Egli parla con sé a quel modo, ed è illogica e tirannica quanto vana la pretesa di voler che e' parli secondo un uso astratto, cioè dica delle parole mute. Anche ne' punti è egli sempre il Poeta quale si dimostra in tutta l'originalità delle sue visioni. Mentre invece il problema non era vanamente trattato e discusso con più o meno vivo calore, quando, nel! 'affermarsi e nello svolgersi della nuova letteratura e, concedo ancora, nel romantico rinnovarsi di essa, allor che ancora la vera formula estetico-filosofica non era stata [Riguardavano, s'intende, specialmente il latino; ma, a tacer d'altro, il Borghini, come abbiani visto, ricordava d'aver visto un libro tra quelli del periodo intorno all'ortografia, della quale i nostri antichi -non curarono affatto , loc. cit. 280 Storia della Grammatica trovata, la coscienza artistica non si poteva appagare degli scarsi segni eravamo ridotti quasi al solo punto ereditati dal primo Trecento, né de' nuovi che venivano o rintracciati nell'antichissimo uso o novellamente foggiati. Nessuno di que' nostri trattati fu inutile o arbitrario prodotto da trascurarsi a chi fa la storia e delle istituzioni didattiche e dello spirito filosofico, poiché ciascun d'essi era l'effetto d'uno sforzo, d'un bisogno a cui ben si sentiva non era facile sottrarsi, quando si fosse voluto esprimere con pienezza il proprio pensiero; o meglio quando si fosse voluta schiarire e possedere l' immagine interiore del proprio pensiero. Potevano credere quei trattatisti di dirigersi al comodo pratico non pur degli apprendenti sì anche de' tipografi e scrivani pubblici; in latto essi rispondevano ai quesiti infiniti che sorgevano nella coscienza artistica de' nuovi produttori della letteratura: e il moltiplicarsi di codesti trattati, e l' ingrandirsi del loro corpo fino alla mostruosità dell'ampio volume veniva a segnar via via il loro fallimento completo di fronte alla scienza, che non conosce leggi fonetiche, né grammaticali, né, particolarmente, ortografiche o di accentuazione e interpunzione. Si noti, infine, a conferma di tutto questo, che ciascun d'essi s'eleggeva il principio che meglio e più rispondeva alla sua coscienza artistica, appunto perchè il loro senso estetico, ossia il loro particolar modo di sentire, si ribellava a ogni altra legge che in qualche modo lo violentasse nella sua libera e piena manifestazione: e il Lombardelli non cavò di sua testa il principio che è fondamento della sua dottrina ortografica, lingua fiorentina in bocca se?iese, né nel formularlo s' ispirò) come dice il D' Ovidio , al lodevole esempio di moderazione che gli era stato porto dal suo più illustre concittadino Tolomei; ma lo dedusse dal suo particolar gusto di senese, anzi di artista, quale si fosse, del suo volere e dover esser lui e non altri. Il Petrarca s'è già visto era arrivato perfino a crearsi de' segni particolari, più che d'interpunzione, di rilievo, direi quasi, e di colorimento per certi speciali atteggiamenti del suo pensiero artistico. Sui fonti Toscani, la più nota e diffusa opera del Lombardelli, ebbe già a portare la propria attenzione il D'Ovidio, che ne ] biasimò il titolo per esservi stati sotto compresi concetti disparatissimi con criterio goffamente didattico, e non ne risparmiò naturalmente il contenuto. Riconosce peraltro che il libercolo non iindegno di studio; giacchèj quantunque farraginoso e sconnesso, ha qualche importanza per la questione della lingua e per quella dell'origine, contiene qualche buon ragguaglio, e propugna con urbanità opinioni temperate e conciliative. Retto e mite per natura, quale si dimostra anche nell'atteggiamento benigno verso il povero Tasso, il Lombardelli non cadde in eccessi (l), come il Bargagli, vero separatista tra il fiorentino e il senese, né in quella violenza in cui trascese, più tardi, per esserne il capro espiatorio, il Gigli ("). Per fonti il Lombardelli intende tutte le sorgenti onde possiamo derivare rivoli e fiumi d'eloquenza toscana. Ne fa dodici categorie: la lingua latina; la voce viva dei popoli di Toscana ; le scritture del buon secolo; i linguaggi italiani; la lingua greca; i linguaggi stranieri; gli autori della teorica di nostra lingua; le traduzioni; gli scrittori di prosa moderna; io. i poeti; i prosatori scelti; e i tre sommi del Trecento. Quanto alla settima, osservisi che gli autori della teorica di nostra lingua per il Lombardelli non sono solamente i grammatici, ma tutti coloro i quali ci insegnano, come si debbia parlare, e scriver lodevolmente, con regole, avvertimenti, e precetti di Grammatica, di Rettorica, e di Dialettica, guidati anco talora, e praticati per via di Istorie e con ragioni, prese dalla Filosofia, e d'altronde (pp. 46-7). De' grammatici propriamente detti raccomanda i più recenti, designandone il grado d'attendibilità: se pur nel Dolce ha difetti, si trovan notati dal Ruscelli, se nel Bulgarino, si trovan ripresi dal Zoppio, e difesi da lui proprio e dal Borghesi. Se finalmente dal Borghesi e dal Salviati, né ho da parlar io nelle riprese dodicesima e tredicesima del penultimo fonte. Ma torno a dire intanto che per quanto appartiene a questa parte della Teorica di nostra lingua, gli ho per guide sicuris Pe' plagiari del Tolomei, in Pass, bibliogr., I, 467. Ma di plagio non si può parlare riconosce il D'Ovidio tranne che pel titolo e qualche idea e osservazione particolare. Il Lombardelli non ricorda del Tolomei solo le opere a stampa. (:) Le corr. cit. 2S2 Storia della Grammatica sime (p. 58). Ma ciò non toglie che egli non si taccia a esporre un lungo catalogo di desiderata con la più grande disinvoltura: si desidera una Gramatica intera, piena, risoluta, e facile: la quale appena si potrebbe cavar da tutt'i detti Autori. Poi un ampio Tesoro, dove sien raccolte tutte le voci attenenti al puro toscanesimo, scelte con buon giudizio tra le antiche, e le moderne, sposte con la copia, esaminate nella origine, nella proprietà, nella proporzione, o corrispondenza, nelle differenze, nelle costruzioni semplici, e nelle figure, avvivate con gli opposti, ornate degli epiteti e degli aggiunti, assicurate finalmente, ed approvate con diverse parti degli scrittori del buon secolo e de' più regolari del nostro, specialmente di quei dello ultimo fonte... Mancane un Vocabolario, non indirizzato a quei che aspirano all'eloquenza, ma alla turba, per intendere tutt'i vocaboli del Volgo e degli Antichi: e potrebbe farsi a imitazione o di quel Polluce greco, o di quel d'Anton Nebrisense, spaglinolo, e latino: poiché non ci può sodisfar la Tipocosmia d'Alessandro Citolini da Serravalle. Mancavi un Dizzionario poetico; e forse alcun altro d'altra sorte rispetto alle diverse arti e professioni.). Ci manca un Proverbiarlo cominciato già dal nostro sodo Intronato. Una sindacatila [manca] sopra a tutti i pregiati scrittori toscani antichi e moderni, come fu fatto per gli antichi da Quintiliano e Tacito in Cicerone, da Polemone in Sallustio, da altri in ( hnero e Virgilio, dal Valla in diversi (ib.). Ricordate le promesse di Vocabolari di G. C. Dal Minio, del Ruscelli, del Salviati, annunzia quelli del Persio e della Crusca: ragguaglia che Ottaviani Ottaviano suo allevato, scolaro di medicina, stava componendo la correzione degli abusi introdotti nella lingua (forestierumi, dialettalismi e idiotismi vernacoli); annunziala [Il Lombardelli era, sembra, scontento della non scarsa letteratura proverbiariesca a lui anteriore: per lo meno ignote non gli dovevano essere le varie edizioni della Civil conversazionidi Stefano Guazzo. Cfr. per questo argomento, Xovati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana dei primi tre secoli, in Giorn. si. d. leti, il., voi. XY e XVIII; e L. Boni-ioi.i, Stefano Guazzo e la sua raccolta di proverbi in Niccolò Tommaseo. In ogni modo il desiderio espresso dal Lombardelli vien ad essere una diretta conferma del tatto, dal Bonfigli affermato, che la mania per i proverbi era nell'aria. In gran parte l'avrebbe invece, soddisfatto, tra poco il Monosini, di cui s'è già discorso.] Semenza delle burle d'un suo amico, contenente centinaia di voci non mai uscite in istampa, proverbi, sbeffamenti, sentenze popolaresche. e per comodo de' forestieri, con le corrispondenze nobili, sì che un detto burlesco venga dichiarato, ad es., in dieci 0 venti modi nobili. Porge infine degli avvertimenti speciali ai forestieri" {soggiorno in Toscana; lettura delle opere grammaticali del Dolce, del Ruscelli, del Salviati, del Bembo, del Borghesi: la lettura degli scrittori antichi; la Fabbrica dell'Alunno; composizioni; traduzioni; corrispondenza con toscani), ai fanciulli toscani, alle donne, agli studenti, dottori e nobili artefic i (deplorando la scarsa cultura degli artisti!), ai notai e cancellieri, ai segretari, agli accademici, ai predicatori ('•ammaestrati prima ne' fonti della Gramatica, Greca, Latina, e Toscana, come Appollonio Alessandrino, Urbano, Demetrio, Prisciano, Emanuele Alvaro, Mario Corrado, Tommè Linacro, Agostin Lazaronio, Giovanni Scopa, il Manuzio, Anton da Nebrisa, il Ruscelli, il Bembo, il Castelvetro, il Salviati e altri), agli Umanisti, Traduttori, Poeti, Istorici e altri. Il carattere zibaldonesco del libro e quello un po' cervellotico de' principi secondo cui è stato imbastito, saltano subito all'occhio; pure di tra la farragine e delle cose e de' principi un fatto balza anche fuori che torna a tutta lode del Lombardelli ; questo, che egli, additando sì disparati modi e strumenti onde dovesse e potesse acquistarsi dalle varie classi sociali la cultura e l'arte letteraria, mostrava d'intendere che non c'è una sol via per imparare a scrivere e a parlare, e che l'intelletto va -'i-citato e nutrito non con le sole regole ma con più sorta di cibi o di ricambi. La grammatica, anzi, nel piano educativo da lui disegnato, occupa una parte molto secondaria, è una parte d'uno de' dodici fonti: ed essa stessa non è pedantesca, ma è concepita e desiderata liberale e facile. Egli non la corrode filosoficamente, ma ne attenua, nel fatto, la portata. Ed anche questo per la storia è notevole. La scarsa fede, in sostanza, in un prodotto antiscientifico, se non è indizio di senso scientifico, è certo segno di buon senso, che è base di quello. Il Cittadini, dai sommi altari della filologia a cui era stato elevato tra i profumi dell'incenso e il coro delle lodi, è caduto ìgnominiosamente a terra: e oggi non se ne pronunzia il nome, senza chiamarlo grande depredatore del Tolomei, malo affastellatore di scritti non suoi, e con epiteti consimili; ma cancellarlo dalla storia non si può. Parliamone dunque anche noi, senza più oltre incrudelire: cosa facile grazie alle diligenti fatiche d'un altro nostro valoroso corregionario, Filippo Sensi, che, per ripetere una frase del Rajna, ha i due Senesi sulla punta delle dita. Cominceremo dal riassumere del Sensi lo scritto principale. L'egregio studioso, a metter bene in chiaro i gravissimi debiti del Cittadini verso il Tolomei, rivolge primieramente uno sguardo generale alle Origini del Cittadini. Le Origini della Volgar Toscana favella si rannodano con un precedente trattato del Cittadini stesso, che reca un titolo consimile: Della vera origine, e del processo, e nome della nostra Lingua. Il Sensi stesso riconosce che qui, oltre il concetto della derivazione dell'italiano dal latino popolare, si ha un abbozzo veramente pregevole di storia di questo latino; ma quando si viene a chiarire il modo di quella derivazione, la ricerca è abbandonata sul più bello. Esaminata in confuso e come per esempio del restante l'origine de' pronomi, si rimanda al Bembo, al Castelvetro, al Salviati, ne' quali invano si cerca qualcosa di simile pel concetto e pel metodo. Nelle Origini la ricerca [Per la storia della filologia neolatina in Italia. Appunti di F. Sensi: I. Claudio Tolomei e Celso Cittadini, in Arch. gioii. Hai. (cfr. D'Ovidio, in Pass, bibliogr. d. lei/. Hai., I, 46-9; e Sensi). Le ... ecc., per Cittadini lettor publico di essa nello Studio di Siena e Censor perpetuo della medesima nell'Accademia de Filomati. App.: Salvestro Marchetti, in Siena. L'ed. di E. Gori, Siena, è detta dallo Zeno migliore della prima. (Il Vivaldi, op. cit., I, 166, attribuisce a Ercole Gori un trattato grammaticale, che io non ho potuto rintracciare. E una svista?). Le Opere di Celso Cittadini gentiluomo sanese con varie altre del medesimo non stampate furono raccolte da Girolamo Gigli. In Roma, per Rossi. Oltre i due trattati dell'origine questa raccolta contiene il Trattato degl'idiomi toscani, le Note marginali alla Giunta del Castelvetro, e le Note sopra le Prose del Bembo. Trattato della ecc. scritto in volgar Sanese da Celso Cittadini. In Venetia, per Giambattista Ciotti. Io credo che per Castelvetro debba farsi qualche riserva: la posizione del Castelvetro verso la grammatica storica non storia della lingua, si badi sia molto diversa da quella del Bembo e del Salviati, perchè, se il Castelvetro nella trattazione delle forme non adoperò il concetto tolomeiano-cittadinesco del latino popolare, dal latino in ogni modo mosse e con criteri non certo retorici. Capitolo nono 285 vi assume un aspetto, dice il Sensi, semifilo so fi co, pretendendosi spiegare la derivazione dell'italiano per via di dieci origini, senz'esser una continuazione del Trattato, rimasta cosa monca, anzi ne sono un regresso in confronto del metodo tutto analitico e storico, di cui l'autore aveva dato quel saggio. Vi si unta poi, oltre la poca corrispondenza al fine proposto, una grave sproporzione tra la parte fatta alla trattazione dell'i? e dell'0, che ricorre attraverso tutte le singole origini, e il disegno vasto che abbracciava non l'origine solo, ma questioni intorno alla pronunzia e alla scrittura del Toscano, in ogni varietà, specie nella fiorentina e nella senese, intrecciandosi o era criterio allo studio principale la fondamentale distinzione di tutto il linguaggio toscano in quattro suddivisioni, alle prime due delle quali sarebbero appartenuti i vocaboli nati dalle prime nove origini, alle altre quelli della decima: distinzione importante, perchè verte sull'origine letteraria e popolare de' vocaboli, e che sarebbe un bel vanto del libro. Sicché, senza tener conto di inconseguenze, contraddizioni e trascurarle, è da concludere che esso è un insieme inorganico di elementi greggi, un mal riuscito affastellamento delle operette inedite del Tolomei. Qui il Sensi, metodicamente si fa a considerare ($ II) codeste operette raccolte nella nota copia della Coni, di Siena, ricordando che al Tolomei, autore degli scritti da noi altrove esaminati, poco si badò, e che a nulla valse che il Benvoglienti s'accorgesse del plagio, perchè tale scoperta rimase inedita. Da quella considerazione la figura del Tolomei ne vien fuori pari, se non superiore, a ogni altra nella storia della grammatica neolatina a lui anteriore, benché da' vari materiali non si possa ricostruire quella Grammatica toscana che il Tolomei diceva di voler comporre, prima che il Giambullari ponesse mano alla sua. Forse il Tolomei avrebbe trattato in un primo libro di questioni generali, in un secondo di propria grammatica, e nel terzo, come appendice, dissertato di vari argomenti. Il Cittadini di questi materiali non si servì per ricostruire; ma volle [Poleni (cit. dal Sensii nelle Exercitationes Vitruvianae, Patavii, dice che Uberto Benvoglienti, eruditissimo, era d'opinione che l'autore del Polito fosse non il Franci, ma il Tolomei e deduceva dalla lettura delle opere inedite del Tolomei il plagio del Cittadini a danno del Tolomei, nell'opera Delle Origini.] solo plagiare: e base della sua compilazione fu il trattatello delTolomei : De"1 fonti de la Lingua Toscana. Codesti fonti (e siamo così al § III) sarebbero nove: de l'origine, de la forma, de la derivanza, de la figura, de la differenza, de la frequenza, de l'affetto, del rappresentamento, de la disuguaglianza. Il disegno, giudica Sensi, n'è ampio, ma la trattazione meschina, quasi un sommario. A ben intenderli poi occorre la conoscenza delle scritture del Tolomei parallele a' ' Tonti ', cioè il Proemio de le 4 lingue, il Ritratto de le q lingue toscane, e del relativo criterio, che serve loro di base, di due strati idiomatici, ' il bandolo ' della sua ricerca, la prima lingua essendo costituita di un fondo schiettamente popolare identico al toscano, le altre tre de' vocaboli introdotti dagli scrittori; ma le caratteristiche ne sono ben poco chiare. I confini dell'opera forse non oltrepassavano quelli della fonetica, e probabilmente era destinata a costituire la sezione preliminare della Grammatica, insieme con trattati maggiori che ne svolgevano i capitoli più importanti. ' La dimostrazione del plagio del Cittadini ', ristabilite cosi le cose, divien ora (§ V) pel Sensi assai facile. Ne sono spia, oltre la simiglianza del titolo, le aggiunte. Colpito dal ricorrere degli e e degli 0 nell'esemplificazione de' Fonti, e trattone a esagerare l'importanza, gli parve fortuna ritrovare le due dissertazioni De lo e chiaro e fosco e De /'o chiaro e fosco, e gli aggiunse nel cap. Della Differenza, nel mezzo dell'opera. Gli altri, quasi tutti, rimasero inalterati. Al I cap.. Natura, furono aggiunte le dissertazioncelle del Tolomei conservate nel ms. senese; 'qualsia miglior parlar: fosse vero o fisse vero '; ' stetti non è per forma ripigliata da ' steli latino, ma è preterito disteso ': ' Propio esser il vero J 'ocabolo toscano e non proprio '; ' De la figura agg ionia ' . Una breve giunta ebbe il cap. Figura; quello della Frequenza le maggiori a spese del trattato delle figure grammaticali, costituito di tre scritti (' Da Virtude, Virtù e da Salute non Salù ': ' Che e se ricevono il primo corrodimene) '; 'Dopo se e che con il e in si fa il corrodimento secondo '). Nella Conclusione mise il Proemio del Tolomei, e, infine, la nota dichiarazione di riconoscenza! Lo scritto del Sensi è di quelli che non lasciano adito a obiezioni e riserve: né è il caso, e tanto meno qui, di valutare la confessione fatta dal Cittadini de' suoi debiti verso il Tolomei Capilo/o nono 287 e richiamare alla mente le abitudini letterarie del tempo (che permettevano, p. es., al Giolito di prendere il Cesano e stamparlo senza chieder alcun permesso all'autore' per giudicare giuridicamente e moralmente del plagio del Cittadini, il quale lece quel che fece. Si tratta invece di vedere, .secondo noi, quel che mise di suo che qualcosa avrà pur dovuto metterci nella manipolazione o nell'uso che fece negli scritti del Tolomei, e di determinare il punto di vista donde elabori la manipolazione cioè interpretarla nel suo valore nel rispetto del progresso dello spirito critico che importa qui seguire; oltre, s'intende, alla considerazione di quanto potè il Cittadini intellettualmente operare indipendentemente dall'opera del Tolomei: si tratta, insomma, tenuto conto del plagio e del resto, di assegnare al Cittadini il posto che gli compete in una storia come la nostra. Nessuno intanto potrà contestare al Cittadini il merito, dirò con un apparente paradosso, del suo stesso plagiare, che importa un apprezzamento della materia plagiata: il conto fatto dal Cittadini delle idee e delle ricerche del Tolomei è già un valore criticamente: non è solo l'aver rimesso in circolazione delle conclusioni positive dimenticate e perciò nulle che costituisce il merito qui abbiamo ancora il plagiario, ma aver dato loro un valore, aver cioè aggiunto ad esse qualcosa di proprio. Ora questo merito non è venuto al Cittadini dal di dentro delle verità stesse che gli si fecero innanzi: occorreva che egli avesse in sé svolto una disposizione a comprenderle. Non bisogna qui dimenticare che il Cittadini tutta codesta materia delle Origini aveva esposta per sei anni, com'egli afferma nella dedica a Fabio Sergardi, nello Studio senese dalla cattedra, sia pure, com'è facile supporre, desumendola fin d'allora e per quell'uso dalle operette del Tolomei: vi era stato poi intorno nel tentare di sistemarla sia pure meccanicamente, in un libi' n'avrà discusso, e se ne sarà giovato nelle polemiche a cui prese parte: altro disse per conto proprio nel dare, attenendosi anche qui al Tolomei, brevi caratteristiche di ciascuno degl' idiomi toscani, nelle note alle Prose del Bembo, e alla Guaita del Castelvetro, oltre che nell'altro breve Trattato degli articoli e di alcime altre particelle della volgar lingua, che congiunse al maggior Trattato della zera origine. Non solo, ma lesse e tradusse il De l'ulgari Eloquentia di Dante, che non è libro certo 2ifo/o nono 2S9 portante non solo ne' riguardi dell'opera individuale del Cittadini, sì anellidi tutta la stòria della filologia romanza anteriori', il famoso plagiario era pervenuto quasi di primo acchito in quel primo de' suoi trattati, quello Della vera origine, che nessuno finora ha dimostrato essere un plagio. E se è vero che l'atteggiamento assunto dal Tolomei di fronte a codesto problema, quale ci venne fatto di caratterizzare secondo gl'indizi 1 'flirtici dal Tolomei stesso nei suoi scritti editi {Polito, in quel che contiene di suo, Regole, Cesano, Lettere) dev'esser ora corretto secondo quanto risulta dall'esame dell'operette inedite, nel senso che non permanga quello di chi non abbia avuto vera coscienza dell'oggetto e della portata delle sue ricerche, è anche vero che il Cittadini ci si mostra collocato dinanzi ad esso da un punto di vista che direi più obiettivo, cioè a dire con più piena coscienza di quel che sia il divenire linguistico nel suo ritmo e nelle sue leggi. E anche sotto questo rispetto a noi pare che Cittadini rappresenti un reale progresso. Ma un altro reale e maggiore progresso è, per noi, l'aver agitato il problema storico della lingua in un momento in cui avveniva la finale codificazione dell'osservazione grammaticale e la lingua era per cristallizzarsi nel vocabolario: nel momento in cui l'uso degli scrittori fiorentini del Trecento voleva essere imposto a tutta Italia. Egli, a differenza di quasi tutti i senesi che propugnarono il senese col medesimo calore con cui i fiorentini avevano propugnato il fiorentino, in piena concordia con sé stessi, non ebbe prepotenti predilezioni municipali, ma come, quegli che aveva visto più addentro nella formazione e nello sviluppo del linguaggio sotto il rispetto esteriore, storico, mostrò d'intendere che allo scrittore dovesse esser lasciata una maggiore libertà e non prescritto uno stampo determinato, e tanto meno quello d'un particolar dialetto, persuaso che, come intitolava il § 3 del lib. I della sua versione del trattato dantesco, il Parlar regolato vuol lungo studio . Era un credo grammaticale questo, ma chi lo metta in relazione e con lo spirito e lo sforzo della dottrina dantesca é coi convincimenti che si può formare chi studia storicamente e non grammaticalmente la lingua, un credo assai meno irragionale di quello che la comune grammatica normativa aveva formulato, e veniva così a risolversi in un'opposizione a questa. Onde possiamo concludere che, se nella pura storia della filologia neolatina in Italia, per quanto si riferisce alla materia plagiata, al Cittadini non compete altro posto che quello che l'esame indistruttibile del Sensi gli ha assegnato, mentre un posto assai distinto gli va assegnato per la soluzione e per il più esatto orientamento dato non solamente in termini generali al problema della derivazione dell'italiano dal latino popolare, in una storia come la nostra ne spetta al Cittadini uno ben altrimenti onorevole, quello di chi introduce nella grammatica empirica un elemento conoscitivo e un criterio meglio che puramente grammaticale. E certo è a lamentare che le condizioni critiche e letterarie dell'età impedissero che il Cittadini avesse de' continuatori in questo indirizzo non certo filosofico, ma storico e metodico da lui impresso alla grammatica, riallacciando la bella tradizione iniziata dal Bruni e dal Biondo, affermata con ricerche analitiche positive dal Tolomei, proseguita con molto acume intuitivo dal Castelvetro. Invece, se uno studio in tutto il Seicento e non in questo secolo soltanto fu trascurato, si fu appunto questo della grammatica storica. E per converso quanto scarsi guadagni non solo dalle contese prese nel loro insieme ("), che i senesi sostennero contro i maggiori avversari, i fiorentini, ma da quelle intorno al vocabolario, benché non trascurabili come segno d'una salutare ribellione al pedantismo e purismo grammaticale, e dalle opere stesse de' grammatici, benché tra esse avremo da annoverarne di abbastanza originali nel loro principio ispiratore, come quelle del Baratoli, se il razionalismo non fosse venuto col veicolo della gramma- [Qualche continuatore che facesse servire le idee del Cittadini a combatter la Crusca, come vedremo, non mancò; ma fu azione di scarso valore. Un avversario della Crusca, appunto, ne cantò l'elogio funebre: Orazione per l'esequie del dottor Celso Cittadini recitata nelVAcc. de' Fi toma ti da Giulio Piccolomini, lettor pubblico della toscana favella. In Siena, presso il Bonetti, 1628. (•) Tutta la loro importanza è in questo, che, facendo esse sorgere a fianco del principio fiorentinesco quale si fosse il suo valore storicamente parlando un altro principio, quello del sanesismo, non meno arbitrario del primo rispetto alla realtà del linguaggio, venivano implicitamente a corrodere l'uno e l'altro, o almeno a sottoporli a una discussione, che è il virus della corruzione e quindi del risanamento. Capitolo nono 291 tica di Poftoreale a scuotere il giogo grammaticale che sarebbe sceso sul collo della nazione e se, per quanto inascoltata e incompresa, la voce del Vico non si fosse levata contro l'empirismo grammaticale, essa sola bastevole alla gloria d'un secolo e d'una nazione. Poiché questo è da avvertire qui, che, mentre la produzione grammaticale cinquecentesca, anche a non voler considerare i meriti suoi verso la scienza, fu almeno spontanea e nacque dalla diffusa coscienza della importanza della nuova letteratura e reca perciò in sé l'impressione spesso calda d'un fatto nuovo che interessava grandemente l'anima italiana e d'un bisogno a cui occorreva dare una qualsiasi soddisfazione, quella del Seicento fu in generale, per quanto concerne specialmente le vere e proprie grammatiche, piuttosto fredda, quasi direi di testa, di riflessione. Il prototipo ne fu per la parte pratica il Buonmattei, che perciò ebbe più seguito di tutti i predecessori e contemporanei, e distolse altri dal tentar cosa nuova o diversa. Il Buonmattei pubblicò integralmente la sua grammatica nel 1643, ma l'aveva già tutta distesa circa un ventennio avanti, quando n'ebbe pubblicato il primo libro, e cominciata un trentennio prima, cioè quando usciva il Trattato del Pergamini. Prima di questo anno, oltre il Turavano del Bargagli, le Considerazioni tassoniane, un discorso del Politi, avemmo un'Arte di puntare di Iacopo Vit // Turammo, ovvero del parlare e dello scrivere sauese, del cavaliere Scipione Bargagli. In Siena, per Matteo Fiorini in Bianchi. Il Cittadini, come c'informa anche il Lombardelli, vi è citato con molta lode si per la formatione, ò piegatura de' verbi, sì per la maniera del proferire, e sì per la diversità non piccola de' vocaboli, e delle forme del nostro parlare proprie, chiare, che si rendono da quelle de' vicini, e degli strani belle, e distinte, sì anco per la giocondità, ed utilità che di esse s'è udita seguitare . I fonti, p. 116. ') Considerazioni sopra le Rime del Petrarca. Cfr. O. Baco, Le, ecc. Firenze. Discorso di Lorenzo Salvi della vera denominazione della lingua volgare usata da' buoni scrittori, in Le Lettere di Adriano Politi. In Roma, per Iacopo Mascardi. Dimostra che si deve chiamar volgare, come fu chiamata dagli aurei scrittori. Politi diede anche avvertimenti grammaticali nella [torio da Spello), un Compendio grammaticale in forma eli lessico del Salici e una vera e propria grammatichetta assai poco nota, Le regole per parlar bene nella lingua toscana di Girolamo Buoninsegni. Del primo qui accade di dover dir poco, ma, in compenso, quasi e in certo senso tutto in sua lode. E stato già osservato dal D'Ovidio che egli superò tutti i compagni d'arme senesi (Bulgarini , Lombardelli, Benvoglienti , Cittadini) nell'audacia di un radicale concetto d'autonomia, e, che in suon diverso dice lo stesso, [rispetto al primato fiorentino, almeno nel fatto più o meno riconosciuto perfin dal Gigli, tra i senesi così ribelle], solo Ini, il Bargagli, col pesante dialogo del Turammo, sostenne, con tranquilla cortezza e con pieno accordo della teoria con la pratica, che come in Grecia così in Toscana ciascuno scrivesse nella loquela propria, senza impacciarsi nell' affettazione d'imitare l'altrui (p. 204): il che giunta al suo Dizionario Toscano, scritto in opposizione alla Crusca, stampato la prima volta nel 1614 e poi in Venezia per Andrea Babà, 1629: v. Diz. Tose, di A. P. con la giunta di assaissime voci e avvertimenti necessari per iscrivere perfettamente Toscano. In Venezia, appresso Giovanni Guerigli e Francesco Bolzetta, 1615, II ed. Jì/odo di puntare le scritture volgari e latine. In Perugia, per Vittorio Colombara, 1608. (-) Compendio d'utilissime osserva/ioni nella lingua volgare di D. Gio. Andrea Salici di Como, di nuovo ristampalo, ricorretto, et accresciuto dall' Autore. In Venezia, MDCVII, presso Altobello Sali cato. In Siena. Gerini si maraviglia che ne tacciano il Tiraboschi, lo Zeno, il Cinelli (Bibl. volante), il Morelli (Bibl. stor.-rag. della Tose.), l'Inghirami (SI. d. Tose.). Domandò di supplire il Cittadini nella cattedra senese (cfr. Archivio Mediceo, Gov. di Siena, filza, 1942, cit. dal Gerini). Il Casotti nella Vita del Buonmattei accenna a un Tommaso Buoninsegni. B., per occasione di considerare V Inf., il Purg. e il Par. di D. e di difender sé stesso, o di censurar certi, che l'oppugnavano, esamina varie cose, attenenti a questa lingua, con ben intesi discorsi . Lombardelli, / fonti, p. 51. Criticato dallo Zoppio si difese da sé e fu difeso dal Borghesi. Considerazioni, Repliche alle risposte del sig. Orazio Capponi, Risposta ai ragionamenti del sig. Peroni n/o Zoppio. Opuscoli diversi sopra la lingua italiana, raccolti da F. Idelfonso di S. Luigi, Firenze, 1771. Capitolo nono 293 nel sentimento comune è manifesto e grossolano errore. Noi siamo naturalmente di diversissimo, se non opposto, avviso, né il sorriso che vediamo spuntar sul labbro de' più, ci trattiene dall' apertamente affermare che nel pensiero del Bargagli questo vidi errato, che si dia forma di precetto a ciò che è invece un fatto. Tutti scriviamo nella loquela che ci è propria, cioè in quella che la nostra educazione e la nostra cultura ci hanno formato, o meglio quella che con esse s'è formata in noi: chi fa altrimenti, fa male e cade appunto nell'affettazione: il danno sorge quando dell'osservazione d'un fatto se ne fa una norma più o meno arbitraria. Il Bargagli, lungi dall'essere il più paradossale, fu il più logico di tutti, in quanto sostenne quel che sostenne: solo non doveva appunto cavar da un'osservazione di fatto una legge, intendendo per loquela propria il nostro particolar dialetto nel senso stretto e angusto della parola. Pel resto, il suo principio affermato appunto in tutta la sua crudezza e assolutezza era, nel fondo, il risultato della profonda ribellione che egli sentiva per la grammatica, ma che non si rendeva ben chiara a sé stesso e ragionava e propugnava da un punto di vista empirico e però di scarsa portata filosofica. Ai medesimi principi del Bargagli giungeva un anno dopo per diversa via e senza intenzione certo di copiarlo, un altro suo concittadino, il Politi, in quello de' due suoi discorsi sulla lingua che serve d'introduzione al suo TACITO (si veda) tradotto e nel suo Dizionario Toscano. Infatti egli, come anche si rileva da una lettera del Pergamini che lo Zeno, correggendo il Fontanini, dice riferirsi a questo non già all'altro suo Discorso, dove solo parla, sotto lo pseudonimo di Lorenzo Salvi, della vera denominazione della lingua volgare usata da' óuoni scrittori, vi sostiene doversi: 1" scrivere alla Sanese senza obbligarsi ai fiorentini; 2" accomodarsi all' idioma della sua patria e all'uso comune regolato però dal giudizio. E poiché non approvava il gergo della traduzione del Davanzati, in fine alla propria mise la dichiarazione delle voci meno intese e vi sostituì le comuni: un dizionarietto, dunque, sanese-italiano. Un altro letterato di certo libere vedute, il Tassoni, che incontriamo spesso in tutta la prima metà del sec. XVII e che qui si presenta per le Considerazioni sulle Rime del Petrarca, interessa più la storia della poetica che non quella della grammatica. Lo ritroveremo oppugnatore dell'Accademia nell'opera 294 Storia della Grammatica concreta del Vocabolario , come in esse Considerazioni lo vediamo schernire la Fabbrica dell'Alunno, che dice costruita di mattoni malcotti. In complesso, per le sue spicciolate osservazioni grammaticali disseminate qua e là un po' da per tutto, egli ci si manifesta non troppo tenero amico della grammatica. Di che dobbiamo contentarci. Di Iacopo Vittorio di Spello e Girolamo Buoninsegni che diedero opera alla grammatica propriamente precettiva e didattica, basti aver ricordato il nome, e così del Salici, il quale di sé stesso dice che con quella chiarezza, e brevità e' ha potuto maggiore è andato discrivendo l'alterationi, i vari sensi, le radduplicationi, che patiscono le lettere dell'Alfabeto, così l'uso de' pronomi, delle prepositioni, e de gli avverbi, il tutto comprobando con autorità de' più classici scrittori, che scritto habbiano in lingua Italiana, o Toscana, che diciamo ('"). Meglio che con questi trattatelli, ritorniamo nel dominio della vera grammatica precettiva con Jacopo Pergamini di Fossombrone. La grammatica (s) del Perganini, il noto compilatore del [Le Atinotazioni sopra il vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, 169S, ormai è noto che .non sono del Tassoni, ma dell'OTTONELLi, che fu grammatico celebrato a' suoi tempi da quanto il Bembo. Perduti sono i suoi quattro libri di ragionamenti in difesa del Tasso; degli Arringhi abbreviati per lo vocabolario della Crusca resta qualche frammento; e restano anche alcune postille al Pergamini nell'Estense. Un esemplare del Voc. della Crusca si trova all'Est. postillato di mano del Tassoni, che scrisse di lingua anche ne Pensieri diversi. E un misto di grammatica, di ortografia, di sinonimia e doppioni, d'etimologia, disposto in ordine alfabetico. Sulle due facce nel margine superiore del libretto è perpetuamente ripetuto Ortografia volgare. Ma l'ordine alfabetico non vi è per nulla rispettato, e il criterio etimologico de' vari raggruppamenti è troppo balordo per prenderlo sul serio. Sotto Posporre, p. es., troviamo, ma non questo soltanto. Possa, Possessione, Pozzuoli, Prestezza, Prezzemolo, Procaccio, Processione, Prossimo, Pulcella, Pupillo, Puzza. (3) Trattato della lingua del signor Pergamini di Fossombrone, nel quale con una piena, e distinta Instruttione si dichiarano tutte le Regole, i Fondamenti della Favella Italiana. In Venetia, presso Ciotti; e in Venezia, per Niccolò Pezzana, 1664. Tra questi limiti estremi, si ebbero altre edizioni: quella del 17 qui appresso accennata con un Supplimento di voci d'autori moderni, fatta per consiglio del Politi, la terza del 1657 con un'altra Aggiunta di mille e più voci tratta da celebri autori contemporanei, opera di Paolo Abriani. ( 'aditolo nono 295 Memoriale della lingua (' ), è un primo tentativo di ridurre a metodo per uso scolastieo ilei principianti le più ampie e e spesso farraginose trattazioni precedenti. Si divide in tre parti, suoni, parti del discorso, accenti e punti, e conserva su per giù le medesime categorie, tranne che tra le parti ' invariabili ' dell'Oratione include una classe di 'Particelle' che si usano solo per vaghezza, et ornamento senz'altro significato: delle quali alcune servono per principio di ragionare: altre si pongono per entro il ragionamento come Egli, E', Bene, Hor, Ne, Ci, Si . Del nessun interesse per la funzione logica delle categorie può esser prova anche quel che dice del gerundio: E lasciando da parte il motivo, che fanno alcuni, se gerondio sia parte formale dell'oratione, o più tosto membro del Partecipio: il che per mio credere, monta poco, o niente. Dico prima, ch'ogni Verbo ha ordinariame?ite il suo Gerundio; e di rado, o non mai n'è senza . Meglio ancora appare dalle definizioni: La quarta Parte principale dell'oratione è il Verbo, il quale congiunto co'l Nome fa il parlare intero, gli Accidenti del Quale sono Genere: Tempo: Modo: Numero: Persona: e Maniera . Insomma è conservato tutto lo schematismo, ma ridotto a semplici e nudi cartellini per raggrupparvi le forme, delle quali peraltro non si da più che l'esempio. Il metodo, infine, è inteso proprio alla rovescia: il proposito di semplificare la trattazione, rendere il libro facile e di pronto uso conduce l'autore non già a cercare una razionale disposizione della materia, ma ad ammucchiare i fatti con procedimento del tutto meccanico, a portare il vocabolario nella grammatica. Parlando, p. es., della Vocale A, osserva che è ' fine ordinario delle voci femminili nel numero del meno ', segno del caso Terzo, e Quarto del Nome, e del Numero del meno: segnato hor coli' Accento Grave; hora [Venezia, Ciotti, 1601. Questo Memoriale ebbe una certa fortuna. E consigliato da G. V. Gravina in Regolamento degli studi di nob. e vai. donna nella Nuova race, Napoli; TIRABOSCHI (si veda) lo dice il migliore di quanti ne furon pubblicati nel sec. XVI, benché uscito in luce nel 1601. Sul Pergamini, Ferruccio Benini, La vita e le opere di Giacomo Pergamini con scritti inediti [postille al yJ/razio?ii e il discorso. Par qui giustificare la Declinai, de' Verbi del Buonmattei che il Dati accolse nella prima ediz. e a cui, nella seconda, fece seguire la declinazione de' Verl>i anomali.] tedre di lingua toscana, destinandovi Professori di vaglia, e di abilità conosciuta. I buoni scrittori toscani di questi ultimi tempi, come oltre allo stesso Dati, il Redi, il Segneri, il Buonaroti, i due Salvini, e parecchi altri, han conosciuta questa verità, e se ne sono approfittati confessando che non basta il nascimento a voler scrivere purgatamente, ma che bisogna aggiungervi studio e fatica . E per la preminenza del volgare sul latino asserita dal Dati secondo il Fontanini, lo Zeno aggiungeva: Il Dati non mette ne troppo né molto la lingua volgare sopra la latina per via di sofismi; ma solamente dice che in questa scriveremo sempre imperfettamente con tutto che ci durassimo grandissima fatica, e che in quella, cioè nella volgare, si arriverà facilmente alla perfezione (pp. 130-1). Anche qui, oltre quella coscienza della letteratura nazionale cui più volte alludemmo, si sente appunto l'eco delle Battaglie del Muzio in difesa della italiana lingua contro i caldeggiatori del latino, che pare non si sentissero del tutto debellati, se osavano ancora, come indirettamente il Fontanini, rialzare il capo. Ma nella necessità dello studio e delle regole il Fontanini e lo Zeno concordavano, e con essi tutti i vincolati in un modo o in un altro all'Accademia, la quale appunto, non solamente con l'opera concreta del Vocabolario reggeva o credeva di, reggere i freni degli scrittori, ma con l'autorità morale che le veniva dalla sua stessa compagine, dalla funzione che in tempi accademici si svolgeva con il rispetto è l'ammirazione de' più, e ancora dall'appoggio del governo granducale. Il ristamparsi de' discorsi in cui si sosteneva la necessità delle regole è altro indizio della fede che esse riscotevano. Le Osservazioni dello Strozzi, incorporate nella raccolta del Dati e ricomparse nella seconda edizione d' esse, vedevano la luce anche separatamente, come s'è visto: l' istesso discorso del Dati fu stampat o almeno tre volte. E l'aver accolto nella seconda edizione la Declinazione de' verbi anomali del Buonmattei e la Costruzione irregolare del Menzini e un discorso del medesimo sopra le figure grammaticali (pleonasmo, ellissi, zeumma, iperbato, ecc.); insomma quanto sapeva d'irregolare, che veniva poi giustificato con criteri rettoria e l'autorità degli scrittori, conferma gli scopi di questa nuova campagna che il Dati, nell'ambito dell'azione della Crusca, tenacemente batteva. Ma con eguale e forse con maggiore baldanza combattevano gli avversari, e segnatamente il Bartoli, proclamando il Capitolo undicesimo 339 principio dell' indipendenza individuale in relazione al buon gusto, la nuova parola che s'era fatta strada, segnacolo d'una tendenza molto significativa. L'editore del 1709 delle Osservazioni del Cinonio giustifica il poco spaccio della prima edizione d' esse COIl la decadenza del buon gusto, e la ricerea che poi se ne lece verso il 1659, quando le iurono nuovamente ristampate, col risveglio di esso buon gusto. Destandosi però di quando in quando l'intorpidito Buon gusto, andavasi cercando quest'opera e se ne vide nel 1659 la più attesa divulgazione. Nel 1655, come avvertimmo, uscivano CL Osse?-vazioni del p. Daniello Bartoli, cresciute nel 57 a CLXXV, nel 68 (*) a CCLXX, e, dopo altre ristampe, ripubblicate (:) con copiose osservazioni di Niccolò Amenta, che muove al Bartoli molte eccezioni, e poi del Cito, nipote dell' Amenta, che ne rincara la dse (;!). Il libro, dice D'Ovidio, non è che un'argutissima e dotta polemica grammaticale e lessicale contro i divieti capricciosi de' linguai, né tocca la questione generale [della lingua] se non in quanto, sottintendendo il primato toscano ma badando piuttosto alla tradizione letteraria, loda e compie la Crusca . Ma pare per lo meno che quello del Bartoli fosse un ben curioso modo di lodare e di compire la Crusca. Già, chi erano ormai que' linguai contro i cui capricciosi divieti argutamente e dottamente polemizzava il Bartoli, se non accademici della Crusca o cruscanti? Poi, che rimanevan più il primato toscano e la tradizione letteraria, ammessi pure e rispettati dal Bartoli, d'accordo in questo, ma in questo solo con la Crusca, cioè in un riconoscimento a parole, quando, non solo si sarebbe dovuto ammettere con lui che // Torto, e '/ Diritto del ?ion si può, dato in giudizio sopra molte regole della lingua italiana, esaminato da Ferrante Longobardi. In Roma, per lo Varese, 1668, 8". Il Bartoli si difese con Y Apologia. In Napoli, per Antonio Abri, 171 7. (3) // torto e '/ diritto del non si può, dato in giudizio sopra moltiregole della lingua italiana esaminato da Ferrante Longobardi cioè da P. I). B. Colle osservazioni del sig. Niccolò Amenta, e con altre annotazioni dell'ab. sig. \). Gius. Cito. Aw. Napoletano. In Napoli, 1728, a spese di Niccolò Rispoli, e di Felice Mosca. Voli. 3. 34° Storia della Grammatica anche i migliori trecentisti scrissero non di rado fuori di regola , e che era dunque stolta baldanza il censurar vocaboli e locuzioni sol perchè non approvati dall' autorità degli scrittori del buon secolo, cioè a dire della Crusca; che i non Toscani avrebbero meglio provveduto a sé stessi col latineggiare un po' di più, anziché ostentare idiotismi d'accatto, che era un allontanarsi dal codice dell'Accademia; ma si fosse anche dovuto riconoscere con lui che un principio onde regolare bene il parlare non esisteva: non le decisioni de' grammatici, non l'uso del popolo o de' più eletti, non l'autorità degli scrittori, non la prerogativa del tempo, non l'etimologia, non l'analogia... esser veri principii, ma or l'uno or l'altro di questi principi aver forza, ma più di tutti l'arbitrio dello scrittore?! Meno inesattamente lo Zambaldi così ebbe a parlare de' due libri del Bartoli, che, per il loro contenuto più ristretto all'ortografia, non perdono valore di fronte ai principi generali linguistici e grammaticali: Press'a poco le stesse idee [degli oppositori Toscani] furono sostenute nel sec. seguente da Daniello Bartoli in quel libro singolare che s' intitola il Torto e il Diritto del non si può, dove in mezzo a molti paradossi trovi gran libertà di giudizio e mirabile erudizione. Egli ordinò poi la sua dottrina nel Trattato dell' Ortografia (1), dove dice che questa deve seguire tre principi: V autorità, la ragione, Yuso. Ma essendo spesse volte questi principi in contradizione l' uno con l'altro, lo scrittore dovrà usare il suo giudizio, e talvolta anche l'arbitrio.... Il Bartoli, nel combattere il dominio assoluto della pronunzia toscana e certe regole troppo esclusive della Crusca, ebbe forse l'intuizione vaga e confusa d'un principio vero; ma non seppe trovare i giusti limiti fra il regno dell'uso e quello dell'etimologia, né dare stabile fondamento all'uno e all'altro. DclP ortografia italiana trattato del P. D. B. In Roma, per Ignazio de' Lazzeri, 1670. Questo trattato fu ristampato più volte anche in tempi vicini a noi: p. es., a Milano, per Giovanni Silvestri, e Reggio, Torreggiani. Il Foffano, op. cit., p. 303, ricorda che non si ha più notizia dell'operetta disegnata dal Bartoli, delle proprietà o per così dire passioni di ' z, ibi, cit. nell' Apologia, p. 18. Capi/o/o undicesimi) 341 A noi quest' insufficienza riesce meno condannevole di quanto sia sembrato e possa ad altri sembrare. Il Bartori era quello che oggi si chiamerebbe uno stilista, un affine a Annunzio descrittore: uno scrittore insomma di quelli che esauriscono tutta la vitalità del loro pensiero nella tranquilla, olimpica contemplazione degli oggetti esteriori, moltiplicandosi il godimento e il diletto con l'accarezzare minutamente le proprie immagini, le risonanze varie che essi stessi si sono destati nell'anima. Per siffatti scrittori la forma è più che mai tutto ciò che l'interi è essa per se la sostanza dell'arte loro. E naturale che siffatti scrittori sdegnino più d'ogni altro il treno delle regole e proclamino la indipendenza assoluta del loro giudizio, o, meglio, la necessità dell'arbitrio. L'arbitrio per essi è la libertà. Nel fatto tutti i veramente scrittori hanno sentito e praticato un tale principio, perchè questa è la natura dell'arte, checche dicano le poetiche. Ma dai temperamenti artistici, a cui alludevamo, è maggiormente sentito il bisogno di regolarsi nell'espressione esteriore secondo il tumultuare e il fluttuare interno delle immagini, delle armonie, dei colori. E arbitrario e tirannico oltre che inutile è il chiedere ad essi, come per un'altra simile questione ho osservato, che si tengano alle norme in cui i grammatici e l'uso moderno ormai convengono: essi andranno sempre per la loro strada, indulgendo al loro genio: anche quella che in loro è evidentemente ricerca dell'effetto stilistico formale, è in fondo un'attività che ha radice nel loro particolare atteggiamento artistico. La loro grammatica è la loro natura artistica : regolarsi secondo detta dentro, caso per caso: c'è chi si forma un suo sistema particolare al quale strettamente s'attiene, perchè non solo non gl'impedisee la libera estrinsecazione delle sue forme interiori, ma corrisponde sì pienamente ad esse che il non seguirlo sarebbe farsi violenza: Annunzio è di questi. C'è chi si fa un sistema del non seguirne alcuno per lasciarsi trasportare in ogni singolo problema formale dalle esigenze del momento, sicché l'attenersi a una regola per quanto liberamente impostasi sarebbe un violentarsi, e di questi è il Bartoli. Il quale mi par che abbia formulato l'unico principio didattico che possa conciliarsi con la libertà e l'indipendenza dell'arte, che non ne tollera alcuno: principio che viene a concordanza piena con quanto scaturisce d' insegnamento per la pratica e l'esercizio dello scrivere da una recente polemica sull'Idioma gentile del De Amicis. A chi obiettava recentemente al Croce che la sua tesi circa i precetti, illustrati dal De Amicis nel suo libro, per l'apprendimento delle lingue e l'arte dello scrivere, sarebbe stata la più gradita ai discepoli, perchè li dispensava da qualsiasi studio, il Croce, tra le maraviglie di chi non riusciva a vedere come si potesse accordare con la teoria l'utilità di una pratica che in teoria non è giustificata, rispondeva affermando l'utilità dell'esercizio pratico e pienamente giustificando la comodità dell'empirismo . Ora il Bartoli nella prefa,2Ìone al suo Trattato del? ortografia, con acutezza e precisione veramente sorprendenti e in tutto degne d'una veduta estetica superiore, scriveva: Né niun v'è, il quale, per quantunque professi e vanti di tenersi strettissimo alle osservanze dello scrivere regolato, di parecchie maniere che userà, possa allegare altra più vera cagione che il così parergli, e così aggradirgli; e chi più studierà in questa professione, ogni dì meglio intenderà non potersene altrimenti. Dal che due cose a me par che ne sieguano: l'ima, che mal si farebbe, riprovando in altrui quel che si vuol lecito a sé stesso: l'altra, che v' ha due strade possibili a tenersi, da chi ama, non solamente di scrivere regolato, ma sufficientemente difeso; cioè: Dare una volta quanto è bisogno di studio a comprendere interamente la materia, e tutte averne davanti le necessità e gli arbitri, le diversità e le somiglianze, le strettezze e le larghezze, i perchè a gli usi, così moderni, come antichi: in somma quanto (fino a una conveniente misura) può dirsene e sapersi: e così INFORMATO SENZA PIÙ CHE SÉ STESSO, E IL SUO BUON GIUDICIO seco, farsi da sé medesimo un dettato d'ortografia, secondo il saviamente partitogli più convenevole ad usarsi, e più sicuro a darne, bisognando, ragione a chi ne l'addimandasse. E a questo intendo io che abbia a servire {se può bastare a tanto) il presente Trattato. L'altra via è [ma questa non è da lui evidentemente preferita, anzi il modo stesso con cui l'enuncia par tirare a metterla (piasi in ridicolo], del non prendersi maggior noia e fatica che di leggere, e far sue le regole che questo o quell'altro buon maestro in professione di lingua avrà dettate; e fon esse in mano, seguitarlo a chiusi occhi. E se altri l'addimandasse del Croce in La Critica, IV, S9 sgg., e Y, 71 sgg. I V. anche del Crock, // padrone g giumento della Scenica, in La Critica. perchè) ili qual che sia particolarità del suo scrivere, soddisfare a tutto con quella sola e universale risposta che è l'antichissimo Ipse dixit. Ma questo non dovrà mica voler più avanti che uso proprio: non per ardirsi a far dell'arbitro, e diffinitore del Così va riè si de' altrimenti; non sapendo non che le cagioni dellWtrimentì che può, e per avventura dee farsi, ma né pure il perchè dee così far egli, se non il così far ch'egli siegue; come appresso Dante le pecorelle, (piando escon del chiuso, E ciò che fa la prima, e l'altre tanno, Addossandosi a lei s'ella s'arresta Semplici e chete, E lo perchì-: non sanno . In tutto questo discorso mi par che questo pensiero si rilevi chiaramente: si studi la grammatica e si facciano esercizi grammaticali, ma, poi, nell'espressione non se tenga alcun conto, lasciando piena libertà al proprio buon genio. Il che ha una portata maggiore, filosoficamente parlando, di quel che gli sia stata fin epti riconosciuta, benché il Bartoli non muova da un determinato sistema: era il buon senso dello scrittore che lo rendeva ribelle alle regole, e il suo gusto particolare: sicché egli, e per questa ribellione e per la motivazione, rappresenta un progresso perfino sulla dottrina che seguirono il Buonmattei e il Cinonio. Questi parlavano di ragione: egli affermava l'esigenza del gusto, accordandosi così ai tempi, ne' quali appunto si veniva scoprendo un'altra facoltà diversa dalla ragione, che presiedeva alla produzione dell'arte: la fantasia: non era certamente ancora la scienza: era il lievito che la veniva fermentando. La dottrina del Bartoli aveva in sé un po' di questo lievito: e questo è il suo merito principale (?). E lievito è anche quel curioso libro del Vincenti che s' intitola 7/ ' ne quid nimis' della lingua volgare nelle Regole più praticabili e principali: ( !) dove, tra tante bizzarrie e anche balordaggini specie nella motivazione della sua indifferenza per l'uso di questa o quella parola sostanzialmente identica, si pro Milano, per Giovanni Silvestri. Croce, Est. Storia;, III, p. 209. opera non volgare, Roma, per [gnatio de Laz, nel 1665. Cfr. C. Trabalza, Un curioso criterio stilistico d'un grammatico secentista, in Sludi e Profili, Torino, 1903, p. Sr sgg. 344 Storia del/a Grammatica pugna un concetto di indipendenza dalle strettezze della grammatica pedantesca. Una ben curiosa apparizione moveva ancora contro la lingua fiorentina come già nel Cinquecento con Mario d'Aretio dalla Sicilia, dove la tradizione del primato poetico dugentesco è durata si può dir sino a ieri nella coscienza di grammatici e critici: vedremo, del 1836, una Glottopedia italo-sicida o grammatica italiana dialettica: ora, dunque, cioè nel 1660, Antonino Merello e Pio Mora in un Discorso che fa la lingua Vulgate dove si vede il suo nascimento essere siciliano facevano che la lingua siciliana, vedendo svaleggiata la sua cittadinanza da' fiorentini, che Toscana, s'appellano (p. 5), insorgesse contro la vana petolanza della Toscaneria, eccitando i siciliani a non starsene neghittosi. E due anni dopo in un nuovo Discorso dove si mostra che la Sicilia sia stata Madre non solo dello scrivere, e poetare, ma anco della lingua volgare^, dicevano : Eche habbia la lingua volgare gran parte della lingua greca, leggete il Discorso di Ascanio Persio, e negavano all'Allacci che la Sicilia sia stata solamente genetrice del rimare e poetare. Più rispettoso verso la Crusca par mostrarsi lo Sforza Pallavicino, a cui dobbiamo alcuni Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua italiana, dati in luce dal p. Francesco Rainaldi della Compagnia di Gesù (!) nel 1661 e più volte ristam i Messina, 1660, per Paolo Bonacata. ! In Cosenza, per Gio: Battista Mojo e Gio: Battista Rossi, M DC LXII. In questo oltre li Osservanti dell'Aretio, si cita un D iscorso che la Ungila italiana hebbe nella Sicilia il suo nascimento di Francesco Pio. Il FOFFANO, attingendo al Mongitore, ricorda un 7)iseorso di Luigi La Farina, in cui si prova la lingua siciliana esser madre dell'italiana, dove anche è citato un BRUMALDI (Montalbani), che ne iscorso che la Ungila italiana hebbe nella Sicilia il suo nascimento di Francesco Pio. Il FOFFANO, attingendo al Mongitore, ricorda un 7)iseorso di Luigi La Farina, in cui si prova la lingua siciliana esser madre dell'italiana , op. cit., p. 299, dove anche è citato un BRUMALDI (Ovidio Montalbani), che ne l suo Vocabolista bolognese (Bologna, 1660) pretese dimostrare che il dialetto di Bologna è da considerarsi come la madre lingua d'Italia . Nel 500 aveva inneggiato l'Achillini a codesto dialetto. Che ogni scrittore illustrar dee l'idioma nativo et anche arricchirlo con alcune forme giudiziosamente portate dal latino, volle provare G. F. BoNOMl, Bologna, i6Sr. 1 i In Roma, per lo Varese, 1661; per Ignazio de' Lazzeri, 1675; in Roma et in Perugia, per gli Eredi di Sebastiano Zentrini, 1674 (ediz. che ho sott'occhioj. L'originale del Pallavicini è nel Cod. marciano, CLXXVI (Catal.] pati, pochi (sono in tutti 121), invero, ma non senza traccia di quel saporifilosofico che fa del noto cardinale un partecipe di quel presentimento critico del sec. XVII a cui, anche poco sopra, abbiamo accennato. Più rispettoso, abbiam detto; ma anch'egli, come il Bartoli e il Vincenti, non conosce leggi grammaticali assolute. Le sue osserva/ioni empiriche non sono mai infondate: egli sa osservare che in alcune voci la pronunzia fiorentina è diversa da quella del rimanente della Toscana e dell'Italia; come in dire Abate, Ujìzio, Roba, con le consonanti semplici: Immagine, Innalzare, Ovvidio, con le raddoppiate. In questi e simili casi non sarà degno di riprensione chi seguirà o l'una 0 l'altra maniera (p. 46). Didatticamente, segue un principio molto ragionevole e discreto. Col nome d'errori dunque intendo quelli, che si scostano dall'uso ordinario degli scrittori buoni, e pregiati per politezza di lingua. Tacerò le ragioni, 0 solo talvolta ne darò un cenno: però eh' elle sono difficili ad apprendersi, e vagliono solo al sapere: là dove i nudi insegnamenti s' imparano con agevolezza e bastano per operare (pp.3-4). Ma gli avvertimenti caratteristici son quelli onde si chiude il volumetto. Conchiuderò con due brevi avvertimenti. L'uno è, che questi contenuti nel presente Capitolo sono più tosto consigli che precetti: Onde meriterà lode chi gli osserva; ma non biasimo chiunque in picciola parte se ne allontana. L'altro è, che in questa, come in tutte le arti, ninna regola è sufficiente se non maneggiata e posta in uso a guisa di mero istrumento dal giudicio, il quale solo è /'Architetto di tutte le opere. Ognun vede coma il fondamento di questa conclusiva sentenza è nel sistema filosofico che mette il Pallavicino in un posto non disonorevole nella storia dell'estetica, come quello che affrancava la fantasia dall' intellettualismo, benché la identificasse poi col sensualismo marinesco , e, in ogni modo, l'arte dalle regole. Croce, Estetica. Accanto agli Avvertimenti dello Sforza Pallavicino registriamo alcune altre simili operette. Le prime lince o Lezioni della lingua italiana per regolarne il disegno ai suoi signori scolari concentrate dal maestro di lingua Gio: Pietro Erico rivelano se non una certa ingegnosità, una certa smania di voler far entrar in modo facile la grammatica nella testa degli scolari. Vi si fa largo uso dei paradigmi; gli elementi (vocali e consonanti sono raggruppate in più modi per 346 Storia della Grammatica Dietro l'esempio del Bartoli per oltre un cinquantennio, più spesso contro la Crusca che in favore, e sempre in consonanza col movimento linguistico a cui aveva dato impulso il Vocabolario, si misero a compilare grossi e piccoli zibaldoni specialmente d'indole ortografica, a stendere dissertazioni, lezioni e dialoghi, a postillare raccolte maggiori, e in connessione con l'ortografia a trattar di pronunzia e di prosodia , specie della agevolar la pronunzia); avverbi, modi avverbiali, congiunzióni, intergettioni, preposizioni sono ammariniti per elenchi; il nome vi è trattato ancora secondo la qualità, il numero, il caso, la figura, la motione; i verbi son dati in tavole; vi si additano esercizi per la concordanza. (Si debbono all'Erico anche: Generis humanae linguae, Venetiis, 1697 e Renatum e 'Mysterio principiiun phiiologicum, Patavii. Sono state ricordate qualche volta le Osservazioni della lingua volgare di Pio Rossi, Piacenza, e la Pratlica, e compendiosa istruzzione a' principianti circa l'uso emendato, et elegante della lingua italiana del RoGACCl. In appendice agli Avvisi di Parnaso ai poeti toschi, Venezia, s. a., Marcantonio Nali, dette un trattato sulla dieresi, sulla sineresi, sui dittonghi, e sull'accento; Loreto Mattei (il noto poeta vernacolo reatino), una Teorica del Verso volgare, e Prattica di retta pronunzia, in Venezia, per Girolamo Albrizzi.(Neil' Apologia della z cita una Neogrammalogia di un Anonimo, dove si proponeva il segno dell'.? per lo z aspro (fortezza, bellezza) per distinguerlo dal suono di: in donzella, grazia, amazzone. Nella lezione La lingua toscana in bilancia con la latina il Mattei pone la prima superiore alla seconda). In questo campo il libro classico è la Prosodia italiana ovvero l'arte con l' uso degli accenti nella volgar favella d'Italia, accordati dal padre Placido Spadafora, palerm. della Comp. d. G., colla Giunta di tre brevi trattati: l'uno della Zeta, e sue varietà: l'altro dell', verbo sost., apposizione = ellissi del verbo sost., preposiz., avverbi, congiunz., pronome, intercezione, intere sentenze, che se il loia, dello zeuma, falsa zeuma, .sillessi, trasposizione, iperbato, anastrofe, tniesi, parentesi, e sinchisi.]anzi ultrapurista, per dirla col suo recente biografo , ma, mutati gli abiti mentali e slargato il suo orizzonte anelie per effetto delle lingue apprese ne' suoi viaggi all'estero, fini quasi ribelle. Scienziato, filosofo e teologo, erudito, novellatore e poeta, epistolografo, quale accademico della Crusca attese a studi linguistici diversi, di spoglio, d'etimologia, d'ortografia, di cui introdusse qualche novità anche ne' suoi scritti (ò, ài, à per ho, hai. ha, secondo l'antica proposta del Tolomei); ma precettista di grammatica non fu. A noi basterà caratterizzar tutta la sua operosità grammaticale, osservando che egli non si peritò d'accogliere voci straniere, che fu anzi uno de' primi neologisti, e riferendo quel che nel 1677 scriveva al Bassetti circa la compilazione del Vocabolario: tutto l'arricchimento maggiore, che si pensa dare a quest'opera è il rifrustar manoscritti antichi, e aggiunger voci Ora io non vorrei che ci trafilassimo a cavar fuori e a spiegar voci, che in questo secolo non accaderà che un uomo l'oda nominare una sola volta in vita sua, e trascurassimo quelle, che occorrono in ogni discorso e che mal usurpate rendono chi le dice ridicolo ('"). Voi mettete , tornava a ripetergli, in questo vocabolario voci antiche, voci rancide. voci disusate, voci, che son ridicole a voi medesimi, e poi, non distinguendole dalle buone, ci date mescolate la crusca, o piuttosto le reste e la paglia istessa, con la farina . A base di quest'osservazione è sempre la vieta concezione del linguaggio; ma questo bollar di ridicolo le voci rancide e chi le adopera, indica per lo meno la coscienza della contradizione tra parola vecchia e idea nuova, un sentimento insoddisfatto dell'unità dell'espressione, un segno, in ogni modo, di salutare reazione. Nel raccomandare alla risorta Accademia di aprir le porte al Tasso; di mettere de' contrassegni alle voci arcaiche, alle non comuni, alle plebee: e di esser meno difettosa nell'accogliere le buone voci forestiere (:i), invidiando alle altre nazioni l'uso vivo della lingua, precorreva il Manzoni. Fu pertanto considerato, come egli stesso confessava, per corruttore della severa onestà de' Stefano Fermi, Lorenzo Dlagatotti scienziato e letterato ( Studio biografico bibliografico critico con ritratto, Firenze, 1903, p. 171. Leti, fam.., t. II, p. 68, in Fermi. Ovidio] nostri antichi : ma non così largamente che dal Panciatichi, residente nel 1671 a Parigi, non fosse invitato sebbene inutilmente a prender le difese di nostra lingua contro gli attacchi famosi del Bouhours, che trovò in Italia il suo avversario nel Conti. Più importante di quella del Magalotti e de' comuni consoci è forse l'opera d'uno de' due Salvini, Anton Maria: a Savino, dobbiamo, tra l'altro, la prima storia dell'Accademia ('"): storia, si dica subito, che dimostra l'importanza che l'Istituto famoso aveva ormai acquistato, ma, anche, la chiusura d'un periodo d'attività che aveva fatto il suo tempo e non rispondeva più ai nuovi tempi. Salvini è purista dello stampo del Dati, suo antecessore, di cui cita con lode il ricordato discorso siili' Obbligo di ben parlare la propria lingua; fu, direi, l'incarnazione de' principi che prevalsero in questo tempo nelV Accademia; fu il perfetto accademico; anche i modi della sua attività letteraria contraddistinguono il carattere della sua mente: fu oratore accademico e postillatore: le Prose toscane e i Discorsi accademici offrono una buona parte di quell'attività; ma è altrettanto considerevole la materia trattata da lui nelle annotazioni a opere e libri famosi : il Malmantile del Lippi, la Piera e la Tancia del Buonarroti, la Perfetta poesia del Muratori, le Origini del Menagio, il Vocabolario, la Grammatica del Buonmattei, V Anticrusca del Beni. Le più importanti al fatto nostro sono le postille all'opera muratoriana, specie per ciò che concerne l'efficacia delle regole grammaticali. Lett. in Belloni, // seicento, p. 452. ('-') Ragionamento sopra V origine dell'Accademia della Crusca, Firenze. Su esso, dott. Carmelo Cordaro, Anton Maria Salvini, saggio critico-biografico, Parma, 1906, e la notizia che di questo libro dà R. Fornaci ari. Un filologo fiorentino del sec. XVIII, in Nuova Antologia. [] Vivaldi esclude, con l'inoppugnabile argomento del tempo, che sia del Salvini, n. il quel progetto di risposta da farsi all' Anticrusca per opera del Fioretti che la fece infatti nel 1614, che il Moreni pubblicò nel 1S26 traendolo dalla iMagliabechiana. (6) Nei Discorsi Accada n. xxi, p. 3 l'A. esordisce col sostenere che l'obbligo di ben parlare la propria lingua fu dimostrata con Capitolo undicesimo 353 K noto che uno de' punti cui s'agitò la controversia, che è stata chiamata della lingua, fu l'eccellenza del Trecento sul Cinquecento e i secoli posteriori. Il Muratori fu perii Cinquecento : e il Salvini, naturalmente, pel Trecento. Tra gli argomenti che il Muratori adduceva, era questo, che nel Trecento la lingua non poteva essere arrivata alla sua perfezione, perchè, tra l'altro, non se n'erano peranco stabilite le regole e ognuno scriveva a suo talento, usando parole e locuzioni straniere, rozze, plebee, cadendo per ciò senz'accorgersene in barbarismi e solecismi, trascurando anche la retta ortografia. Il Salvini gli ritorce codesto argomento così: il non essersi stabilite le regole, né poste in iscritto, e scrivendosi tuttavia da molti e parlandosi in quel tempo regolarmente, è segno che in quel tempo era giunta al non più oltre l'italiana favella; e non fa che le regole naturalmente non ci fossero . In altre parole il Muratori sostiene la inferiorità del Trecento con la mancanza della grammatica; il Salvini l'eccellenza di esso con l'esistenza virtuale della grammatica : questione e ragioni egualmente cervellotiche e che movono l'ima e le altre dal concepire, al solito, il linguaggio come un congegno meccanico che funziona più o meno bene secondo l'esattezza sua e di chi lo adopera: il confronto è impossibile ei termini sono astrazioni. Che cos'è il Trecento? che cos'è il Cinquecento? sono le opere concrete che si scrissero, sono le parole {parole nel senso estetico) che si pronunziarono: ora confrontar l'un secolo con l'altro, è confrontar la Divina Commedia con 1' Orlando Furioso, ossia fare una cosa inutile e arbitraria. Spiegar poi l'eccellenza dell'una o dell'altra opera con le re ottime riflessioni dal suo antecessore, il nobile e dotto Carlo Dati.... Vorrebbe che si coltivassero i due idiomi e si scrivesse nell'uno e nell'altro, come fecero i maestri di nostra lingua, il Bembo, il Casa, ed altri. Ma poiché la nostra favella non ha quel corso e quella voga d'esser parlata e scritta comunemente, come, non so per qual destino, ha avuto ed ha l'idioma francese ... perciò chi di cose scientifiche vuole trattare, scriva in latino non perchè a ciò sia inetta la nostra lingua, ma per aver più gran teatro, che ascolti, perchè la lingua latina è lingua dell'universale e propria di tutti i letterati non obbliando la nostra che ha i suoi vezzi e incanti singolarissimi . In Gerini. Ricordiamo De i pregi dell' eloquenza popolare esposta da L. A. Muratori, Venezia, M DCC L, presso G. B. Pasquali, fondati sulla dottrina dell'imitazione.] gole, è pretendere che le regole producano l'arte. Siamo ancora con la vecchia poetica. Il Muratori dedicò parecchie pagine della sua perfetta poesia al buon gusto, e sebbene non accettasse le vedute dello Sforza Pallavicino che davano briglia sciolta alla fantasia, le fece larghissima parte , ebbe insomma più larghe vedute del Salvini: ma il linguaggio non fu neppur sospettato né dall'uno né dall'altro che potesse esser tutt'uno con la fantasia. La poetica del rinascimento si dissolvette, senza che la grammatica, naturalmente, avesse avuto l'onore in essa d'una interpretazione degna d'esser chiamata filosofica: fu sempre considerata come strumento: infatti nella classificazione delle arti, rimase sempre all'ingresso. Da quell'argomento delle regole il Salvini ne trasse un altro, meno disutile anche perchè contiene un elemento che si può chiarire con la storia, ma egualmente infondato nella sua concatenazione. Prima una lingua fiorisce, e la fan fiorire gli autori che la mostrano e scuopronla; e poi se ne formano le regole. Anzi quando si fanno le regole, cattivo segno: è segno che la lingua non è più nella sua naturai perfezione: è scaduta dal suo primo fiore e lustro; ha bisogno di essere puntellata, perchè non finisca di rovinare ("). E si sforza di dimostrarlo col fatto dell 'imbarbarimento del 400 da cui ci liberò il Bembo con gli altri grammatici, ma non in modo che scorcordanze e solecismi non durassero ancora, consigliando il ritorno all'imitazione dell'aureo secolo, quando autori e volgo parlavano puro e corretto e tutti scrivevano come i testi a penna dimostrano senza sconcordanze, e si avevano le coniugazioni senza che vi fossero grammatiche, dell'aureo secolo, che ebbe, oltre questi, il merito di fornire ai grammatici cinquecentisti la materia delle regole loro. Il Vivaldi, che riferisce queste idee e argomentazioni delSalvini, seguendolo passo passo con la sua critica, osserva che quando nascono le regole in una lingua, questa non è più nel suo stato di spontaneità, è entrata in un periodo riflesso; ma dire che sia in un periodo di corruzione e di rovina mi pare troppo. Or che vuol dire che una Croce, Estetica.) Quest'idea, annota il Vivaldi, p. 321, che la grammatica sorga quando la lingua si comincia a corrompere, è ripetuta in molti punti dal Salvini. Leg.ui le note] lingua e entrata in un periodo riflesso? La lingua è sempre lingua, cioè creazione spirituale in ogni momento del suo prodursi : slato riflesso sarà quello della coscienza di chi la parla. E certamente da questi stati riflessi della coscienza nascono tutti gli sforzi che mirano a spiegare il passato: le regole, teoricamente, sono il primo tentativo della scienza: praticamente, servono al bisogno dell'apprendimento della lingua: Aristotele, Quintiliano, il Bembo interessano egualmente ma diversamente tanto chi fa la storia delle dottrine poetiche e grammaticali, quanto chi si prefìgge lo scopo pratico di apprendere o di insegnare l'arte e la lingua. Si può dire, quindi, aggiunge il Vivaldi, che, nate le regole, una lingua sia meno vivace di prima; ma dire che s'incammini alla corruzione, donde il bisogno di essere puntellata, non mi pare. Come se, quando spuntavano le regole del Fortunio e le Prose del Bembo, fosse stato mai impedito all'Ariosto di condurre a quello stato di perfezione o di vivacità, ond'è mirabile, il suo Orlando Fttrioso, o per effetto di quei pretesi mali contro cui insorse la grammatica del purismo avesse mai potuto raffreddarsi il calore ond'espresse e corresse i suoi Promessi Sposi Alessandro Manzoni ! La corruzione della lingua è una delle tante illusioni che il vecchio concetto del linguaggio suscita e alimenta: e la grammatica non sorge in aiuto d'un guasto che è solo nella fantasia degli empirici. Ma, intanto, quanto inchiostro non s'è versato in queste discussioni che ogni tanto, anche dopo che la scienza le ha superate, risorgono anche tra persone colte, dividendone gli animi ! Meglio che in polemiche e in particolari trattazioni, un letterato pugliese, l'ab. Severino Boccia, autore del Tasso piangente , concretò la sua opposizione contro la Crusca in una vera e ampissima Grammatica e in un grande Vocabolario, che però non videro mai la luce . Uno dei padri della grani Napoli, Mich. Monaco, 16S2, sotto lo pseud. di Sincero Va/desio. Cfr. Guerrieri, L'abbate Severino Boccia grammatico e lessicografo pugliese del sec. XVII, Cerignola (estr.). La Grammatica italiana di Sincero Valdesio è contenuta in un ms. cart. legato in pelle bianca di oltre 500 pagine, parte numerate parte no. Una postilla in cui quest'opera viene attribuita al Boccia, reca la data iógo. Di essa fece un riassunto D. Felice, Roma, nel 1703, che poi passò all'Armellini. Il Voc. è parimenti ms. in cinque grossi volumi avrebbe chiamato il Boccia quel gran padre che ne fu Basilio Puoti, che potè vedere la voluminosa opera dell'abate pugliese . La Grammatica si apre con un discorso sulla lingua, il suo svolgimento, e il modo di studiarla: la grammatica vi è definita l'arte di parlare e scriver bene in tale idioma, senza vizio di barbarismo o solecismo , e se ne deduce che il favellare è proprio connaturale all'uomo e che nessuno può pretendere di parlare e scrivere bene, senza l'arte e lo studio: la macchina dell'opera sua poggia sopratre colonne di bronzo massiccio, la ragione, Y autorità, V usanza; ma l'A. non ha voluto giurare sul frullone delia Crusca, non sulla zucca degli Intronati, non sulla gru degli Oziosi, non sulla luna degli Erranti, né in altra celebre impresa di questa o di quella Accademia^). Da quanto ce ne dice il Guerrieri la trattazione è completa, dalle lettere, vocali e consonanti, sillabe alle parti del discorso, al pleonasmo, all'ortografia e punteggiatura; il notevole è che gli esempi sono tolti tutti quanti dal Tasso, sia per le regole che per le eccezioni: e le autorità del Vocabolario, dove spesso i modi di dire hanno il corrispondente latino, sono di frequente cavate dal Tasso. Così la Crusca veniva contraddetta in due modi, abbastanza pratici, nelle regole e negli esempi, e l'infelice poeta aveva in questo grammatico e lessicografo il più caldo e fedel difensore. Pro e contro la Crusca stette infine quel GIGLI (si veda) che, come dice il D'Ovidio, rinnovò lo scandalo col Vocabolario Cateriniano, libro riboccante d'arguzie e d'umorismo, ma spesso scurrile, pettegolo e maligno, non di rado anche insipido o adulatore , (p. 153) e del quale scontò l'audacia con umilissime ritrattazioni e il bando da Siena sua città natale e da Roma, dove fu precettore di D. Alessandro Ruspoli de' Principi di Cerveteri, per l'istruzione del quale ordinò l'operetta è dicitura che tolgo dal titolo che va sotto il nome di Regole per la toscana favella dichiarate per la più stretta e più larga osservanza in dialogo tra (*) Guerrieri, op. cit., p. 33. {-) Guerrieri. Su esso, T. Favilli, G. Gigli senese, nella vita e nelle opere, Rocca S. Casciano, 1907 (ma cfr. I. Senesi, recens. in Rass, bibl. d. leti. It. Maestro e scolare , una delle ultime e vere grammatiche di questo lungo periodo di cui siam venuti notando le manifestazioni più caratteristiche, cosa diversa dalle Lezioni di li?igua tosca?ia ("), che furono nuovamente raccolte dall'ab. G. Catena Senese. Al Gigli dobbiamo anche, tra l'altro, un'Orazione in lode della toscana favella, e la raccolta romana delle Opere di Celso Cittadini: egli poi accenna a tavole sinottiche de" Verbi ausiliari e regolari da lui compilate per distinguerne in quattro colonnette l'uso corretto antico, poetico e corrotto, distinzione non fatta dal Pergamini, e a una sua grammatica anteriormente stampata, che è tutt'uno con le Lezioni, dove infatti questa partizione è adottata. Avverte nella prefazione che ha più Grammatiche ornai la nostra Volgar Favella, che non ha genti (stetti per dire) che la parli ...; la chiama bastone ... istoriato dal Cittadini, fornito della punta di ferro dal Castelvetro, contro il Bembo, o fatto a nodi contro il Bartoli, il Beni, il Muzio; fornito di manico d'argento dal Castiglione ...; constata che l'Indie grammaticali non mandano altri Ucelli, che qualche voce spelacchiata dell'H; qualche verbo anomalo, che ha i piedi dove altri hanno il capo; qualche nome eteroclito di due sessi . E questo supergiù, come abbiam visto, era vero per la vecchia grammatica dell'italiano: poiché proprio ora, e precisamente usciva in Napoli per il latino il Nuovo metodo di Portoreale, che doveva naturalmente produrre la sua efficacia anche sull'italiano. Accenna, infine, a una nuova edizione del Donato con Avvertimenli grammaticali per la nostra volgar lingua, curata dal suo assistente alla cattedra d'eloquenza, Francesco Tondelli, che è un nuovo esempio di quella fusio ne che ormai si ve In Roma. Nella stamperia di Antonio de' Rossi, nella strada del Santuario Romano, vicino alla Rotonda, Venezia, Giavasina, e 29. Coi tipi del Pasquali in Venezia. In Lezioni, Venezia, 1736. (5) In Roma, per Antonio De' Rossi. In Roma, Chracas, 1710. Ma la prima ediz. era stata fatta in Siena. Un Donato al Senno ... con le. loro costruttioni et toscane dìchiarationi vide la luce in Treviso, per Gasparo Pianto. 35^ Storia della Grammatica niva facendo sempre più completa delle due grammatiche, l'italiana e latina, e sulla quale aveva insistito ne' suoi Discorsi accademici (cfr. specialmente il LXII, t. I, sopra la lingua latina) e nelle Prose toscane (le lezioni 22, 33, 44 sopra la lingua toscana, e la 47% Esortazione a comporne in toscano) anche Anton Maria Salvini. Le Regole come le Lezioni del Gigli non hanno maggior portata filosofica di quella che vien loro dall'essere informate a un certo spirito liberale di modernità e d'opposizione alla grammatica pedantesca e troppo ristretta, della quale abbandona il complesso schematismo, contentandosi di dar poche regole tra molti e vari esercizi (2); il che le rende naturalmente lodevoli sotto l'aspetto didattico. L'uso che il Gigli segue è quello degli scrittori del Trecento più comunemente accettati, che era un utile criterio per lui per propugnare quello della Santa concittadina, in servizio del quale prese a compilare il l'ocabolario Cateriniano, vessillo intorno a cui aveva tentato raggruppare un forte manipolo di ribelli, dove s'oppone a riconoscere in Firenze e nell'Accademia il diritto esclusivo di regolar la favella d'Italia. Per quanto editore delle opere del Cittadini, pure non sembra ne faccia la debita stima almeno per l'utile che ne possa venire ai discenti italiani: afferma, invece, che le ricerche dell'illustre concittadino sono assai più giovevoli agli Oltremontani, Vi si dice che lo studio del latino è necessarissimo per iscrivere perfettamente nel toscano. Questi luoghi segnalò già il Gerixi, op. cit., p. 8, n. Regole della poesia sì Latina che Italiana per uso delle scuole erano state edite per la 3a volta, in Venezia, presso Giuseppe Rota niella prefaz. è detto che questa è la prima poetica per le scuole). (2) P. es., è molto pratico quello indicato in fin del libro per conservare a memoria le Regole addietro scritte, per via di qualche racconto mescolato a studio degli usuali errori, che si commettono fra i Toscani medesimi; i quali errori qui si correggono dagli scolari fra di loro, con quest' ordine stesso, che dagli scolari della Grammatica Latina si pratica, ascoltando un avversario il recitamento a memoria dell'altro . Gigli mostrò di sapersi valere del dialetto per l'apprendimento della lingua. E forse a questo scopo avrà disegnato una Grammatica senese di cui parla in una sua lettera del 28 ott. 1715 (in Favilli, G. Gigli, se questa non è tutt'uno con le Lezioni o le Regole, o non è un termine vago per indicare i suoi studi grammaticali e linguistici. Capitolo undicesimo 359 ai quali tiene costantemente l'occhio specie per quel clie concerne la grafia. Né può esser lodato per ciò che concerne la critica de' testi e l'etimologia. Batte molto su i criteri stilistici, distinguendo come gli abbiam visto far per i verbi, un uso retto, antico, poetico, corrotto, che corrisponderebbe su per giù alle distinzioni fatte poi dal Manzoni. Ma è sempre sarebbe inutile osservarlo da quanto sin qui s'è detto sotto la vecchia concezione del linguaggio, per cui s'aggira costantemente nell'equivoco: Non troverete sollecismo , dice, che non possa con qualche esempio salvarsi, o del Dante, o de' suoi Coetanei, o di S. Caterina da Siena, e simili autorevoli Prosatori Poeti. Il pensiero com'è formulato determina il carattere del vecchio dogmatismo grammaticale. Il Gigli ci richiama al pensiero un sostenitore della Crusca, Niccolò Amenta (' ), già ricordato come Annotatore del Torto del Bartoli, e del quale anche, per ragion di tempo, ci dobbiamo ora occupare. L' Amenta già nelle Annotazioni al Torto aveva preso posizione netta contro il Bartoli e in favor della Crusca, giudicando che il Bartoli, menando beffe e strazio de' grammatici, non aveva seguito né le loro decisioni, né l'uso, o sia del popolo o de' più eletti, né l'autorità degli scrittori, né la prerogativa del tempo, né l'uso latino o il suo contrario, né la convenenza de' simili; ma or l'uno or l'altro, or due o tre insieme e più di tutto Y arbitrio, a cui una gran parte rimane in libertà, ed è per avventura la più diffìcile a ben usare, richiedendovisi un buon gusto proveniente da buon giudicio (p. 15). L'accusava d'aver plagiato il Cinonio, di cui non par facesse molta stima: e concludeva: se adunque vorrà tutto ciò considerare qualunque affezionato al P. B., ho per fermo, che compatirammi, s'io in queste osservazioni tra la forza che m'ha tatto principalmente la ragione, e per la riverenza che ho avuto a' Testi, a' buoni Grammatici, ed a' signori Accademici fiorentini, spessissime volte gli ho contraddetto. Protestando ad ognuno che se '1 B. scrisse questo libro (come già pare ch'egli stesso volesse) per far conoscere, che nella Toscana favella prevaglia (' spesso così accoppiati discussi dal Vico) poterono sodisfargli l'intendimento circa la guisa del nascime?ito, ossia la natura delle lingue, che troppo ci ha costo di aspra meditazione i1), e la cui Discoverta, ch'è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la Ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria. Medesimamente lo lasciarono insodisfatto i grammatici del rinascimento, da lui criticati e nella massima opera enel breve Giudizio intorno alla Grammatica d'Aronne. La metafisica è una scienza, comincia VICO (si veda), la quale ha per oggetto la mente umana. Ond'ella si stende a tutto ciò che può giammai pensar l'uomo. Quindi ella scende ad illuminare tutte le Arti, e le Scienze, che compiono il subietto dell'umana Sapienza. Le prime tra queste sono la Grammatica, e la Logica; l'ima, che dà le regole del parlar dritto, l'altra del parlar vero. E perchè per ordine di Natura dee precedere il parlar vero al parlar dritto; perciò con generoso sforzo Giulio Cesare della Scala, seguitato poi da tutti i migliori Grammatici che gli vennero dietro, si diede a ragionare delle cagioni della Lingua Latina co' principj di LOGICA. Ma in ciò venne fallito il gran disegno con attaccarsi ai principj di Logica, che ne pensò un particolare uomo filosofo, cioè colla Logica di Aristotile, i cui principj essendo troppo universali, non riescono a spiegare i quasi infiniti particolari, che per natura vengono innanzi a chiunque vuol ragionare d'una lingua. Onde Francesco Sanzio, che con magnanimo ordine gli tenne dietro nella sua Minerva, si sforza colla sua famosa Ellissi di spiegare gl'innumerabili particolari, che osserva nella Lingua Latina; e con infelice successo, per salvare gli universali principj della Logica di Aristotile, riesce sforzato e importuno in una quasi innumerabile copia di parlari Latini, dei quali crede supplire i leggiadri ed eleganti difetti, che la Lingua Latina usa nello spie- [In Croce. Scienza Nuova, Milano, Truffi. Non è questa la migliore edizione del gran libro; ma, avendo condotto su essa il mio studio, mi è difficile ora concordare le citazioni con la seconda edizione Ferrari. Cfr. Croce, Bibliogr. vichiana, Napoli, e Suppli'Diento.] garsi. Ma il quanto acuto, tanto avveduto Autore di questa novella Grammatica ha ridotto tutte le maniere di pensare, che nascer mai possono in mente umana intorno la sostanza, e le innumerabili varie diverse modificazioni di essa, a certi principi metafisici cosi utili e comodi, che si ritrovano avverati in tutto ciò che la Grammatica Latina propone nelle sue regole, e nelle sue eccezioni. Il frutto di una sì fatta grammatica è grandissimo, perchè il fanciullo, senz'avvedersene, viene informato di una metafisica, per dir così, pratica, con cui rende ragione di tutte le maniere del suo pensare; appunto come colla Geometria i giovani, pur senz'avvedersene, apprendono un abito di pensar ordinatamente. Per tutto ciò, secondo il mio debole e corto giudizio, stimo questa Grammatica degna della pubblica luce, siccome quella che porta seco una discoverta di grandissimi lumi alla Repubblica delle Lettere. Lasciando per ora da parte il rispetto del Vico verso la grammatica ancor classificata secondo il vecchio canone, è agevole vedere come la posizione presa da lui contro lo Scaligero e il Sanzio, acutamente distinti tra tutti i grammatici dell'antichità e del rinascimento, sia determinata appunto dal suo concetto fondamentale di fantasia e d'intelletto. Il Sanzio, moviamo da questo perchè supera lo Scaligero, pur avanzando di tanto i precedenti grammatici nell'interpretazione delle forme e de' costrutti latini, come quegli che ne cercava le radici nello spirito e non in un convenzionale ed esterior meccanismo ("), nel fatto linguistico e grammaticale non vedeva che un fatto logico, e, con quest'unico criterio, spiegava non solamente i casi ('j Opuscoli di Giovanni Battista Vico raccolti e pubblicati da Carlantonio de Rosa marchese di Villarosa. Napoli. Presso Piorelli. È notevole il tono, più che polemico, sarcastico e sprezzante con cui combatte le dottrine de' precedenti grammatici tutt' altro che indegni di alta stima come il Valla. Le espressioni che adopera contro di loro sono di questo tenore: Ridicala vero sunt quae inculcat Valla de Unus et Solus.... An non risu res digna est, quum Valla et Grammatici docent in his orationibus: Fortiores Troianorum superavit, et fortissimos Troianorum superavit: in priore esse genitivum partitionis, in posteriore minime? Sed horum insaniam Minerva exagitat. Quella Minerva nel nome della quale intitolò l'opera sua maggiore De caitsis linguae latinae di cui le Verae brevesque Grammaticae latinae institutiones sono un anticipato compendio. Capitolo dodicesimo 371 regolari della sintassi latina, ma tutte le apparenti irregolarità, mirando unicamente a questo, cioè a ridurre l'irregolare al regolare con quella che egli stesso chiamò la doctrina s?tpp tendi (l). ossia la dottrina dell'ellissi. Naturalmente non con la sola ellissi spiegava tutte le anomalie: poiché egli ammetteva cinque figure: il pleonasmo, l'ellissi, lo zeugma, la sillessi e l'iperbato, chiamando nionstrosi partus Grammaticarum (") l'antiptosi, la prolessi, la sintesi, V apposizione, V evocazione, la sinecdoche; ma latissime patet Ellipsis (;i), e perciò sull'ellissi particolarmente si diffonde , praeclarum munus . Dovunque l'espressione non è assolutamente geometrica, il Sanzio trova un' ellissi, e spiega il modo onde si supplisce, non accorgendosi della solenne smentita che dà alla propria dottrina, quando, come fa nell'introduzione alle Regulae generales (''), afferma che però sarebbe barbaro, neologistico, insomma inelegante, il modo regolare supplito, sciogliendo l'ellissi, all'irregolare. ...quid leporis habebunt tot proverbia, si integra referantur ?... Multa edam Grammaticae ratio nos cogit intelligere, quae si apponerentur latinitatis elegantiam disturbarent, aut sensum dubium facerent... Alia rursus videmus desiderari, quae sine barbarismo suppleri nequeunt et tamen Grammatica necessitas supplebit. In questo il Sanzio seguiva un'antica e sanissima veduta rappresentata principalmente da Quintiliano, il quale diceva: Aliud est Latine loqui, aliud Grammatice loqui, e seguita anche da Orazio, che il Sanzio cita con tanto maggior entusiasmo quanto più acremente rifiuta la tesi degli avversari, che pare non fossero né pochi ne in vero ignoranti. Supplementum , dicevan co- [Nell'opera qui appresso cit.: Doctrinam supplendi esse valde necessariam. SANCTIS (si veda) Brocensts in inclyta Salmanticensi Academia primarij Rhetorices, Graecaeque linguae doctoris, verae, brevesque Gramatices latinae institutiones, Salmanticae, excudebat Ma- thias Gastius. La introduzione si chiude con quest'enfa- tiche parole: Liceat iam nobis per Grammaticos thesauros Ellipseos aperire, sine quibus iniuriam facit Latino Sermoni, qui se Latinum audet nominare.] storo, reffugium est miserorum: si nobis liceat supplere quod volumus, omnes erunt valde bonae orationes . E non avevano torto, intuendo, senz'accorgersene, una profonda verità, quella cioè dell'impossibilità estetica della sostituzione della frase co- siddetta propria all'impropria, propria essendo solamente, cioè artistica, vera, espressiva, quella che s'è usata con tutti i suoi apparenti difetti. Horatius , dunque, diceva il Sanzio, quasi nostras partes agens, et Ellipsin amplectens, dixit li. I. Saty. io. Est brevitate opus, ut currat sententia, non se impediat verbis lassas onerantibus aures . Dove, come pure nella sentenza quintilianea, la Grammatica è solennemente liquidata e inverasi a maraviglia all'inverso il motto degli avversari del Sanzio: supplementum reffugium est miserorum ! Addurre esempi de' supplementi sanziani è superfluo e inutile, perchè occorrerebbe addurne tutto l'infinito numero, per vedere a che punto spinge il Sanzio l'applicazione della sua dottrina. Ora chi conosce una lingua, sa che il più è l'irregolare; onde converrebbe chiamar una lingua tutta una figura continuata. Il Vico, che aveva del linguaggio e della poesia una ben diversa concezione, derivandoli non dall'intelletto, ma dalla fantasia, in questo sforzo del Sanzio non poteva che vedere un'illusione, e, con disinvolta profondità, lo confuta e lo supera con quella semplice osservazione, che egli riesce sforzato e importuno in una quasi innumerabile copia di parlari latini, dei quali crede supplire i leggiadri ed eleganti difetti che la lingua latina usa nello spiegarsi ; dove la natura della lingua, i diritti della fantasia e i principi critici si affermano in una mirabile concordia veramente degna di quell'altissima mente. Così, egli, more solito, cioè con la massima semplicità, superava tutti i migliori grammatici, ripigliando con coscienza di causa l'antica tesi degli avversari del .Sanzio. Tuttavia non in questo Giudizio, dove pur non si vorrebbe conservata alla grammatica l'antica posizione che aveva nel canone tradizionale né fatta quella sottil distinzione tra parlar vero e parlar diritto, residui di vecchie vedute, non in questo Giudizio si esaurisce la sua critica della grammatica. Questa anzi è principalmente costituita dalla spiegazione della genesi delle parti dell'orazione e della sintassi che il Vico porge nei terzi Corollarj al cap. Della Logica poetica del libro secondo della Scienza nuova. Capitolo ti od ice si mo Lo Scaligero e il Sanzio avevano accettata tal quale la dottrina aristotelica delle categorie grammaticali: Aristotile aveva, in sostanza, dato al nome la funzione di esprimere la materia o Volte, al verbo quella di esprimere il moto o V azione, aveva cioè attribuito a astrazioni della nostra niente un valore effettivo e reale, aveva scam biato un concetto con un fatto. Accettar questa dottrina era, come benissimo osserva il Vico, conchiudendo que' corollari, un ammettere che i popoli, che si ritrovaron le lingue, avessero prima dovuto andare a scuola d' Aristotile (l); era un ammettere la preesistenza di categorie alla produzione del pensiero, un asserire che i parlanti si servirono di schemi astratti, per esprimere determinate parole, che fecero cioè l'impossibile. Il Vico diede invece una genesi naturale alle parti dell'orazione e alla sintassi, e insieme indicò V ordine con cui esse nacquero e la sintassi si formò. La lingua articolata mi rifò da questo punto per tenermi strettamente al mio argomento quella cioè delle tre che cominciarono nello stesso tempo ( intendendo sempre andar loro del pari le lettere (") ), degli Dei, degli Eroi e degli Uomini, cominciò con l'onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi i fanciulli (ricordisi che nella sua storia ideale umana il Vico paragona sempre i momenti di sviluppo dell'umanità con quelli dell'uomo); seguitò a formarsi con l' Interiezione; che sono voci articolate all'empito di passioni violente, che in tutte le lingue son monosillabe ; poi coi pronomi; imperocché le interiezioni sfogano le passioni proprie, lo che si fa anco da' soli; ma i -bronomi servono per comunicare le nostre idee con altrui d'intorno a quelle cose, che co' nomi propj o noi non sappiamo appellare, o altri non sappia intendere: e i pronomi pur quasi tutti in tutte le Lingue la maggior parte son monosillabi, il primo de' quali, o almeno tra primi dovett'esser quello, di che n' è rimasto quel luogo d'oro d'Ennio, Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Jovem, ov'è detto hoc invece di Coelum, e ne restò in volgar Latino, Luciscit hoc jam; Qui il Vico ricorda il Trissino. 374 Storia della Grammatica in vece di albescit Coelum: e gli articoli dalla lor nascita [avvertasi il trapasso dalla spiegazione dell'origine de' pronomi a quella degli articoli, che, se non prendiamo abbaglio, nella mente del Vico rappresenterebbero una cotal funzione di determinare il nome generata dal pronome, quando non scompagnandosi dal nome, perdette la sua vera funzione] hanno questa eterna proprietà d'andare innanzi a' nomi, a' quali son attaccati. Dopo si formarono le particelle, delle quali son gran parte le preposizioni, che pur quasi in tutte le lingue son monosillabe; che conservano col nome questa eterna proprietà di andar innanzi a' nomi, che le domandano, ed a' verbi, co' quali vanno a comporsi. Tratto tratto s'andarono formando i nomi: de' quali nell' Origini della lingua Latiiia ritrovate in quest' Opera la prima volta stampata, si novera una gran quantità nati dentro nel Lazio dalla vita d'essi Latini selvaggia per la contadinesca infin alla prima civile, formati tutti monosillabi, che non hanno nulla d'origini forestiere nemmeno greche, a riserba di quattro voci fiovg. ovg, jav$, o>jij>, eh' a Latini significa siepe, e a' Greci serpe... ed esser nati i nomi prima de' verbi, ci è approvato da questa eterna proprietà; che non regge Orazione se non comincia da nome, ch'espresso, o taciuto la regga. Finalmente gli Autori delle lingue si formarono i verbi come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi, perchè i nomi destano idee, che lasciano fermi vestigi; le particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo: ma i verbi significano moti, i quali portano l'innanzi, e '1 dopo, che sono misurati dall'indivisibile del presente difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un 'osservazione fisica, che di molto approva ciò, che diciamo; che tra noi vive un uomo onesto tocco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto dimenticato de' verbi. E pur i verbi, che sono generi di tutti gli altri, quali sono sum dell 'essere, al quale si riducono tutte V essenze, ch'è tanto dire tutte le cose metafisiche: sto della quiete, co del moto, a' quali si riducono tutte le cose fisiche, do, dico e facio, a' (piali si riducono tutte le cose agìbili, sien o morali o famigliari, o finalmente civili: dovetter incominciar dagli imperativi ; perchè nello Stato delle famiglie, povero in sommo grado di lingua, i Padri soli dovettero favellare e dar gli ordini a' figliuòli, ed a' famoli; e questi sotto i terribili imperj famigliari, quali poco appresso vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendo eseguirne i romandi; i quali imperativi sono tutti monosillabi, quali ci son rimasti es, sta, i, da, dic,fac. Analogamente si ritroverebbe, par che voglia dire il Vico, • Y ordine, con cui nacquero le parti dell'orazione, e 'n conseguenza le //aturali cagioni della SINTASSI (COM-POSITIO). Ora, date per provate tutte queste asserzioni di fatto del Vico riguardanti l'origine e la formazione nelle sue successive tasi delle lingue, qual è la differenza che passa tra la dottrina aristotelica delle categorie grammaticali e quella di VICO (si veda)? A me sembra profondissima. Di Aristotile abbiamo visto. Il Vico par ammettere l'esistenza di queste categorie; ma è solo question di parole; perchè, nella sua dimostrazione storico-genetica viene in sostanza ad annullarle. Le parti del discorso pel Vico corrisponderebbero ad altrettanti momenti della formazione del linguaggio o, eh' è lo stesso, della storia ideale dell'umanità: ogni parte è una fase della coscienza umana allargantesi alla concezione e all'espressione di nuove idee: perciò queste parti del discorso non sono categorie ricavate astrattamente dalla distruzione dell'espressione, come fa chi sottopone il fatto estetico unico, indivisibile a un'elaborazione logica; ma son vere e proprie parole, che il Vico appella coi nomi tradizionali della grammatica, tanto per farsi intendere, ma che non sarebbe affatto necessario chiamar in tal modo: ognuna di codeste parole è un fatto reale espressivo naturale per sé stante che si produce spontaneamente da una causa interiore. Se veramente codeste parole si sian formate nel modo accennato anzi affermato dal Vico e in quell'ordine, non possiamo storicamente provare, né il Vico può provarlo (gli esempi de' fancndli e de' paralitici valgon ben poco, secondo noi); ma, comunque siano andate le cose, questo é con piena evidenza chiarito che le lingue crebbero per fatto naturale, e che il discorso si andò sempre meglio organizzando a mano a mano che la coscienza dell'umanità si sviluppava, e che le parti di codesto discorso ne segnano le tappe successive: anzi, parti non potrebbero chiamarsi, poiché ognuna d'esse essendo una parola, ogni volta che questa veniva pronunziata, era un' espressioìie intera, cioè diceva tutto quello che il parlante voleva dire. Quel motto onomatopeico, quelì'ùiteriezione, quel pronome, quell' articolo, quel nome, quel verbo, anzi quell' imperativo, pronunziati dall'uomo primitivo, non sono categorie grammaticali, schemi preesistenti alla concezione stessa dell'idea in essi rappresentata e necessari assolutamente alla estrinsecazione di essa di cui sarebbero la formula d'espressione, ma veri vocaboli, vere parole, veri fatti espressivi, individuali e interi, che possono esser chiamati con quei nomi, ma per mera convenzione e senza alcuna necessità. Il Vico chiama il fatto estetico naturalmente prodotto coi nomi convenzionali astrattamente ricavati con un procedimento logico; Aristotile pretende che astrazioni logiche si esprimano con determinate parole. Come si vede, siamo agli antipodi; cioè z\V origine e quasi alla fine della grammatica. Dico qtiasi alla fine, perchè l' intuizione di VICO (si veda) non è rigorosamente e metodicamente dimostrata: e in ogni modo quello stesso parlar ancora di parti del discorso, non solo, ma il ripeter la definizione tradizionale del verbo, che significa il moto, ingenera per lo meno confusioni e dubbiezze; ma, presa nel suo insieme e nel suo spirito, la critica di VICO (si veda) si può ben dire che supera le precedenti vedute, e scioglie il problema. Ma, com'è noto, il Vico ebbe, almeno per allora, poca fortuna, e anche in questo terreno grammaticale i semi da lui sparsi non diedero alcun frutto, mentre sarebbe stato facile il fecondarli per opera di degni interpreti e continuatori. D'altra parte, neppur l'indirizzo logico-grammaticale di Porto-Reale fu, in questo periodo, seguitato in Italia con molto calore nei rispetti della lingua italiana, il Barba è una magnifica eccezione mentre invece specialmente in Francia alimentava una viva ed elevata letteratura grammaticale. Non che l'Italia fosse intellettualmente prostata o esaurita: decadimento ci fu, ma era solamente letterario e nessuno oggi oserebbe più estendere a tutto il pensiero e alla vita italiana del primo Settecento quant'era proprio solo dell'Arcadia. L'Italia si volgeva ad altri studi, specialmente a quelli d'erudizione e di critica storica, ne' quali si doveva rifar la coscienza, ripigliando le tradizioni cinquecentesche iniziate da Sigonio e da Borghini e trasmigrate nel Seicento in Germania e in Olanda. Oggetto di questi fervidi studi furono le costituzioni e le vicende politiche, il diritto, le costumanze, le origini e anche la lingua dell'Italia nuova, e, col Vico stesso, era alla testa del movimento Muratori, il rappresentante più caratteristico dell'attività intellettuale di quest'epoca italiana . Cardicci, Prefaz. alle Letture del Risorgimento ita/., Bologna, 1896, e ora in Opere, XVI, Poesia e Storia. Ma quello per la lingua fu un interesse non più solamente glottologico: allo studio della lingua antica d'Italia i nostri eruditi si volsero anche per la luce che ne potevano trarre sulla vita italiana e sulla condizione degli Italiani nel Medio-evo. Si rinnoveranno le controversie particolari sull'origine degli idiomi italiani, sul De Vulgari Eloqìientia, sull'eccellenza del Trecento e altrettali che costituiscono la cosidetta questione della lingua, ma il problema non è più solamente linguistico, è anche storico : non si tratta più di sole parole, ma di cose. La nuova coscienza italiana colorisce della sua luce le discussioni, rendendole meglio vitali e interessanti: nel Cinque e Seicento era la coscienza letteraria, ora è anche la coscienza civile che si propone il problema della lingua, della poesia e della letteratura quale testimonianza de' tempi. Siamo ai prodromi di quel rinnovamento scientifico che nella seconda metà del secolo determinerà il radicale rivolgimento degli stati europei. Non occorre che io ricordi qui più che i nomi del Crescimbeni, del Gravina, del Fontanini, del Gimma, del Maffei, del Giannone, dello Zeno, del Quadrio, ciascuno de' quali in opere d'indole e di soggetto varii discusse dell'origine o dello svolgimento della lingua, ma tutti, chi più chi meno, dominati dal concetto della reciproca influenza che popoli di civiltà diversa possono esercitarsi, e delle intime relazioni tra civiltà e letteratura, tra civiltà e lingua. In tali condizioni diminuirono le attrattive de' letterati verso la pura e arida grammatica, anche, non tenendo conto delle ampie, se non in tutto esaurienti, compilazioni grammaticali, come quelle del Buonmattei e del Cinonio, con la lunga tratta de' loro seguaci, sempre ancor circondate delle più vive simpatie, che non potevano non sviare dal proposito di nuove consimili fatiche. Cosicché chi si volse alla grammatica, se volle far cosa nuova, dovette tentar le uniche vie che almeno per ora rimanevano aperte: rinfrescar lo studio grammaticale che veniva rendendosi obbligatorio, con eleganti esposizioni, correggendo, vagliando; oppure, ch'era ormai vera necessità didattica, ridurre a metodo il sovrabbondante e spesso farraginoso materiale. L'una via e l'altra furono battute ugualmente: quella da Domenico Maria Manni, questa da Salvadore Corticelli: due letterati che si somigliano in più cose. Anzitutto nel sincero e fervente desiderio di tener desto e vivo il culto della prosa e della lingua toscana: poi nell'uso de' mezzi che scelsero a Capitolo tredicesimo 379 tal uopo, mezzi dirò così teorici e pratici: l'uno e l'altro intatti dettarono, pur tacendo cosa diversissima, regole e osservazioni di lingua, e racconti piacevoli che dilettando istruissero e incitassero allo studio di essa. Entrambi furono Accademici della Crusca. Le Lezioni di lingua toscana, di cui una terza edizione fu fatta nel 1773 (l), furon tenute dal Manni nel Seminario Arcivescovile di Firenze il 1736, per elezione dell'arcivescovo Giuseppe Maria Martelli, dove nulla sembrava mancare, fuorché lo studio, e la lettura della patria lingua. In Firenze pubbliche cattedre di lingua toscana, come vedemmo, e in Siena e altrove in Toscana, furono istituite dai Granduchi fin dal Cinquecento, e già prima nello Studio a principiar dal Boccaccio v'erano stati espositori di Dante e poi, nel Quattrocento, anche del Petrarca. Ma queste non furono mai vere e proprie istituzioni scolastiche in servizio esclusivo de' giovani e di contenuto puramente grammaticale: si rivolgevano al comodo del largo pubblico d'ogni ceto ed età. Se il Dati e altri letterati del tardo Seicento tornavano a lamentare che non si studiassero le regole e a predicare che non basta il nascimento per iscriver bene, ma occorrono studio e fatica, ciò vuol dire che un insegnamento metodico della grammatica non si era peranco istituito neppur in Toscana, e la testimonianza del Manni, per quanto riguardi un solo istituto, dimostra che quello del Martelli fu un primo tentativo d'introdurre ufficialmente nelle scuole l'insegnamento della grammatica: altrove, come a Napoli, un insegnamento siffatto mancò, anche dopo che lo sdoppiamento della cattedra di retorica del Vico inaugurò nell'Università quello d'eloquenza italiana ("). Il latino continuò per un pezzo a tener il campo della grammatica (3): e anche in queste Lezioni del Manni ne vedremo altre prove, dichiarandovisi spesso che a certe trattazioni sarebbe superfluo attendere, da poi che si compiono nella grammatica latina e sono sufficienti anche per chi studia quella del volgare. In ogni modo, almeno a Firenze, [Ho questa sott'occhio: fu fatta in Lucca, appresso Giuseppe Rocchi. GENTILE (si veda), Il figlio di Vico, cit. più innanzi. Perfino la grammatica generale s'innestò al' latina prima che alle lingue vive. 380 Storia della Grammatica non pare che ci fosse un insegnante speciale di lingua italiana, poiché nelle scuole laiche la materia delle lingue sarà stata disciplinata non diversamente dalle ecclesiastiche. Il Manni fu un grand'erudito, oltre che un grammatico: la sua Istoria del Decamerone è suo nobile titolo d'onore: queste Lezioni risentono in ogni pagina di questo spirito d'erudizione, e sono ricche di utili notizie anche per la storia della grammatica. Egli stesso anzi dichiarava che l'incarico commessogli dall'arcivescovo gli sarebbe servito di ben acuto sprone a compilare, in quel modo che avrebbe potuto, una breve Gramatica della Lingua Toscana, quantunque sentisse esser ella da altri omeri soma, che da' suoi. Son lezioni così distribuite: della necessità e facilità della Lingua Toscana, Delle lettere, Del nome, Parimenti del nome, Del pronome, Altresì del pronome, Del verbo, Dell'avverbio, Del periodo toscano, Dell'ortografìa. Come si vede, è un'esposizione saltuaria di talune parti dell'orazione e della grammatica, credendo l'autore non esser necessario fermarsi su tutto, conforme gl’esempi fornitigli da Strozzi e Sansovino, come fa, p. es., rispetto alle sillabe, tanto più che di esse cosa non ci ha quasi di dire che ai Latini insieme non appartenga (p. 46); né diffondersi con soverchia minuzia sui singoli argomenti, come usò, p. es., il Buonmattei a proposito de' verbi, de' quali discorse con rincrescevole lunghezza: eguale indifferenza dimostra il nostro Autore per i problemi della grammatica storica, che non servono ad altro che a far gittar via il tempo (p. 146). Tutto l'interesse del Manni è per la sovrabbondante bellezza della nostra lingua il che ci dice subito qua! sia la concezion che ne ha e per le questioni ermeneutiche, nella risoluzion delle quali egli poteva mettere a profitto la sua conoscenza degli antichi manoscritti, e il rigore assoluto che professava in fatto di regole. Quindi, mentre da un lato egli, sodisfatte U' principali esigenze a cui non si può sottrarre chiunque debba pur dar ilei paradigmi e delle norme generali intorno alle parti dell'orazione, si tien lontano dalla minuziosa trattazione metodica della sua materia, dall'altro e' si profonde in Capitolo tredicesimo 381 elucubrazioni elogiative della ricchezza e varietà ili nostra lingua, e s'ingolfa in particolarissime questioncelle veramente di scarsa importanza, come quelle del mai se significhi negazione senza il non, del lui e del lei se possano essere adoperati per egli ed ella, del cui se stia per chi soggetto. Sulla prima delle quali questioni, riferisce una curiosissima Sentenzia, data per le stampe in un foglio a sé, dell' Illustrissima et Eccellentissima Signora la Signora Donna Isabella Medici Orsina Duchessa di Bracciano, sopra la differenza fra Don Pietro della Rocca Messinese Cavaliere di Malta, et Cosimo Gacci da Castiglione, sopra la voce mai, se è negativa, o affermativa, secondo la quale si giudicava : esso cavaliere Don Pietro della Rocca, che teneva, che mai negasse senza la negativa, ha bene sentito, e tenuto secondo il commune, et buon uso del parlare Toscano , e che si chiudeva con queste sacramentali e solenni parole: In fede di che habbiamo fatto scrivere questo nostro lodo, dichiarazione, et sentenzia, la quale sarà affermata di nostra propria mano, et segnata col nostro solito sigillo. Data, nel nostro Palazzo a Baroncelli a dì XX, presenti M. Roberto de' Ricci, et M. Giovanni Antinori, gentil' huomini fiorentini. Noi Donna Isabella Medici Orsina, Duchessa di Bracciano affermiamo quanto di sopra . Era l'anno della celebre rassettatura del Decameron, e il rumore di quel gran lavorìo aveva, si vede, degli echi anche nelle corti, dividendo gli animi come se si trattasse della salute dell'Italia. A tanta sentenza non s'inchina il Mannij che ricorda le parole dello Strozzi affermanti che il mai Dante, il Petrarcha il Bembo e il Casa non l'hanno mai fatto negare senza il non ! (pp. 182-4). Medesimamente non accetta il lui e il lei per casi retti, e vi spende intorno ben ventidue pagine, raccontando la storia della questione e impugnando, come già aveva fatto il Fortunio, che però non cita, la lezione di quell'emistichio petrarchesco, E ciò, che non è lei del son. Pien di qicell' ineffabile dolcezza, che si dovrebbe leggere E ciò che non è in lei, secondo anche un ms. o di quel torno della libreria Riccardi, segnato 0,19 ! È noto che dal Filelfo al Monti è stato discusso su questo passo, e anche dopo, finché quelle che il Mestica ha chiamato invincibili ragioni estetiche e grammaticali Q} del Monti non ebbero la conferma dell' auto Ed. critica, Firenze] grafo vaticano 3195, che infatti legge E ciò che none lei, come ora ognun può vedere nella riproduzione letterale data dalla Filologica romana . Secolare questione, tenuta sempre viva dal pedantismo grammaticale tenacemente ribelle a riconoscere funzione soggettiva a lui e lei ! Simili investigazioni e discussioni ci porgono la misura del valore di queste Lezioni, e di quel che sarebbe stata la Grammatica che era nell'intendimento del Manni: tranne per qualche correzione ermeneutica da accettare perchè fondata su dati di fatto documentati da manoscritti autentici, la dottrina grammaticale del Manni rappresenta un regresso per l'età sua, un puro ritorno alle vedute cinquecentesche dei più puristi senza il pregio della spontaneità dell'osservazione, che allora corrispondeva a un bisogno pur mo nato di comprendere le forme esteriori d'una letteratura che andava sempre più acquistando importanza e grandezza. Le IX lezioni Del periodo toscano hanno un particolare interesse per le considerazioni alle quali possono offrire occasione. Abbiamo visto come alla sintassi sia stata fatta sempre poca o nessuna parte nelle grammatiche italiane: nel Cinquecento l'esempio del Giambullari, che fu il primo, sotto il consiglio del Gelli, a trattar largamente della costruzione intera e figurata secondo l'uso de' retori latini e greci, non fu molto seguito, e restò quasi isolato; tanto che il riassuntore di tutte le più che secolari osservazioni grammaticali, il Buonmattei, nella sua voluminosa grammatica, non dà luogo affatto alla sintassi e se parla del ripieno (pleonasmo), lo fa perchè lo considera come parte dell'orazione, non necessaria per altro alla tela grammaticale, e non come figura sintattica. Della costruzione tornò a trattare, come vedemmo, il Menzini, ma solo in quanto gli dava materia di discorrere appunto delle figure grammaticali, non del vero e proprio reggimento, e per influenza della grammatica sanziana e particolarmente della teoria dell'ellissi; supplì, come pure vedemmo, il Cinonio all'assenza della trattazione sintattica, con quel suo speciale sistema di passare in rassegna l'uso delle cosidette particelle: ma neppure il Cinonio trattò A cura di E. Modigliani] quella che propriamente si chiama la sintassi. Di questa, vedremo tra poco, e perchè, s'occupò direttamente e di proposito il Corticelli, trasportando di peso il metodo della grammatica latina nell'italiana e rimanendo così a mezza strada. Ma al periodo pochissimi grammatici , come s'è visto, rivolsero la loro attenzione, come ad oggetto diretto d'osservazione grammaticale. Né poteva esser diversamente. Avremo anche più volte ripetuto che nella sua esterna compagine la nostra grammatica si venne modellando sulla latina, svolgendo negli schemi da questa offerti il nuovo suo contenuto. Ora la trattazione del periodo per i latini non fu mai materia di grammatica, ma, come organismo d'arte e di pensiero, apparteneva alla rettorica. Così esso entrava nelle Artes dictandi de' nostri antichi dittatori, che erano, anche se si chiamano grammatici e maestri di grammatica, essenzialmente retori e maestri di rettorica. Il periodo insomma riguardava quella sezione della rettorica antica che è l'elocuzione. Il nostro Manni, infatti, accingendosi nella detta lezione, a discorrere del periodo, cita il retore Demetrio Falereo, il quale nel suo celebre Trattato dell'Elocuzione accintosi a parlar del periodo, tratta prima de i Membri, e degl'Incisi, come parti sostanziali, da cui riceve esso materialmente il suo essere; poiché dalla chiara cognizione di questi, la perfetta intelligenza di quello si facilita, se non in tutto, in gran parte. Quindi per ispiegare in un tempo stesso e del Periodo e de i Membri, e degl'Incisi l'essenza, con un esemplo, a mio giudicio, esprimente, rassembra il Periodo a una mano, della quale ogni dito che si consideri separatamente da quella, si trova essere un tutto in sé stesso perfetto; laddove poi se col risguardo all'intera mano si osservi, altro non è, che un membro, ed una picciola parte fra l'altre tutte, che vengono a comporlo. E poi cita subito il Panigarola nel Commento alla Particella terza della prima parte del suo Demetrio, e poi il cap. 9 del 30 della Rettorica d'Aristotile, doveil periodo vien poi diviso in Semplice, e in Composto, non altro essendo il Periodo semplice, che quello, che fatto è d'un Membro solo; il composto quel di più Membri. Ricordo, tra gli altri, il Gagliaro . Y. qui il cap. Vili e particolarmente la p. 25; Sulla scorta dei trattatisti antichi e moderni , che hanno fatto sopra di ciò trattati pienissimi , dichiara il Manni che potrebbe molte cose portare ai suoi discepoli; ma le tralascia, per non ripeter ciò che è stato detto dagli altri e che ognuno può veder da sé, e perchè le cose che dir potrebbonsi, non meno appartengono al Greco, ed al Latino periodo, di quel che al nostro Toscano abbiano attinenza (p. 200). Suo intendimento è ragionare soltanto del Periodo Toscano dal Boccaccio con sottile accorgimento nella Lingua nostra introdotto , mirando a eliminare un inconveniente comune negli scrittori e oratori. E appena necessario avvertire che il Manni concepisce il periodo come un esteriore meccanismo o strumento per l'espressione del pensiero, che si può togliere in prestito, insegnare o trasmettere da scrittore a scrittore. Le particolari osservazioni movono tutte da questa concezione, che è poi quasi interamente rettorica e punto grammaticale. Il forte, e l'essenziale del discorso ed il fondamento della buona eloquenza si è in primo luogo l'abbondevolezza delle cose, e la robustezza de' concetti, e de i sentimenti sul capitale di un gran sapere accumulata (p. 201). Poi la giudiziosa scelta del genere di parlare (lo stile), se alto, mediocre, o umile ('"), che però appartiene all'arte di dire. Da questi principi, derivano l'uso de' termini, degli epiteti, e degli avverbi ottima, ed abbondevole guernigione di nostra lingua. Ma la prima caratteristica del periodo toscano è V ordine del tutto e delle parti. L'ordine dev'esser naturale: da esso non si disgiunge la naturalezza e la chiarezza, cui è compagna la sonorità. Questa bisogna conseguire specialmente al principio r al fine del periodo, e particolarmente al fine. I Greci per conseguirla erano esercitati dal I^onasco, esercitatore della pronunzia . Essa in gran parte dipende dalla misura delle sillabe, negata da Bartolomeo Cavalcanti all'italiano, benché prima della [Tra questicita Giovita Rapicio, autore d'un Trattato del numero oratorio [De numero oratorio'], e lodatissimo maestro e scrittori.li ose grammaticali e pedagogiche. Cfr. Gekini, op. cit., p. 124 sgg. Recentemente gli è stata dedicata una monografia. Reca l'esempio di sinonimi del verbo morire: Trar l'aiuolo, Tirar le cuoia. Render l'anima al Creatore suo, Pagare alla natura il suo diritto.] sua morte la fosse stata asserita nel 1556 dal Ragionamento del Lenzoni, edito dal Giambullari, sulla quantità delle nostre sillabe, de' nostri piedi, de' nostri periodi, e prima ancora dagli Accademici della Virtù che ne diedero per le stampe i precetti. essendone stato primo autore Alberti. I Latini avevano le lunghe e le brevi, e noi abbiamo gli accenti. Il periodo non vuol esser terminato né da voci monosillabiche né assai lunghe. Il Boccaccio comincia e finisce il suo primo periodo del Decamerone con due trisillabe piane. Modello di numero oratorio è l'orazione del Casa per la restituzion di Piacenza. Utile a conseguir la sonorità è esercitarsi a dir improvviso versi di cinque, di sette, e d'otto piedi, alla mescolata, ma senza incorrer nel biasimo quintilianeo dell'uso de' versi interi nella prosa. Vizio rimproverato già al Boccaccio, ma dall'annotatore de\V Ercolano del Varchi non ritenuto tanto riprovevole, essendo impossibile non adoperar versi ne' periodi. Vizio è quando il verso si raffigura, o sia si fa sentire troppo spiccatamente, e l'editore delle Novelle che ne trasse fuori i versi adoperatevi, è lui biasimevole che la sua brevissima dedicatoria cominciò con una filza di versi. Il Panigarola si restringe a disapprovar nella prosa solo la rima. E un fatto che la bellezza del periodo dipende dalle parole bellamente acconce: volendo, ad es., conseguir la grandezza e la magni fi ee7iza, si deve far uso in principio de' casi obliqui, di repliche giudiziose, e anche di parlare alquanto oscuro, e tardo ! . Analogamente si conseguono l'evidenza, la vaghezza e la leggiadria, con simili espedienti: così la dolcezza è prodotta da parole dolci (Luce, Desio, Gioia), la languidezza e bassezza da parole lunghe, e sdrucciole; l' asprezza, la durezza, la severità da parole simili a queste: Stordimento, Discoraggiare, Stranezza, Frastuono . Insomma con la scelta delle parole, che meglio paroleggiamento appellar si potrebbe , si conseguono effetti sorprendenti. Son questi: Il sommo pregio dell'uom meritevole Non resta mai all'augusto confine Di sua dimora; ma perennemente Ovunque è cognizione di virtù Vera si spande; quindi l'Eccellenza Vostra sdegnar non deve ch'io da lunge ecc. C. Trabalza. 386 Storia della Grammatica Finalmente tre cose bisogna evitar nel periodo: Lunghezza eccedente, Trasposizioni non naturali, il Verbo al fin trascinato. Ho voluto esporre questa dottrina del periodo che il Manni formulava nel 1736 per far notare, come, mentre le dottrine grammaticali del Vico superavano il logicismo scaligero-sanziano, e questo, in ogni modo, fecondato dai solitari di Portoreale, produceva quella sì ricca letteratura di grammatiche ragionate o filosofiche, in Italia, ne' nostri istituti, si era ancora con l'antichissima rettorica, cioè proprio agli antipodi delle più nuove dottrine. Come s'è visto, nell'organismo periodico il Manni non ha intravvisto nessun legame tra le parole, l'ordine di esse e il pensiero, che non fosse rettorico; tutta la concordanza è tra la figura dirò così geometrica e musicale del periodo e una cotal forma di pensiero in essa rispecchiata. Tra la nona e l'ultima lezione il Manni espone il Galateo, e con la decima sull'ortografia, un gruppetto di osservazioni spicciolate di poco valore, chiude il corso. Né meno lontano del Manni dalle alture grammaticali dell'indirizzo filosofico contemporaneo troviamo il Corticelli, benché le sue Regole ed Osservazioni portino scritto in fronte la parola ?netodo(~). Alla tradizione seguita dal Manni appartengono quel p. Onofrio Branda, che nel suo Dialogo della lingua toscana tenne fermo con tirannide pedantesca e inurbana il culto del toscanismo (Concari, // Settecento, p. 242) e Girolamo Rosasco, de' cui sette dialoghi sulla lingua toscana avremo occasione di riparlare altrove. C') La parola metodo ha storicamente, per questo periodo, due significati, secondo che era adoperata dai seguaci di Portoreale, o dai grammatici puristi che intendevano sistemare didatticamente la materia grammaticale: per quelli il metodo riguarda V interno della grammatica, per questi Veslerno. 11 Nuovo Metodo di Portoreale, dopo la prima ediz. ital. cui già s'è accennato, cominciava a esser ora più largamente diffuso e ristampato in Italia con più frequenza. Dal latino, pel quale primamente fu escogitato, passò di leggieri al greco, e quindi al francese e all'italiano. I Portorealisti stessi avevano eseguiti i vari metodi. Un Nuovo metodo per la lingua italiana la più scelta estensivo a tutte le lingue pubblicò G. A. Martignoni a Milano. Ma anche in quello escogitato per apprendere la lingua latina era fatta una gran parte anche all'italiana, tanto che verso l'ultimo trentennio del secolo usciva anche, in compendio, come in Venezia, col titolo di Nuovo metodo d'insegnai e le lingue italiana e latina. E anche tipograficamente si volle distinta la parte Capitolo tredicesimo 387 Dai diciannove trattati del Buonmattei e dalle Particelle del Cinonio, alle Regole del Corticelli corre un secolo preciso, poiché questa Grammatica vide la luce la prima volta, fruttando all'autore con gli utili appunti degli Accademici la nomina a membro del massimo Istituto linguistico. Con tutte le sue novità, questa Grammatica, che ha il suo principal fondamento in quella del Buonmattei e che si ristampava nel 1854, a due secoli di distanza dunque dalla comparsa della sua fonte, è nuova testimonianza del fatto da me notato, che la storia della nostra grammatica precettiva in quanto contiene una tendenza filosofica finisce col Buonmattei: dopo il Buonmattei, se si vuol seguire il progresso scientifico, bisogna percorrere l'altra via che si stacca appunto dal Buommattei medesimo per quel che concerne il fondamento teorico delle grammatiche ragionate che vi ha di proposito la lingua italiana , coni' è detto nella prefazione all'ed. seguente, uscita in luce negli anni in cui ci troviamo col nostro discorso: Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua Ialina traila dal francese nell'italico idioma, e, per utilità di novelli scolari, aggiuntovi nel principio gli Elementi tolti dal Compendio della medesima opera, per intelligenza di tutte le parti dell'Orazione e nel fine un tratta te Ilo della Volgar Poesia coir Indice dell' Opera sinora desiderato all'uso del Seminario Napoletano, in Napoli, Per Pietro Palumbo, a spese di Raffaello Gessari, voli. 2. Nel proemio è detto che le regole vi sono dettate in versi seguendo le pedate dell'A. . Vi si richiamano lo Scaligero, il Sanzio e il Vossio. Si deplora che nella letteratura si segua uno stil figurato [fantasia], mentre basterebbe il grammaticale [ragione']: invece di amare vanno in pesca di amore prosegui, benevolentia complecti! Nella trattazione, sotto le varie sezioni e categorie grammaticali, dopo date le definizioni e le regole per il latino, viene, in carattere più piccolo, la parte per l'italiano. Così a p. 3 incomincia l'uso dell'articolo. Ma non è una trattazione sistematica per l'italiano per quanto riguarda la prima parte, cioè la morfologia; e anche nella seconda, Osservazioni particolari sopra tutte le parti dell'Orazione , al trattato delle figure di costruzione , delle lettere , benché sia detto che è trattato '1 tutto in rapporto alla lingua italiana (p. 648 sgg.), nell'esecuzione la promessa è spesso dimenticata. E questa l'edizione che seguo: Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo ed in tre libri distribuite da Corticelli bolognese colle correzioni e giunte di Pietro dal Rio ed altri. Un volume in due fascicoli. Venezia, Stabilimento enciclop. di G. Tasso edit., M . DCCC . LIV. Il Corticelli era di Piacenza.] e filosofiche, che in Italia fanno una non breve apparizione e, inaugurate come vedremo con quella di Soave, caddero sotto la scomunica del risorto purismo incarnato in Puoti, proprio nel tempo stesso in cui il più illustre scolaro del Puoti, quasi di soppiatto del maestro, concepiva il disegno d'una nuova grammatica filosofica che contenesse anche ed insieme la grammatica storica e la grammatica metodica, facendo una liquidazione generale di quante grammatiche italiane da quella del Fortunio a quella del Corticelli avevano codificato il purismo bembesco-cesariano. Le novità con cui si presenta Corticelli, erano queste tre: il metodo; la costruzione (sintassi); un florilegio di frasi idiomatiche degli Autori del buon Secolo. L'ordine della trattazione è rispettato: MORFOLOGIA, SINTASSI, pronunzia, ed ortografia. Gl'insegnamenti erano fondati su gli esempi di buoni, ed approvati toscani scrittori , antichi fino al 400, moderni dal 500 in poi; gli esempi tolti in maggior copia dai trecentisti, e più specialmente dal Boccaccio, la prosa migliore, che vantar possa la nostra lingua, secondo il testo Mannelli. Questo il carattere e il pregio delle regole grammaticali: sono minuzie, che non si apprendono senza molestia: ma il ben saperle, e l'averle all'occasione in contanti è cosa di molto vantaggio. Qui troviamo condensati tutti i criteri che più tenacemente prevalgono con la forza stessa della loro pedanteria, in parte, in parte per quell' esigenza cui sembra che ineluttabilmente debba sodisfare chi voglia apprendere una lingua. La terza di quelle tre novità, era una conseguenza del criterio principale onde fu mosso il Corticelli nella compilazione della sua fortunata operetta, la riduzione del vario e vasto materiale a metodo: il bisogno di ridurre a metodo i precetti non poteva non ispirar l'altro di ridurre a metodo e come alla portata di mano il vocabolario delle veneri, de1 modi vaghi e belli onde riboccali gli aurei scrittori. Riconosciuta la sconfinata importanza, la fatidica necessità, l'assolutezza della grammatica, unico segreto per riuscire elegante e corretto artefice di prosa, lo studio degli scrittori doveva anch'esso ristringersi sotto il vasto imperio della grammatica, riducendo quasi in pillole e condensando in confettini il loro succo migliore: la conquista dell'arte non era, non diciamo effetto di vita e di elaborazione Capitolo tredicesimo 389 intcriore, ma neppur risultato della lettura degli artisti di prosa e di poesia, ossia dello studio concreto della letteratura; essa era infallibile conseguenza di chi si fosse bene impresse le regole della grammatica e le belle frasi di aver pronte al bisogno, come quelle che son molte e fuggono facilmente dalla menu >ria (ib.). Era, come ognun vede, l'allontanamento completo dalle vive, fresche e perenni sorgenti del pensiero e dell'arte: era il portare al suo ultimo grado di sviluppo degenerativo quella che, in sostanza, nel Cinquecento era stata, più o men bene condotta osservazione degli scrittori e non legge già imperiosamente dedotta: era insomma l'avvento tinaie e completo della grammatica nel peggior senso della parola, che è poi, non dimentichiamolo, il vero senso di essa. Quella del metodo era una novità, ma fino a un certo senso: già nel Cinquecento le osservazioni grammaticali contenute nel terzo libro delle famose Prose del Bembo erano state ridotte a metodo dal Flaminio e da altri variamente rassettate e accomodate all'utilità pratica degli studiosi della nostra volgar lingua, né erano mancate compilazioni grammaticali che quella materia stessa avevano disciplinato: il bisogno d'aver un corpo ordinato di quelle osservazioni che via via sotto lo studio diretto degli scrittori si eran venute facendo, da poter esser consultato volta per volta oltre che tenuto come testo per uno studio sistematico della grammatica sia pur fuori dell'ambito strettamente scolastico, era stato più o meno vivamente sentito e s'era cercato di sodisfarlo con qualche successo: e anche a non citar i cosiddetti mestieranti che non il Bembo soltanto, ma i principali grammatici cinquecenteschi avevan raccolto e ordinato a uso degli studiosi, lo stesso Salviati in quei suoi Avvertimenti sul Decameron aveva dato un lodevole esempio del come le forme e i costrutti d' un cosi ins igne capolavoro e d'altre opere dell'aureo secolo potessero esser studiate metodicamente nelle tradizionali categorie: e il Castelvetro, sopra tutti, pur in quelle apparentemente farraginose e selvose e irte sue Giunte alle Prose del Bembo che ebbero a stancar la pazienza di lettori non pochi, non esclusi i benevoli e amorevoli critici del più sottile di tutti i filologi nostri antichi, non aveva forse applicato un principio eminentemente metodico di esposizione? Metodico, nel senso più elevato della parola questo soprattutto interessa qui metter bene in rilievo più e meglio che nell'esposizione 390 Storia della Grammatica dirò esterna della materia contenuta nelle due principali categorie grammaticali, V articolo e il verbo, su cui aveva esercitato il suo spirito critico, era stato nella trattazione interna di essa, ossia nello svolgerla nella sua formazione storica, come quegli che, precorrendo assai meglio d'altri precettisti, come vedemmo, il sistema d'investigazione linguistica proprio della moderna filologia, aveva mosso dalla parola latina per ispiegare coi criteri della fonetica evoluzionistica e in ispecie con la legge dell'analogia, la morfologia dell'articolo e del verbo volgari. Infine con metodo aveva cercato di stendere, nella prima metà del Seicento, i suoi trattati il Buonmattei, elaborati sul materiale vario e diverso che i grammatici del Cinquecento gli avevano trasmesso. Anzi, nell'ordine che chiamerò ideologico, il Buonmattei è metodico quant'era stato nell'ordine storico o filologico il Castelvetro. Non solo. Il Buonmattei avrebbe proprio inaugurato il vero metodo dell'esposizione grammaticale astrazion fatta dal regresso che rappresenta rispetto al Castelvetro per quanto concerne la grammatica storica nel senso di un principio filosofico secondo il quale sorgono e si dispongono nella tela grammaticale le parti dell'orazione, se tra la sezione teorica e quella pratica, onde consta la sua grammatica, fosse un ben più intimo legame di quel che, come già notammo, in realtà non sia, poiché questa seconda sezione resta in sostanza quasi unicamente descrittiva. Ciò che non avvenne nelle posteriori grammatiche generali specie della Francia, dove appunto la grammatica generale s'incorpora nelle particolari del latino e delle lingue moderne con intimo legame. Non si può negare che in codesta descrizione non sia cercato il metodo con piena convinzione e coscienza; ma Buonmattei era ancora troppo vicino alle varie tendenze, alle polemiche che si svolsero nel campo della grammatica cinquecentesca, perchè non dovesse risentirne 1' influenza né lasciarne le tracce nella sua trattazione. Inoltre il troppo definire le specie e le sottospecie delle categorie, la confutazione d'errori e di teorie credute sbagliate, una soverchia abbondanza di svolgimento e di particolari, la moltiplicazione delle categorie stesse portate a dodici, e altri che sono e non sono difetti, non sono certamente le caratteristiche meglio notevoli d'una trattazione metodica. Egli stesso trovava il suo libro di non facile uso né di facile intelligenza e raccomandava che si studiasse prima della prima la seconda parte per ben comprender l'una e l'altra e specialmente la prima. Insomma, neppure quello del Buonmattei sembra che rispondesse al bisogno d' un libro di grammatica metodico, chiaro insieme e, come dicevano, manesco. Le aggiunte e correzioni, inoltre, che il Cinonio, il Bartoli e gli altri, che s'occuparono per tutto il resto del secolo e il principio del successivo di cose grammaticali, apportarono al corpo di quelle del Buonmattei, e i mutati ordinamenti scolastici, ne' cui piani cominciava ormai a entrare ufficialmente e separatamente, come vedemmo essersi fatto nell'Arcivescovile seminario di Firenze, rendevano ancor più vivo quel bisogno, anzi tanto vivo, che potè sembrare un bisogno recente, proprio del momento, e novità quella di chi introducesse il metodo nella trattazione grammaticale. Parrebbe inoltre che quel movimento intellettuale che s'era determinato nel campo della grammatica latina con la discussione e l'applicazione dei principi aristotelici ripresi dallo Scaligero e dal Sanzio e poi nuovamente fecondati dai Portorealisti, e che, richiamando gli studiosi della lingua a una considerazione più elevata che non fosse quella puramente descrittiva della grammatica, necessariamente li costringeva alla ricerca delle relazioni logiche de' fatti linguistici e perciò a una trattazione disciplinata, sistematica di esse, parrebbe, dico, che codesto movimento logico-grammaticale del Seicento cadente e dell' ineunte Settecento dovesse far sentire ancor meglio la necessità del metodo, né fosse estraneo appunto all'affermazione corticelliana dell'urgenza di sopperirvi; se non che, non solo questo non avvenne, ma a codesto movimento, non che estraneo, fu affatto in opposizione il modo onde il Corticelli esplicò il suo disegno di grammatica metodica. Precorre in questo senso il Corticelli di pochi anni nelle novità richieste dai tempi non si è mai soli Gaffuri barnabita, autore di Osservazioni grammatica/i ridotte a metodo breve e facile per chi desidera correttamente scrivere nella Italiana favella; dedicato alla ingenua e studiosa gioventù Friulana, Udine. Il Gaffuri dice appunto che i fanciulli si spaventano dinanzi ai volumi del Buonmattei, del Castelvetro, del Salviati, del Cinonio, e non possono profittarne: ed egli intende con questo suo libriccino aver supplito alla debolezza degl'uni, ed all'impotenza degl'altri. Ma, all'atto pratico, si vede che il metodo è concepito come abbandono di tutta la ricchezza delle osservazioni, e conservazione di alcuni pochi schemi. Prima ancora di Gafi'uri, Bosolini aveva pub- [Il suo metodo, in sostanza, si ridusse a scarnire fino quasi allo scheletro il corpo della grammatica, e, fattene tre sezioni, descriverlo pezzo per pezzo per regole, osservazioni, eccezioni e appendici con semplice meccanismo, senza mai cercare una ragione di intima dipendenza tra una parte e l'altra o altra distinzione che quella del numero progressivo, badando solo a render la materia facilmente imparabile a memoria, e de' precedenti grammatici limitandosi a citar qualche nome, più spesso quello del Buonmattei, e cancellando quasi ogni traccia delle vecchie discussioni anche con rimandi ad esse, ligio soprattutto specie per gli esempi all'autorità della Crusca, che, anche per confessione de" suoi annotatori, Corticelli continuamente saccheggia a maggior conferma della rigidità e assolutezza de' principi a' quali s' informa. Metodo vuol dir guida razionale, blicato la Midolla letteraria della lingua italiana purgata, e eoi' ietta con un competente Saggio de' suoi quattro principali dialetti cui s'aggiunge una Midolla di Le t ter familiari, per il principiante: il lutto ordinato con nuovo metodo a prò di un Amico, Venezia; ma se non vogliamo credere alle parole del titolo, questa grammatica, che potè esser stata ispirata dalla pubblicazione che appunto circa questo tempo) il Gigli fece delle Opere del Cittadini, più che al periodo diremo precorticelliano, sarebbe da riferire a quello postcittadinesco, per la parte ivi data alla fonetica e ai quattro idiomi toscani e al criterio non. esclusivamente municipalistico. Ognuno deve cercare, dice l'A., di star nel proprio terreno, evitando i due scogli o di dover praticar la pronunzia fiorentina, e quindi apparire in casa loro affettati e ridicoli, o di scrivere molto diversamente dal loro pronunciare, ch'è manifestamente contro i dettami di tutti gl'Italiani più saggi. La grammatica è contenuta nella I parte I. Ortografia: lettere, cons., voc, ditt., apostr., radd. o scem., maiusc. e staccamento; II. Etimologia: art., nome, pron., ver., pers., anomali, part., accorc, tronc, ristring., voci; III. Sintassi', div. della materia, dialetti (fior., sen., cur.-rom., comune, corrisp. ai greci attico, gionico, eoi., dor.), forma della sint.; Prosodia: accenti, interp.). Da pp. 16-22 riassume i trattati cittadineschi sull'i e Yo aperti e chiusi. E chiuso, p. es., è di 4 cause: 1. per accento grave: dove, pensoso (ma penso); per origine latina: lèttera; per ragioni della lettera: seguito da;/ o u: meno; 4. per definimento: -ménte (altamente ecc.). Di questa guisa d'errori [valore de' modi toscani] abbonda il Corticelli in queste sue Appendici ecc., i quali attinge si può dir tutti dal Voc. della Crusca. Però fin da ora ne sveglio il lettore, a cui non istarò a torre il capo con noterelle di questa specie. Uomo avvisato è mezzo salvo!] ordine interno di trattazione, svolgimento sistematico di relazioni o intellettuali o storiche: qui, invece, è scolasticismo, simplitìcazione didattica ottenuta con criteri meccanici, mnemonici, aiutata da partizioni e suddistinzioni, indici analitici: che, peraltro, possono rendere il libro di facile consultazione a chi voglia cercarvi una regola, ma non sono certi gli espedienti migliori a mettere lo studioso in possesso dell'argomento. Ma conviene del pari riconoscere che tal sorta di metodo è l' unica degna d' un tal prodotto qual è la grammatica: codesto metodo è l'unica logica di essa, che non ne ha appunto nessuna. E questa è la ragione per cui ha finito col trionfare non nella sola grammatica italiana, s' intende, e prevarrà indubbiamente fino a che si studieranno grammatiche. Quello della grammatica è studio meccanico: quindi spogliarla d'ogni intrusione razionalistica è, nel campo della didattica, perfettamente metodico, e renderla veramente servibile (che servizio sia, è inutile dirlo) a chi voglia o debba studiarla; non solo, ma l'innovarla troppo profondamente in quel suo tradizionale, stereotipato schematismo, la conturba, la trasfigura, disorientando i lettori: tanto è ciò vero che, attraverso il turbinìo continuo di nuovi metodi, l'antico, il comune, il tradizionale riman sempre in onore, e ritorna sempre, difeso e riverito, a ogni fallire di quelli. Anco per questa ragione, dovendo il Corticelli eseguire quasi per la prima volta nella grammatica italiana un'esposizione metodica della costruzione o sintassi toscana, ne tolse di peso dalla latina dell'Alvaro, come il Puoti avverte, criticandolo, nella prefazione alla seconda parte delle sue Regole (nella gr. latina elementare s'era cominciata prima la scarnificazione appunto perchè eravamo già lontani dal Rinascimento, periodo di vitalità), lo stampo e ve lo trasportò integralmente, anche dove e quando non solo non era richiesto, ma cozzava evidentemente con le nuove forme a cui più non s'attagliava: difetto egualmente avvertito dagli annotatori suoi, che sentenziavano quelle regole r, nelle cui note è cit. la copiosa bibliografia che del Soave diede il sig. Motta nel Boll. si. della Svizz. ìt. Ne ho l'ediz. di Venezia del MDCCXCV, nella stamperia di Giacomo Storti, dove vanno uniti col voi. I delle Istituzioni di logica, metafisica ed etica. f:t) Prefaz., dove è detto che a Berlino furono spedite in una Dissertazione latina colla divisa Utilitas expressit nomina rerum, Lucret. traduzione italiana. Croce, Est. senza di cui certamente la prima non può formarsi . Né una società può formarsi senza il motivo di bisogni scambievoli e senza che gli aiuti reciproci siano con qualche segno manifestati. La natura ne somministra alcuni spontaneamente: altri artificiali scaturiscono poi dagli originari meccanici. I primi e i secondi non essendo per altro bastevoli, la natura stessa stimolata da nuovi bisogni conduce all'istituzione d'altri segni, e, per gradi, prepara alla formazione d'un vero linguaggio. Oltre la tesi, è chiaramente indicato, nella prefazione citata, anche il metodo dell'analisi. L'istituzione primieramente del linguaggio de' gesti, appresso delle voci articolate in generale, e in seguito di ciascuna parte del discorso distintamente io mi ho veduto nascere dalla natura medesima con maggiore facilità e semplicità che forse dapprima non m'attendea . Ma a ben seguire lo sviluppo del linguaggio bisogna rifarsi dal principio della storia dell'umanità, e vedere come si può formar la famiglia, e poi per quali mezzi dalle famiglie moltiplicate sorse una compiuta società che dallo stato selvaggio gradatamente passasse a quello d'una perfetta coltura . Il linguaggio progredisce col progredire della società. Ma restava a cercare per quali vie più naturali e più semplici, e il numero de' suoi vocaboli, successivamente, potesse moltiplicarsi, e potessero stabilirsi di mano in mano le regole, che l'essenza costituiscono di una lingua . Dal poco che fin qui s'è riferito, facilmente s'argomenta che il Soave è sotto 1' influenza del pensiero vichiano, e ora dimostreremo come il punto di partenza e il sistema della dimostrazione del sorgere delle categorie grammaticali sieno presi dalla Scienza nuova. Ma qui mi giova metter subito in evidenza come il Soave abbia assunto del Vico perfino l'atteggiamento, sebbene con un gran pericolo di diventarne ridicolo. Chi sa i tormenti fierissimi in cui si travagliò 1' intelletto del sommo filosofo napoletano per conquistare la verità, non può leggere senza sentirsi preso da profonda riverenza e commozione dichiarazioni di questo genere: La guisa del loro nascimento, ossia la natura delle lingue, troppo ci ha costo di aspra meditazione. Ma che dire del padre Soave che, copiando il Vico, al punto in cui ne abbiam lasciato il pensiero, esce in questa che è una parafrasi della dichiarazione vichiana? questa parte a prima vista sembrava la più difficile; ma con un attento esame delle lingue già note, e con una seria meditazione su la natura intima delle lingtie, ella 4 io Storia della Grammatica pure si è ridotta ad una eguale semplicità, se non forse maggiore della prima . Avrebbe potuto ritenersi pago seguo ancora le preziose confessioni della scoperta; ma non volle perder l'occasione di mostrare l'influenza che la società e le lingue hanno sulla umana cognizione. Visto dunque lo stato mentale d'un uomo abbandonato a sé solo dal nascere, vale a. dire d'un uomo senza società, e conseguentemente senza linguaggio, si fa a considerarlo in società, e parlante: e giunto anche soltanto all'istituzione de' nomi e de' verbi , trova in lui perfettamente sviluppate tutte le facoltà come in noi e capaci di cognizioni di altissimo grado. E si lusinga che il vedere in tal guisa da due fanciulli abbandonati in un'Isola deserta nascere a poco a poco una società, nascere una lingua, e col progresso dell'una e dell'altra svilupparsi di mano in mano, e perfezionarsi le facoltà, moltiplicarsi le cognizioni, formerà... un colpo d'occhio non disgradevole nel tempo stesso che varie riflessioni, molte delle quali pur crede nuove; e intorno alla natura e allo sviluppamento delle umane facoltà e cognizioni, e intorno alla natura intima delle lingue non lascieranno di essere vantaggiose . Chiude dichiarando che, malgrado questi motivi... affine di non moltiplicare inutilmente le opere su d'uno stesso soggetto , si sarebbe tenuto dal pubblicar le sue ricerche, se la dissertazione del sig. Herder, che meritamente fu coronata, e eh 'è già uscita alla luce, fosse stata da esse meno dissimile . E seguendo l'estratto córsone sui giornali, istituisce questo raffronto tra la propria e la dissertazione dell'Herder: Sulla prima parte del quesito ci sembra essersi trattenuto principalmente : laddove io per la ragione sovraccennata alla seconda principalmente ho creduto dovermi appigliare. Ei non discende a ninna ipotesi; io fissata fin dal principio l'ipotesi di due fanciulli in un' isola deserta abbandonati, a questa continuamente m'attengo. Egli colla vastità del suo ingegno abbraccia il proposto argomento più in universale, e più in astratto, io l'esamino più in particolare, e, se m'è lecito di così dire, più in concreto. Insomma le due memorie, benché s'aggirino sovra la stessa materia, possono tuttavia riguardarsi come due cose pressoché affatto diverse; e dove le mie ricerche non abbiano altra utilità, avran quella forse di supplire a ciò ch'egli ha tralasciato. Accennando ai debiti del Soave verso il Vico non abbiamo certamente inteso d'affermare che la memoria sia tutt'un plagio: oltre che non avrebbe potuto esser tale per ragione di estensione, constando essa di ben diciannove capitoli, mentre il Vico ha tutta condensata in poche pagine la materia elaborata dal Soave, attinge largamente da scrittori contemporanei di filosofia del linguaggio, quali il De Brosse, autore del noto libro De laformation mécanique des Langues, il Lery, il Sulzer e altri. Particolari affermazioni di VICO (si veda), Soave ha fatto proprie: che le prime a essere istituite dovettero esser le interjezioni -- cf. Grice, “Ouch” – Meaning Revisited; che i vocaboli da principio furono mono-sillabi (ouch), o bi-sillabi (ouch ouch) al più. Perciocché innanzi di aver esercitato gl’organi della voce non potran essi proferire ad un tratto, che UNA, o due sillabe solamente. LO STESSO NOI VEGGIAMO NE’FANCIULLI, che le parole cominciarono da l'imitazioni delle voci, e de' suoni NATURALI (ouch), secondo la cosidetta dottrina dell' o?iomatopea; che i verbi cominciarono dall'imperativo ( non tutti, però, aggiunge, quasi voglia correggere il non citato maestro), e che anche i verbi furon tratti dall'onomatopea ecc. Il debito principale, tuttavia, è, come s'è già detto, in quel prender le mosse dallo stato primitivo della umanità, dal considerar le manifestazioni del linguaggio nel fanciullo, in quel riferire queste manifestazioni alle cause naturali agenti sull'uomo, i loro progressi ai progressi della società, nel distinguerle in mute e in articolate secondo che l'uomo fu abbandonato a sé stesso o costituito in società, in quel seguire il sorgere progressivo delle categorie grammaticali e sintattiche secondo i procedimenti rappresentativi e logici delle menti umane più o meno sviluppate secondo il progresso sociale, insomma nell'aver battuta la medesima via per giungere alla risoluzione del problema dell'origine del linguaggio. Ma, sarebbe quasi superfluo il dirlo, le differenze sono profonde. VICO (si veda), anzitutto, ha, come ormai si sa per la dimostrazione del Croce, definita la natura estetica del linguaggio; secondo, nello spiegarne l'origine e lo sviluppo, ha accennato solo principi generali di natura molto diversa da Su questo proposito dell'imperativo cita invece senza accettarla un'opinione del Berger, Les èléments priniit. des Lang., che ri-, cordava a sua volta quella del sapientissimo Leibnitz: nell'imperativo doversi cercare la radice de' verbi della lingua tedesca] quelli del Soave, senza scendere a particolari circostanze, tenendosi sempre all'altezza dell'aquila. Per esempio, il Vico, dopo aver esaurita la sua dimostrazione circa il sorgere delle prime classi grammaticali tutte monosillabiche, osserva: Questa Generazione delle Lingue è conforme ai Principi così dell'Universale Natura, per li quali gli elementi delle cose si compongono, e ne' quali vanno a risolversi; come a quelli della natura particolare umana per quella Degnila, eh' i fanciulli nati in questa copia di lingue, e eh' hanno mollissime le fibre dell' istromento da articolare le voci, le incominciano monosillabe; che molto più si dee stimare de' primi uomini delle genti, i quali l'avevano durissime, né avevano udito ancor voce umana. Soave nota che i fanciulli non potranno proferire che una o due sillabe solamente e che non arrivano se non dopo un certo tempo a poterne proferir di più lunghe. Il monosillabismo pel Vico è un principio universale e particolare insieme e con esso egli spiega tutta la primitiva grammatica, ossia tutto il linguaggio; pel Soave non è più nulla, non solo perchè è monosillabismo e bisillabismo, indifferentemente, ma perchè non è più un principio, ma una semplice questione di maggiore o minore bravura meccanica. Terzo, finalmente, Vico, come più addietro vedemmo, nel confronto della sua con la dottrina aristotelica delle categorie grammaticali, fa di queste degl' indici delle fasi ideali dell'umanità, ne fa dei segni in cui si siano concretati e espressi particolari progressivi atteggiamenti dello spirito umano: il Soave con la logica alla mano e con una storia di sua invenzione, precisa non solo nei particolari delle circostanze ma degli specifici procedimenti della mente umana, fa fare all'umanità un cammino inverso, appunto, per dirla con la maniera stessa di Vico, come se i popoli, che si ritrovaron le lingue, avessero prima dovuto andare a scuola ò? Aristotile . Ma non propriamente d'Aristotile, si bene dei sensisti del secolo decimottavo. Perchè, appunto, questo è da concludere, che il Soave ha elaborata la materia vichiana col sensismo filosofico del suo tempo. Insomma, sulla guida di un'intera e compiuta grammatica logica, fondata sulle distinzioni di materia e forma, di pensiero e segni, di idee sensibili e astratte, Soave ha costruito una storia universale umana, facendo corrispondere ad ogni classe grammaticale, a ogni forma inflessiva di nomi e di verbi, una particolare causa sociale e naturale che Capitolo quattordicesimo 413 l'abbia prodotta. Tanto valeva il prescindere dalla sua fantastica narrazione de' due piccoli selvaggi, e darci addirittura una grammatica logica. Quella che ci diede, fu dunque una copia, un duplicato ; ma prima che ne diciamo qualcosa, ci corre l'obbligo di accennare per lo meno alla grande portata filosofica che ha invece la dissertazione dell'Herder. Lo faremo con le succose parole, documentate da opportune citazioni, del Croce, che ne porgono una chiara idea e un giusto giudizio. La lingua egli dice in quello scritto è la riflessione o coscienza (Besonnenheit) dell'uomo. L'uomo mostra riflessione quando spiega con tale libertà la forza della sua anima che in tutto l'oceano di sensazioni penetranti pe' suoi sensi, può, per così dire, separare un'onda, ritenerla, dirigere su di essa l'attenzione, ed esser conscio che l'osserva. Egli mostra riflessione quando può, nell'ondeggiante sogno delle immagini che passano innanzi ai suoi sensi, raccogliersi in un momento di veglia, liberamente soffermarsi su di una immagine, prenderla in chiara e calma considerazione, separarne de' connotati. Egli mostra, infine, riflessione quando non solo può conoscere vivamente e chiaramente tutte le proprietà, ma può riconoscere una o più proprietà distintive. Il linguaggio umano non è l'effetto di n\\ organizzazione della bocca, giacché anche colui ch'è muto per tutta la vita, se riflette, ha in sé linguaggio. NON È UN GRIDO DELLA SENSAZIONE, giacché esso non fu trovato da una macchina respirante, ma da una CREATURA RIFLETTENTE. Non è un fatto d'IMITAZIONE, giacché l' imitazione della natura è un mezzo, e qui si tratta di spiegare lo scopo; MOLTO MENO È CONVENZIONE ARBITRARIA [Grice: “Meaning has nothing to do with convention”]. Il selvaggio nella solitudine del bosco avrebbe dovuto CREAR il linguaggio per sé medesimo, quand'anche non l'avesse parlato. Il linguaggio è l'ifitesa della sua ANIMA con sé stessa, intesa tanto necessaria, quanto che l'uomo è uomo. Comincia così la funzione linguistica ad apparire non più fatto meccanico od arbitrio ed invenzione, ma creazione ed affermazione prima dell'attività umana. Benché lo scritto dell'Herder, come il Croce stesso nota, non dia un risultato netto, e sia solo un sintomo e un presen- [Abhandlung i'cber den Ursprung der Sprache, nel libretto: Zwei Preisschriften etc. (2a ediz. di Berlino. Estetica] timento della soluzione da dare al problema del linguaggio, pure ognun vede quanto e come esso superi le vedute filosofiche dell'enciclopedismo francese seguite dal Soave e, in qualche parte e precisamente per le speciali teorie dell' interiezione e delV imitazione, quella dello stesso Vico, che l'Herder pur conobbe ed elogiò. Né il Vico né l'Herder, al quale come anche all'amico suo Hamann spetta il merito di aver fatto sentire come un soffio d'aria fresca anche negli studii di filosofia linguistica, ebbero tra noi non dico la preminenza sulle dottrine logiche dei francesi, ma un equivalente grado di efficacia, nonostante che un seguace e del Vico e dell'Herder, CESAROTTI (si veda), raccogliesse, più ancora del Soave, intorno al suo Saggio, che in parte deriva dagli scritti loro, non tenui simpatie basti citare il nome di Torti la tradizione logico-grammaticale, che ha il suo miglior rappresentante nel Du Marsais, tenne vittoriosa il campo, contrastata solo, come vedremo, dal risorto purismo cesariano puotiano, fino oltre la prima metà del secolo passato la Grammatica generale del Corradini in tutto dumarsaiana è del 1856! cioè anche dopo Humboldt, ma spolpata, dissanguata, scheletrita, ridotta ai puri schemi, il che vuol dire alla sua forma meno feconda e più noiosa, e pur propinata a a volte in libercoli di poche pagine perfino agli alunni della prima e seconda classe elementare ! La grammatica stèssa del Soave n'ègià una chiarissima prova. E divisa in due libri, uno dell' Etimologia, l'altro della Sintassi un trattatello della ortoepia e dell'ortografia fu scritto a parte, ciascuno de' quali suddiviso in 4 sezioni: la prima del I svolge la parte generale delle parti del discorso, la II il nome (coi suoi affini, aggettivo e pronome, e i suoi servitori, segnacasi e articoli), la prima delle parti logicamente più importanti : la III il verbo, l'altra parte più importante del discorso (coi suoi partecipi, gerundi e aggettivi verbali); la IV il miscuglio degli accessori logici (preposizioni, avverbi, congiun- [Croce, Est., p. 265. T., Della vita e delle opere di F. T., Bevagna, e Studi sul Boccaccio, Città di Castello, e Croce, Per la storia della critica e storiografia letteraria, Napoli. ' Syncathegoremeta ', ' consignificantia '. zioni, interposti); mentre la I sezione del II libro svolge la prima branca della sintassi, la concordanza, la II la seconda, il reggimento, la III la terza, la costruzione (la triple synlaxe, diceva l'Enciclopedia, de co?icordance, de regime, de constructiorì), la IV il miscuglio delle figure grammaticali (ellissi, pleonasmo, sillessi, enallage, iperbato le cinque figure del Sanzio). Lo schema, come qui si vede, è tracciato sul tipo divenuto ormai tradizionale nella grammatica francese e fondato sulla dottrina della grammatica generale: non solo del Vico, ma neppur del Soave autore delle discusse Ricerche, si ha più alcun sentore. Questo tuttavia non è l'unico danno: il maggiore è che lo schema sia rimasto schema, mancando quasi affatto quell'elaborazione logico-critica della materia grammaticale che ammirammo già nel Du Marsais e nell'Enciclopedia. Tutta la filosofia si riduce a definir gli schemi molto elementarmente e a versarvi dentro cataloghi di forme e di costrutti con scarsissime citazioni d'autori, senz'ombra di spiegazioni genetiche delle voci, viceversa conservando qua e là, come p. es. nel trattato della costruzione, le antichissime rettoricherie sulle fonti dell'armonia nel discorso. E quel po' di ragionamento che tenta illuminare la parte generale, e la definizione del nome e del verbo, esula affatto in tutto il resto delle classi e specie e sottospecie grammaticali, che è dato così nudo e crudo, spoglio persino di quel fare discorsivo e a volte vivacemente polemico e di quell'esemplificazione onde almeno si ravvivava l' interesse del lettore nella vecchia grammatica. La geniale veduta del Du Marsais, che le forme grammaticali, tranne quelle significatrici di cose, articoli, casi, ecc. rappresentino altrettanti punti di vista e atteggiamenti dello spirito, che egli applicava con altrettanta genialità ai singoli pezzi d'espressione, spargendovi sempre un po' di luce critica, è affatto ignorata da questa grammatica del Soave. Tanto che i compilatori dell'edizione bresciana del 1830, tenuta sulla milanese assistita da Soave stesso, sentirono il bisogno d' intercalare delle Appendici (autore l'ab. Bianchi) e dei paragrafi per versarvi con mano discreta un po' di metafisicherie, facendo cosi una cosa ancor più astrusa, arida e ibrida. P. es., nell'app. al cap. I, i nomi si dividono in fisici e metafisici, questi in metafisici reali o sostayitivi, e in metafisici astratti o ideali: delle significazioni delle desinenze di questi poi. e degli aggettivi derivati nell'app. I al cap. VI son date numerose categorie {-ione, -ento, -lira, -abile, -evole, -are, -ivo, -orlo, -ido, -usto, -ace, -ile, -ale, -estre, -ino, -ore, -ibile, ecc.) con un imperio d'infallibilità assoluto. E tutto anzi è logicamente schematizzato, a tutto è data una funzione logica, in modo che sembrerebbe impossibile come un uomo osasse aprir la bocca senza aver mandato a memoria tutta questa grammatica. Lo scopo dell'apprendimento delle lingue fallisce così in modo assoluto, e anche didatticamente vengono queste grammatiche ad avere un valore negativo. Invece la grammatica filosofica anche ridotta a tale schema si diffuse e divenne di moda nelle scuole, come di moda divennero questa specie di ricerche filosofiche sul linguaggio. De' precedenti italiani, nella prima metà del secolo, della grammatica ragionata s'è avuta occasione di accennare altrove, segnalando alcune manifestazioni veramente notevoli; ma quei metodi e nuovi metodi erano ricalchi di Portoreale e compendi elementari, che, in ogni modo, eran diretti specialmente allo studio del latino, per quanta parte facessero all'italiano; tant'è vero che non riuscirono a diminuire l'interesse per la grammatica empirica che, invece, col Buonmattei e col Corticelli seguitò a imperare. Solo nell'ultimo quarto del secolo cominciò a divampare il fervore per la grammatica generale. Un Piano ovvero ricerche filosofiche sulle lingue diede nel 1774 D. Colao Agata; Riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue ORTES (si veda), libri che già dal titolo dichiarano il loro contenuto; nel 1783 Frane. Ant. Astore pubblicò a Napoli in due grossi volumi La filosofia dell 'eloquenza o sia l eloquenza della ragione (il titolo non potrebbe esser più chiaro), strano miscuglio, dice il Gentile, delle idee del Vico con quelle dei sensisti. Usce il famoso Saggio sopra la lingua italiana di CESAROTTI (si veda), sul quale ci dobbiamo fermare un poco per la sua diretta connessione con la critica delle categorie grammaticali: anzi, se Il figlio di G. B. Vico, nota. In Padova, nella stamperia Penada (ristampato col titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue nell'ed. pisana delle Opere, e altre volte). Su esso e sulla questione della lingua in generale nel sec. XVIII, G. Mazzoni, La questione della lingua italiana nel secolo XVIII in Tra libri e carte, Roma, Su Cesarotti, V. Alemanni, Un filosofo delle lettere^ Torino] diverso è lo scopo finale, nella sua sostanza il libro è una nuova grammatica filosofica. Ma si deve dir subito ad onore del Cesarotti, tanto più che trattasi di cosa poco nota, che egli fin dal 1769, cioè un anno prima del quesito dell'Accademia berlinese e perciò delle dissertazioni dell'Herder e del Soave, aveva pubblicato a Padova un' Oratio de lingiiarum origine, progressi*, vicibus et pretio, dove è già manifesta l'influenza del Vico e, se non il germe, certo la tendenza della dottrina che poi doveva sviluppare nel Saggio . Questo, dunque, aveva lo scopo di criticare cortesemente la Crusca e di riformarla e ristorare così la lingua col far trionfare le proposte di Crusche regionali e d'un Consiglio italico per la compilazione di due diversi vocabolari, l'uno pe' dotti, l'altro pel popolo. Ma più che in questo e in altre vedute particolari, come una maggior considerazione in che ebbe i dialetti, la difesa discreta de' francesismi, la sconfessione data a presunte voci eleganti che non erano se non antichi gallicismi, segni tutti della posizione diritta e composta presa dal Cesarotti nella questione della lingua verso e in favore d'un'italianità viva e comune, il valore del Saggio è nella vera parte filosofica, nella quale certo s'ispirò ai pensatori francesi, ma trasfuse un poco di (manto potè far proprio del pensiero vichiano. Un limpido e vivace riassunto del Saggio diede il Cesarotti stesso nella lettera, bella per arguzia e sincerità, al suo contraddittore, il conte Napione, che fu in concordia con Cesarotti più di quanto non credesse egli stesso . Io m'era prefisso , diceva dunque, di toglier la lingua al despotismo dell'autorità, e ai capricci della moda e dell'uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto; di fissare i principi filosofici per giudicar con fondamento della bellezza non arbitraria dei termini, e per diriger il maneggio della lingua in ogni sua parte, cosa non so se eseguita pienamente da altri, e certo non più tentata fra noi; di far ugualmente la guerra alla superstizione e alla licenza, per sostituirci una temperata e giu- [Croce, Per la storia della critica e della storiografia. Cfr. D'Ovidio, Le correz. Ediz. di Napoli (Biblioteca portatile ed istruttiva), G. Pedone Lauriel. V. in proposito, il D'Ovidio] diziosa libertà: di combattere gli eccessi, gli abusi, le prevenzioni d'ogni specie; di temperare le vane gare, le ricche parzialità; di applicare alfine le teorie della filosofia alla nostra lingua, d'indicar i mezzi di renderla più ricca, più disinvolta, più atta a reggere in ogni maniera di soggetto e di stile al paragone delle più celebri, come lo può senza dubbio quando saggiamente libera sappia prevalersi della sua naturale pieghevolezza e fecondità. Per eseguir questo piano presi dapprima a combattere alcune opinioni dominanti.... Negai la nobiltà in cuna di alcune lingue privilegiate, la superiorità senza limiti, la perfezione assoluta, la fissità inalterabile, la ricchezza non bisognosa d'aumento, il pregio inarrivabile dell'eterna vestali tà delle lingue... Mi opposi alla tirannide dell'uso, all'idolatria dell'esempio, accordando all'uno e all'altro quell'autorità che potea conciliarsi colla ragione, giudice legittimo e dell'esempio e dell'uso; provocai alfine a nome degli scrittori non volgari, dal tribunale dei grammatici pedanteschi a quello dei grammatici filosofi, i quali sanno che la lingua è 1' interprete del pensamento, e la ministra del gusto. Fatta così strada al mio assunto, passai a determinare colie teorie filosofiche la bellezza intrinseca ed essenzial delle lingue, fissandone i canoni, e applicandoli a ciascuna delle loro parti così logiche che rettoriche; nella qual trattazione mi lusingo (come il Soave!) d'aver in poco ristretto molto, detto più cose non comuni né inutili, e gittato sul mio soggetto qualche nuovo colpo di lume atto a rischiararlo con precisione, e a prevenir molti abbagli . E dopo aver accennato al confronto tra l'italiano e il francese, all'abuso del francesismo, alla indistruttibile libertà di crear nuovi vocaboli, alla storia della nostra lingua e allo stato attuale e allo spirito dominante del secolo per escogitar i mezzi dell'uso e del giudizio, ecc., manifesta che lo spirito dell'opera sua era di dire agi' italiani: .... sappiate pensare e sentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi nell'espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e nostra: voi non sarete più schiavi né dei dizionari uè dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né allettatori di stravaganze: sarete voi, voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua libera e viva, e la improntasentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi nell'espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e nostra: voi non sarete più schiavi né dei dizionari uè dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né allettatori di stravaganze: sarete voi, voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua libera e viva, e la improntano delle marche caratteristiche del proprio individuai sentimento. Sarebbe superfluo notare che le vedute filosofiche domi Capitolo quattordicesimo 419 nauti circa la lingua é la grammatica qui non solo non sono superate, ma, sotto la spigliatezza e la vivacità dell'esposizione, permangono immutate. Noi, riferendo quel riassunto, abbiamo inteso soprattutto mostrare che la parte veramente ninna del suo Saggio anche pel Cesarotti era l'applicazione dei canoni filosofici alla spiegazione delle categorie rettorico-grammaticali. Diamole uno sguardo. Fissato che la lingua scritta dee aver per base l'uso, per consigliere l'esempio, e per direttrice la ragione lingua pura è sinonima di barbara, ogni lingua essendosi formata dall' accozzamento di varj idiomi come è dimostrato dai sinonimi delle sostanze, dalla diversità delle declinazioni, • e coniugazioni, dall'irregolarità dei verbi, dei nomi, della sintassi, di cui abbondano le lingue più colte e stabilito che la giurisdizione sopra la lingua scritta appartiene indivisa a tre facoltà riunite, la FILOSOFIA (= RAGIONE), l'erudizione (= uso), ed il gusto (= esempio) (p. 24), con la scorta della prima di queste facoltà, osserva che la lingua come materia del discorso consta di due parti, l'ima delle quali chiameremo logica, l'altra rettorica. Logica sarà quella che serve unicamente all'uso dell' intelligenza, somministra i segni delle idee, del vincolo che li lega tra loro, e di tutti quei rapporti di dipendenza che ne formano un tutto subordinato e connesso. Rettorica è quella parte che, oltre all' istruir l'intelletto, colpisce l'immaginazione; né contenta di ricordar l' idea principale, la dipinge, o la veste, o l'atteggia in un modo più particolare e più vivo, o ne suscita contemporaneamente altre d'accessorio, le quali oltre all'oggetto indicato dinotano anche un qualche modo interessante di percepirlo, o un grado di sensazione (p. 24). I diritti della fantasia affermati così recisamente di contro a quelli dell' intelletto sono certo una novità rispetto alla grammatica ragionata dell'Enciclopedia che non conosce alcuna altra funzione nel discorso diversa dalla logica; ma è una veduta non nuova nelle opere del Cesarotti, per le quali era stato, come dice il Croce, celebrato ai suoi tempi in Italia come colui che "colla più pura face della filosofia aveva rischiarati gl'intimi penetrati della Poesia e dell'Eloquenza, benché certo non sembri j>j, nella quale cerca di combattere il filosofismo intemperante anche in materia di gusto. Riconosce che la filosofìa ha distrutto viete idee anche in materia di lingua, ma osserva che non tutto può distruggere in modo che tra lingua e lingua non ci sia più distinzione. Dall'esame dell'origine risica delle lingue apparisce in primo luogo che altre sono eleganti, altre barbare, e che alcuna è pienamente ed assolutamente superiore ad un'altra; apparisce inoltre che una anche cieca aderenza all'uso, ed agli scrittori approvati nella scelta delle parole discende dalla natura e dall'indole medesima del linguaggio. Nel >j 21 1 Idea della grammatica e dei grammatici '), alla tesi che i grammatici non hanno alcuna autorità legislativa contrappone la seguente definizione della grammatica, dove par di sentir un'eco come del noto brano del De vulgari eloquentia in cui della grammatica (la lingua immutabile) si porge l'idea. Non per nulla il Velo era concittadino del primo editore del libretto dantesco. La grammatica è una importantissima; e principalissima parte della logica; una cospirazione, un consenso de' primi scrittori in alcuni precetti, ed alcune regole di favella a preferenza, ed esclusione di alcuni altri; cospirazione e consenso, che preser consistenza col tempo e forza di consuetudine, e che formano il carattere proprio e l' indole d'una lingua scritta qualunque ; una legislazione finalmente, ed un codice convenzionale, ove ferma ed invariabile parla l'intenzione d'un popolo per fissare i modi vocali di comunicarsi le proprie idee, e di perpetuarle alla posterità cogli scritti (pp. 48-9). La protesta del Velo è un prodromo della prossima reazione puristica. Nel 1791 uscì l'opera del Galeani Napione, Dell'uso e dei pregi della Ungila italiana, le cui principali accuse, d'indole rettorica e non grammaticale, al Saggio del Cesarotti, sono di favorire il libertinaggio della lingua e di difendere troppo appassionatamente il francesismo. La nota polemica, ormai, per quanto concerne la cosiddetta questione della lingua, convenientemente Vicenza, Giusto. Libri tre, con giunta degli opuscoli, in due voli. Seguo la bella edizione dello Stabilimento tipografico Fontana, Torino] illustrata, non ci riguarda in modo diretto. Pure, non vogliamo lasciarci sfuggir l'occasione di dire che a questo eccellente libro del Napione non è stata data, o meglio riconosciuta tutta l' importanza che meritava: la sua vera portata non è tanto nella tesi sostenuta, nel campo strettamente linguistico, d'un' italianità larga, nobilmente intesa ed egualmente schiva del francesismo e dell' idiotismo fiorentinesco (per questo riguardo il libro lascia la secolare controversia come la trova), quanto nella descrizione che vi si fa delle vicende della nostra lingua sotto il rispetto della civiltà e dell'anima italiana: esso è, insomma, un documento importantissimo per la storia della nostra cultura fornito dalla considerazione rettorica o stilistica o estetica come si voglia chiamare della lingua italiana specie in confronto con la francese e dall'evocazione delle circostanze della sua fortuna. Il fine del Napione è pedagogico: favorire per mezzo della diffusione e del culto della nobile lingua d' Italia il primato civile degl' Italiani: " satis mirari non queo ", è il motto ciceroniano (De fin.) che il libro porta in fronte, " unde hoc sit tam insolens domesticarum rerum fastidium;" in questo secolo, è detto subito in principio, dietro la scorta dei Le-Clerc, dei Locke, dei Leibnitz, nomi grandissimi, i Genovesi, i Du-Marsais, i Condillac, i Michaelis, i Cesarotti ed altri sottili ingegni hanno creduto di dover esaminare filosoficamente la natura delle lingue; mentre altri si sono applicati più particolarmente ad osservare e descrivere il genio, l' indole, la storia di un determinato idioma. Laonde questa materia di grammaticale e letteraria, che al più era, è diventata filosofica, e diventar dovrebbe eziandio politica, mercè il giovamento che può arrecare alla civile società; ma, appunto per questo, gli argomenti il Napione è portato a trarli dalla storia, osservando nello specchio della lingua i riflessi dello spirito italiano e nella fortuna e nella stima che essa godette nei secoli passati specie presso gli stranieri e in ogni genere di letteratura, la sua feconda ed elastica virtù. Non possiamo pretendere dal nostro autore una considerazione storica (di storia della coltura, s'intende, e non artistica) della lingua italiana quale può darci la critica moderna cosi scaltrita ne' principi e così ricca di mezzi, ma ben possiamo appagarci dello sforzo che egli compie per iscoprire di sotto alle qualità rettoriche tradizionalmente affermate nella nostra lingua atteggiamenti e vitalità di spiriti quali egli per lo meno sente nell'anima italiana. Addurrò, per conchiudere, non potendo far qui lungo discorso, qualche esempio. Per confutare il Condillac, il quale sosteneva doversi ascrivere a difetto e ad imitazione servile del genio latino la tendenza italiana a riunire e connettere in un sol periodo maggior numero di idee , il Napione osserva: Ognun sa che il vedere e discernere diversi oggetti in un sol punto, il conoscerne le relazioni tra loro, il comporre di molte idee particolari una generale, il veder le idee secondarie che rischiarano, confermano o corteggiano la principale, si è uno de' pregi maggiori delle menti più vaste e più sublimi. V'ha pertanto ragion di credere che questa pratica degl' Italiani, di radunare comunemente in un periodo più cose che i galli non fanno, provenga da una facilità maggiore di rapidamente trascorrere, e vedere e combinare cose diverse insieme. Chi è caldo e passionato odia l'uniformità: coll'alterare, col sospendere l'ordinata costruzione, attizza la curiosità, e tien fissa l'attenzione. Sino il volgo, se è commosso, parla in figure, trasposizioni, trasporti di frasi, e più in quelle contrade dove ha maggior fuoco, ha maggior anima; il che dimostra, se dobbiamo dar retta a certuni, che un popolo, qual si è il francese, che si è fatta una lingua serva e pedestre, è più freddo in sostanza di quel che sembri in apparenza vivace; brio, che vien però detto da molti fuoco fatuo, e caldo superficiale. Lo sguardo di NAPIONE (si veda) non arriva all'intimo accento di particolari espressioni e di particolari periodi storici della lingua e di particolari affinità spirituali; pure nell' indagare i motivi della fortuna della lingua italiana, anche se rimane alla superficie, tenta di comprendere i caratteri generali di determinati periodi meglio fortunati e generi linguistici, da poterne cavare qualche raggio di luce spirituale. In og ni modo egli raccoglie tante testimonianze e richiama tanti libri, che, anche per questo riguardo, è uno degli autori più ricchi che ci possa offrire la nostra storia. Tornando al Cesarotti, aggiungeremo che a taluno è parso che anche il Pignotti, nella sua Storia della Tosca?ia confutasse forse con più fortuna ed efficacia del Napione il padovano illustre specialmente per quanto concerne la toscanità della lingua italiana Ci. Ci Bettinelli, Lett. cit.. (I Mazzoni, L'Ott. II. La grammatica ragionata si propagò ben presto nelle scuole, non escluse le prime classi delle elementari, ma anche in uno stato di pronta, quasi immediata degenerazione. Ciò che per altro non maraviglia. Un Corso teorico di Logica e Lingua Italiana e un discorso filosofico sulla metafisica delle lingue aveva pubblicato già fin dal 1783 Valdastri, citato poi spesso con lode, come dal Romani e dal Caleffi, un sensista che diede più tardi Lezioni di analisi delle idee, dove non fa che seguire i dettami dell'intimo senso, che è il criterio universale del genere umano, da cui solo si possono, e si devono ragionevolmente dedurre (I, xvn), nemi co acerrimo di Aristotile che dominava da tiranno le scuole. In un Indirizzo pel ragionato uso della lingua italiana, edito a Venezia, s'insiste sulla necessità di non far de' giovinetti de' pappagalli, ma d' illuminarli con la ragione, e si spiega il concetto di sostanza (da subtus stans) e di qualità con un curioso esercizio di far osservare un dato frutto, appressar le narici e toccarlo col dito! Un P. Simionato in un Nuovo metodo facile e ragionato di apprendere la lingua italiana, che egli stesso dichiara unico, comincia la sua esposizione con le solenni domande, che diverranno presto di moda: Perchè parlate voi ? Come vi fate intendere? E tutto il ragionio finisce lì. Il napoletano Giovanni Vincenzo Meola col suo Compendio del nuovo metodo per apprendere facilmente la lingua italiana, ritrovato da' migliori grammatici aduso de propri figliuoli^ '), compilato specialmente allo scopo di condurre alla cognizione dell' italiano senza supporre quella di alcun altro linguaggio (p. IX), ritorna invece al metodo di Portoreale, come aveva fatto l'Ajello per il latino e il Martorelli per il greco, prendendo a fondamento il Corticelli (ma intorno al ripieno par che saccheggi piuttosto il Buonmattei); redige le sue regole in versi, e annunzia un Nuovo me Guastalla, Costa. In Milano Galeazzi. V. era segretario scientifico dell'Accademia di Scienze, Belle Lettere, ed Arti di Mantova. Venezia, 1799. Napoli. V. Orsino.] todo completo in due volumi, in cui metterà a profitto tanti altri trattati speciali. A Napoli, per altro, dove qualche raggio di luce vichiana non mancò mai di spandersi sulle menti, è lecito credere che in armonia coli' insegnamento letterario del Marinelli e con i principi propugnati dall'autore del noto Progetto di legge del 1809 per la riforma della P. I. nel Reame, la grammatica non fosse almeno in quel breve periodo di tempo egualmente bistrattata. Il Vico stesso e dalla cattedra di eloquenza latina che tenne nell'Università di Napoli e nella sua scuola privata di eloquenza e lettere latine e in quei documenti pedagogici che sono il De nostri temporis studiorum ratione, le Insiitutiones oratoriae e la stessa Vita, tenne sempre Y eloqjientia sinonimo di sapie?itia, diede cioè sempre un insegnamento più di cose che di parole, non indugiandosi mai in pedanterie grammaticali, sebbene fossero da lui come di passaggio avvertiti i vezzi della lingua, le origini e proprietà delle voci, la bellezza e signoria delle espressioni , e giudicando che né la filosofia cartesiana né l'aristotelica fé' gran prò alle cose oratorie, ma la platonica, e di questa la dialettica (")• Anche per il figlio Gennaro, che, traendone ispirazione e conservandone i sani criteri, degnamente gli successe nel medesimo insegnamento che tenne fino al 1777 per unirvi quello della poesia fino al 1786, quando vi fu sostituito da Ignazio Falconieri, la vera eloquenza fu sempre quella che scaturisce dal pieno possesso dell'argomento; insistè sempre sull'importanza del contenuto, combattendo il puro studio della forma vuota, le virtuosità stilistiche, le minuzie grammaticali, ed incitando i giovani agli studi seri e profondi . Anzi, in sua lode speciale dobbiamo aggiungere che i suoi Avvertimenti per V insegnamento del latino (editi dal Gentile sull'autogr. esistente tra le carte Villarosa) nella parte che riguarda i rudimenti di grammatica sono anche nei particolari conformi al 11) Vita di G. B. Vico scritta dal Solla, cit. in Gentile, Il figlio di Vico e gl'inizi dell' inseg. di leti, il. /iella/?. Univ. di Napoli con docc. inedd. (Estr. dall' Arck. si. p. le Prov. Nap., Napoli, importantissimo volume che ci serve di fonte e di guida a proposito de' due Vico e de' loro successori. C) Inst. Orai, in Opere, cit. dal Gentile. Gentile primo Metodo del Du Marsais, che certo non avrà conosciuto, non solo perchè non lo nomina in nessuna maniera, ma perchè, come i suoi Avvertimenti, quel Metodo fu steso per un privato discepolo. Era insegnamento di grammatica latina, naturalmente, perchè di quello della grammatica volgare anche in Napoli si sentì molto tardi il bisogno: quando fu sdoppiata la cattedra di Gennaro Vico in quella che il Gentile chiama la riforma universitaria dell' illuminismo, e fu istituita la cattedra di Eloquenza italiana (per merito, pare al Napoli-Signorelli, di Ferdinando IY, e per un'ispirazione che risale, nota il Gentile, al Genovesi, che fu il primo a insegnar in italiano e già dal 1767 aveva proposto ' una scuola di lingua, di eloquenza e di poesia toscana '), allora, dico, a certi vecchioni la novità fece un'impressione di maraviglia: Quali cattedre (van dicendo) ! lingua italiana, agricoltura, chimica, commercio, diplomatica, storia naturale, geografia fisica. Fa mestieri di un pubblico professore per istudiar la lingua volgare che parliamo dalle fasce..?. Ma lo spirito della tradizione restava. Restò infatti, anche se il Vico è probabile sia stato tra quei vecchioni, non tanto forse perchè quel nuovo insegnamento non fu che una duplicazione della vecchia Rettorica, che s'insegnava nell'Università di Napoli dalla metà del cinquecento , quanto perchè della sorte toccatagli di raggiungere dopo 40 anni d'insegnamento quello stipendio di 300 ducati, che altri aveva ottenuto tanto più presto, p. e. Serio, ebbe, nel 1797, a muovere non lievi lagnanze. Quel Serio stesso, infatti, che fu assunto alla nuova cattedra, in un manifesto con cui dopo 14 d' insegnamento, annunziò la pubblicazione delle sue Istituzioni, che non sembra poi vedessero la luce (3), diceva che il primo tomo conterrebbe le più importanti questioni intorno all'origine, all'indole ed al carattere della lingua; e... tutto ciò, che principalmente alla grammatica appartiene, ma con animo di veder come esser possa una delle fonti dell'eloquenza . Dove non par solo di sentire Gennaro Vico, ma anche il Cesarotti e compagni. Tuttavia l' insegnamento del Serio non è neppur paragonabile con quello Gentile. (?) Gentile. Gentile. Agli amatori della bella letteratura in Gentile, op. e loc. cit. Capito/o quattordicesimo 433 che dovette impartire il Marinelli, assunto nel 1808 alla medesima cattedra abolita nel 99 e ristabilita sotto Giuseppe Napoleone e autore d'una molto lodata Filosofia dell'eloquenza^. Il fondo, dice il Gentile, che ne ha esaminate la Prolusione e dopo questa l'opera ora accennata, è ancorala rettorica: ma che rivoluzione ! Tale insegnamento, concludeva il Marinelli in quella Prolusione, avrebbe istruita la gioventù senza obbligarla al meccanismo de' precetti, e senz'ingolfarla nelle minuzie grammaticali, che sono per lo più disgradevoli alle persone di già avanzate negli studj . Alla Filosofia dell'eloquenza, dove si grida contro le regole colle quali si vorrebbe supplire al talento di un'anima che signoreggia sulle anime mercè l'ascendente della parola (p. io)(3), e dove qua e là lampeggia un ingegno critico non comune, corrisponde per importanza di vedute il già cit. Rapporto o progetto di legge presentato a G. Murat dalla Commissione straordinaria pel riordinamento della P. I. nel Regno di Napoli, di cui fece parte quello spirito illuminato di Melchiorre Delfico, ma fu relatore e vero autore Vincenzo Cuoco (4). In questo che il Gentile chiama il documento pedagogico e scientifico più notevole in cui si sia imbattuto nella sua ricerca, il Cuoco grandeggia come un alto spirito solitario, giacché egli si rannoda direttamente al pensiero d' un grande morto, rimasto nome sacro ma incompreso per tutto il periodo che abbiamo qui addietro percorso e per cui si distese la vita vuota di Gennaro Vico. Il nome del padre di costui ricorre in questo scritto più d'una volta. Sono esplicitamente richiamate alcune delle idee più geniali dell'orazione Denostri teinporìs studiorum ratione (5). A proposito della Scienza nuova, dice tra l'altro: Quello però che possiam dire con sicurezza si è, che la dottrina del Vico è nota e adottata quasi tutta intera nelle sue applicazioni; ma n'è rimasta oscura la teoria generale, da cui tali applicazioni dipendono, e da cui si possono rendere più ampie e più certe. Per la scuola media, Napoli, presso Angelo Trani, Gentile. In Gentile, op. cit., p. 126. Gentile. Gentile, op. cit., pp. 135-6. Gentile. CUOCO (si veda) inizia una riforma capitale, mettendo a capo di tutte le materie da insegnarvi la lingua italiana, della quale nelle scuole mezzane non s'era pensato ancora a far oggetto di studio speciale . Il linguaggio , dice il Rapporto, non è solamente la veste delle nostre idee, siccome i grammatici dicono, ma n'è anche l' istrumento. La prima lingua, che noi dobbiamo sapere, è la propria. L'educazione de' nostri collegj dava troppo, ed inutilmente, allo studio grammaticale delle lingue morte. Le lingue non si possono apprendere bene per via di grammatiche e di vocabolari: lo avverte benissimo il proverbio: aliud est grammatico, aliud est latine loqui ; e l'esperienza giornaliera lo conferma. I precetti della grammatica in ogni lingua sono pochi e semplici, e tra le grammatiche la più breve è sempre la migliore. Lo studio della lingua, e non già della grammatica, deve esser lungo: ma ogni studio soverchio, che si dà alla grammatica, è tolto al vero studio della lingua, la quale non si apprende se non colla lettura e retta imitazione de' classici. Noi diremo anche di più: rende più facile lo studio delle lingue morte il saper bene la propria e vivente. Tutte le lingue hanno un meccanismo comune, il quale dipende dalla natura comune delle menti umane . Da questo principio vichiano il Cuoco desume che quella che occorre studiare è, a proposito della lingua nostra, una grammatica generale, una grammatica con metodo filosofico, che faciliti l'apprendimento delle altre lingue. E doveva avere in mente la Grammatica generale del Du Marsais, che cita infatti poco dopo a proposito dei tropi!1), ma di un Du Marsais, osserva poi il Gentile acutamente, cuochiano, o vichiano che si voglia dire. Ma la riforma non fu fatta, e dopo il Marinelli, col Ricci(J) Gentile. Gentile. Scrisse Della vulgati eloquenza libri due, 1813. Vi si paragona al Bembo di cui vuol ricalcare le orme. Sa ricordare che le regoledelia Grammatica furono fissate dal Fortunio e poi dal Bembo, p. io dell'ed. di Napoli, Giorn. delle Due Sicilie. Tra tanto vecchiume mi è sembrata notevole la definizione della storia letteraria, e benché qui proprio non ci riguardi, ci permettiamo riferirla anche perchè non è stata avvertita da altri. La storia letteraria ha per oggetto di designar gradatamente e per ordine di tempi i progressi, le vicende, e il decadimento delle lettere e delle arti, riducendo di tratto in tratto si riebbe l' insegnamento della vecchia rettorica, e la letteratura italiana a Napoli non si rialzò più fino al i.s6o. Alle altezze del Marinelli e del Cuoco nessuno in altre parti d' Italia seppe sollevarsi. Pullularono invece le grammatiche ragionate, tra le quali pochissime meritano qualche considerazione. La prima di queste è quella scritta in francese pei francesi dal Biagioli, e di cui non sarebbe qui il luogo di dir due parole, se, anche a non tener conto della persona dell'autore, non fosse stata più volte ristampata in Italia e se non fosse stata citata con lode anche dai nostri grammatici. È intitolata Grammaire italienne clémentaire et raisonnéQ). L'Autore dichiara che ristudierà la lingua materna coi principi del Du Marsais, del Condillac e del Destutt-Tracy, richiamandosi al pensiero di Dante rielaborato dal Sanzio: La pensée du Dante, que Sanctius semole avoìr envisagée et développée ainsi: Grammaticorum sine ratione testimoniisque auctoritas nulla est (in Minerva, lib. I, e. 2), noits montre che non si deve fare un'esposizione dogmatica, ma ragionata. Bandisce Yusage, il caprice, Yabus. Nella parte generale spiega les principes les plus simples et les plus généraux , nella particolare, ritorna sui suoi passi esplicando avec plus d'étendue ce qui exige de la part des étudians plus d'at i diversi quadri del loro stato generale sotto un determinato punto di vista nelle diverse epoche, e fissando proporzionalmente i caratteri del gusto in ciascuna epoca; il che equivale per lei al pregio della unità indispensabile alla perfezione della storia politica. Molti sono i vantaggi della storia letteraria: cioè; 1. ella ci pone sottocchio i progressi dello spirito umano, e ce ne distingue le vie; 2. ci rende ragione delle rivoluzioni del gusto; 3. ci avvezza alla pratica d'una soda critica: ed infatti una giusta critica non disgiunta dalla storica imparzialità fedeltà ed accuratezza, ne costituisce il pregio principale . Pp. 95-6. Suivie d'un traité de la poesie. La quinta edizione di Milano, 1824, aggiunge ouvrage approuvè par l'institut de France: la 2a ediz. è del 1809: e la prima dovette esser di poco anteriore. Vi si cita la precedente del Vinéroni (Vigueron). Una grammatica italiana in francese dell'ANTONiNi è citata da Antonio Scoppa nella prefazione al suo Nuovo metodo stilla grammatica francese, Roma. Pel Fulgoni. Le nouveau maitre italien pubblicò D. A. Filippi, Vienne, 1812, con una lettera del Metastasio al conte Bathyny sul miglior modo d'insegnar l'italiano all'Imperador Giuseppe JI, in tempo ch'egli era principe ereditario , molto sensata e pratica. Robello G., Grammaire italienne élém. analysè et r aisonne', III ed., Paris. tention et de travail . Nell'introduzione tratta de l'origine des signes de nos idées per venire alle parti del discorso. Per trattare di queste, parte sempre da una frase {oh, ah Io sono attonito Io sono amante Ride piangendo Ho l'anima avvezza alle pene Questa donna è mia Pietro è morto, voi lo conoscevate Sto con mio padre Parla eloquentemente Ama la figlia e la madre). Sulle preposizioni crede d'aver trovato delle novità. Si occupa molto, da buono studioso del Sanzio, dell'ellissi, dando di duecento frasi ellittiche la costruzione piena, di molti esercizi, com'è necessità delle grammatiche per gli stranieri. Ma il Biagioli in sostanza è un retore, e non un filosofo, e finisce anche lui col ripetere la solita roba nei soliti schemi. Più cheper una strana se non cervellotica idea che gli serve di fondamento, c'interessa per alcune notiziette riferentisi alla storia della grammatica il Saggio sulle permutazioni della italiana orazione di Muzzi, che a Foscolo parve più un curioso gingillo di aritmetica applicata al periodo, che una serie di osservazioni giovevoli a chi cerchi nel periodare l'armonia, scopo, per altro, al quale non* era stato destinato. Il noto epigrafista comincia dall' affermare che per la varietà del nostro idioma e per l'infinito rimescolarsi delle parti dell'orazione, sono in lingua italiana infiniti i costrutti. Sotto questo punto di vista, nel campo della nostra grammatica c'è da riempire un gran vuoto, che non è stato colmato neppure dal (Torricelli, né dal Fernow, né dal Biagioli. Il suo è solo un saggio e breve delle permutazioni di semplici vocaboli presi uno per uno, e rappresentativi di parti differenti del parlare (p. XVII). Della miglior grammatica di nostra lingua dobbiamo saper grado a un tedesco: cario luigi fernovio, che la stampò in tubinga. Eccone una, che indica il suo metodo: accanto = à còte; prìs : 1 (In luogo posto) accanto ia canto 1 rispetto 1 al mare, Bemb., =à coté de la mer\ 2. (In luogo posto) accanto (rispetto a) le verdi ripe, Bemb. = près des vcrtes rivcs. (-) P. es.: Bastami (la disgrazia) d'essere stato schernito una volta, B.; Viene in concio (riguardo) ai fatti nostri. Ginguené gli lodò molto nel Mercure questa grammatica, facendogli un merito d'aver seguito Du Marsais e Condillac. (*) Milano, De Stefanis, 181 r. Mazzoni, L'Ott., p. 310. Ne ebbe notizia dal Biamonti. Muzzi scrive tutti i nomi propri con le minuscole. Ma, quanto a sintassi, molti passi del Boccaccio vi sono interpretati a rovescio. Essa pargli la più doviziosa per regole, la più sobria di metafisica e insieme la più elegante per metodo. Ma da un articolista del Giornale italiano le è stata attribuita una regola che è invece del Soave (cfr. l'ediz. milanese): quella che l'imperativo negativo ha la forma infinitiva: non amare ! La regola principale che forma il fondamento di tutto il Saggio è che la trasposizione delle parti del discorso della lingua italiana segue le leggi delle permutazioni aritmetiche . Esempi: veggio pietro \ In questa serie abbiamo una sola pietro veggio \ permutazione. egli amava guglielmo egli guglielmo amava amava egli guglielmo l ~ . et,., .. Qui sono sei. amava guglielmo egli guglielmo egli amava guglielmo amava egli Con la serie 1. 2. 3. 4. (coloro disprezzano grandemente arrigo) le permutazioni aumentano ancora. E così di seguito. Qui entra in confronto col francese dove è gran penuria di permutazioni. Viene poi a osservazioni particolari circa la maggiore o minore permutabilità delle parti del discorso. La preposizione, p. e., è indivisibile dal nome, ma non così dalla radice di un verbo: onde per meglio fare ciò invece di 24 permutazioni ne avrà solo dodici, dovendo escluder quelle dove il 2 è collocato prima di 1. Qui ricorda che il dépéret (recherches philosophiques sur le langage de sons articulés, in mém. d. l' ac. des sciences de tur in, années X-XI, 1803) tratta un soggetto affine al suo, e il Dubos, seguito dal Rollili, che propose un sistema musicale per rappresentare cambiamenti di voce diagnostici degli affetti. Fatte alcune osservazioni sulle pause, conclude col notare che nel campo della sintassi del periodo lo studio delle permutazioni diventa immenso (sfido io!), e, ricordati i Principj di grammatica generale del De Sacy, col far voti che si compili una grammatica italiana migliore nella parte sintattica. L'osservazione del Muzzi che la lingua italiana ha il privilegio di permutare straordinariamente le parti del discorso, è giustissima: ma che I 2 2 I I 2 3 I 3 2 2 1 3 2 1 ò 1 3 1 2 3 2 1il fatto possa dar luogo a un sistema di sintassi, a una nuova sezione grammaticale, è una sua inappagabile pretesa. La sintassi ha già formato i suoi schemi per comprendervi tutte le possibili permutazioni, ciascuna delle quali, caso per caso, vi ha la spiegazione. Che cosa si pretenderebbe col sistema delle permutazioni ? stabilire forse delle altre categorie sintattiche secondo le quali gli elementi del pensiero si potrebbero disporre in un modo piuttosto che in un altro? che ci fossero in altre parole nuovi ordini di mezzi espressivi ? Per altro nel sistema perni utativo del Muzzi, come in quello musicale da lui citato del Dubos e del Rollili, abbiamo una nuova prova, se ne avessimo bisogno, dell'arbitrarietà delle categorie grammaticali e sintattiche, che possono esser diminuite e accresciute e ex novo costruite secondo il mag giore e minore genio grammaticale inventivo dei grammàtici ! Parve, alfine, che la grammatica auspicata dal Muzzi spuntasse negli Elementi filosofici per lo studio ragionato dì lingua proposti e dedicati alla studiosa gioventù delle Università d' Italia da Mariano Gigli, professore di scienze, (/) che furono infatti molto lodati allora e dopo. Anche il Gigli comincia dal lamentare che non vi fosse ancora un libro... come il suo: un libro scritto dietro la sola guida del Buon-senso... è una scienza affatto nuova nella Repubblica Letteraria . Veramente un tal libro poteva anche esserci: la sua Lingua filosofico-universale (pubbl. a Milano l'anno avanti), di cui questi Elementi sono chiarimenti, aggiunte e correzioni. Uno de' miei primari difetti , confessa con ironico candore il Gigli, è quello di consultar la Ragione, e non l'Uso. Ecco che cosa gli dice la Ragione. L'uomo è un essere sensibile giudicante: in quanto vive in società, e ha bisogno della parola, in quanto, cioè, è un uomo sociale, è uomo naturale parlante (p. 8): u?iico dunque deve essere il linguaggio per ciò che riguarda l'uomo naturale; molteplice per l'uomo sociale. Avremo dunque una filosofia di lingua, e una grammatica di lingua. Conoscendo la propria lingua filosoficamente, conosceremo tutte le lingue, e non ci rimane che Milano. Non so se sia tutt'uno con essa l'altra opera di Gigli, La metafisica del linguaggio. Scienza nuova anche ' dotti e pe' soli di buon senso, Milano.] applicarci allo studio della grammatica di ciascuna, per apprendere i suoni e i segni attaccati dalla convenzione alle idee, e poi V ordine con cui si succedono. Onesta conoscenza si forma con l'abitudine, e non ci sarebbe bisogno di grammatica. Ma poiché ogni lingua ha le sue particolarità, il raccoglier sotto regole generali è far cosa utile. Far dunque la grammatica di una lingua, è formular quelle regole generali. E facile vedere che questa nuova scienza di Gigli è la vecchia grammatica generale caratterizzata con molte inutili e imprecise parole. Il suo buon senso non gì' ispira che complicazioni. De' giudizi, p. es. (p. 27), distingue quelli dazione e quelli di qualità; ma ogni giudizio esige tre cose: r. L’oggetto, cardine del giudizio'; la parola, (verbo) voce di giudizio '; la voce, che esprime ciò che si attribuisce, ' attributo di giudizio ! Non miglior pregio ha la Grammatica della lingua italiana di Bellisomi, autore anche di una Grammatica delle due lingtie italiana e latina per uso dei Ginnasi della Lombardia^) e di una Introduz. alla medesima. Sì l'ima che l'altra furono molto diffuse, ma di notevole la prima ha l'aver abolito lo schematismo della consueta grammatica: poiché il contenuto esposto in modo discorsivo per via d'analisi è su per giù il medesimo. Un'osservazione è degna d'esser ricordata a onore del Bellisomi: che i bamboli riescono a parlare secondo grammatica pur non avendone coscienza, e quando poi si danno ad apprender la grammatica, ricominciano a sbagliare ! (prefaz.) Un trattato... sul valore, sulle proprietà e sull'uso di alcune voci e di alcune frasi, un trattato compiuto, quale sin qui desideravasi, di sintassi e di costruzione, un trattato sul discorso e sullo stile... non pochi cenni storici sull'origine e sui progressi ('i Ad uso delle se. el. della Lombardia, Milano. Milano. Milano. Bellisomi ebbe una lunga polemica grammaticale col Fantoni. Cfr. Postille alle osservazioni critiche di I. Fantoni sopra la prima parte della gr. it. e latina, Milano. Del Fantoni, si può vedere Risposta al libro: Postille, ecc., Brescia. Il F. critica il B. coi principi del Soave, del Destutt de Tracy ecc. La polemica getta non poca luce sull'accaloramento onde la grammatica generale era trattata nelle scuole.] della lingua italiana ... non per gli uomini scienziati e d'alte lettere, ma per i giovanetti con istile semplice e familiare vuole dare Ziniglio Vianotti (cioè Giovanni Ziliotti) con le sue Lezioni di lingua italiana in seguito allo studio della grammatica, ma non riuscì che a comporre un zibaldone di rettoricherie, di osservazioncelle di grammatica (p. es. questa, che il che è la congiunzione più importante), di frasi (è un italianismo presero a fuggire). Il fervore per la grammatica come scienza era venuto sempre crescendo: forse non ci fu mai per questa disciplina un' ammirazione, anzi un'esaltazione come in Italia in questo periodo, che era in ragion inversa della penetrazione filosofica degli stessi che la coltivavano. Basta vedere la Dissertazione storico -critico filosofica di Antonio Adorni intorno alle Grammatiche, un ellogio, così l'autore stesso la chiama, della grammatica e insieme un infelice tentativo di spiegarne l'origine, per rivelarne l'antichità, in modo da farla coincidere con la stessa sapienza dei libri sacri, e esaltarne la venerabilità indicando non alla rinfusa, ma promiscuamente dentro le grandi epoche (grecoromana, medievale, rinascimento, tempi -moderni) senz' alcun criterio, i nomi degli insigni scienziati e filosofi che la tratSecondo le vedute di Cesarotti e Tiraboschi che infatti non fa che copiare. Dobbiamo (ma non è un gran debito) allo Ziliotti, oltre diversi compendi e metodi grammaticali anche per il latino, La ortografìa italiana citata al tribunale della sana critica, Padova, dove arrossisce di vergogna per avere tredici anni addietro (coll'operetta portante il titolo Ortografia italiana, ovvero regole per rettamente scrivere in lingua italiana) mostrato al publico come ei pure la pensava alla maniera degli altri in fatto di ortografia. Come la pensasse, s'argomenta ora dal vederlo scrivere publico, legere, add ungue, bacciarseli ! Padova. Pubblicò anche: " Il fanciullo istruito fin dalla sua infanzia in tutto ciò che il può risguardare'', Padova, 1817;" Libretto di devozione pe' fanciulli ", Vicenza, 1819; " Ortografia italiana ovvero regole per rettamente scrivere in lingua italiana ", Padova (2a ediz.) 1S24; '• Introduzione alla grammatica della lingua latina", Padova. Guastalla, nella tipografia di Gaetano Ferrari e figlio, s. a. (La ded. è datata da Sabbioneta. Una nota nell'ultima pag., la 54, dice: Dall'epoca in cui fu scritta la presente dissertazione, a quella, in cui si pubblica, la morte, sempre ingorda delle migliori cose, ci rapì il sempre memorabile Bodoni. tarono: sicché neppur giova come schizzo d'una storia della grammatica, quale un diligente avrebbe potuto disegnare, raccogliendo dai vari libri de' grammatici dove si ricordano i nomi de' predecessori . Tra le lodi della grammatica e lo sfogarsi contro le autorità che non elevano alle cattedre gli uomini veramente grandi (come lui, certo, che una n'aveva perduta e per un' altra si vide posposto a un ignorante di prete che poi fu la pietra dello scandalo degli scolari), egli, che pur gli aveva prima citati in onore per averla coltivata, trova modo, forse per mostrarsi uno di quei grandi, di biasimare, perchè non usavano del metodo analitico, e l'Alvarez, e il Despauterio, e Salvator Corticelli che modellò , e questo era vero, il suo corso Grammaticale sul gusto di quel de' latini , e Francesco Soave ne' suoi elementi di lingua italiana, quando volle ridurre a sette le parti dell'orazione, facendone una sola delle sue specifiche in natura addiettìvo, e participio, e in blocco tant'altri, senza che appaia se accetti il sensismo benché citi il Condillac o il puro logicismo. Non parliamo della sua filosofia del linguaggio: la dissertazione s' apre così. La lingua non è, come alcun tra filosofi opinar volle, figlia dell' uomo, ma figlia dell'autore della natura; il che prova in nota con argomenti infallibili. Un considerevole tentativo eli costituire un corpo organico di scienza grammaticale è il termine caro all' autore L'Adorni stesso, a dimostrare che neppure dal nono e ottavo secolo infìn ai tempi dell'Alighieri non fu come sembra offuscata di tenebre densissime la nostra regione scientifica rimanda ai documenti addottine in prova dal celebre Cerretti nella sua inaugurale recitata nell'Aula Regia dell'Università di Pavia per l'aprimento de' studi nell'anno millesimo ottocentesimo quinto, p. 25. Nella quale, peraltro, a me non è riuscito trovar nulla di strettamente connesso col nostro tema, come avevo potuto supporre. Notevole, invece, m'è parsa una pagina d'una lezione del Cerretti sullo Stile, dove illustra il fondamento logico della dottrina stilistica del Beccaria. La considerazione delle parole de' suoni diversi e diversamente ricevuti non è riguardata del celebre Autore, che come dipendenza della Grammatica: e però prescinde dalla stessa, o poco almeno, e in un solo paragrafo ne parla ov'egli ragiona dell'Armonia; e tutti colloca i suoi principj nell'Analisi delle idee. Seguendo il D'Alembert, il Cerretti fa altre osservazioni sulla chiarezza e precisione grammaticale dello stile. Instituzioni di eloquenza del cavaliere Luigi Cerretti modonese, Milano, presso Giuseppe Maspero] compì Romani di Casalmaggiore, un matematico che insegnò e fu preposto a pubbliche scuole e istituti educativi, e tutto infervorato nel proposito di rinnovare ' il linguaggio grammaticale ' con la grammatica filosofica. Tranne alcuni opuscoli, i suoi lavori furono pubblicati postumi tra il 25 e il 27 nella bella edizione delle Opere complete fatta dal benemerito Giovanni Silvestri di Milano. Ma all'ampiezza del suo 'piano' e all'entusiasmo onde attese a eseguirlo e anche alla larga informazione della letteratura grammaticale non corrispondeva certo la profondità del pensiero filosofico. Basterebbe dire che il Romani ammette tre sorte di linguaggi, uno grammaticale, per ' la manifestazione de' pensieri', uno oratorio per ' la comunicazione degli alletti ', e un altro poetico per ' la dilettazione dell'udito; che ritiene conservato in buono stato quest'ultimo, un po' meno il secondo, assolutamente in cattive condizioni il primo, perchè mentre per gli ultimi due non occorse una grammatica, essendo bastata Son volumi cosi ripartiti. Teorica de' sinonimi italiani. Dizionario generale de" sinonimi italiani. Osservazioni sopra varie voci del Vocabolario della Crusca. Teorica della lingua italiana; Vili. Opuscoli: Sulla scienza grammaticale applicata alla lingua Italiana (ed. Milano): Mezzi di preservare la lingua Italiana dallasua Decadenza (ed. Casalmaggiore, 1808); 3. Sulla libertà della lingua Italiana (ed. Pesaro; Sull'insufficienza del Vocabolario della Crusca al servizio del linguaggio filosofico Italiano per uso delle Scienze e delle Arti; Sopra l'origine, Formazione e Perftttibilità della lingua Italiana; Sulla bellezza della lingua Italiana. Il secondo di questi opuscoli era stato disteso per la gara di cui fu vincitore il Cesari, ma non fu presentato al Concorso. Quanto fosse profonda, non saprei dire, perchè gli autori li nomina quasi sempre per indicare se conobbero e applicarono 'la scienza grammaticale ', ma di nome e genericamente conosce quasi tutti i principali greci e latini, lo Scaligero e il Sanzio, i nostri, e più particolarmente i logici francesi. (:i) Che nel linguaggio degl’affetti, di cui si valsero soltanto i più rinomati Classici di quel secolo, si possa parlare e scrivere senza un piano meditato di scienza grammaticale, convengono tutti que' filologi che riconoscono tanto più naturali, più energiche, più vive e più commoventi le produzioni delle fantasie e delle passioni, quanto meno sono frenate da leggi, e da grammaticali regolamenti. Fra i molti moderni che sostennero questa ragionevole opinione si può particolarmente annoverare il celebre Cesarotti. l'imitazione degli scrittori e poeti migliori, per il primo mancò quel mezzo: la grammatica de' nostri grammatici fu compilata eoi lodevole scopo di perfezionare il linguaggio intellettuale e filosofico, ma... sventuratamente si sbagliò nel mezzo acconcio per riuscirvi: perchè, invece di dedurre le regole dai legittimi loro fonti, cioè dai principi dell'Ontologia e della Logica, ossia della vera scienza grammaticale, [i grammatici del Cinquecento] le tirarono materialmente dagli esempj del linguaggio affettivo degli scrittori trecentisti, linguaggio che, prodotto senza regole, non poteva somministrar regole certe ed opportune al linguaggio istruttivo e filosofico , e, di contro al vantaggio di procurar alla lingua una t'orma costante e generale che pria non avea , le recarono però due funestissimi danni: il primo di aggravare senza necessità il linguaggio affettivo di regole e l'altro di privare il linguaggio intellettuale di tutti quei canoni, e ragionato metodo, di cui abbisognava per giungere alla sua perfezione. Onde la necessità della scienza grammaticale, che, se ha nella parte teorica la dottrina ontologica a comune con la Logica, nella parte pratica non è però la Logica. L 'arte della Logica ha per fine la rettezza e la verità dei pensieri, senza punto curarsi del modo o dei mezzi di esprimerli; la Grammatica ha per iscopo la rettezza e la verità dell' espressione, senz'incaricarsi dell'esame, se i pensieri che debb'esprimere siano consentanei alle regole logiche; secondo la logica i pensieri sono retti e veri, quando sono conformi all'ordine naturale delle cose; secondo la Grammatica le espressioni sono rette e vere, quando con precisione riportano i pensieri nello stesso modo, estensione, limiti e stato, con cui sono concepiti d e filosofico , e, di contro al vantaggio di procurar alla lingua una t'orma costante e generale che pria non avea , le recarono però due funestissimi danni: il primo di aggravare senza necessità il linguaggio affettivo di regole e l'altro di privare il linguaggio intellettuale di tutti quei canoni, e ragionato metodo, di cui abbisognava per giungere alla sua perfezione. Onde la necessità della scienza grammaticale, che, se ha nella parte teorica la dottrina ontologica a comune con la Logica, nella parte pratica non è però la Logica. L 'arte della Logica ha per fine la rettezza e la verità dei pensieri, senza punto curarsi del modo o dei mezzi di esprimerli; la Grammatica ha per iscopo la rettezza e la verità dell' espressione, senz'incaricarsi dell'esame, se i pensieri che debb'esprimere siano consentanei alle regole logiche; secondo la logica i pensieri sono retti e veri, quando sono conformi all'ordine naturale delle cose; secondo la Grammatica le espressioni sono rette e vere, quando con precisione riportano i pensieri nello stesso modo, estensione, limiti e stato, con cui sono concepiti dalla mente, senza incaricarsi della logica verità o falsità di essi; mentre la parola debbe essere fedele e precisa nel riferire i pensieri della mente tanto retti che obliqui, tanto veri che falsi. Ma siccome il principio della differenziazione dei linguaggi è il fine per cui si parla, si ammettono i così detti linguaggi degli amanti, dei furbi, dei legisti, dei romanzisti ecc. . Introduz. alla Teorica. Invece di fermarmi e criticare queste vedute, rimando alla discussione fatta dal Croce sui rapporti tra Logica e Grammatica quali li aveva stabiliti lo Steinthal col famoso esempio della tavola 444 Storia della Grammatica His fretus, ovvero su questi bei fondamenti, per dirla col Manzoni, il Romani si fece a compilare un Dizionario di sinonimi, a correggere la Crusca e a fabbricare una nuova Grammatica generale italiana, che diceva anzi mancare all' Italia, anche dopo i tentativi del Venini, del Yaldastri e del Soave, in due sezioni, Teorica e Pratica, eseguendo però solo la prima; non solo, ma perchè, insomma, la scienza grammaticale penetrasse tutti i meandri della vita scientifica della nazione, propose che una sezione dell'Istituto Nazionale, composta di profondi Grammatici filosofi e di Ontologisti, si occupasse della redazione delle teorie e regole di Grammatica generale dedotte dai principi di naturale Ontologia, un' altra, alla dipendenza della prima, stabilisse le regole certe e immutabili di pratica attuazione, entrambe compilassero un completo Dizionario italiano al sol servizio del linguaggio filosofico; fosse poi esteso a tutte le Scuole elementari e Licei dello Stato lo studio della Grammatica ragionata di nostra lingua; i testi di lettura fossero scelti tra quegli autori didascalici che scrupolosamente si attennero ai termini adottati nel nuovo Dizionario, ed alle Regole stabilite nella Grammatica ragionata; che si accettassero per maestri solo quelli che per esame avessero dimostrato di conoscere appieno rotonda: La Critica, ‘QUESTA TAVOLA ROTONDA È QUADRATA [tautology – contradiction]. A Romani s'attaglia assai bene tutto quanto osserva qui Croce, perchè egli è veramente uno di quei grammatici che, se par limitarsi a scrivere sulle pagine elaborate secondo le sue regole: Videat logicus, videat aestheticus, poi passa dal campo empirico al filosofico, da costruttore di tipi astratti a giudice di realtà concreta e viva. Anzi va tanto in là da esclamare seriamente: che di grammatica e di regole possa esentuarsi il linguaggio dell'intelletto, del raziocinio, della ragione, è il punto che io non posso accordare, uè accorderò giammai al prefato oppositore, giacché io sono pienamente convinto che, per esprimere con precisione, e con chiarezza i nostri concetti, per manifestare con rettitudine i nostri giudizi, per coordinare, e regolarmente legare i nostri raziocini, per esporre metodicamente e sinteticamente i nostri ragionamenti, siano indispensabili tutti que' canoni, e tutte quelle cautele che ci somministra la Scienza grammaticale. E finisce col far tutt'uno della Logica e della Grammatica, come anche si vede dal fatto che nella sua Teorica della lingua italiana, elabora di proposito la dottrina delle Argomentazioni, dichiarando questo, dominio della grammatica. V. qui tutto il brano che abbiam riportato sulla degradazione della grammatica.] le scienze grammaticali; che a tali prove fossero sottoposti anche gli ufficiali dello stato incaricati di redigere atti pubblici. Con tali mezzi io sono pienamente persuaso che la Lingua italiana non solo potrà esser sollevata dall' attuale sua decadenza, ma potrà esser inoltre preservata per molti secoli da qualunque degradamene o degenerazione. Un vero infatuamene grammaticale. Senz'indugiarci a considerar da vicino come abbia eseguito i suoi ' piani ' il nostro ardente grammatico, dirò soltanto che se egli non sostiene che ci sia una visione grammaticale delle cose, concepisce però la grammatica come una rettorica (scienza [Il principio fondamentale onde si fa a svolgere la sua Teorica è il seguente: Secondo le parole unicamente destinate alla manifestazione de' nostri pensieri e delle affezioni nostre, debbono necessariamente le lingue essere fornite di tante sorte di parole, quante sono le diverse operazioni della mente nostra, perchè ciascuna di esse sia adeguatamente e distintamente rappresentata da appositi segni. Così vediamo sorgere le categorie grammaticali, non solo, ma tutte le varietà formali di esse, tutti i valori vozionali (p. es. -orio acquista nozione d'istrumento o di località quando s'accoppia a una radice: aspersorio, dormitorio). Cosi, poiché le nostre nozioni sono riducibili a dodici classi capitali, cioè: Sostanze; Proprietà; Qualità; Affezioni; Potenze; Forme; Relazioni; Quantità; Tempo; io. Luogo; Stato; Moto, la genealogia de’nomi viene a esser la seguente. Nomi Attributivi Propri Qualitativi Affettivi Formali Potenziali Sostanziali Relativi Comparativi Qualitativi Quantitativi Occasionali Temporali Locali Statari Motivi CON QUESTO PROCEDIMENTO SI CREA TUTTO IL LINGUAGGIO intellettuale. Schematizzandolo in un vasto quadro, dove l'occhio potesse tutto comprenderlo, ognuno dispererebbe di mai parlare. E dire che tutta questa brava gente di grammatici logici universali, dello stampo del Romani, credevano ciecamente nel loro sistema, senz'accorgersi che essi parlano egualmente benissimo e scriveno con altrettanta facilità, nonostante che ritenessero non ancora venuto il regno della grammatica RAZIONALE FILOSOFICA universale.] d'un'arte chiama la scienza grammaticale, e arte la logica), come una rettorica della logica, ossia, per l'appunto la scienza della tavola rotonda che è quadrata, e questo solo, non anche l'estetica di una poesia, che avrebbe per tipo i versi celebri, grammaticalmente e metricalmente impeccabili – Colourless green ideas sleep furiously. Pirots karulise elatically. C'era una volta un ricco poveruomo, Che cavalcava un nero cavai bianco; Salì scendendo il campami del Duomo, Poggiandosi sul destro lato manco.] perchè affetti e suoni, per designar col termine di Romani il mondo dell'arte, le creazioni della fantasia, son fuori, non avendone bisogno, della sfera dell'arte. Quella che era stata in CESAROTTI (si veda) una confusa intuizione del carattere fantastico del nostro pensiero, diventa nel suo scolaro un insanabile dualismo, per cui da una parte si ha un linguaggio grammaticale – Colourless green ideas sleep furiously – Pirots karulise elatically --, dall' altra un linguaggio agrammaticale (oratoria e poesia). Un vero regresso, dunque, rappresenta questo punto di vista del Romani, non pur verso i grammatici logici dell'Enciclopedia, ma verso lo stesso Cesarotti; e il suo apostolato ebbe infatti scarso successo. Giandomenico Nardo ("), che fu chiamato ' l'ultimo de' cesarottiani ', lamentava molti anni più tardi che gli scritti di Romani non fossero studiati abbastanza; ma, per ripetere un arguto giudizio del Mazzoni, quella era troppa filosofia, troppa fidanza, cioè, nel raziocinio, e troppa noncuranza invece dell'osservazione diretta sull'uso corrente. Fantastica anche ROMANI una sua lingua universale; e così crede, senza accorgersene, che pur la lingua nostra si potesse dipanare via via a fil di logica dalla matassa d'una teoria. Quanto aveva di ragione, e non è da negare che ne avesse, contro la Croce, in La Critica. Pubblica Osservazioni sopra alanti recenti vocabolari metodici della lingua nostra (Rambelli, Carena, Barbaglia, ecc.), e, come appendice a una raccolta di suoi studi, uno scritto Sui mezzi indicati da M. Cesarotti per avviare l'italiana favella alla desiderata perfezione. Prese dal maestro, osserva il Mazzoni (L'Olt.), l'idea buona e in qualche parte la praticò, dei vocabolari dialettali. Si ricordi l'espediente praticato e suggerito dal Cesari circa l'uso del dialetto (Disser/az., verso la fine) per l'apprendimento della lingua, e la proposta del Manzoni. Crusca d'allora, non bastava a dargli vittoria siffatta da costituire lui quasi supremo legislatore, in nome della Ragione, sulle grammatiche e sui vocabolari presenti e futuri. Era troppa filosofia per gli stessi continuatori di quell'indirizzo. Vanzon nella sua Grammatica ragionata della lingua italiana • C ), dove pur dichiara di aver seguito un punto di vista ornai comune appo le nazioni più colte d'Europa, vuol prender una via di mezzo distruggendo parte delle preoccupazioni degli scolastici e parte accettando delle filosofiche dottrine . Infatti, tranne che per le definizioni, dove versa discretamente lo spirito ideologico, vi segue i principali grammatici empirici dal Salviati al Buonmattei al Corticelli, attenendosi per le autorità ai padri della lingua, con molte liste alfabetiche di esempi e molti esercizi. Il Calchi nella prefazione alla terza edizione della sua Grammatica ragionata della lingua italiana, dichiarava d'aver compilata otto anni avanti una Grammatica elementare maggiore per un Corso di studj, coli' intento di applicare bensì la teorica generale del linguaggio alle regole proprie e particolari della nostra favella, ma non d' inoltrarsi soverchiamente nelX ideologiche astrattezze per non correr pericolo, invece di aiutare, di confondere la mente. Codesta Grammatica infatti, che tien conto dei grammatici francesi allora in voga, il Tracy e il Condillac, e i nostri sia logici (Vanzon, Valdastri, ecc.) che pratici (Buonmattei, Ambrosoli, ecc.), riesce a un lodevole contemperamento di filosofia e di empirismo, quale era consentito dai tempi. Anche vi è ristabilita quell'antica armonia delle varie parti della grammatica {ortologia, etimologia, costruzione, ortografia, prosodia e versificazione) che è stata poi ripresa modernamente: e alla grammatica moderna, p. es. a quella del Morandi e Cappuccini, rassomiglia per aver trattato dell'uso delle varie parti del discorso nella sezione dell'etimologia, di volta in volta, piuttosto che nella sintassi. Il ragionato in questa Grammatica si riduce alle dichiarazioni logiche delle singole categorie e degli accidenti grammaticali e alle dilucidaMazzoni. Livorno. La prima edizione, esaurita, dice l'a., in breve tempo, voleva essere un' 'Esposizione grammaticale al suo Dizionario universale.] zioni delle regole dell'uso delle varie parti del discorso. C'ingegneremo di determinare... le ragioni di esse regole: né solo in questa, ma anche in ogni altro che verrà dietro a ciascuno de' Capitoli successivi, giacché se una lingua deve avere Yuso per base, come dice il Cesarotti, V esempio per consigliere, deve parimenti avere, sempre che può, la ragione per guida. Abbonda invece di esempi, che sono tolti da approvati scrittori d'ogni secolo, e di paradigmi. Anzi in un punto egli si scusa di far di questi un uso troppo abbondante, più conveniente ad un Manuale della lingua che ad una Grammatica. Non si creda peraltro che il fervore per la grammatica generale accennasse a intiepidirsi, anzi si seguitavano a tradursi anche gli autori francesi, perchè fossero ancor più popolari, come il Girard (2). Anzi, ideologia logica e grammatica seguitavano a viver congiunte, come già ai tempi del Venini, del Valdastri e del Soave, non pur ne' libri, sì bene anche nell'insegnamento universitario. A Torino, Bona inaugurava appunto il corso di Grammatica generale con una lezione proemiale, in cui, delineando i concetti fondamentali ed il metodo di questa disciplina, diceva: " Poniamo innanzi tutto che la cognizione della Grammatica generale, o vogliamo dire la cognizione scientifica dei principi generali ed immutabili delle lingue, bene si può altrimenti ottenere che dalla cognizione dei materiali elementi dei singoli idiomi e dal paragone dei medesimi tra di loro per discernere in essi lo assoluto dal contingente, lo universale dal particolare, l'uso dal diritto... Le leggi fondamentali del discorso può l'uomo conoscerle parimenti per mezzo della riflessione, rivolgendo la sua attività intellettiva all'analisi dell'elemento spirituale del linguaggio, astrattamente dallo elemento formale del medesimo. L'analisi filosofica del pensiero può guidare eziandio allo scopo; questa anzi deve precedere ogni Grammatica ragionata della lingua italiana proposta da Caleffi già pubblico professore di FILOSOFIA. Terza edizione fiorentina. Firenze, a spese dell'Editore. Dell’insegnamento ragionato della lingua materna nelle scuole e nelle famiglie. Trad. di A. Pace, Torino. La Grammatica generale del conte Destutt de Tracy era stata tradotta dal Compagnoni, Milano.] cosa, olii vuole scientificamente risolvere i diversi problemi della teoria dell'umano linguaggio e conoscere le leggi fondamentali. Che più ? Non soltanto fu l' ideologia applicata alle grammatiche delle varie lingue, non escluse quelle comparative (una Grammatica ragionata italiana ed ebraica (2) aveva pubblicato fin dal 1799 Samuel Romanelli), ma perfino anche ai trattati d'altre arti diverse dalla parola, e avemmo così anche una vera e propria Grammatica ragionata della musica considerata sotto l'aspetto di lingua (3), fondata, come l'autore stesso, Balbi, dichiara sui principi e le grammatiche del Tracy, del Soave e d'altri (p. 33). Vero è che spesse fiate, nell'impresa di stabilire le rispondenze logico-grammaticali tra la lingua musicale e quell'articolata, è forza confessare al nostro autore, mi si paravano dinanzi delle difficoltà ed imbarazzi non piccoli, allorché mi mancava per esempio qualche parte da poter confrontare, ove qualche altra invece mi sopravanzava; ma, convinto dell'identità del principio logico generatore de' due modi d'espressione, egli comincia impavido a trattar delle parti costituenti il discorso musicale e via via, per tutte le categorie, considerate in tutti i loro accidenti del genere, del numero, del caso, ecc., del soggetto, dell' attributo, della copula, dell' avverbio, dell' interposto, della congiunzione, della preposizione, arriva fino alla sintassi, riguardata ne' suoi mezzi di costruzione, declinazioìie e creazione di legami e riposi (punteggiatura) destinati a marcare le relazioni delle altre parti . E ben facile rappresentarsi il contenuto d' un tal libro; pure gioverà aggiungere qualche esempio. Il soggetto è, così, il tono o modo, vera sostanza di qualunque pensiero musicale; V attributo è la qualità del tono, scelta del tempo, indicazione del movimento, posi- [ZOPPI (citato da VAILATI), LA FILOSOFIA DELLA GRAMMATICA: studi e memorie di un maestro di scuola, La Sapienza, Unione tipografica-editrice, dove Bona è citato così: Boxa, Lez. proem., Torino, 1847, P9"IO> cit. dal Pezzi nella Introd. allo, studio della scienza del linguaggio, Torino. Con trattato, ed esempi di poesia, Trieste, Dalla Ces. Reg. Privil. Stamperia, Milano, Ricordi. I capitoli sono stati pubblicati già dall'a. stesso per Nozze Treves-Todros e Todros-Treves, a Rovigo, A. Minelli] zione, intensità, carattere dei suoni; il verbo è la disposizione, X ordine, delle espresse o sottintese basi fondamentali formanti la cadenza, il di cui officio è appunto quello (al dir del Tracy) di svolgere le due idee presentate dal tono, e carattere o qualità paragonabili al soggetto ed ali 'attributo. Siccome poi, in fatto di lingua, altro verbo non esiste, che l'Essere, derivante dal suo participio étant (rozzamente essente) così nella sola cadenza semplice tonale, consiste la vera essenza copulativa o copula; e giacche qualunque altro verbo non può essere che un composto del sottinteso essere aggiunto ad un attributo, così anche qualunque altra cadenza non potrà essere che composta della tonale aggiunta a qualche altro attributivo accordo, o cadenza in qualsivoglia maniera, od espressa, o sottintesa. Ecco quindi ciò che forma la proposizione musicale, che noi chiameremo pure col solito titolo di periodo, canto, pensiero, motivo, frase, ecc., a secondo di quello che si tratterà, quando daremo gli elementi della composizione. Medesimamente il Balbi vi parlerà di costruzione diretta e inversa, della necessità che Y aggiuntivo si concordi col sostantivo, sì nel numero, come nel genere e nel caso, e perfino del punto ammirativo e interrogativo! Ma la cosa è perfettamente naturale: ammesso che si possa, per ragioni pratiche d'apprendimento e d'altro, sottoporre l'espressione artistica a un processo di elaborazione logica, le categorie grammaticali anche della musica sorgono immediatamente d'incanto, e non c'è nulla da ridire: anzi si può osservare con qualche compiacenza il loro meccanico sorgere anche fuori del campo strettamente linguistico. V'ha di più. Quel solo porre il problema di una grammatica ragionata della musica considerata come lingua in tempi di logicismo e purismo linguistico, anche se il criterio assunto per risolverlo era quel medesimo di cui si serviva la grammatica filosofica, poteva valere come un suggestivo richiamo a una considerazione meglio che intellettualistica dell'espressione in genere, potendosi avvertire in quell'equazione di un prodotto creduto facilmente logico e di un altro di evidentissima natura artistica una comunanza più intimamente spirituale di competenza dell'estetica meglio che della logica. Pochi anni avanti aveva vista la luce un' ' Opera postuma di POGGI (si veda) su La scienza dell'umano intelletto, ovvero Lezioni a" ideologia di grammatica di logica. L'opera, come s'argomenta dal titolo, è divisa, dopo l’Introduzione, in tre parti: Della ideologia; Della Grammatica, e Della logica. POGGI (si veda) è un condillachiano, e quello di Condillac è, se non isbaglio, l'unico nome che citi nel suo grosso volume. Ma, qua e là, come a proposito di metafore e termini-cifre e di lingue emblematiche e dipinte e alfabetiche ecc., indica anche un' influenza, non direi vichiana, ma cesarottiana. Parte, appunto, anche lui dalla istituzione delle lingue artificiali, e con la percezione, i bisogni, l'utilità, la brevità, svolge tutta la dottrina delle categorie grammaticali e de' loro accidenti e poi della sintassi di costruzione, di reggimento, di concordanza. Le prime articolazioni furon pronunziate per significare sensazioni riportate ad oggetti esteriori: un' interiezione, dunque, e un nome bastarono a esprimere qualunque sensazione. In ogni interiezione, in ogni nome è contenuta un'intera proposizione. Poiché un' idea qualunque non è propriamente che il risultato di una sensazione, ne segue che tutti gli altri elementi del discorso non servono ad esprimere veruna idea intera e completa, ma bensì soltanto delle modificazioni, e dei rapporti fra le nostre idee. Tutto il macchinismo d'ogni lingua parlata è spiegato con questo principio: i verbi, gli aggettivi, le proposizioni, le congiunzioni, e tutte le variazioni de' nomi e de' [Firenze. A spese degli editori [i figliuoli Poggi], . Precedono Cenni biografici. (*) In XXI lezioni, con un' Appendice sul l' Idea della metafisica scolastica. In due sezioni (lezioni) Della grammatica: Del PRIMITIVO LINGUAGGIO umano; Degli elementi del discorso in qualsivoglia lingua artificiale; Seguita l'analisi del discorso; Osservazioni sull'analisi precedente, massime intorno al Verbo; Delle variazioni a cui soggiaciono gli elementi del discorso; Dei verbi ausiliari, irregolari, e composti; Degli aggettivi di quantità e di numero. (lezioni): Della sintassi; Del reggimento, e delle altre condizioni della sintassi; Di una lingua dipinta, delineata, o scritta; Di una lingua scritta per caratteri, ossia della scrittura volgare; Dell'ortografia; Delle parole aventi più di un significato, dei sinonimi, dei tempi e delle figure grammaticali. (lezioni): Del Raziocinio; Delle proposizioni, e delle varie forme d'argomentazione.] verbi, si sviluppano da esso. V? avverbio e il participio non sono vere categorie, perchè l'avverbio si compone di una preposizione, di un sostantivo e di un adiettivo, e il participio è una specie di nome verbale aggettivo. La cosa è molto facile: e perciò, invece di seguir il nostro intrepido dipanatore del linguaggio nella sua dimostrazione, la lasceremo immaginare a chi vuole. Mi piace invece richiamar l'attenzione sull'espediente adoperato dal Poggi per dar l'idea della sintassi. Si ricorderà che il Croce per mostrare come i logici hanno cavato dall'espressione i generi grammaticali, ha portato l'esempio d'una pittura che rappresenti un individuo che cammina per una certa via campestre, e alla quale corrisponde la frase: Pietro cammina per una via campestre. Come elaborando logicamente quella pittura si ottengono i concetti di moto, azione, ente, del generale, dell' individuale, ecc., così elaborando col medesimo procedimento quella frase, si ottengono i concetti di verbo (moto o azione), di nome (materia o agente), di nome proprio, di nome connine ecc., che pei grammatici sarebbero le parole, le espressioni di quei concetti, ripassando illecitamente dal logico all'estetico . Orbene, il nostro si serve del medesimo esempio della pittura per elaborare, con poca esattezza, però, non solo le categorie grammaticali, ma l'ordinamento, la sintassi onde vengono a intrecciarsi armonicamente per la perfetta espressione del pensiero. Val la spesa di riportar questo brano, senz'altro dire. Se vi fate a osservare un dipinto in cui siansi per esempio ritratte varie figure umane, voi tosto vedete nel tutto insieme di ciascuna figura il primo elemento di ogni discorso, cioè il nome: se paragonate una figura coll'altra, vi scorgete delle differenze caratteristiche, onde una si discerne dall'altra; analizzando queste differenze vi risultano delle proprietà ovvero degli attributi che voi distinguete egualmente; ed ecco il secondo elemento del discorso che diciamo aggettivo, mentre aggiunge alcun che all'idea rappresentata dal nome: se vi fate a riguardare accuratamente le fisonomie, gli atteggiamenti, e gli atti delle figure medesime, scorgete eziandio le passioni e gli affetti, onde sono animate, dal che scaturisce il terzo elemento d'ogni lingua che appellasi verbo; imperocché quelle attitudini non esprimono che i bisogni, le tendenze, le avversioni o i desiderj dei perso- [Est.] naggi ritratti: infine non esprimono che le attuali modificazioni del loro essere: procedete all'analisi: osservate come una figura stia nel quadro rispetto all'altra, come gli atti o i gesti di questa si rapportino agli atti o ai gesti di quella; poiché siasi voluto rappresentare un fatto od un' azione principale con altre secondarie ed accessorie; finalmente in qual modo tutte quelle figure, e tutte quelle attitudini si leghino insieme, onde esprimere in complesso il concetto del pittore, e voi scorgete che questi rapporti e queste circostanze tengon luogo delle preposizioni e delle congiunzioni: mentre esse isolatamente prese nulla significano, anzi non sono nulla, ma guardate in complesso nel tutto insieme del quadro, servono a determinare, dichiarare e completare l'idea principale o il soggetto della dipintura. Ora, fermandoci all'addotto esempio, è altresì facile il comprendere che intanto il concetto del pittore si manifesta, e passa nella mente dell'osservatore, in quanto che le parti elementari del dipinto sono collocate e disposte in una certa guisa e con determinato ordine fra loro: dal che dipende la pronta e chiara intelligenza del soggetto, ossia dell'azione principale non meno che delle accessorie; di tal maniera che, se quelle figure, quegli atti, quegli emblemi o segni caratteristici e quelle mosse si travolgessero, o confondessero, non avremmo più espressa intelligibilmente l'idea del pittore. Questa collocazione e disposizione di parti, è appunto quella che nelle lingue chiamasi sintassi, la quale voce significa ordinamento. Ma non è prezzo dell'opera il fermarsi sulle colluvie di grammatiche ragionate grosse e piccole che innondò le scuole italiane nella prima metà del secolo decimonono: sarà già molto che ne diamo qui un elenco, s'intende, imperfetto.Neppur Dove ho messo questi puntini, è il seguente periodo: E qui cade in acconcio una bella e giusta osservazione, ed è questa, che l'arte della pittura fin che non seppe ritrarre le affezioni e i movimenti dell'animo, non fu che un linguaggio assai imperfetto, come quello che mancava di segni atti a significare le modificazioni dell'essere, e quindi pur anche le vere relazioni e i legami di un affetto o di un'azione coll'altra e quindi il dipintore non potea esprimere che in parte soltanto i proprj concetti: né tampoco imprimere alcun carattere marcato e distinto alle sue figure. (?ì Martinelli Gius., Modo per agevolare la cognizione e l'uso della lingua toscana, Venezia, 1800 (Divide la lingua in parecchi gèneri di materie, ciascuno comprendente parecchie spezie, ai quali corrispondono vocaboli proprii e figurati e maniere di favellare: è una fraseologia metodica). Placci M. F. Gius, (professore di fisica nel r. Liceo di Fermo), Sul meccanismo della pronuncia ?iella lingua italiana Osservazioni Vicenza (L'a. dichiara di essersi giovato dell'opera del sig. di Kempelen e di alcune altre. Il nostro pensiero va naturalmente al De Brossei. Zanotti Fr., Elementi di grammatica volgare, Milano (È un opuscolo in cui s'insegna tutta la grammatica compresa la sintassi, compresovi un discorso sulla lingua). Brambilla Carminati Dom., Introduzione alla grammatica di Soave ossia Elementi delle due lingue italiana e latina, Venezia (ma riguarda più particolarmente il latino). Libro di lettura e Introduzione alla grammatica italiana per la classe II delle scuole Elementari, Venezia. Franscini Stef., Grammatica inferiore della lingua italiana, Milano, per la III classe elem. (compilazione elementare, ma intonata al la filosofico). Omezzati Andr., Grammatica elementare della lingua italiana, Mantova. (Nella prefaz. cita la dotta grammatica del Soave, e le due del dottissimo Bellisomi, dove colla più profonda sottil metafisica ecc. è porto il più grande aiuto, anzi è arato tutto il campo. Incomincia al solito col domandare: Che cosa è la grammatica? Che cosa intenderò per sillaba?). Alcuni cenni di grammatica comparata delle lingue italiana e latina ad uso della gioventù con Corollari della grammatica di Tracy, di G. B. D., Padova (Con l'esempio di alcuni casi l'it. essere si costruisce come il lat. esse, e i casi vi sono tanto in it. che in lat. dimostra che si deve insegnare la grammatica delle due lingue e d'altre lingue parallelamente per eliminare, anzi per non creare difficoltà. Vi si cita il Tracy, che insegna che una lingua è migliore quanto essa più segue l'ordine naturale nella costruzione . Ma il Tracy ci sta proprio a pigione. È notevole, peraltro, per l'indirizzo che parrebbe un trovato moderno. E già questo ha la barba lunga !). Elementi della lingua italiana ad uso delle scuole, Milano. Fontana Ant., Grammatica pedagogica elementare italiana, Brescia. Il fanciullo parli pure la sua lingua; e tu gli mostra quindi come il detto traducasi facilmente in Italiano; scrivi la traduzione sulla tabella; ed il fanciullo lo legga e lo rilegga, e lo venga poi ripetendo dopo che dalla tabella è cancellato. Anche l'esercizio delle traduzioni dialettali si vorrebbe far passare oggi per una novità; mentre il Fontana ha predecessori perfino nel Cinquecento!). Iaklitsch Gius., prof, a Trieste, Principi elementari della lingua italiana, Milano (Distingue la lingua in generale e verbale. Le vocali sono propriamente l'armonia della voce verbale, che al suono della lingua dà l'amenità e la soavità del canto; le consonanti all'incontro sono più il carattere distintivo delle idee per mezzo delle quali le parole acquistano e significato e intelligibilità, come: colto, conto, corto, costo, ove si può dire che le consonanti /, //, r, s della prima sillaba sono propriamente i segni caratteristici del significato delle parole, e la sillaba è soltanto una sillaba derivativa, la quale modifica il significato se Capitolo quattordicesimo 455 rondo che cambia la sua vocale come pasta, pasto p. 9. Qui la filosofia e l'etimologia a cavallo del De Brosse galoppano mirabilmente all'indietro). Visconti Kr.. Riflessioni ideologiche intorno al linguaggio grammaticale dei popoli colti, Milano, Non sono propriamenUuna grammatica, ma contengono dilucidazioni su ogni categoria grammaticale, secondo le vedute delle grammatiche filosofiche, delle quali l'a. dichiara d'essersi giovato. Se non che la grammatica filosofica mi par che vi sia trattata a rovescio, di mostrandovi si non come sorgono le categorie grammaticali, ma come si sciolgono nelle loro varie accidentalità. Degli aggettivi fa sei categorie, l'ultima delle quali è come la pentola in cui la locandiera getta il residuo di vari cibi, per farne una qualche vivanda destinata alle mense dell'indomani. Le precedenti sono in quella vece come il pollo fresco, l'arrosto ecc.). Scienza della parola toscana, p. I., Le diritte parole della lingua, Torino. Malvezzi Grammatica nuova italiana, Milano. Cogo Pietro, Grammatica italiana popolare, Padova. Cora Gius., Nozioni fondamentali su tutte le parti del discorso ordinate ad agevolare la intelligenza delle prime scuole della sintassi italiana e latina, Venezia (Sono 373 nozioni. Lo studio logico deve incominciare quel giorno stesso in cui il maestro comincia le sue lezioni, e terminare l'ultimo di dell'insegnamento. Sappiamo dai filosofi e sopra tutti dal celeberrimo ab. di Condillac che il perfezionamento del linguaggio e del pensiero devono proceder di egual passo. Fezzi Gius., Tentativo teorico-pratico per f insegnamento delle due lingue italiana e latina. Guida all'analisi ed alla pratica composizione del discorso applicato alla lingua italiana e proposta come primo fondamento dell'arte del tradurre e del comporre nelle classi di grammatica, Cremona Dichiara che quest' operetta è un sunto de' sommi predecessori Soave, Romani. Biagioli, Ambrosoli ma. specialmente, Bellisomi e Fontana, de' quali si dice discepolo, mutati solamente l'ordinamento e l'esposizione della materia e unita la teoria alla pratica. Usa ancora la distinzione cesarottiana delle parole-segni, e delle parole-figure. Ha un'appendice Degli elementi spirituali del linguaggio). Mattiello A., Regole pratiche per {sviluppare ai giovani i primi rudimenti dell' italiana favella in conformità alla metodica, Venezia. (Cogli alunni della I e II ci. eleni, applica la IV massima della metodica generale, come se si trattasse d'insegnar loro a far delle aste. Sai tu a che servono le regole? Non signore). Ànti Giorg., Trattato dialogico sopra la sintassi italiana, le proposizioni grammaticali e la ortografia con alcune tavole sinottiche e in fine un picco/o ' dizionario veronese-italiano ', per comodità e utilità della studiosa gioventù, Verona. Cestari Tom. Em., Grammatica italiana teorico-pratica divisa in ? classi ad uso specialmente delle scuole elementari. Venezia, Dello stesso: Primi eleni, digr. ital.-lat., Venezia; Genesi dell'accordo fra il pensiero logico ed il linguistico proposto a chiave dello studio filologico comparato, Venezia). Brugxoli Ag., Nuovissimo repertorio grammaticale, Verona. Missio Bern., Metodo d'iniziare i fanciulli nel comporre e nella quella del Cerutti si solleva molto dalle altre. Elaborata invece con acume filosofico è una GRAMMATICA IDEOLOGICA (cf. GRICE – ‘way of things, way of ideas, way of words -- Grammatica ideologica uscita senza nome d'autore: e, per chiarezza d'esposizione e grammatica italiana, Treviso. C. V., Grammatichetta italiana ad uso delle scuole elementari intermedie, Lecco, Lipella Car., Grammatica italiana per la j classe eleni., Verona (Postuma. Vi si cita ancora il Soave, ma non sempre per difenderlo). Gusberti D., Grammatica ragionala della lingua italiana, Torino. Naturalmente, in correlazione a questa diffusa produzione grammaticale, non si cessò di speculare sul linguaggio secondo il comune indirizzo filosofico-storico. Si ebbero: Rosa Gabriele, Vicende delle lingue in relaziofie alla storia dei popoli, Padova, s. a. Volpe Gir., Saggio sulle cause delle vicende delle lingue, Belluno. [Bidone Em.], Saggio sull'analisi ed unità delle lingue, Voghera, ed altri siffatti libri che qui non importa elencare. Né mancarono, com'è del pari naturale, discussioni circa il metodo dell'insegnamento grammaticale in riviste, opuscoli (ho ricordato la polemica Bellisomi-Fantoni), e conferenze (p. es. Della istruzione elementare di grammatica italiana, Lettura ne IP Ateneo di Treviso, Treviso): tutta una letteratura scolastica, che, se può interessare lo storico delle istituzioni e dei metodi didattici, non aggiunge nulla alle conoscenze che si posson trarre direttamente dalle grammatiche per l'argomento nostro. Medesimamente si vennero escogitando parecchi sistemi di lingua universale (i nostri volapuk e esperanto), nella illusione di poter ridurre a un unico schema valevole per tutti i popoli le singole grammatiche particolari. Poiché tutti i popoli si ritrovano nella grammatica generale uniformi nel concepimento dell'idee e nel loro collegamento logico, doveva pure potersi formulare un unico sistema grammaticale e ortografico insieme che servisse a rappresentare e a render comune e praticamente comunicabile la lingua universale. Ricorderò: Matraja Gio. Gius., Gcnigrafia italiana, nuovo metodo di scrivere questo idioma, Lucca. (Da genicografia, 'scrittura generale , Modo di scrivere generalmente senza relazione agl'idiomi '. Molti, ricorda il Matraja, si affaticarono per sciogliere il problema di tale scrittura, Cartesio, Leibnitz, Wolfio, Willio, Kircker, Delagarne, Beclero, Sobbrig, Lambert, Demaimieux e Richeri; ma solo a lui, povero frate, la Divina Provvidenza permise di farlo. Tratta la grammatica genigrafica in generale, e poi le parti dell'orazione ecc.). Proposta per la rettificazione dell 'alfabeto ad uso della lingua italiana di N. N., Milano (È fondata su quella del Court de Gibelin e del Klaproth, che prende a base l'alfabeto romano portato a 42 lettere). Già prima di Matraja, altri italiani avevano tentato questo sistema. Grammatica filosofica della lingua italiana, Napoli. Più interessante è forse la Vita di Cerutti con ragionamenti e digressioni morali e filosofiche da lui scritta e pubblicata lui vivente, anche per segnare il termine estremo, dirò così, più importante dello svolgimento della grammatica filosofica, notevole ci sembra il compendio di Corradini. Fondamento della grammatica ideologica, in cui non c'è riuscito riconoscere l'autore, che vi si designa nel proemio un addetto alla teoria e alla pratica della giurisprudenza, è il più schietto sensismo condillachiano che prevalse in Italia, specialmente nell'ambiente scolastico, dove  quella corrente puo circolare con molta facilità. L'autore si mostra assai accalorato pel suo prediletto sistema filosofico, e recisamente avversario alla crtiica. La dipendenza dalla grammatica dall'ideologia e seguendo nell'insegnamento il metodo analitico. Se le cognizioni vengonci tutte da'sensi adoperati nel passato ed attualmente. Se le regole o teorie non sono che brevi sunti delle  osservazioni nate dalla pratica dei fatti e degl’oggetti sensibili, ne consegue chiaro che lo esemplificare, o il far nascere l’osservazioni e le regole da'casi concreti, e dalle circostanze palpabili deve costituire la parte più momentosa dell'insegnamento, la sola e vera salda base del medesimo. Se la sperienza de'fatti fa toccar con mano a chi non ismarrì il tatto, che l’astrazioni e generalità  d'ogni maniera, classi d'individue cose, classi d'ognuna delle loro qualità trovata consimile in parecchi individui, e classi infine di giudizi singolari riuniti a farne un generale, non esistono che negl’oggetti od individui fatti, non sono fuorché estratti d’essi e delle loro relazioni di somiglianze, o differenze, o di causa ad effetto; è dunque pessimo ogni metodo d' insegnare, ch’aggirandosi  perpetuamente nelle copie, trascuri gl’originali siffatti, e'1 cominciar insegnando dall'astrazioni, quali solo tutte le regole e i precetti, con volar sempre sulle loro ali senza mai calare a terra, al sensibile. Il saggio consta di due parti, la prima, che contiene Prelezioni ideologiche indispensabili alla  grammatica, delle facoltà  intellettuali e de'bisogni dell'uomo;  Rapporti, giudizi e teoria dell’astrazioni; le generalità divise in tre sorta di classi, soggettiva o sostantiva, qualitativa, proposizionale, ossia l'esposizione dei principi generali su cui è fondata la grammatica; la seconda, che contiene la grammatica generale, sull’origine della lingua; lingua naturale, d'azione od affettivo; della grande utilità de'segni o vocaboli anche solo pel pensare e ragionare; e delle varie specie  di proposizioni, ossiano giudizj  parlati; del nome, pro-nome, adiettivo (shaggy), articolo e del verbo in genere; delle pre-posizioni e degl’avverbj; delle congiunzioni; del verbo, divisione de'verbi tempi; SINTASSI. La dottrina di questo saggio, sia generale che particolare, sviluppata in un'analisi certamente eccessiva, sovrabbondante pagine sono indubbiamente troppe per spiegare la  genesi delle categorie grammaticali, posa su un sistema assai meno complicato di quel che a bella prima puo sembrare. Senza la pretesa di riassumerla tutta neppur nelle sue linee generali in poche righe, che per tali opere non è possibile né gioverebbe molto, tante sono l’analisi particolari di categorie secondarie, e tanto lunga e spesso noiosa è la via della conclusione, eccola nel suo  principale aspetto. Noi siamo intelligenze servite d’organi, o sieno membri operativi. Colle nostre facoltà o potenze corporee non possiamo distinguere negl’oggetti che qualità, modi o maniere d'essere: ogni sensazione corrisponde a una qualità: gli’oggetti non sono che gruppi o mucchi delle qualità che noi possiamo percepire: sostanza è un nonnulla che sta sotto alla qualità cui serve  di sostegno, fulcro ed appoggio: grammaticalmente sostanza è anche il restante mucchio delle qualità d'un oggetto in opposizione a una o due qualità estratte mentalmente dal mucchio stesso,  cioè per via ed astrazione. Qualità e loro forme mutevoli e astrazioni e i loro rapporti ecco tutta la nostra conoscenza, ossia tutto il nostro modo di sentire, intelletto, e di volere, volontà, mediante  l'attenzione, la riflessione, i giudizi. Ora ogni nostra sensazione ha bisogno per esser circoscritta d’un termine proprio; ma non ci sarebbero vocabolari bastevoli a contener tutti questi termini: quindi la necessità delle classi, i generi, le specie: è tutto un lavoro di generalizzazione e d’individuazione per nominare gl’oggetti delle nostre sensazioni sempre per via d’astrazione: questa è la  naturale figliazione delle nostre idee: anche le pro-posizioni non sono che principj o formole compendiose dell’idee già acquistate dalla esperienza. La grammatica, non che la logica, trova piane le sue leggi  nell'ordine stesso con cui si figliano le idee. Siffatta dipendenza volle Dio ordinare tra l'anima umana nobilissima parte, e la terrena mole, sintantoché vivessimo quaggiù. Il sensismo  che limita le nostre conoscenze alle sole qualità degl’oggetti di cui abbiamo le sensazioni, giunge all'idea di Dio senza alcuna difficoltà!] nostre dal sensibile all'astratto per classificarsi e generalizzarsi. Donde deriva la sua importanza: imperciocché la natura deve necessariamente esordire, e poi l'arte d’essa aiutata proseguire, dirozzare; sicché se l'eloquenza è il cuore che naturalmente parla, l'arte è la ragione che lo rischiara e conduce. La lingua, prodotto naturale della sensività passa naturalmente per tre gradi: gridi o suoni  involontarj; gli stessi usati ad arte o per volontà; lingua composta di suoni distinti ed articolati ne'suoi successivi perfezionamenti. Si passa dall'uno all'altro per Ya?ialogia, magistero della lingua, coi soccorsi dell'onomatopeia. Nella prima naturai  lingua ogni intero pensiero s’espresse con un segno solo, a proposizione intera. È già arte spaccarla in due pezzi, soggetto (Fido) e predicato (shaggy), ed analisi più raffinata ancora il dividere sovente il soggetto in parecchi brani e'1 far lo stesso dell'attributo (shagy). È naturale che la prima pro-posizione intera sia stata un sol cenno di testa, o un 'interiezione. Poi avvenne un continuo  spaccamento di pro-posizioni. Il naturale è il più composto, ed inviluppato. L’artificiale è il più decomposto, analizzato e spezzato. La scienza delle parti del discorso é tutta nell'analisi dello sviluppo del primo grido. In  ou/c'è  io soffoco, o io soffro calore: quando avrò saputo nominar in disparte il soggetto io, il grido  07i f  è ridotto a significar il solo attributo soffoco: così il grido  diventa verbo, sicché il verbo, non escluso il verb' essere, non è che l'attributo della proposizione, cioè una qualità involgente il verb'essere, segno della concrezione della qualità col soggetto. Se ci fossero tante parole proprie quanti sono i soggetti e gl’attributi, non abbisogneremmo che di due specie di parole,  soggetto (Fido) e attributo (is shaggy). Colla parola Paolizzo Paulise puo significar “amo Paolo (Grice)”. “Amo Fido” (Fidoiso). Dalla necessità di determinare il pensiero, o meglio d’individuare l'oggetto che non ha nome proprio (Fido), nacquero tutte l’altre parti del discorso: l'articolo, la  pre-posi- [Tutto in noi riducendosi al ricevere sensazioni, che sono qualità nostre e degl’oggetti, a combinarle, e così al considerar le cose individue come gruppi di  qualità, tra le quali n’estraggiamo mentalmente una per contemplarla in disparte, e quindi ri-congiugnerla, attribuirla, al restante mucchio, lo ch'è pensare o giudicare; è chiaro che ogni nostra manifestazione non contiene mai ch’un giudizio od una serie di pensieri o giudizi.] -zione ecc. Nel dire il frutto del ciliegio posto iti tal luogo piace molto al figlio di Cajo, s'io avessi due parole o  segni proprii ed esclusivi, p. es., A pel soggetto tutto, e B, per l'attributo intero, poiché non s’hanno da comparare che due sole idee, come diverrebbe comodo il dire soltanto A-B. Ma che spaventoso numero di segni ci abbisognerebbe! Qui sorge la teoria dei rapporti grammaticali, il rapporto vero è uno solo, il logico, quello con cui si comparano le due sole idee ch’entrano nella  pro-posizione, colla quale si spiegano, olte le categorie, tutte l’innumerevoli accidentalità grammaticali, ossia le modificazioni delle parole utili a sempre più circoscrivere e individuare i nostri giudizi, pe'quali, al solito, mancano gl’unici termini propri che li significherebbero alla spiccia con somma nostra gioia e comodità. La  pre-posizione e l'avverbio sono riduzioni di qualità accessorie:  le congiunzioni sono le pre-posizioni delle congiunzioni, anch'esse dunque riduzioni d’attributi. Quanto abbiamo fin qui esposto, ci sembra sufficiente a caratterizzare la dottrina di questa grammatica ideologica senz’entrare nelle particolari trattazioni delle singole categorie grammaticali e sintattiche. Quanto sia povera e insufficiente a spiegare il superbo miracolo della lingua, ognun  vede facilmente senza che noi commentiamo di più. Non è nostro scopo far la critica dei sistemi filosofici su cui si costruirono le varie grammatiche: ci basta solo mostrare la relazione di questi con quelli. Ma non possiamo non meravigliarci della simpatia che il sensismo condillachiano ha goduto tra noi per tanto tempo specie come fondamento alle teorie sulla lingua e all’arti del  pensare, del dire, alle grammatiche, che l'ha goduta ancora dopo che Humboldt specula sulla lingua con tanto acume e genialità, n'ha finalmente fissata, pur tra incertezze e confusioni che ne dovevano mantener insoluto il problema, la natura tutta e solamente spirituale nella sua infinita ricchezza. Col sensismo della nostra grammatica ideologica quest'alta funzione del nostro spirito,  anzi la vita stessa del nostro spirito si riduce a un semplice meccanismo, straordinariamente ricco di nomi ma poverissimo di movimenti, che la natura esteriore manda, a suo bene placito, fornito solo di piacere e di dolore, i due grandi custodi del nostro essere. E dire che l'autore, fra i nomi di Condillac, Tracy, Court de Gebelin, Cousin e simili, cita parecchie volte quello di VICO! Il  che conferma quello che osserva l'autore del rapporto del da noi citato, che cioè la dottrina di VICO compresa e accettata in alcune particolari applicazioni rimane oscura nella sua essenza, e conferma ancora una  olta lo strano miscuglio che ne fanno col sensismo i nostri enciclopedisti. Quali utilità all'apprendimento della lingua puo venire da siffatte grammatiche, dove, pure in tanto  analizzare, l'osservazione del lettore non è mai richiamata neppure sulle particolari funzioni logiche dei fatti grammaticali, come invece vedemmo fare egregiamente a Marsais? Col quale si rannoda pella parte teorica, e non per queste felici applicazioni, Corradini, che volle darci, quasi a chiuder la serie non ingloriosamente, un compendio della grammatica generale filosofica. Questo  compendio ha il pregio della chiarezza assoluta, accoppiata colla più scrupolosa coerenza nella più rapida e concisa brevità. Gli autori di cui  CORRADINI dichiara d'essersi giovato sono: Sanctio, Minerva, Burnouf, Methode pour étudier la langue latine, Prompsault, Gramni, rais. d. la langne latine, Régnier, Le jardin de racines latines, Selvaggi, Grammatica generale filosofica, la  grammatica di Porto Reale, Beauzée, Gramm. gén., gl’articoli relativi dell'enciclopedia galla, cioè Marsais, e i suoi successori. Definisce la teoria della grammatica generale la scienza delle forme integrali d'ogni lingua. Ne definisce il carattere, la possibilità, l'oggetto, il fine, l'utilità. Una delle prove della possibilità la deduce dalle traduzioni, che dimostrano un comune procedimento  del pensiero umano, l'uniformità de'nostri pensieri. Gl’elementi son due: il materiale e il rappresentativo: in  mater,  m  r  l, ma, ter, l'accento sull'a, sono il materiale, la Gentile Padova, coi tipi del Seminario. Non dico che questa è assolutamente l'ultima, né che gl’effetti delle grammatiche generali si spegnessero nell'insegnamento. Grammatiche filosofiche si scrivono anche oggi, e noi  nelle scuole facemmo tutti, chi più chi meno, parecchie indigestioni d’analisi logica e grammaticale! [nozione di madre è il rappresentativo. La grammatica generale filosofica s’appoggia bensì alla logica pura, ma è propriamente una parte della logica applicata. La logica applicata considera il pensiero nelle sue condizioni empiriche: la condizione empirica universale del pensiero è la  cognizione; s’ha cognizione d'un  oggetto quando è determinato. La determinazione si compie nelle quattro supreme classi o categorie: quantità, qualità, relazione, e modalità. Il discorso deve dunque soddisfare anche a queste esigenze del pensiero. Esse costituiscono le varie modificazioni dei termini e delle parti del discorso. Esse pure devon esser oggetto d'una grammatica generale  filosofica. Tien conto anche delle condizioni empiriche dell'uomo parlante: lo stato della società, l'affetto e la passione che lo domina, l'impeto istintivo d’uguagliar col discorso la celerità del pensiero, le credenze religiose ecc. In conclusione, nella parola sono da considerare due elementi: il materiale e il rappresentativo. Il primo elemento s’appoggia alla natura dell'organo vocale, il  secondo alla natura del pensiero. L'elemento materiale comprende i suoni vocali e consonanti, l'aggruppamento de'suoni cioè le sillabe e le parole, e le modificazioni derivate da quest’aggruppamento cioè l'accento e la quantità. L'elemento rappresentativo appoggiato alla natura del pensiero deve somministrare i mezzi tanto per esprimere le tre funzioni concetti, giudizio, raziocinio,  quanto per determinare ciascheduna di queste tre nelle quattro categorie di qualità, quantità, relazione, e modalità. I nomi sostantivi ed aggettivi esprimono i concetti, i verbi, i giudizi, la sintassi, le congiunzioni e la costruzione esprimono il raziocinio in quanto consta di più giudizi legati fra loro. I numeri ne'sostantivi e gl’aggettivi d’estensione determinano la quantità, i generi ne'sostantivi, gl’aggettivi di comprensione e gl’avverbi determinano la qualità, le preposizioni o i casi ed i verbi le relazioni, i modi, le modalità. È insomma la logica distillata pel filtro grammaticale: di lingua effettiva qui non si ha più traccia. S'è sistemato tutto lo schemario delle categorie logico-grammaticali, ma il contenuto è caduto pella strada. Da Marsais a CORRADINI, a  traverso interpretazioni varie più o meno elevate, a rimaneggiamenti e riduzioni elementari, la grammatica generale, oltre a perdere, in Italia, tono e carattere filosofico in una elaborazione quasi sempre meschina e grossolana, viene sempre più separando la lingua effettiva dagli schemi grammaticali che s’erano ottenuti studiandolo sia direttamente, sia dal punto di vista esclusivamente  intellettuale, e a questi assegnando valore di formula e di legge, ma privandola d'un oggetto concreto a cui applicarsi. Un processo di degenerazione. La scienza della lingua progrede, ma seguendo altre correnti e battendo altre vie. La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN ITALIA non puo mancare: ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si finisce, dopo  una colluvie d’aride o elementari produzioni d’epigoni ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano tracce che nell’esercitazioni scolastiche d’analisi logiche e grammaticali ancora in uso nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo qualche compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi è determinata d’un duplice ordine di fatti, tra i  quali T. non sa se veramente corre un'intima relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, T. dice così, della GRAMMATICA RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso un vuoto sostanziale e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto, scientifico e didattico. L’altro che si riferisce allo stato in che venne a trovarsi la lingua d’ITALIA sotto la bufera  dell'enciclopedismo, ed è la naturale quanto però anti-filosofica  reazione al gallicismo, che dove richia[Borsa, nella dissertazione del decadimento della lingua in Italia, Mantova, l'anno in cui è  pubblato il saggio di Cesarotti, già incolpa appunto di quel decadimento il neo-logismo gallico e il FILOSOFISMO enciclopedico.] mare, come facile conseguenza d’una premessa sbagliata,  alla religiosa osservanza, alla maniaca adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio d'Italia. Le vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, d’una parte, in quel ch’accadde  a SANCTIS (si veda) scolaro e co-operatore di Puoti, e ch’egli narra non senza il lume d'una critica sempre nuova ed originale ed acuta, anche se, come in questo caso, non  definitivamente superatrice. Dall'altra, nella critica e nella pratica di Manzoni, che con stringenti argomenti colpi a morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove d’un punto di vista estetico. SANCTIS (si veda), quando accorse alla scuola di Puoti, ha già compiuto gli studi di grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi corrispondono al ginnasio e al liceo, i primi, il ginnasio, sotto suo zio Carlo SANCTIS (vedasi), i secondi, il liceo, sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i gesuiti pella sua impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria è in quella scuola dello zio, dovendo ficcarci in mente i versetti del Porto Reale che s'impara in certi suoi manoscritti, come l’antichità e la cronologia, la grammatica del svizzero Soave, la rettorica di  FALCONIERI (vedasi), le storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, l’ariette di Metastasio. Alla fine del corso scrive la lingua d’ITALIA con uno stile pomposo e rettorico, un italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e di Cesarotti,  che sono i suoi favoriti. La scuola di Fazzini è quello che oggi si dice un liceo. Vi  s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso  si puo fare in due anni. Quell'è l'età dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina comincia la sua carriera aprendo una  scuola. La scuola di Puoti, su cui è stata scritta una degna monografia d’un discepolo di Salvadori, Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti, si svolge in tre periodi, l’ultimo dopo due anni d'interruzione causata dalla pestilenza scoppiata a Napoli. SANCTIS (si veda) Frammento autobiografico pubblicato fo Villari;  Napoli. I seminari sono scuole di LINGUA del LAZIO e di FILOSOFIA, le scuole del governo sono affidate a frati, la forma dell'insegnamento è ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in quella LINGUA DEL LAZIO convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze vi sono trascurate, e anche  LA LINGUA NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur penetrato fra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è maggior progresso negli studi. LA LINGUA DEL LAZIO PASSA DI MODA. Si scrive di cose scolastiche in una lingua italiana  scorretta, ma chiara e facile.  Gl’autori sono quasi tutti abati, come GENOVESI (si veda),  il svizzero SOAVE (si veda),  e TROISE (si veda). Allora è in molta voga  FAZZINI (si veda). Questo prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in abito e cravatta nera, è un  sensista; ma pretende conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Accanto alla scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente la biblioteca. Corsi alla  biblioteca e mi ci seppellii. Passano dinanzi a SANCTIS come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet,  Mettrie. SANCTIS si ricorda ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei sensi acquista tutte le conoscenze. Il professore dice ch’il sensismo è una cosa buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a   Mettrie ed Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS (si veda) coll'amara voluttà della cosa proibita. Compiuti così gli studi filosofici, avvezzo a una vita interiore, ha pochissimo gusto per i fatti  materiali, e bada più alle relazioni tra le cose che alla conoscenza delle cose. La scuola c’ha non piccola parte, perchè è scuola di forme e non di cose, e s’attende più ad imparare le parole e  l’argomentazioni che le cose a cui si riferisceno.  Ma s’avvicina  il [Conosce altri filosofi, naturalmente. Il professore fa una brillante lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo Leibnizio divenne il filosofo di SANCTIS. E  come l'una cosa tira l'altra, Leibnizio l’è occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal, libri divorati tutti e poco digeriti. Questo è il corredo d’erudizione filosofica di SANCITS verso la fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora bisogna cercarvi un maestro di legge. Si batte già alle porte dell'università.] tempo in cui il sensismo, male accordato col movimento religioso, dove cedere il passo ad altra filosofia. S’annunzia al spirito di SANCTIS un altr’orizzonte filosofico; li bolleo in capo altri libri  e altri studi.  S’apparecchiavano i tempi di  Galluppi e Colecchi, de'quali l'uno volgarizza Hume e Smith, e l'altro, ch'è per giunta un matematico, volgarizza Kant. Fazzini è caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste condizioni intellettuali Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passa alla scuola del marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del sensismo di Condillac, che  vedemmo trionfare concentrata in estratti pegli stomachi degl’italiani, si vienne a trovare a fronte di due ben forti e agguerriti avversari, la critica e il purismo. Questo, dalla restaurazione linguistica di CESARI, iniziata colla dissertazione coronata  dall'Accademia di Livorno,  è venuto sempre più guadagnando terreno nelle forme in cui l'ha circoscritto Cesari, nonostante gl’attacchi  della proposta monti-perticariana e dell’anti-purismo tortiano, e nonostante l'esempio pratico del romanzo di MANZONI in cui fin dalla prima sua  edizione s' è voluta incarnare tutt'un'altra dottrina sulla lingua. La reazione al gallicismo è tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembra la  gloria d'Italia nella dilagante corruzione dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne furono rocche meno facilmente espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran voce alcuni giornali, come la Biblioteca di Milano, il Giornale arcadico di Roma e la Rivista enciclopedica di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù di dottrina, sì bene anche pelle qualità della persona e i modi  dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercita una più vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui  T.,  Della  vita e delle opere di Torti.  L'ha dimostrato Morandi ne'suoi noti saggi sull'unità della lingua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di grammatiche e d’arti del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla scuola di Puoti,  dice SANCTIS (si veda),  lascia studi di legge, e letture di commedie, di tragedie e di romanzi e di poesie, e si gitta perdutamente tra gli scrittori del resorgimento. L’è venuta la frenesia degli studi grammaticali quando la lingua d’Italia non ha pure una grammatica. Sanctis ha spesso tra mano Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati, Bartoli, Salvini, Sanzio, e non sa quanti altri dei più  ignorati. S’è gittato anche sul tardo risorgimento, sempre avendo l'occhio alla lingua d’Italia e il suo studio. Si trova in quel tempo a dover sostener sulle proprie spalle il peso della scuola dello zio. La sera anda sempre alla scuola di Puoti. Ma tutta la giornata è spesa a spiegar grammatiche e rettoriche e autori della LINGUA DEL LAZIO, a dettar temi, a correggere errori. Ma quei cari  studi mi riusceno acerbi, non solo pella fatica, ma perche non è più d'accordo colla sua coscienza. Quel svizzero Soave, quel Falconieri li fanno pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po'più. Comincia a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico dell’idee, sull’espressione del sentimento, sull’INTENZIONI alla Grice e sulle malizie dello scrittore. Momenti più  deliziosi passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si distinge specie nelle cose della grammatica, tanto da meritarsi  l'appellativo di grammatico, ed è sollevato all'onore di co-adiuvare il maestro nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera, Puoti, cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS (si veda). Il marchese che lavora a  una grammatica, attende pure alla pubblicazione d’alcuni testi di lingua più a lui cari, come i Fatti d'Enea, i Fioretti di S. Francesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi [Sulla scuola di Sanctis, v. le belle pagine del cenno biografico di Tamburini in  Sanctis, Scritti vari, ed. Croce. Di quella che è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si veda) si sono occupati degnamente Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già divulgati nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di lettura. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo fa intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una visita onde Leopardi onora la scuola di Puoti, che cita spesso con lodi Greco, autore d’una grammatica, il marchese di  Montrone, Gargallo, Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sente dire dal poeta  che ha molta disposizione alla critica. In quell'occasione Leopardi, cui non puo sfuggire la rigidezza di Puoti, dice che nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento, e cita in prova Torto e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che l'onde coli' infinito non gli pare un peccato mortale, a gran maraviglia  o scandalo di tutti. Il marchese è affermativo, imperatorio, non patisce contraddizioni. S’alcuno s’è arrischiato a dir cosa simile, anda in tempesta; ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gl’è anche che ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o almeno ad ammollirsi. Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se n'è venuto  d’Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. È una specie di rettorica immaginata da lui, e che egli battezza arte del dire. C'è una divisione dei generi del dire, accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda),  Quintiliano, Seneca sono la decorazione. O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro, così dice, narrando per quali  vie è giunto alla grande scoperta. A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese, seguendo la moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto e un rigore di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la berlina. Ma lo salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi fondi  [deep berths – Grice] della grammatica prende il volo  filosofico, è SANCTIS (si veda), specie quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella scuola preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di ribellione, che fa naufragare il senno del maestro. Ed è nella scuola preparatoria, che nelle lezioni private o nell'insegnamento del ollegio militare, al quale è assunto pella stima che gode presso Puoti, che n'è ispettore, il maestro intende soprattutto a rinnovare l'insegnamento grammaticale. N’uscirono, colla liquidazione della  GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA FILOSOFICA e storica e un saggio d’una storia dei grammatici. Quelle maledette regole grammaticali SANCTIS  le riduce in poche, moltiplicando l’applicazioni e gl’esempi, e sempre lì sulla lavagna. Si persuade che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi, logicamente. Così nasceno i suoi quadri grammaticali. Si sbriga della  grammatica, e capii che lo studio della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda l’analisi grammaticali e  l'analisi logica, noiosissime,  e fa l'analisi delle cose, a loro gustosissime. Questo al collegio. Nella scuola al vico Bisi, il lunedì e il venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale s’eleva ancora di più. Parecchi anni è a  leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti. Così si mette in corpo i dialoghi della volgar lingua di BEMPO (si veda). S’inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO (si veda) e  i sottili avvertimenti di SALVIATI (si veda)  e la prosa dottorale di CASTELVETRO (si veda) e  BARTOLI (si veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non sa quanti altri, con approvazione di Puoti, il quale li vanta sopra tutti gl’altri Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte  riguardante l’origini della  lingua e delle forme grammaticali,  perchè non ha, fondamento sodo, infastidito di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni, stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna ai suoi studi di FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, la sua delizia un giorno e il suo amore.  Perciò si getta con avidità sopra i retori e i grammatici con un segreto che li cresce l'appetito, vedendosi sempre addosso gl’occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia molto Tracy e Marsais. Il marchese, sapido dei suoi studi li perdona, a patto che non valica i confini della grammatica, e l'indica un tale, che SANCTIS (si veda) non ricorda, come un buon scrittore di grammatica generale. Il buon marchese fa anche di più. Ri-vide le prolusioni del professore mettendoci quello stampo tutto suo di classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della letteratura in Italia, o grammatica. In quei discorsi prende 1’aria d’un novatore, e trova che tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come  li venne in quei giorni sotto la penna. Niuna pratica dell'arte del dire; niuna cognizione de'nobili scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori. Così la grammatica ricca di stranieri trovati splendidi in astratto, ma nella pratica o falsi o di poco profitto, per difetto della parte storica molto è discapitata di  quella perfezione in che è. In malvagio stato trovasi LA SINTASSI: squallida e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal  ferme. Niente di certo. Niente di determinato intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e  l'ignoranza delle cose orientali. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti confini d’una storia dei grammatici da se letti. Parla dei grammatici che TUTTO DERIVANO DALLA LINGUA DEL LAZIO. Poi venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni brani d’essi sono pubblicati ne’saggi critici, col titolo Frammenti  discuoia, dell'edizione di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è sostituito dai  puntini, l'ho tratto d’un brano integro de'saggi  critici.] lingua, copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito. Molto s’intrattenni su Corticelli,  Buonmattei,  Salviati e Bartoli. Censura quel moltiplicare infinito di casi  -- cf. Grice, the search for principle of generality -- e di regole che si riduceno in pochi principii. Quella tanta varietà di forme e di significati, massime in Cinonio, ch’è facile ri-condurre ad unità. Fa ridere, pigliando ad esempio  Va, il  per-, il da, irti di sensi e che pur non hanno che UN SENSO SOLO. La sua attenzione  anda  dalle forme al contenuto, dalle parole all’idee; sicché, sotto a quell’apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie,  vede una logica animata, e tutto mette a posto, in tutto discerne il regolare e IL RAGIONEVOLE – Grice, principle of rational discourse --,  non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, razionalistica, corroborata da  studi, concipisce pel di delle feste il risorgimento, e fa lucere innanzi uno schema di grammatica filosofica e metodica, quale appare ne’galli. Dice che costoro sono eccellenti nell'analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e primitive. Così amo vuol  dire io sono amante. L’ellissi è  posta da loro come base di tutte le forme d’una grammatica generale. Questo non  li contenta che a mezzo. Sostene che quella de-composizione di amo in sono amante l'incadavere la parola, le sottrae tutto quel moto che viene dalla volontà in atto. Si sente quei giudizi acuti con raccoglimento, e si credeva in tutta buona fede quell'uno che dove oscurare i galli e IRRADIARE L’ITALIA di un’altra scienza. E in verità sostene che la grammatica non è solo un'arte, ma  ch'è  principalmente una scienza: è e  dove essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, è per SANCTIS ancora un di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche è una protesta contro la pedanteria, e vuole dire che non basta dare le regole ma che di ciascuna regola bisogna dare i  motivi e le ragioni. Paragona i grammatici  o  accozzatori di regole agl’articolisti che credeno di sapere il codice perchè si ficcano in capo gl’articoli, parola per parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non è ancora la scienza. Così Sanctis, erudito primamente su  Soave in un'atmosfera filosofica, passato poi pel purismo di Puoti, ritornato alla scienza, viene a una generale liquidazione di tutti i grammatici,  cioè della grammatica ragionata in ispecie, e della grammatica precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza. Che nella sua critica negativa supera la grammatica ragionata e crea veramente la scienza non si può dire: interamente non s’appaga dei migliori grammatici filosofici, come Marsais; ma egli, almeno nel periodo del suo insegnamento, secondo quanto narra lui  stesso, rimane sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli arieggia molto davvicino Marsais, superandolo nell’abilità di trasformar la grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della grammatica, o meglio della lingua d’ITALIA, pur avendo egli concepito una grammatica scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a  lode di Sanctis che egli stesso ha coscienza della  manchevolezza del sistema. Racconta infatti: così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica; e finché si tiene nei termini generalissimi d’una grammatica unica, come la concipe Leibnitz, il suo favorito, la sua corsa anda bene. Ma li casca l'asino, quando viene alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto colla  logica, e originate d’una storia naturale o sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in quella storia la scienza, si richiede altra cultura e altra preparazione. Nella sua ricerca dell'assoluto, vuole ridurre tutto a fil di logica, e concordare insieme derivazioni, scrittori e il popolo d’ITALIA;  ma, non potendo sopprimere le differenze e guastare la storia, pone 1'ingegno a dimostrare la conformità del fatto grammaticale colla logica, della storia colla scienza. Quell'avvertita irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e principi fissi dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuisce dov'è la soluzione del problema: e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso titolo d'onore; il dissidio egli lo compone, e in grado eccellente,   insuperato, nella critica, nella quale la parola viva, la grammatica parlata dall'arte, è da lui illustrata in tutta la sua forza espressiva: scientificamente tocca il risolverlo a Humboldt, col quale e col suo seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che la grammatica è esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvene ancora l' identificazione della teoria della lingua  generale coll'estetica, che è stata fatta solo recentemente. Nelle difficoltà in cui si dibate Sanctis di conciliare la grammatica generale colle grammatiche particolari della lingua d’ITALIA, si trovarono impigliati quanti, anche per impulso della Critica della ragione pura di Kant, intendeno alla ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra l’unicità  logica e la molteplicità  delle lingue   (l)j  ricerca che, per altro, non è nuova, ma che già da origine nella Gallia alla grammatica  generale. Il primo tentativo d’applicare le categorie kantiane, dell'intuizione, spazio e tempo, e dell'intelletto alla lingua, riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo della parte storica dell’estetica di  Croce, è compiuto da Roth, mentre sullo stesso argomento speculano  Vater,  Bernhardi, Reinbeck, e Koch: pensiero dominante de'quali è la differenza  tra lingua e lingue, tra la lingua universale, corrispondente alla logica, e le lingue storiche ed effettive, che son turbate dal sentimento, dalla fantasia, o come altro si chiami l'elemento psicologico della differenziazione. Si distingue una teoria generale della lingua d’una teoria comparata, Vater. La lingua, allegoria dell'intelletto, si considera organo della poesia o organo della scienza, Bernhardi; s’ammette una grammatica estetica e una grammatica logica, Reinbeck; si proclama persino che l' indole della lingua si deve desumere dalla PSICOLOGIA RAZIONALE, non dalla logica, Koch. Residui intellettualistici s'avvertono ancora in Humboldt pel quale logica e lingua sembrano identificarsi  sostanzialmente e  diversificare  solo STORICAMENTE – l’arguzie della ragione conversazionale -- , e la lingua stesso Croce,  Estetica. Piazza tenta dimostrare che la teoria di Kant del giudizio è stata già intuita e fissata nella sintassi de’romani; ma è stato confutato da Croce, in La Critica. pare un qualcosa fuori dell'uomo che l'uomo fa rivivere coll'uso. Ma il grande filosofo trova il  vero concetto della lingua. La  lingua, egli  pensa, nella sua realtà è un prodursi e un divenire, non un prodotto; è un'attività, èvegyeia, non un'opera, ègyov. La lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato. Questo soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e  regole è il morto artificio dell'analisi scientifica. La lingua nasce spontaneo d’un bisogno interno. Esiste perciò ed ecco la vera scoperta di Humboldt di fronte ai grammatici logici universali  una forma interna della lingua, innere Sprachform, che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la veduta soggettiva ed INTENZIONALE che l’uomo si fa delle cose. Questa forma interna    è il principio di diversità proprio della lingua, oltre il suono fisico: è l'opera della  fantasia e del sentimento, è l'individualizzazione del concetto. Congiunger la forma interna del linguaggio col suono fisico è l'opera d’una sintesi interna: e qui, più che in altro, la lingua ricorda, nelle più profonde ed inesplicabili parti del suo procedere, l'arte. Anche lo scultore e il pittore sposano l'idea  alla materia, e anche la loro opera si giudica secondo che quest'unione, quest'intima compenetrazione sia opera del genio vero, o che l'idea separata sia stata penosamente e stentamente trascritta nella materia collo scalpello e col pennello. Ma lingua ed arte in Humboldt non s'identificano: e questo è il difetto della sua dottrina, che tira seco non tenui contraddizioni, come quella circa il  carattere differenziale della poesia e della prosa. Humboldt non vide esattamente che la lingua è sempre poesia e che la prosa, o scienza, non è distinzione di forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due concetti, compresi in senso filosofico, manifesta profonde vedute. La teoria della lingua d’Humboldt è integrata dal suo maggior seguace, Steinthal il quale, nella  polemica sostenuta  (M  Ueb.  d. Verschiendenheit d. menschl.  Sprachbaucs), opera, 2M  ed. a cura di Pott,  Berlino, in  Croce. Croce. Croce. coll'hegeliano Becker,  autore  degl’ORGANISMI della lingua, uno degl’ultimi logici della grammatica, dimostra, pur tr’affermazioni talvolta eccessive, che concetto e parola, giudizio logico e proposizione sono incomparabili. La proposizione  non è il giudizio, ma è la rappresentazione, Darstellung, d’un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano giudizi logici. Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica. Le divisioni logiche dei giudizi, i rapporti dai concetti 1 non  hanno  orrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. Parlar d’una forma logica della proposizione è una contraddizione  non minore che se si parlasse àttW angolo d’un cerchio o della periferìa d’un  tria?igolo. Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua! Senza entrar ora nel merito degl’altri problemi trattati da Steinthal, come quello circa l'identità dell’origine e della natura della lingua che esattamente risolve, e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e teoria della lingua, cioè tra lingua e  arte ch’interessa propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia insoluto, perchè non arriva mai ad affermare che PARLARE è PARLARE BENE – sententia come concetto orientato al valore -- e bellamente, o non è punto parlare, a noi basta l'osservar, qui, conchiudendo, il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal, in quanto l'uno integra l'altro e lo rende coerente nella  parte linguistica, s’ha un notevole superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata  dalla  mancata  identificazione d’arte e lingua: la liberazione della lingua dalla logica, la riconosciuta completa autonomia della lingua da categorie di qualsiasi altra specie che non siano la sua forma interna essenziale, rappresentano una vittoria della critica negativa della  grammatica. La dissoluzione della quale viene così a coincidere perfettamente coll'avvento della scienza. La ribellione  e la reazione alla GRAMMATICA RAGIONATA quale s’è venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel grado e quel tono che hanno in SANCTIS (si veda), seguirono, [Croce] però, su per giù, il medesimo sviluppo e i medesimi motivi: d’una parte  riusce difficile specie a letterati di più largo ingegno, come vedremo accadere, p. es.,  a Giordani  (Puoti stesso concede a Sanctis uno studio discreto di quella  gram matica), il chiuder gl’occhi a quell’ELEVATE E SCINTILLANTI (alla Grice) INVESTIGAZIONI logiche che sulle lingue avevan condotto i galli, incomparabilmente più geniali e profondi dei loro epigoni italiani. L’aria è impregnata di logicismo, tutto suona FILOSOFIA, il secolo è chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza delle cose e del tempo? dall'altra, la vacuità di quel formalismo pel fine pedagogico che ora s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO FILOSOFICO per essere avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello studio della lingua. Si puo credere, ancora, nella grammatica generale, raccomandarne l'utilità, e come si puo fare anco per ispirito d' imitazione e per servilismo verso la moda corrente, non occorre dire; ma, già, anche a tacer d'altro, con la grammatica generale eravamo già fuori del campo de’bisogni pratici. La grammatica generale è come un'estetica logica della lingua, quindi FILOSOFIA, e noi sappiamo che la scienza non è espediente didattico, mentre il motivo principale dell'interesse linguistico è ora in Italia più pratico che teorico. L'assoluta inefficacia inoltre della GRAMMATICA logica a dirigere l'apprendimento della lingua e l'esercizio dello scrivere dove essere tanto più fortemente sentita, quanto più dilaga il gallicismo nella lingua e nello stile: il ritorno alla vecchia pratica grammaticale e all' osservazione dei lodati scrittori, dove apparire come una urgente necessità; e vi si ritorna infatti con fede rinnovellata e sotto la bandiera del più rigoroso purismo inalberata dal Bembo dell'Ottocento, Cesari, coronato alfiere dall'Accademia livornese, qual s'è mostrato degno d'essere con la nota Dissertazione sopra lo stato della lingua}; e, in ogni modo, con o contro Cesari per gli scrittori o pel popolo, la pratica dove prevalere sulla teoria astratta; perfin nella grammatica em- [In Opuscoli linguistici e letterari di Cesari, raccolti, ordinati e illustra/i ora la prima rolla da Guidetti, Reggio d'Emilia, Collezione storico-letteraria presso il compilatore.] pirica, normativa, tradizionale, presso non gli scapigliati ma i pedanti, la vecchia fede se non scossa, certo fu illanguidita. La tradizione puristica, peraltro, non era stata interrotta nella seconda metà del Settecento, neppur quando più imperversò la bufera del filosofismo francese. Già prima che il rappresentante più autorevole di esso in Italia, il Cesarotti, fosse stato, appunto in nome della vecchia grammatica, contraddetto ricordammo già, tra gli altri, Velo con uno stile forbito e piccante, come dicono i suoi editori, si sforza Rosasco di rivendicare ai Fiorentini il tanto contrastato primato intorno all'origine ed al governo della favella , introducendo nei suoi Dialoghi sette della Lingua toscana a pontificare il Corticelli su lesecolari questioni, sull'autorità dei grammatici, sulla necessità imprescindibile dello studio della grammatica, di contrastare al nuovo sistema de' letterati propugnanti l'uso d'un'altra lingua diversa dalla fiorentina, con tutto il bagaglio de' vecchi argomenti grammaticali e rettorici in favore della purità, della armonia e dolcezza della pronunzia fiorentina, dell'elegante stile, e con le vecchissime distinzioni di discorso impensato e di discorso pensato. Eh via, la legge che ne obbliga a studiare la grammatica, è giustissima, e chiunque brama riportar gloria dal materiale della scrittura, dovrà o bere o affogare, siesi chi egli si vuole . E cita in sostegno il Salviati, Quintiliano e altri . Va notato peraltro che il Rosasco non solo propugna la necessità di uniformarsi anche all'uso moderno, ma giudica ancora, sebbene coi soliti argomenti estrinseci, che non dobbiamo per conto alcuno desiderare la perfezione delle grammatiche, si perchè non si può questo desiderio avere, senza desiderare insieme la estinzione della lingua; sì perchè quando siamo obbligati a scriver solo secondo le regole e' precetti dell'arte prescritti, non è mai possibile rendere le nostre scritture eccellenti : residui, come ognun vede, delle dottrine estetiche prevalenti nel senso che volevano conciliare il rigore grammaticale col criterio della libertà individuale: temperato purismo, che, mentre per un lato moveva dall'antica traEd. della Bibl. scelta, Milano, Silvestri] dizione grammaticale del classicismo, per l'altro era reso possibile dal non essersi ancora la lingua italiana inoltrata pel declivio della cosiddetta corruzione francesistica. Quando questa si accentuò maggiormente, era naturale che l'iniziativa del riparo partisse dalla Crusca custode gelosa del patrimonio linguistico: e già il ricordato Borsa protesta contro il decadimento della lingua, e da Losanna un suo Accademico, Haupt, scrive la Lettera dun tedesco stili' infranciosamento dello stile, com'è naturale che la rifioritura linguistica fosse più di vocabolario che di grammatica ; lo stesso lavorìo grammaticale, il più notevole dei primordi del secolo XIX, s'aggirò, come vedemmo, intorno a quella parte della grammatica che è più intimamente connessa col vocabolario, i verbi, di cui sorsero parecchi prospetti e teoriche. E a studi di lingua, ossia di vocabolario, si era volto nel 1806 l'Istituto lombardo, fondato dal Bonaparte nel 1797 e convocato a Bologna nel 1803, di cui era segretario quel Luigi Muzzi che già incontrammo quale autore del curioso libro sulle Permutazioni dell' italiana orazione, e che, dopo essersi divertito e gingillato intorno a problemi filosofici secondo la moda d'allora pe' quali non era affatto portato, si immerse talmente negli studi grammaticali e lessicali e con si vero spirito di devozione alla Crusca, che il Monti doveva titolarlo più tardi il più fatuo pedantuzzo che mai facesse imbratti d'inchiostro. Partecipò nel 1809 al concorso dell'Accademia livornese con un lavoro Dello siato e del bisogno di nostra lingua, ma il manoscritto, per ragioni regolamentari, non fu accettato. Come sappiamo, di quel concorso il trionfatore fu Antonio Cesari, odiatore quanto Giordani, delle dottrine di Cesarotti, che, se avevano ancora seguaci dal Romani al Nardo, andavano però perdendo terreno sempre più: quegli stessi che le propugnavano si avverta inoltre erano assai più temperati del maestro e si guardarono meglio di lui dall'esser accusati di gallofilia : verso l' italianità era un desiderio e un moto generale, cui favoriva la ridesta coscienza nazionale: cesariani e perticariani o mondani, neopuristi della prima maniera (cioè anteriore) e della seconda, tutti concordavano non solamente nel In Mazzoni, L'Otl.] l'avversare i criteri troppo licenziosi de' cesarottiani, ma ne! volere auspice la Crusca per la quinta volta rimessosi nel 1813 alla ricompilazione del Vocabolario che alle sottili fantasticherie sulle ragioni delle lingue si sostituisse il lavoro concreto e modesto del raccogliere e del vagliare voci e locuzioni del buon uso e a riprendere l'osservazione grammaticale secondo le migliori tradizioni del Cinquecento. Balbo scrive al Vidua una lettera sulla lingua italiana per muover lamenti intorno le tante esagerazioni e confusioni pratiche e teoriche del filosofismo che non giovavano punto alla causa della lingua: e il Vidua raccomandava a un compatriotta che, andando a Firenze come avevan fatto già l'Alfieri e il Goldoni, e avrebbe fatto il Manzoni e avrebbero consigliato al Cavour, non trascurasse di recarsi la mattina in Mercato Vecchio ad ascoltar il pizzicagnolo e le contadine. E alla Crusca stendeva la mano l'Istituto lombardo per proseguire concordi all'opera d'ampliamento del Vocabolario: né le ripulse dell'Accademia orgogliosa e gelosa delle sue secolari tradizioni né i risentimenti e le irritazioni, causa di tante guerre anche personali, che esse provocarono nel Monti, poterono mai dividere gli animi concordi nella comune avversione al logicismo, alle metafisicherie di provenienza franco-cesarottiana, nonostante che, per quanto riguarda i criteri particolari dell'uso linguistico italiano (pratica, dunque, non scienza), facilmente potessero incontrarsi col Cesarotti in un vivo desiderio di libertà, e spesso inconsciamente (come sarà avvenuto al Leopardi), non soltanto gli antipuristi come il cesarottiano Torti di Bevagna, ma letterati meno bollenti nella secolare battaglia. N'è prova l'atteggiamento assunto dal capo riconosciuto de' classicisti, il Giordani, nelle contese tra il Cesari, Monti e Perticari: richiesto del vero valore di alcune voci tolte dal greco, rispose [al Monti] e colse quell'occasione per lodare l'opera e il suocero e il genero, ma anche per addimostrare alcune sviste di essi due correttori degli altri, e per augurare che gli avversari si riconoscessero invece compagni, come quelli che insomma avevan un fine medesimo e uno stesso desiderio. Cfr. F. Colagrosso, La teoria leopardiana della lingua, Napoli, 1905 (Estr. d. Rend. Accad. Arch. Lett. e B. A. in Napoli, XIX) Mazzoni. Pure, il Giordani è appunto uno di quei puristi che raccomandavano ai giovanetti il Du Marsais e il Beauzée. I volumi della Enciclopedia Metodica ne' quali è trattata la grammatica e l' eloquenza ti possono essere utili. Gli articoli rettorici di Marmontel non mi paiono più che mediocri; quelli di Jancourt assai meno che mediocri. Ma bellissimi i grammatici di Du Marsais, e di La-Beauzée. E il conoscere e adoperare filosoficamente la lingua è gran virtù di eccellente scrittore. E prontamente si applica alla nostra quel che è notato della francese (1). Ma che cosa significa adoperare filosoficamente mia lingua ? specie quando la si consideri, come fa il Giordani, cosa diversa dallo stile? Interrompi, consiglia, con la lettura di quegli articoli, lo studio che devi far della lingua, e preparati a quello che poi farai dello stile. Perchè io giudico che quello della lingua debba precedere. Non si dee prima sapere qual sia la materia de' colori; poi imparare ad impastarli e mescolarli; poi esercitarsi a collocarli, e accordarli ? (io). Tutto lo scrivere sta nella lingua e nello stile; due cose diversissime egualmente necessarie.... I vocaboli e le frasi sono i colori di questa pittura; lo stile è il colorito. Ora persuaditi, caro Eugenio, che l'acquisto de' colori sia fatica della memoria: l'uso del colorito sia esercizio d'ingegno, disciplina di buoni esempi, di pochi precetti, di moltissima osservazione, di molta pratica. Ho letto molti antichi e moderni che vollero esser maestri: ho perduto tempo e acquistato noia, senza profitto. Veri maestri ho trovato gli esempi de' grandi scrittori. Tra i moderni consiglia, tuttavia il breve trattato del Condillac, Art d'écrire. Di tutto quel libro abbastanza buono, m' è rimasto in mente questo solo principio, molto raccomandato da lui = de la plus grande liaison des idées Vero è che quel legame delle idee non deve esser sempre logico; ma secondo la materia che si tratta, dev'esser pittorico o affettuoso; di che i moderni intendon pochissimo: gli antichi vi furono meravigliosi. In questo guazzabuglio di vedute, d'idee e di principi, c'è tutto, meno lo spirito filosofico: dal che si vede quanto A un italiano Istruzione per l'arte di scrivere, in Scritti di Giordani, ed. Chiarini, in Firenze.] poco fosse compresa e con quanto poca convinzione raccomandata la grammatica generale del Du Marsais e del Beauzée. Il nume che agitava interiormente il Giordani e i degni suoi compagni d'arme non era la filosofia, ma lo spirito italiano che si rinnovava, rinnovamento che alla coscienza di molti si presentava come un problema di lingua: donde il calore con cui si davano a questi studi. Il Giordani, mosso dall'invito dell' Accademia italiana, non per rispondere ad essa, per ciò che questa materia non sia d'ozio letterario .... ma importi non poco all'onore d'Italia , si dà ad abbozzare una Storia dello spirito pubblico d' Italia per 600 considerato nelle vicende della lingua e alcuni anni più tardi, discorrendo in una lunga lettera al Capponi di una raccolta in trenta volumi che intendeva fare delle migliori e men note prose della nostra letteratura, allargando e colorendo le linee di quel primitivo abbozzo, esprimeva l'opinione che l'ordine escogitato lo menerebbe quasi per una storia della nazione e della lingua ("), e che dalla somma dei particolari discorsi introduttivi ne sarebbe derivato quasi un ritratto filosofico delle menti italiane per quattro secoli . Perciocché io considerando la lingua come uno specchio, nel quale cadano tutti i concetti da tutti i pensanti della nazione, e dal quale nella mente di ciascuno si riflettano i pensieri di tutti; volli con diligenza di storico e sagacità di filosofo esaminare il vario corso del pensare italiano per le vestigia che di mano in mano lasciò impresse nel variare delle lingua; della quale i vocaboli e le frasi, o nuovamente introdotte, o dall'antico mutate, fanno certissimo testimonio (a chi '1 sa interrogare) d'ogni mutamento nella vita intellettiva del popolo. Così il Giordani si riallaccia al Napione. Tra il Napione e il Giordani spicca anche per questo riguardo il Foscolo, che nella celebre orazione, recitata a Pavia Opere: Scritti editi e postumi pubbl. da Antonio Gussalli , Milano. f;) Scritti, ed. Chiarini. Per l'eccellente posizione che occupa il Foscolo nella storia della critica, oltre che le note pagine del De Sanctis, vedi Croce, Per la storia della critica ecc., già cit., p. 9 e 27, Trabalza, Studi sul Boccaccio, e Borgese, Storia della critica romantica, libro è superfluo avvertirlo pell'inaugurazione degli studi, Dell' origine e dell'ufficio della letteratura e nelle Lezioni di eloquenza che le tennero dietro, e particolarmente in quella su la Lingua italiana considerata storicamente e letterariamente, (l) e ne' sei Discorsi sulla lingua italiana parlava della nostra lingua coi medesimi spiriti e intendimenti d'italianità, in modo veramente vivace. Nella sua Prolusione , ripeteremo col De Sanctis, tenta una storia della parola sulle orme del Vico, censurata da parecchi in questo o quel particolare, ma da' più ammirata, come nuova e profonda speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel suo spirito, perchè non è infine che una calda requisitoria contro quella letteratura arcadica e accademica, combattuta da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa vuota e parolaia, e contro quella poesia che suona e che non crea. Nessuno ha considerato, scriveva il Foscolo, filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa [lingua italiana], affine di conoscere per via d'analogia i principi, i progressi oscurissimi delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue. La storia d'una lingua, ecco il suo preciso punto di vista non può tracciarsi se non nella storia letteraria della nazione; né la storia può somministrare fatti certi e fondamentali a trovare in materie intricatissime il vero, se non per mezzo di epoche distinte, in guisa che le cause non diventino effetti, e gli effetti non sieno pigliati per cause . che dev'esser tenuto sempre presente per tutto questo periodo, perchè, se le idee sulla lingua de' vari critici che vi sono criticati poca luce diffondono sulle loro teorie poetiche, utilissimo è invece conoscere la portata critica di esse per chi fa la storia della lingua. In Opere edite e postume di Foscolo, Firenze, Le Monnier. In T.. È evidente l'affinità tra il metodo del Foscolo e quello del Napione; ma com'è più profonda la visione del Foscolo, così essa in certo senso precorre ancor meglio il principio moderno onde si vorrebbe indagata la storia della cultura nella lingua, specialmente in quanto si serve del metodo monografico per periodi di affinità spirituali. Notevolissima sotto questo rispetto è una pagina della Lez. II di Eoa. (è la 82 del voi. II) dove illustra il principio: La letteratura è annessa alla lingua. Capitolo quindicesimo 485 Nel fatto, il Foscolo intravvede così in confuso l'identità di lingua e pensiero, e nell'evoluzione linguistica uno svolgimento spirituale, mostra cioè una vaga coscienza del problema linguistico, e il suo sforzo di risolverlo, anche se non felice, è già un progresso. Particolarmente notevoli, anche per la ragione pedagogica, in cui però, come sappiamo, ben si riflette la scienza teorica, son le pagine che scrive sulla dottrina dantesca del Volgare illustre. Ne riferiamo volentieri un brano che ci tocca davvicino. Su ciò che Dante previde con occhio sicuro egli fondava pochi principi generali intorno alla legislazione grammaticale. Erano inerenti alla condizione e alla natura della lingua, onde operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori, e quando vennero trascurati da altri, o negati ostinatamente da molti; ed operarono fin anche negli scritti di chi li negava ed oggimai l'esperienza ha convinto la più gran parte degl'Italiani, che la loro lingua letteraria non può prosperare senza l'applicazione dei principj di Dante: principi metafisici, dice Foscolo, annunziati in tempi ne' quali la filosofia, l'arte dialettica, e la teologia erano tutt' uno, e tali da intricarsi a vicenda, e perciò un po' oscuri forse allo stesso ALIGHIERI (si veda). Al qual punto il pensiero di Foscolo corre a Locke che facilita lo studio delle analisi delle idee, e quindi della natura delle lingue – Grice: way of things, way of ideas, way of words -- e a Condillac che illustrò questa difficilissima parte della metafisica. Ma il fine supremo di tali studi è per tutti questi filosofi italiani raggiungere le nazioni che appresso a noi surte ci sorpassarono, e poiché il mezzo non sembra potesse esser la [Giordani, Scritti. cit., ed. Chiarini. Si richiamino a tal proposito e si tengano presenti in questo capitolo anche peraltro le relazioni d'amicizia personale che corsero tra maggiori e minori rappresentanti di questo movimento d'ITALIANITÀ che s'agita nelle questioni linguistiche. V. specialmente Guidetti, La questione linguistica e l'amicizia di Cesari con Monti, Villardi e Manzoni narrata con l'aiuto di documenti inediti, Reggio d'Emilia; dello stesso, Cesari giudicato e onorato dagl'italiani e sue relazioni coi contemporanei con documenti inediti, Reggio d'Emilia; e Bertoldi, Giordani e altri personaggi del tempo in Prose critiche di storia e d'arte, Firenze] FILOSOFIA, lo studio cioè dei problemi della natura del linguaggio, ma lo studio pratico della lingua che non si dove lasciare adulterare, da più parti, non i soli fiorentini, ma tutti gl'italiani si danno e intesero con viva fede e non tenue sentimento d'ITALIANITÀ all'opera di restaurazione, che un diffuso lavorìo, specie nell'Italia centrale e particolarmente nell'Emilia, nella Romaga, nella Marca, nell'Umbria, a Roma, di traduzioni dai classici latini, condotto con superficiale ma sincero sentimento e gusto di bellezza formale, favorisce grandemente. Il mondano, e avversario della Crusca, Lamberti pubblica con aggiunte e correzioni Le Osservazioni del Cinonio. Ri-usce alla luce la vecchia raccolta di Pistoiesi, Prospetto dei verbi toscani tanto regolari che irregolari e Casarotti, torna a discorrere Sopra la natura e l'uso dei dittonghi italiani trattato. MASTROFINI (si veda) pubblica Teoria e prospetto ossia Dizionario critico de verbi italiani coniugati specialmente degl’anomali e mal noti nelle cadenze. E un compilatore in Milano ri-assume tutto questo lavorìo intorno ai verbi: Teorica dei verbi compilata sulle opere di Cinonio, di Pistoiesi, di Mastrofini e di altri, e una compilazione ancor più ricca attende Roster. Questo gruppo di saggi, com'è facile avvertire, si rannoda a quella tradizione grammaticale che appunto con Cinonio inizia la trattazione di categorie particolari della grammatica giunta allora al suo completo sviluppo nel suo schema generale per opera di Buonmattei; ma non è certamente estraneo a quell'esigenze d’osservazione diretta sul materiale della lingua a cui si sforza di soddisfare il purismo che appunto in quegli anni si afferma solennemente con la vittoria di Cesari. Il punto di vista è infatti ancora il retorico, come precettivo è l'intendimento, anche se uno di quei quattro autori, Casarotti, si abbella nella sua esposizione del culto professato alla dottrina di VICO (si veda) che cita in più luoghi: mentre, [Pisa, Capurro, nuova ed. riv. e corr. La prima ed. aveva visto la luce a Roma. Padova, nel Seminario. Roma, De Romanis. Anche Greco, il grammatico consigliere di Puoti, ha d'altra parte, non è identificabile con quello delle GRAMMATICHE RAGIONATE, anche se un altro, Mastrofini, segue l'autorità di Varano, Ossian, e Cesarotti. I tempi non potevano non esercitar la loro influenza. VICO (si veda) ormai comincia a non esser più una sfinge, e ciascuno degli altri scrittori gode il favor popolare. Vedasi come Casarotti, che indubbiamente non va confuso coi grammatici di bassa lega, citi VICO (si veda). Egli, mosso alla sua trattazione dalla necessità di sistemare una notevole serie di fatti, che inosservati danno luogo a molti inconvenienti, constata che i dittonghi mobili non sono il centesimo permalosi dei fermi, e senza sdegno stanno in bando da parecchie voci, alle quali avrebbero diritto di entrare. Priemo, truovo, pruova, ed altre già l'hanno quasi dimenticato. In questa parte verificasi la sentenza del profondissimo e oscurissimo VICO (si veda) (Pr. di Se. N. Della Sapienza Poetica, Corollarj d'intorno alle origini della locuzione ecc.), che i dittonghi ne’principj delle lingue sono in assai più numero, e che a poco a poco si scemano. E su VICO (si veda) stesso si appoggia per mostrare l'obbligo degl’italiani a non bandirli nella lingua che riceve d’essi pienezza e varietà di suono, due qualità carissime all'armonia, ed al canto. Di fatti i dittongi, se hanno valore i pensamenti del citato filosofo napoletano, del primo canto de popoli faìino gran pruova: e specialmente non dovrebbero bandirli i poeti, poiché l'espressione poetica è tanto vaga d'indipendenza da ogni fastidiosaggine grammaticale, che talvolta per lo disprezzo di certe rigide leggi acquista forza e bellezza. E la poesia, come colui dice della pittura, divien grande coli 'industrioso maneggio delle cose minime. Una consonante, una vocale, un dittongo, un ACCENTO, letto, se non compreso, Vico. Caraffa fa derivare Greco da Vico e lascia credere ch’un'infusione del spirito di VICO Greco comunica a Puoti stesso. [,dove anche osserva. Tanto è rispetto a noi della lingua del Lazio, che abbondantissima nella scrittura di sillabe bifocali, come Terenziano Mauro chiama i dittongi, rarissimi ne conserva nella pronunzia. E tanto è della lingua gallica, che compendia in una sola vocale molti dittongi, de’quali sul labbro degl’antichi galli s’è probabilmente lasciato sentire il duplice suono. Sul labbro italiano poi questo duplice suono si fa sentir sempre: e in ciò siamo più ragionevoli de’galli, in quanto l’italiana scrittura, si ritengano o si sbandiscano i dittongi, rimane sempre d'accordo colla pronunzia.] tutto essa fa servire a’suoi sublimi disegni. Così la filologia filosofica di VICO divienne in Casarotti rettorica grammaticale, ma assai migliore di quell'altra della tradizione. Nella parte storica e empirica il saggio di Casarotti non manca d’utilità. Passa in rassegna l’esposizioni di MAZZONI che NEGA ALLA LINGUA ITALIANA IL VERO E PROPRIO DITTONGO, di Salviati che n;ammise, di Buonmattei che ne giustifica tanti quanti sono i gruppi di due vocali. Si ride di Gigli che rimanda a Mazzoni chi vuol aver cognizione piena dei nostri dittonghi, avendo Mazzoni non scritto un trattato, ma un semplice discorso, e non sui soli dittonghi italiani, ma sui dittonghi in genere: rettifica non del tutto giusta, come s'è visto. Vero trattatista è certo egli Casarotti, che dà del dittongo questa definizione: la comprensione di due vocali diverse in una sillaba sola e indissolubile, di suono misto, come sono “aura”, “euro”, “piovere”, “ciel”. Critica gli strafalcioni dei rimari, Folchi, Fioretti, Ruscelli, Baruffaldi, non escluso quello di Rosasco, e, naturalmente, discorre a lungo di metrica, con molte esemplificazioni, essendo compilato il suo trattato principalmente in servizio della poesia. Riassume la storia di tutti i capricci ortografici, dichiarandosi contro l’uso della dieresi, co-operazione. Pistoiesi crede colmare una lacuna dei grammatici che danno sui verbi ammaestramenti e prospetti troppo scarsi ai bisogni. E ora se ne ristampa l'opera per il bisogno che se ne sente. Delle voci verbali vi si fanno quattro classi classificazione che è un'altra prova del carattere empirico e retorico del trattato: buone e corrette, regolari; antiche; poetiche; IDIOTISMI – Grice, IDIO-LECT – IDIO-SYNCRATIC -- ed errori. Si rimprovera Buonmattei di non aver avvertito che di contro al leggemmo si scrive l'errato lessamo. Si registra per es. il “savamo” (= “eravamo”) che incontrammo nella grammatica vaticana ricordata, ma, a sua volta, dimentica il “tro” e il “tretti” da “trarre,” che quella grammatica diligentemente raccoglie. Per questa parte storica specialmente il saggio di Pistoiesi conserva qualche interesse. Lo stesso [Ricorda qui le 12 definizioni dei dittonghi date da Riccioli in De recia diphthongorum promintiationc. Dice che nel Giornale di Padova si afferma che Evangeli scrive un trattato sui dittonghi italiani, ma egli dubita dell'asserzione. Non deriva dal latino questa definizione del dittongo.] dicasi di quello di Mastrolilli, che, peraltro, adopera un metodo assai diverso di trattazione sia nella parte introduttiva, dove porge, come meglio puo, delle nozioni archeologiche sulle trasformazioni latine, sia nella sistematica, dove registra di ogni singolo verbo tutte le voci, confinando nelle note gl’usi antichi e dialettali, costruendo così una gran mole in due grossi volumi di quattrocento pagine l'uno. Un'altra miniera di tutte le forme storiche del nome e del verbo sono le Osservazioni grammaticali di Roster. Il quale, più che a trattar sistematicamente la grammatica, intende soprattutto a radunare intorno a ogni persona, come a ogni nome, tutte le varianti che gli scrittori adoperarono, dando così un utile vocabolario metodico delle declinazioni e delle coniugazioni nel loro uso storico. Qualche decennio più tardi, su questo argomento avemmo un lavoro assai migliore e di una maggior portata, che è quasi anello di congiunzione tra i precedenti prospetti più o meno empirici e i più recenti trattati di analisi rigorosamente filologica: la Analisi critica dei verbi italiani investigati nella loro primitiva orìgine da NANNUCCI (si veda), a cui seguì il Saggiò del prospetto generale di tutti i verbi anomali e diffettivi, sì semplici che composti, e di tutte le varie configurazioni, dall'origine della li?igua in poi. Derivata da' medesimi principi e condotta con l' istesso metodo è la Teoria de' nomi della lingua italiana, che, come X Analisi, si raccomanda sia adoperata con cautela. Al Nannucci dobbiamo an Osservazioni grammaticali intorno alla lingua italiana compilate da Giacomo Roster professore delle lingue italiana, tedesca ed mg le se ecc. in Firenze, mediante le quali si procura di fissar le regole sinora incerte e vacillanti, fondate sull'uso generale de' classici antichi e moderni, e col parer de' primi letterati d'Italia: opera necessaria per intendere gli scrittori antichi e moderni, e per parlare e scrivere correttametite. Dedicata alla eulta nazione italiana. Firenze, nella stamperia Ronchi. Dopo un Ristretto di termini grammaticali e un Ristretto delle declinazioni tratta a lungo; della Dee lina zio?ie, ossia delle varie terminazioni di nomi sost. e agg. Nella dà le Regole per le formazioni di modi, tempi e persone delle tre coniug. de' verbi reg. e irr. Seguono alcune pagine di note. (Il raro libro mi fu fatto conoscere dal prof. Teza, che ne possiede un esemplare). Storia della Grammatica cora Voci e locuzioni italiane derivate dalla lingua provenzale. Son tutte parti codeste et uri opera vasta alla quale s'era dato l'esimio filologo e in cui si proponeva di ricercare minutamente la natura, l'indole e la storia della nostra lingua, seguitandola secolo per secolo ne' suoi movimenti e nelle sue trasformazioni, ed investigando la ragione de' costrutti e delle forme grammaticali (Ai lettori): un miscuglio, come ben s'intende, d'empirismo, di storia e di filosofia del linguaggio in cui sarebbero state riassunte e conciliate le tre tendenze degli studi linguistici prevalenti al suo tempo. Fu bene che il Nannucci si limitasse alla parte storica usando, come le forze gli permettevano, discretamente, del metodo comparativo ignoto ai suoi predecessori specialisti: ne uscirono giustificate nella loro origine e nella loro analogia con le neolatine, voci e frasi ritenute errori e idiotismi dagli altri; altre furono ridotte alla loro vera lezione. Quelle che per altri erano minutezze, cioè tutte le uscite varie di una stessa voce, egli raccolse e sistemò, svolgendo la sua trattazione, se non con metodo, con ordine, chiarezza, cioè tempo per tempo, persona per persona. Faccio la riserva sul metodo, appunto perchè qui è il lato debole, filologicamente parlando, dell'opera del Nannucci: la sua è una classificazione empirica, storica nel senso che parte dalle forme più antiche per giungere alle moderne: non è, e non poteva ancora essere a base fonetica, come oggi si esigerebbe. Se non che anche in questo rispetto supera i precedenti trattatisti, de' quali egli stesso vorrebbe eccettuato il Mastrofini, se oltre all'aver egli lasciato addietro tutte le anomalie più riposte, che sono sparse per entro agli scritti de' nostri vecchi, anche nelle più ovvie da lui riprodotte , non avesse per lo più errata la vera origine. L'opera di NANNUCCI (si veda), come anche risulta d’un utilissimo indice, è ricca di osservazioni grammaticali spicciole che servono a lumeggiare la posizione sua di grammatico diligente e osservatore, raccoglitore di prima mano de’fatti grammaticali, che sa ordinare nella loro serie storica, non nella loro genesi ed evoluzione interiore, intese, è superfluo dirlo, nel loro significato fittizio. È insomma, per l'Italia, a prescindere dai nostri filologi migliori, l'anello di congiunzione tra la pura precettistica e l’indagine storica. Un contenuto grammaticale hanno egualmente, chi più chi meno, tutti i nostri retori ed eruditi e lessicografi filologi nel senso ristretto che a questa parola da Diez in poi viene annesso, non li potremo chiamare dell'indirizzo puristico-classico da CESARI (si veda) a FORNACIARI. D’essi, quando non sono anche produttori di grammatiche vere e proprie, onde particolarmente vogliamo desumere i caratteri della grammatica di questo periodo, basta che noi ricordiamo poco più che i nomi per complemento di disegno, rientrando essi in quanto tali alcuni sono grandissimi filosofi come Foscolo, Monti, Leopardi più direttamente nella storia dell'erudizione linguistica o della rettorica o della coltura o della critica letteraria o della cosiddetta questione della lingua, secondo i singoli casi. Nel loro complesso, per quanto ha rapporto diretto con la grammatica, essi seguono e costituiscono il medesimo moto onde derivarono le varie grammatiche che esamineremo con quella brevità che l'interesse ormai scarso della materia e la qualità possono consentire in una storia come la presente. Di quei tre grandissimi, benché non siano stati, strettatamente parlando, né grammatici né critici del concetto di grammatica e neppure rinnovatori, saremmo tentati a far qui un meno breve cenno di quel che s'è fatto, avendo essi dato allo studio della lingua una parte non piccola della loro attività, se, considerando, a tacer d'altro, che le loro particolari vedute non sono in sostanza se non antecedenti della dottrina di MANZONI (si veda) sulla lingua, che è poi la dottrina linguistica del romanticismo, di questa non dovessimo trattenerci più lungamente e per il nuovo indirizzo grammaticale che ne deriva e per la connessione che ha particolarmente colla critica della grammatica generale, che a noi sopratutto interessa. Ma di Leopardi mi giova mettere in rilievo un curioso pensiero circa i rapporti tra grammatica e lingua, che si può riassumere così. La varietà, ricchezza, onnipotenza d'una lingua sono in ragione inversa del dominio regolatore della grammatica, e che egli illustra con gl’esempi della lingua greca che ha inesauribile ricchezza e assoluta potenza avanti il sorgere della sua grammatica, della LATINA che, per antica, avendo avuto avanti la grammatica greca, studiata per principi e nelle scuole, riuscì meno libera e meno varia d'ogni altra , dell'italiana che, scritta primieramente da tanti che nulla sapevano dell'analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua e grammatica, come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna, similissima di ricchezza e d’onnipotenza alla greca, della tedesca, che, avendo grammatica e non forse rispettandola e non avendo vocabolario riconosciuto per autorevole, è nelle migliori condizione per pervenire alla ricchezza, potenza, libertà. Giudizio quant'altro mai ostile alla grammatica, ma il più servile verso la sua immaginaria strapotenza. Su di un altro grande italiano, invece, che citeremo tra poco, TOMMASEO (si veda), filosofo di professione, non possiamo non fermarci un po’più, il che faremo con la scorta di BORGESE (si veda), il quale ci sembra averlo caratterizzato con mirabile precisione. Il CESARI (si veda) del romanticismo, lo chiama Borgese, e di CESARI non è così spietato censore come molti non-romantici. Ha quel che a CESARI (si veda) manca per divenire scrittore più che comune, la fede nel grande principio della rivoluzione letteraria. Di singolare nelle teoriche sulla lingua di TOMMASEO (si veda), è l'analogia coll’opinioni letterarie che si professano ornai da una ventina d'anni. Egli stima doversi i significati delle parole distinguere secondo l'uso più generale e ragionevole, proprio come gl’evangelisti del romanticismo volevano ligie le lettere alle passioni e ai desideri del tempo, perchè fossero secondo ragione e morale. Nel linguaggio vede tre pregi essenziali di bellezza: l'etimologia più prossima e d'evidenza irrecusabile, l'analogia filosofica e la grammaticale, l'armonia musicale e l'onomatopeica: pregi che meglio d’ogni altro idioma ritiene possedere il toscano. Non rinnova i concetti fondamentali della linguistica. Applica come BERCHET (si veda) e MANZONI (si veda) in modo nuovo principi vecchi, e sostenne l'imitazione del vero e l'uso di parole intelligibili al popolo. Ed ecco l'intento morale della riforma. Giova osservare, scrive, che la straordinarietà della lingua, la quale dà talvolta allo stile una cert'aria di dignità, è pregio tutto posticcio che non compensa il difetto di pregi più intrinseci. Molti si credono d'essere scrittori non comuni, allorché rivolgono un’idea comune in abito straordinario, ma converrebbe, in quella vece, sotto forme comuni, ren[Pensieri di varia filosofia e dì bella letteratura, Firenze. Del resto su LEOPARDI (si veda) filologo, v. i noti lavori recentemente condotti sullo Zibaldone, il saggio di BORGESE, e il citato studio di COLAGROSSO. Colagrosso.] -dere accessibile e, quasi dirti, perdonabile la straordinarietà dell'idea. Nella pratica pesa con scrupolo da farmacista parole e sillabe e della grammatica è cavalier senza macchia. Il numero maggiore degl’eruditi e letterati che si occuparono in questo tempo di lingua è dato dai vocabolaristi in genere: accademici della Crusca, dell’Istituto lombardo, Cesari, Galiani, Tommaseo, compresi i compilatori di dizionari di sinonimi (Grassi, Tommaseo), metodici (Carena) e dialettali, e in particolare, dagl’avversari più o meno accaniti della Crusca (Monti, Perticari, Compagnoni) coi loro rispettivi contradittori nelle polemiche che seguirono alla Proposta di Monti (Biamonti, Galvani, Niccolini, Tommaseo), e ancor più particolarmente dagli annotatori e correttori della Crusca (Parenti). Astrazion fatta dall'utilità pratica di queste raccolte di voci e locuzioni, sono ormai ben noti il nocciolo, le vicende e l'importanza della questione agitatasi con tanto fervore e accanimento: sostenitori e avversari della Crusca, nel propugnare secondo il loro partito un uso più o meno esteso nel tempo e nello spazio, quale si è il loro ideale d'un’ITALIANITÀ più o meno pura di pensiero, di sentimento e di lingua (entrano naturalmente nelle questioni sentimentalismi patriottici più o meno caldi e sinceri), muoveno dall’ormai stravecchia concezione meccanica del linguaggio abbuiata ancora non poco dall’ignoranza dell'origine dell'italiano, o meglio, de’ [In Borgese. Borgese. Tra i molti saggi di Tommaseo che in qualche modo si riferiscono al nostro argomento, merita d'essere ricordato qui particolarmente l’aiuto air unità della lingua, saggio di ìuodi con formi all'uso vivo italiano che corrispondono ad altri d'uso meno comune e meno legittimo, Proposte, Firenze, Le Monnier. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Voc. d. Cr., Milano, R. Stamperia. Cvi collaborano segnatamente Perticari, Gherardini, Grassi, Peyron ecc.. Devesi ricordare qui il Capitolo CHI di un'Opera cominciata a scrivere dall’autore prima della Proposta di Monti e da non pubblicarsi se non piu tardi (Estr. d. Quad. XV del Nuovo ricoglitore con un'aggiunta, Milano) di Compagnoni, che pretende, come ODERZO (si veda) Oderzo -- Stilla libertà concessa alla locuzione italiana della Crusca -- di aver precorso Monti. Galvani, tra tutti costoro, si distingue per i suoi notevoli contributi alla storia della letteratura occitanica. Ricordiamo qui particolarmente di lui il discorso Del soverchio rigor de’grammatici.] vari dialetti italiani; e si tormentano tutti egualmente intorno a un problema anti-fìlosofico. Lo stesso dicasi dell'altra categoria, non meno numerosa, dei panegiristi della lingua italiana e caldeggiatori del ritorno all'antica purezza e semplicità, trattatisti in genere dell'origine e delle doti dell'elocuzione, dissertatori di combattimento o no, tutti quali con più quali con meno di destrezza armeggiami pel feticcio col vecchio bagaglio d'argomenti formali: Cesari, alla testa, Amadi, Amicarelli, Bressan, Mazzoni, Biondelli, Betti, Ranalli, Paravia, Fornaciari, Montanari, Mestica, Costa, Pagliese, Farini, Colombo, Marchetti, Parenti, Giordani, a tacer di Puoti e della sua scuola. Una terza schiera, infine, è costituita da molti di questi stessi, T. mette in prima linea Colombo, e altri moltissimi tra questi ricorderemo honoris causa Leopardi e Foscolo che o curano l'edizione de’testi antichi o li annotarono o fecero l'una cosa e l'altra. L'opera di costoro ha un carattere più specificatamente linguistico-retorico; ma, oltre che qui non se ne potrebbe molto agevolmente tener conto, poiché sarebbe da ridurre a corpo sistematico, in fondo la ritroveremo nelle singole grammatiche che accompagnarono questa produzione esegetica, di cui a priori s’intendono i valori e i caratteri, sol che siano annunziati i nomi dei produttori. Ma qui dobbiamo fermarci per registrare un fatto di qualche importanza. Pensando a questa schiera di puristi e di retori, generalmente ce li figuriamo anzitutto grandi credenti nella grammatica, come nell'ultima panacea di sicura efficacia per il retto esercizio del parlare, del comporre e dell'intendere [Un più recente correttore della Crusca è Cerquetti, il cui nome è mescolato in nuove e non meno vivaci polemiche. Pubblica parecchi saggi di Correzioni e giunte al vocabolario della Crusca, il primo de’uali vide la luce in Forlì. Su Cerquetti, Trabalza, A. Cerouellt in Studi e profili. T. ricorda qui, come segno del fervore puristico specialmente contro le insidie del dialetto, quella Tavola e correzione d'un migliaio d'errori di grammatica e di lingua ecc., per Ponza, sac, Torino.], dove Manzoni spigola esempi per la sua tesi dell’unità linguistica (Opere inedite o rare cit. più innanzi. gli scrittori. A mostrar l' inesattezza di tale opinione, senza che io mi stenda in soverchie parole, T. riferisce qui proprio un brano della dissertazione di Cesari, la cui testimonianza tronca la testa al toro. Dopo aver indicato, il che fa in modo che tutti possiamo accettare, come s'abbiano a legger i filosofi, dice che nel principio, la grammatica è necessaria per li nomi e coniugazioni de’verbi, e per parecchi de’più notabili usi de’verbi singolari. Io credo che i fanciulli non sono da stancare con molte regole. Al maestro sta venirle toccando, secondo che negli autori si abbatte a cose che richiegge spiegazione come che è. La grammatica di Corticelli crede molto ben acconcia per quell’età; quantunque assai vi manchi di quelle cose che al maestro s’appartiene d’aggiungere a luogo a luogo. Ma pella grammatica e i primi elementi di lingua lui arde di mostrare un cotal mio trovato, che assai felicemente mi riuscì. Io credo che grande agevolezza ad apprender la lingua dove portare a’fanciulli l'aiuto d'un'altra lingua, loro già nota, la cosa parla da sé. ora eglino nessun’altra ne sanno che il proprio dialetto. Essi, nel loro dialetto parlando, sanno il valor delle voci che usano, e le parti dell'orazione, nomi, pronomi, verbi, avverbi, eccetera, le usano tutte. Ora io questa loro scienza vorrei recarla ad essi a profitto. Facendo che tutto il loro studiar nella lingua è un tradurre dal dialetto lor naturale. E nella pratica dell’insegnamento privato fa fare esercizi di retro-versione di novelle da lui tradotte in volgar veronese e compila un Catalogo d'alcune voci di dialetto veronese col corrispondente toscano a fronte. Non è stato il primo a servirsi del [Precetti pochi di qualsivoglia autore, torna a predicare nello scritto Del metodo d' insegnare lettere latine e italiane, in Opuscoli cit., ed. Guidetti. Ed. Guidetti. Guidetti. Guidetti, a questo proposito, riferisce un brano di lettera scrittagli d'Ascoli. È anche vero che Cesari e Manzoni hanno in qualche modo la stessa filosofia, sostenendo entrambi che l'Italia dove attingere o ri-attingere l'unità del proprio linguaggio dalla Toscana o meglio DA FIRENZE, e n'è venuto assai naturalmente che in entrambi sorge il desiderio di raccolte lessicali o di frasarj, dove ai modi di ciascun dialetto si contrapponessero gl’equavalenti della pura e schietta FIORENTINITÀ.] dialetto per apprendimento e l'insegnamento della lingua, come sappiamo; ma possiamo ben figurarci di quale e quanta efficacia riuscissero e la dichiarazione di scarsa fede nella grammatica per sé stessa e il consiglio di ricorrere al dialetto per apprenderne naturalmente con gli schemi le parti dell'orazione italiana, esposti come si trovavano in una dissertazione che, e per il nome dell'autore e per il premio ond'è coronata, si divulga ed ha grandissima presa in Italia. Infatti, a prescindere dalla ricca serie di vocabolari dialettali (anche Puoti, oltre quello àé\ gallicismi, ne fece compilar uno domestico NAPOLETANO-ITALIANO), che non è nostro compito illustrare, da questo impulso di Cesari, indubitatamente, oltre che dalle cause generali che su Cesari stesso agirono, derivarono in ogni parte d'Italia grammatiche italiano-dialettali, dove appunto si fac servire il dialetto, anche più ufficialmente dirò cosi che non si fa con le versioni dialettali e con lo studio e la compilazione del dizionario dialettale, all'apprendimento della grammatica italiana. Ne T ricorda due: la bergomense-italiana, dove l’influenza di Cesari si vede non solo dall'innesto degli esercizi di retroversioni alle regole grammaticali e ai paradigmi, ma anche dall’aver proposto tra i temi vernacoli una novella di Cesari: e [Nel concorso alla cattedra di letteratura italiana a Napoli, a cui partecipò anche Puoti, è dato per la dissertazione latina il seguente tema, che è la traduzione del tema dell'Accademia livornese. Italici sermonis a Dante ac Petrarca praecipue exculti elegantia, quibus de causis, quibusve scriptoribus defecerit, quibusve de causis ac scriptoribus ad pristinum redeat splendorem. In Caraffa. Per la storia de' Vocabolari dialettali e quanto li concerne ne’rispetti dell'aiuto che posson recare a chi vuol imparar la lingua e a scrivere, cfr. Manzoni, Dell' unità della lingua in Prose minori, ed. Bertoldi, il Concorso bandito dal Ministero e relativa Relazione e T., L'insegnamento dell'italiano nelle scuole secondarie Esposizione teorico-pratica con esempi, Milano; per la necessità che se ne afferma anche ogs^i, né più né meno che con le idee di Cesari e di Manzoni, mi sia permesso citare la prefazione al mio Saggio di vocabolario umbro-fiorentino e viceversa, Foligno. Esperimento di una Grammatica bergomense-italiana compilato a comodo ed utilità de’giovanetti suoi connazionali dal sa e. G. A. M., Milano, Tip. Arciv., Ditta Boniardi-Pogliani di Besozzi (Bibl. Teza).] la già ricordata Glottopedia italo-sicula di Pulci, notevole per l'opinione tacita dell'A. che IL SICILIANO ben ripulito puo coincidere con la lingua letteraria, ma più importante per LE TRACCE CHE LA GRAMMATICA UNIVERSALE RAZIONALE FILOSOFICA ANCHE IN QUESTO CAMPO LASCIA. Protesta l'autore contro le grammatiche di Biagioli e di Cerutti impiastricciate d'ideologia Trasiana, afferma che le menti dei giovinetti sono immature a intendere LA FILOSOFIA mentre per intender questa occorre la grammatica, ma LA FILOSOFIA cacciata dalla finestra delle regole l'ha fatta ri-entrar per la porta delle note. E finalmente T ooserva qui che quel calore che quei nostri puristi senteno per la bella lingua giova a ravvivar la grammatica, in modo che questa non è neppure quel che è oggi per molti una cosa parecchio insopportabile. Venuti così alla rassegna delle vere e proprie grammatiche compilate nel periodo di cui abbiam cercato determinare i caratteri, ci risparmieremo dall'esame così dei trattati particolari come de' compendi e delle compilazioni di seconda e terza mano, [Glottopedia italo-sicula e Grammatica dialettica, in cui confrontasi il dialetto siciliano colla lingua italiana in ciò che disconvengono, a buon indirizzo de’giovani siciliani per evitare i SICILIANISMI grammaticali ridotta in tavole sinottiche corrispondenti ad ogni trattato per lo can. seconda della cattedrale di Catania Doti. FULCI (si veda) pubblico professore di lingua italiana nella Regia Università ecc. Catania, dalla Tip. della R. Università per Pastore. Diamo qui in nota, come abbiam fatto per molti continuatori di Soave e Cesarotti, una breve serie dei moltissimi che, escluso che si possan far tagli netti, si possono riallacciare alla tradizione di Cesari e Puoti. Regole ed osservazioni della lingua toscana. In Genova per lo Caflarelli (cit. Da Casarotti). Romola, Delle dieci parti del nostro discorso, Carmagnola, Agrati, Il maestro italiano con appendice delle voci dubbie compilate e ridotte informa di dizionario ad uso delle scuole e di chi ama a parlare e leggere e scrivere bene e correttamente, Brescia, Bettoni [grammatica e vocabolario trattati alfabeticamente. Ricorda il Pergamini]. De Filippi, Studio di lingua del fanciullo italiano, Milano, Osservazioni sull'uso variante dei dittonghi fatte dai padri della poesia italiana, Milano. Antolini, di Macerata, Saggio di parallelo di voci italiane; trattato della lettera J e del doppio I, Milano [È una prima parte d'un'opera di cui annunziato il programma. Attribuisce ai dialetti la colpa dei doppioni. Doppioni? Sono parole di forma e senso chiaramente diverse: Abbatte, Abate; Accadde, Accade, e che nessuno confonde. Negli altri trattati per fermarci ai quattro principali autori che sono Gherardini, Puoti, Ambrosoli e Rodino, tacendo anche qui interamente delle grammatiche italiane in lingua straniera per uso degli stranieri. Il milanese Gherardini è più noto specialmente per la sua riforma ortografica da pochi seguita avrebbe parlato dei nomi d'unica pronunzia e varia ortografia, di voci medesime di varia pronunzia, voci di doppia vocalizzazione, dell'/ e ii (Vj, del Z (VI), di monosillabi di vario significato (VIIj. Difende l'j lungo, e dà un elenco alfabetico di voci parallele: Abbomini, Abbominj; Accusatori, Accusatori (da accusatorio); Acquai (perf. da acquare, Acquai ecc.; dividendoli in tre classi. Voci che richieggono la finale j; Il doppio ii (Abbondi, Abbondii; Accoppi da accoppare, ecc., Accoppii, da accoppiare); Le due terminazioni (Incendj pi. da incendio,Incendii, da incendiare). GRECO (si veda) (un precursore di PUOTI (si veda) e degl’altri classicisti meridionali, Avvertimenti del parlare e scrivere correttamente la lingua italiana, Napoli (cfr. Sanctis, La giovinezza); AMADI (si veda), Dialogo della lingua italiana, Venezia. Trovansi ms. nel Cod. Marc. BIAGIO (si veda), Istruzione grammaticali da lui dettate, Cod. Marc. Regole ed osservazioni intorno alla lingua italiana, Imola; LISSONI (si veda), Risposta al libercolo Aiuto contro l'aiuto di LISSONI (si veda), ossia difesa di molte voci italiane a torto proscrìtte, Milano -- che T. cita per ricordare questa polemichetta e accennare che anche di questo tempo si ha una colluvie di scritti ortografici); AZZOCCHI (si veda) insegna italiano e latino al Collegio Romano e al Seminario. Scrive un Elogio di CESARI (si veda), che si compiace di lui come di suo nuovo seguace, cfr. Cesari, Opuscoli, ed. Guidetti, Avvertimenti a chi scrive in italiano (Fra noi, dice, è questo difetto grandissimo d’educazione, che non curiamo punto la lingua che di bellezza gareggia eziandio con la greca, mentrechè alle lingue morte attendiamo e alle straniere. A proposito d’AZZECCHI (si veda) e de’suoi pari nel culto della lingua, MAZZONI (si veda) (L’Ottocento) osserva giustamente. Il nome d'Italia è da per tutto, anche nelle grammatichette e ne’lessici per i ragazzi, rivendicato contro il forestierume e la barbarie. FALCHI (si veda) (I puristi; 1. Il classicismo de' puristi, Roma) vuole fare delle riserve e mettere le cose a posto sul patriottismo de’puristi, e trova una frase felice per illustrare la sua filosofia, dove dice che questi fanno servire il concetto di patria alla causa del purismo: non viceversa. Verissimo. Pure è innegabile, e la cosa si spiega facilmente, che, nonostante che PUOTI (si veda), prendiamo un esempio perspicuo, si dolesse profondamente di non poter diventare il pedagogo di Rampollo del Borbone, né s’accorgesse quali spiriti svegliasse nella scolaresca il [un di codesti è CATTANEO (si veda), onde vuole ricondurre tutte le forme alla grafia che l'etimologia esige. Vana ed illogica pretesa, ma, filosoficamente, non meno ingiustificata di quant'altre mirano a costringere l'arte entro determinati schemi grafici più o meno moderni, per quanto, naturalmente, più di esse ripugnante alla coscienza moderna cui è meno estraneo quel certo consenso formatosi intorno al cosiddetto uso vivo. Ma l'attività di GHERARDINI (si veda) si svolge largamente e per lunghi anni anche nel campo stesso della grammatica, concretandosi in saggi di gran lena e di grossa mole. Comincia con studi lessicografici – la botanica linguistica Austin-Grice -- pubblicando un Elenco d;alante parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono ?ie' Vocabolari italiani. Da alla luce una Introdìizione alla Grammatica italiana per uso della classe seconda delle scuole elementari: facile ma elementarissima esposizione accompagnata da tavole sinottiche e da un modello d'interrogazione per uso de’maestri che suo insegnamento, resta sempre vero quel che SANCTIS (si veda) ha ad osservare e altri a ripetere, che PUOTI (si veda) con l'amore e la cura della lingua desta il sentimento nazionale in tutta la gioventù che fa poi. Saggi critici, Napoli. Il viceversa è vero per i discepoli, se non pei maestri. BRENNA (si veda), Elementi di ortografia, Treviso. GUASTAVEGLIE (si veda), Compendio di grammatica, Perugia. È, per dichiarazione stessa dell'a., un rimaneggiamento del Compendio di CHINASSI. FECIA (si veda), Aiittarello a parlare faìnigliarmente italiano, Biella; CAMANDONA (si veda), Saggio di grammatica italiana, Torino; GRAVANTI (si veda), Grammatica della lingua, Cremona; MANNUCCI (si veda), Grammatica, Città di Castello; MELGA (si veda), Grammatica compilata sulle opere de’migliori filologi antichi e moderni, Napoli. Cfr. Borghini, e Rodino, Osservazioni sulla grammatica di Melga, in forma di lettera all'a., Opuscoli, Napoli, di cui fan parte anche l’osservazioni sopra il vocabolario d’UGOLINI (si veda) delle parole e modi errati – “A nice derangement of epitaphs. Una lodata e più volte ri-stampata Grammatichetta compila sulle tracce di quella di PUOTI (si veda) GIANNINI (si veda), sul quale v. T., C. G. in La Favilla (Estr., Perugia). La Riforma dell'ortografia in Alcuni scritti, Milano. CATTANEO (si veda) è naturalmente disposto a seguire il sistema grafico etimologico di Gherardini dalla propria dottrina filosofica sul linguaggio, intorno a cui è da vedere ora un'acuta pagina da Gentile, LA FILOSOFIA IN ITALIA, I positivisti, Le origini, CATTANEO (si veda), La Critica.] vogliano assicurarsi che i giovani abbiano ben capito. Usce a Milano la più importante delle tre òpere principali, cioè l’APPENDICE ALLE GRAMMATICHE, immensa raccolta, nella sua parte non-apologetica e polemistica, di singole, innumerevoli osservazioni grammaticali, che o correggono o accrescono il vecchio patrimonio della nostra grammatica. Dopo l’avvertenza, in cui trova modo di pigliarsela con PUOTI (si veda), autore d'un Dizionario de’ gallicismi, consacra il saggio all'apologia del suo sistema LESSIGRANCO con gl’argomenti che i lettori ben conoscono. Svolge anche l'appendice (che appendice!) alla grammatica. Nel resto chiarisce alcuni dubj proposti al compilatore e dà altri avvertimenti lessigrafici con aggiunte. Son tutti problemi che riguardano l’uso e la forma di particolari voci o il giro d’un costrutto. Nessun principio nuovo, s'intende. Anzi i vecchi principi sono ri-messi a nuovo con qualche velleità di arguzia e d’eleganza. P. es., paragona l'ellissi, la famosa ellissi, a Poppea, la quale, andando velata, fa sì che la sua beltà è aggrandita dall’incitata imaginativa de’riguardanti. Né sempre dà la spiegazione giusta. Il passo boccaccesco che vedemmo male spianato anche da Cinonio, non ne dov’io dì certo morire che io non me ne metta a fare ciò che promesso v’ho, è così dichiarato da Gherardini. Non rimane che io mi metta a fare ciò che l’ho promesso, se anche dì certo io ne dovessi morire -- che non è vero. Questi sforzi, peraltro, di tutti i grammatici ed ESEGETI [cf. Grice, “Love that never told can be”] per sostituire la locuzione o costruzione rigorosamente grammaticale a certe irregolari espressioni, anche quando sembrino aver ottenuto lo scopo, cozzano irremissibilmente contro la muraglia cinese dell'impossibilità della sostituzione, e confermano sempre meglio l'insostenibilità della precettistica grammaticale. Da che, se non da questo carattere della grammatica, derivano tutte le secolari diatribe circa l’interpretazione di singoli passi, di singoli costrutti, di singoli significati, circa il riconoscimento di determinate grafie, che vediamo rinnovarsi di età in età? Nel corpo della nostra grammatica ci sono parecchi temi che sono ripresi in discussione continuamente, in modo che noi vediamo, p. es., un ottocentista ancora (Cfr. Zambaldi) rimproverare a Bembo o a Buonmattei una certa formula. Mirando ognuno la frammentaria espressione non col resto dell'opera d'arte di cui è una molecola, ma coll'archetipo grammaticale che si contempla nella nostra mente, è naturale che l'accordo il più spesso manchi e che le discussioni grammaticali si rinnovino di continuo anche da persone colte, d’artisti provetti che non sieno riusciti a liberarsi completamente dall'ereditario quanto servile ossequio all'impotente ma riveritissima dea. Ma il moltiplicarsi di tali discussioni è anche un mezzo potentissimo alla dissoluzione della grammatica: e Gherardini con un gigantesco volume di Appendice alla Grammatica, dimostrando col fatto la dilatabilità del corpo della grammatica, ne affretta del pari la morte. Egli è il Salviati dell'Ottocento. Minuto, analizzatore come lui, come lui riassuntore d'un lungo lavorìo grammaticale e esegetico, sviluppa come lui all'infinito le particolarità lessicografiche, ortografiche e sintattiche della lingua, capovolgendo cosi i cardini della grammatica, che sono le regole, e sostituendoli con l'eccezioni. Di modo che l'opera sua finale piuttosto che una grammatica è un immenso materiale da costruzione, ma per costruirvi un edificio bizzarro dove tutti i pezzi meccanici adoperati dai singoli scrittori o da gruppi di scrittori sono ammucchiati e che non può aver mai né fine né unità. All’appendice seguirono la Lessigrafia, che rappresenta la forma definitiva del suo sistema ortografico, e le Voci e Maniere di dire -- Grice, WOW – Way of Words -- additate ai futuri Vocabolaristi. Proprio l'opposto dell'appendice gherardiniana per condotta e architettura, benché ispirate ai medesimi principi, sono le regole eleì7ientari della lingua che il napoletano PUOTI (si veda) pubblica. Il più diffuso e noto e fors'anche efficace dei molte suoi saggi con le quali intende a integrare il suo altrettanto ben noto e efficace insegnamento, che impartì in modo così simpatico a Napoli a scolaresche entusiaste e intelligenti a cui furono ascritti uomini quali SANCTIS (si veda), MEIS (si veda), ed altri filosofi famosi. Oratore nelle esequie del marchese di Montrone a Bari, che a lui consegna i suoi saggi da stampare, dice che lo piange come maestro, e ben rammentò come egli, discepolo, anda cercando che frutta nel Mezzogiorno d’Italia quella nobile confederazione, come la chiamò, che in Bologna ha stretta MONTRONE (si veda) con SAVIOLI (si veda); di cui canta nel Peplo, con Marchetti, Costa, Schiassi, Giusti, Strocchi, e Giordani : preziosa testimonianza per la storia del Classicismo e del Purismo sceso dall’Italia centrale nel Mezzogiorno. Dei caratteri del purismo di PUOTI e del suo insegnamento non occorre che qui ripetiamo quanto ormai è ben noto. Basta che diciamo qualcosa della sua grammatica, alla quale, come dichiara egli stesso nella prefazione all'edizione napoletana, collaborarono de’suoi allievi principalmente SANCTIS (si veda) e RODINO (si veda), MELGA (si veda) e FABBRICATORE e che basta a parecchie generazioni non del solo Mezzogiorno come lo provano i dodicimila esemplari che gl’editori della ristampa dell’edizione livornese dicono essersi esauriti in diverse edizioni fatte in Toscana, in Parma e in Napoli: grammatica che PUOTI circonda delle cure più amorevoli e venne correggendo e migliorando via via in tutte le edizioni che egli stesso cura. A lode del buon senso didattico di Puoti dobbiamo subito ricordare che a lui non sfuggirono le due principali condizioni che sole giustificano nel campo della pratica e rendono utile la grammatica. Che essa sia, non maestra dell'arte, ma semplice strumento per lo studio e l'apprendimento delle lingue. Che i suoi precetti, perchè riescano veramente utili, siano ravvisati nelle scritture -- e addita tra queste come meglio accomodate il Governo della famìglia, l’Antologia di prose italiane, i Fatti d’Enea. Come disegno, la grammatica di PUOTI è mirabile di sobrietà e d’armonia, dati non affatto spregevoli in un libro scolastico. La distribuzione è l'antica -- etimologia, SINTASSI, ortoepia e ortografia --, e riflessa bene, quasi quanto il contenuto, lo stato della linguistica d’allora e dell’importanza che si da a certi problemi. Il prevalere dell'etimologia (o, meglio, MORFOLOGIA) e della SINTASSI, sull'ORTO-EPIA [cf. Grice on ‘correct,’ procedure – what is proper -e sull’orto-GRAFIA e il quasi nessun conto fatto della fonetica [cf. Grice, distinctive features of phonetic analysis of phonematic sequences] dimostrano che non si ha alcuna coscienza del problema storico della lingua e che tutto l’interesse è ancora il puramente formale ORETTORICO. Mentre il persistere di questo interesse per la forma e l'uso delle pa[Mazzoni, L'Otl.. Napoli] -role quali si possono riconoscere negli scrittori pei rispetti della purità e della correttezza fa fede dopo tanto lavorìo grammaticale, dopo la crisi filosofica della grammatica prescrittiva, che sopravvive soltanto la parte puramente empirica, cessando ogni interesse per quella filologicamente storica, sopravvive cioè la grammatica spogliata d'ogni elemento filosofico e conoscitivo. A che si dove logicamente venire, e il fine e la funzione della grammatica non possoo non esser quelli che abbiam visto aver riconosciuto Puoti. Oggi essa non si studia diversamente ne con diverso fine. Ed è presumibile che nel futuro si seguiterà a fare altrettanto. E se alcuni resultati della grammatica storica si sono incorporati nella moderna grammatica normativa ed altri ancora vi si includeranno, ciò potrà forse migliorare il metodo d’esse e aiutare l'apprendimento, ma come conoscenza, come contenuto conoscitivo, storico, rimarrà sempre estraneo al fine della grammatica, che è quello di condurre all'acquisto della lingua da adoperare per i bisogni pratici, tant'è vero che delle grammatiche per gli stranieri quest’elemento conoscitivo è assolutamente escluso. Pure è facile avvertire nel contenuto specifico della grammatica di Puoti l' influenza tanto dei precedenti accertamenti della filologia quanto delle tendenze della GRAMMATICA RAZIONALE UNIVERSALE FILOSOFICA; com'è naturale che vi è tenuto conto delle formule trovate dai migliori precedenti grammatici, da Bembo a Salviati a Cittadini, da Buonmattei e da Cinonio a Corticelli. Sicché Puoti ci appare come un diligente vagliatore di quanto è escogitato dai grammatici dei vari tempi e indirizzi, un disegnatore sobrio e corretto, un espositore chiaro e temperato che sa bene il suo fine e che ha coscienza de’suoi mezzi e del proprio metodo, e perciò esibitore d'una materia che passa immediatamente nel cervello de’discepoli, osservabile negli scrittori e applicabile nelle scritture e nella parola viva, scartata ogni superfluità, ogni suppellettile che rivesta carattere scientifico o conoscitivo. Vedasi, p. es., quanto è rimasto in PUOTI dei trattati cittadineschi su cui tanto si travagliarono per sistemarli didascalicamente i grammatici posteriori; quanto, nella sintassi, di tutte le categorie della grammatica filosofica; quanto, per la morfologia, di tante forme di nomi e di verbi e d'altre categorie scovate dai più minuti ricercatori; quanto, per l'ortografia, delle smisurate trattazioni precedenti. Su tutto sta come principio dominatore infrangibile il più rigoroso criterio puristico. Valga d'esempio l'osservazione che il Puoti oppone alla regola del luì, del lei e del loro, che non si possono usare nel caso retto , sebbene << non manchino esempi in contrario anche del buon secolo della favella: Ma ora che la grammatica della lingua è ben fermata, questi esempi voglionsi tenere come errori, e punto non debbonsi imitare. Avvertiva il marchese che, se l' ingegno de' discepoli il poteva comportare , s'incominciasse per bel modo a far loro comprendere le ragioni delle cose , e, come già vedemmo, tollerò che il suo prediletto discepolo e assistente studiasse la grammatica generale, concessioni strappategli dalla riverenza in che ancora era questa tenuta, ma nelle sue Regole fu soppresso ogni perchè, e tutto dato come fatto e come legge. Concludendo, diremo che la grammatica del Puoti è l'espressione più caratteristica che presero le dottrine grammaticali ornai trionfanti di questo periodo. AMBROSCOLI, comasco, grande ammiratore del Giordani e del Leopardi, più noto per il suo Manuale (edito nel 31 e rifatto nel 60), fu meno restio del Puoti all'ammettere un po' di elemento filosofico: si vuol render conto, infatti, del come sorsero le categorie e le forme grammaticali; ma in questo, lungi dall'ispirarsi agli enciclopedisti francesi, egli tornava al Buonmattei; come pure adottava il metodo lessicale del Cinonio per la dimostrazione dell'ufficio e dell'uso pratico delle voci. La sintassi appar fondata sul principio della grammatica generale e particolare nella sua divisione di regolare e irregolare e nell'accettazione della dottrina dell 'ellissi: ma nella sua fisonomia generale come anche nella maggior parte della trattazione questa grammatica dell'Ambrosoli è ormai la grammatica di stampo moderno; tant'è vero che è stata ristampata, con le debite modificazioni, anche qualche decennio fa. Un vero ritorno alla grammatica filosofica sembra avverarsi con quella novissima della lingua italiana del palermitano Milano. Grammatica nuovissima della lingua italiana " ricomposta da Leopoldo Rodino per uso del Liceo arcivescovile e de'Seminari di Napoli, sopra quella compilata nello studio di Basilio Puoti. Prima edizione fiorentina rivista da un Maestro toscano", Firenze, Barbèra Bianchi u Comp.] Rodino, che anche si è ristampata non è molto e vien citata come autorevole, meritando forse l'elogio che il Betti le tributò di lavoro filosofico, magistrale, compiuto, sebbene non le siano mancati critici acerbi come Giannini. Col Rodino si dimostra, quello che era naturale che accadesse, che la grammatica empirica aveva dovuto venire a patti con la ragionata, la quale, spregiata dopo tanti onori ricevuti, non se ne poteva andare senza lasciar tracce: e le tracce ne son rimaste nelle grammatiche moderne specialmente con la famosa analisi logica della proposizione e del periodo. Nella Grammatica popolare della lingita italiana tratta dalla grammatica novissima, manifestava A chi legge questa sua veduta: La grammatica si può insegnare per tre differenti modi. L'uno è il filosofico, e sta nel porre alcuni principi di logica, da' quali si facciano discendere come conseguenze le regole grammaticali. Questa io chiamerei la scienza della Grammatica ; ed è lavoro, eh' io mi propongo di pubblicare di qui a qualche anno. L'altro è positivo e pratico, ed è quando si raccolgono tutti i precetti di quest'arte applicati alla lingua, e derivati dalla logica, ma esposti per modo, che nulla apparisca della loro origine filosofica alla mente de' giovanetti non ancora capaci di lunghi e severi ragionamenti. Questo secondo modo ho io tenuto nella mia Grammatica nuovissima. Ma non tutti possono imparare tutti i precetti di questa Grammatica....: quindi Grammatica popolare, circa al qual modo a due, si dee por mente. La prima è che i precetti non siano mai né contro alla ragione logica né contro alla verità positiva della lingua. L'altra è che si scelga giudiziosamente quella parte de' precetti che è più necessaria a sapere, e contro alla quale si falla più generalmente dal popolo. Che la esecuzione tanto della nuovissima quanto della popolare sia riuscita opera secondo il fine pratico veramente magistrale per l'agilità e la chiarezza, nessuno Napoli. Cfr. ftass. crii. d. I. it.. La Grammatica antica e le moderne. Osservazioni, Viareggio, Malfatti, opusc. recensito in Borghini. Giannini vi prende posizione contro i riformatori della grammatica, difendendo l'antica nomenclatura e gli antichi metodi. i4j Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp., Storia della Gr animai ica vorrà negare che s' intenda di cose didattiche, e il favore goduto da entrambe l'attesta; ma questo stesso tentativo di adattare, anzi specializzare la grammatica alla varia mentalità degli apprenditori, stabilendo de' gradi non pur nell'ampiezza maggiore o minore della materia, ma nella maggiore o minore infusione dello spirito filosofico, come se ci sia un vero grammaticale più o meno potenziato di virtù illuminatrice, non solo, ma affermando il principio che questo vero ci abbia a essere anche nel grado inferiore, ma senza mostrarcisi, se può riuscire in lode del maestro che s' industria e s'affanna nell'escogitazione di espedienti sempre meglio e specialmente efficaci, è indizio però assai grave contro la stessa grammatica, scienza che si stira e s' impolpetta a piacere altrui. Infine, questo scolaro del Puoti che sorride alla grammatica filosofica, ma si regola nel compilarne una su per giù come si regolava il maestro, e ne escogita un'altra in cui la filosofia a braccetto dell'empirismo sia posta in servizio del popolo, è, grammaticalmente parlando, l' incarnazione di quel periodo di crisi e di transizione e della filosofia e dell'empirismo, in cui il popolo -appunto affermava il suo diritto di partecipare al banchetto della letteratura, asserendolo per bocca del Manzoni. Verità, necessità, chiarezza delle regole sono pel Rodino i requisiti che deve avere una grammatica. La verità è nella logicità, essendo la grammatica figlinola piimogcnita della logica. Ma non si aspetti per questo alcuno di vedere in questa Grammatica quelle teoriche di filosofia, che si vorrebbero da certi in questo secolo, che dicesi filosofico. Che, lasciando stare tutte le altre ragioni, questo non sarebbe acconcio a quelle tenere menti che non potrebbero sostenere difficili principi ideologici, e poco utile riuscirebbe all'uso della parola, la quale se ha la sua ragione nella ideologia, ha la sua forma dalla maniera propria di ciascuna lingua. Adunque lasciando star questa maniera che sarebbe conveniente ad una Grammatica generale o meglio alla Ragion della grammatica, bisogna star contenti a questo, che i principi cioè, che per necessità si hanno a porre nelle regole grammaticali, sieno secondo la logica. E si noti, intanto, che Y 'e tuttologia vien chiamata l'analogia. Così che la sintassi conserva le tre parti della grammatica generale: collocazione, concordanza, reggimento. Naturalmente la proposizione è il complesso di parole con cui si esprime quell'operazione della mente che si chiama giudizio. Tra il fragor d'armi che la Proposta montiana aveva destato, il Manzoni era venuto componendo il suo romanzo, non senza esser condotto naturalmente a meditare il problema della lingua sia dalle vivaci discussioni che intorno ad esso si agitavano, sia dagli ostacoli che si figurava aver incontrati nell'opera sua per non possedere tutta la lingua che gli sarebbe occorsa a raggiungere almeno la forma approssimativa del suo pensiero. Sicché, quando diede fuori la seconda edizione de' Promessi sposi nella nuova veste fiorentina che si era persuaso dover ad essi indossare, mostrando un esempio pratico della necessità e bontà della tesi di cui s'era venuto sempre meglio convincendo, era naturale che si aprisse un nuovo periodo di ardenti polemiche intorno a quel problema dell'unità della lingua, di cui in quel libro aveva praticamente dimostrato qual potesse e dovesse secondo lui esser la soluzione. La storia di quest'ultima fase della secolare controversia è ben nota anche nei minuti particolari e quel problema per fortuna è stato ormai risoluto nella pratica con la vittoria della dottrina manzoniana, vittoria immancabile non solo per merito di questa e dei sostegni che ha, ma anche per cause sociali che non importa dichiarare; nella teoria con il riconoscimento della sua natura non filosofica. Poiché quella di MANZONI (si veda) non è neppur nella sua mente e non puo essere una tesi estetica; ma semplicemente un vivace lavorìo di pensiero per trovare la via di soddisfare a un'imprescindibile esigenza pratica del momento non pur nei rispetti dell'artifizio stantìo della vecchia prosa, ma in quelli della lingua d' Italia intesa anche come mezzo d'integrazione della constituenda unità nazionale. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alla morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l'Italia divenne tutta d'una sola favella! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi ! Che aumento alla carità della patria comune! . Così pensava anche il Rosmini i Opere edite e inedite O, meglio, la tesi pratica sorse imperiosa dal suo stesso spirito artistico, ma cercò nella speculazione la sua base critica, tramutandosi necessariamente in pedagogica: resultato triplice dell'elaborazione, la correzione del romanzo, la negazione teorica della grammatica generale, le proposte di mezzi d’unificazione linguistica; criterio dominante, anzi assoluto, l'uso, particolarmente il fiorentino, quale lo forma l'evoluzione storica dell’italiano ed in cui è il maggior consenso di tutti i parlanti d'Italia. Il punto di partenza della dimostrazione teorica di MANZONI (si veda) è il concetto di lingua. Le lingue sono complesso di vocaboli soggetti a regole. Ma ciò che le fa essere quel che sono, non è l’analogìa, intendi: le leggi immutabili e universali della grammatica generale, sì bene l’uso, le regole grammaticali, in lume Pedagogia e Metodologia, che, come ben dice BORGESE è maestro in FILOSOFIA e scolaro in letteratura di MANZONI (si veda). E per non tornarci sopra altrove, aggiungo qui che ROSMINI (si veda) distingue nella lingua la materia e la FARINA. Quanto alla forma della lingua, avverte ai maestri, il fanciullo non è ancora da ciò. Perocché la FORMA della lingua (“Pirots karulise elatically”), cioè la SINTASSI – o grammatica -- esige dell’intellezioni d'un ordine molto superiore al secondo. Gli scritti di MANZONI (si veda) sui quali fermiamo più specialmente la nostra attenzione sono le due minute dell'opera “Della lingua italiana,” nell’Opere inedite o rare pubblicate da BONGHI (si veda), Milano. Ma teniamo presenti tutti gli altri scritti linguistici raccolti e egregiamente illustrati da BERTOLDI (si veda) nelle Prose minori, col corredo d'un'abbondante quanto scelta bibliografia. Minuta prima. Nella seconda, la definizione è corretta così. Materia propria d'ogni lingua sono de' vocaboli, e delle FORME MORFO-SINTATTICHE E PURAMENTE SINTATTICHE O GRAMMATICALI applicate ad essi, e che sono comunemente chiamate ‘regole.’ Il mutamento è stato suggerito dalla necessità di tener ben distinti tra loro nella trattazione il vocabolario e la MORFO-SINTATTICA, MORFOLOGIA, SINTASSI -- grammatica, -- mezzi che s'adoprano per rappresentare qualunque lingua nel suo complesso. Abbiam preso qui le mosse dalla prima minuta, tanto per dare subito una prova di quel che è la seconda, che la supera specialmente di rigore metodico e maggior precisione dialettica; e noi questa terremo a nostro fondamento, benché nella prima qua e là nell'incertezza dell'espressione par che si scopra meglio il pensiero dell'autore, il quale nella seconda ha cura di mostrarne di mano in mano e seguirne il progresso, perchè alla fine balzi più vivo: è l'arte sua] ogni Lingua, dipendono in tutto dall'USO, come i vocaboli. Così la dimostrazione viene a constare di due parti, non sempre nettamente distinte, ma rispondenti alle due parti fondamentali che ci restano dell'opera, dopo la prima che serve d'introduzione, Dello stato della lingua in Italia, e degl’effetti essenziali delle lingue, e che trattano, la prima. Quale è la causa efficiente delle lingue, rispetto ai vocaboli e rispetto alle regole morfologiche, morfo-sintattiche, e puramente sintattiche -- grammaticali. La seconda. Se l’analogia produce degl’effetti necessari nelle lingue, riguardo alla parte morfologica, morfo-sintattia, e puramente sintattia – o grammaticale. Quest'ultimo capitolo, che è quello che più ci riguarda qui, contiene la critica negativa della grammatica generale, cioè la parte veramente nuova del sistema di MANZONI (si veda). E dall'esame d'esso ci vien messa in rilievo la profonda differenza che intercede tra MANZONI (si veda) e SANCTIS (si veda) nella loro comune critica grammaticale. SANCTIS (si veda), mente filosofica speculativa, muove dalla grammatica per andare verso la scienza, verso l'estetica, e riuscì a vedere tanto quanto basta per esser libero nella sua critica, cioè nella manifestazione della sua vera personalità da pregiudizi teorici. MANZONI (si veda), anima d'artista – grammatica pratica non speculativa --, anda dalla TEORIA verso la PRATICA, verso la tecnica, alla ricerca de’mezzi dell'espressione, o meglio combatte per vincere quegl’ostacoli che ai grandi suoi pari spesso op[Minuta prima. Ecco tutta la materia dell'opera che sarebbe stata in tre parti: Principi generali, riconoscimento del fatto particolare; confutazioni delle obiezioni; esame de’sistemi; tale è l'assunto, e tale è l'ordine di questa parte. Nella seconda s'esaminano i diversi sistemi. Nella terza si tratta de’mezzi atti a propagar le lingue, e da impiegarsi, per conseguenza, a rendere, per quanto è possibile, comune di fatto in tutta Italia quella che si dimostra esser la lingua italiana. Chi ha presenti tutti gli altri saggi linguistici di MANZONI (si veda), s'accorge che il libro in quel che ci manca non è che una rielaborazione e sistemazione di quel che in essi è contenuto. Ma è sempre a dolere grandemente che l'opera rimane incompiuta. – cf. Vio compiuta Aquino. Soccorrono facilmente alla memoria i nomi d’ALFIERI (si veda) e LEOPARDI (si veda). Delle fatiche del primo per conquistar la lingua italiana, dell’elaborazione tormentosa dell’espressione formale delle sue tragedie, è superfluo dire. Ci piace invece riferire un pensiero che egli esprime a proposito dei gallicismi da lui avvertiti (Voci e modi toscani] pone la lingua come passività, come cosa morta, vuole insomma parlare. Il volgare illustre d’ALIGHIERI (si veda), le varie grammatiche e la correzione dell’Orlando Furioso, l'USO e la correzione de' Promessi Sposi di MANZONI (si veda), sono aspetti diversi d'un medesimo problema spirituale, il bisogno d'esprimersi in tutta la pienezza, di creare la propria espressione; nuove teorie, nuove grammatiche, rifacimenti, polemiche, tormenti teorici d’ogni genere accompagnano fatalmente quello sforzo inevitabile, specie ne’momenti di grandi rivoluzioni dello spirito. Grandi e piccoli partecipano calorosamente a tali dibattiti. I primi sciolgono il problema, se sono artisti, non con le teorie che costruiscono, ma creando capolavori, se sono FILOSOFI CREANDO SISTEMI, i secondi imitando gl’uni e gl’altri,, ripetendo, ma pur dando nel loro lavoro complessivo un riflesso TEORICO di quella che è stata chiamata la creazione collettiva della lingua, perchè tutti che abbiano in sé una sola favilla di vita interiore collaborano allo svolgimento della lingua, e tutti vogliono rendersi ragione e asserire un piccolo dritto sul capitale comune. Così si può intendere, meglio che non si fa comunemente, il valore che la parola “uso” – cfr. GRICE ON RYLE use/usage --, tanto frequente sulla bocca di MANZONI (si veda), ha nel suo discorso. L’USO è il parlar vivo, il con la corrisp. in lingua gallica e in dialetto piemontese, ed. Cibrario, Torino, Alliana -- nel Boccaccio. Le regole o inezie grammaticali debbono pell'appunto essere dai sommi scrittori più rispettate, perchè più grandezza d'animo si richiede per sottomettervisi che per disprezzarle (in Fabris, I primi scritti in prosa d’ALFIERI (si veda), Firenze), e che, lungi dall'essere una banalità o un paradosso, rivela quale importanza ha nella coscienza del grande artista annunziatore della terza Italia l’ITALIANITÀ della sua lingua. Quell'omaggio alla grammatica è un omaggio reso al nume agitatore del suo spirito poetico. LEOPARDI (si veda) anch'egli vuole andare ad abbeverarsi al fonte linguistico di Firenze, e a GIORDIANI (si veda) che l'ammonisce non esser paese che parli MENO ITALIANO di Firenze, risponde piacergli imparare quell'infinità di modi volgari che spesso stan tanto bene nelle scritture, e quella proprietà ed efficacia che la plebe per natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole. E se pur allora di quell'andata non ne è nulla, risciacquò però anch'egli più tardi le sue prose nell'Arno, sebbene in modi diversi da quello tenuto da MANZONI (si veda) (Mazzoni, Storia). Giudicano rettoricamente di lingua sì GIORDANI (si veda) che LEOPARDI (si veda), ma, chi guardi, con perfetta concordia col proprio temperamento spirituale.] parlare, il solo parlare: e quand' egli sostiene che la vera causa efficiente delle lingue, l'unica è l'Uso, in fondo non dice altro che questo, che il parlare è il. parlare: di codesta causa efficiente egli dovrebbe pur sapere che v' è un' altra causa più intimamente efficiente, che è lo spirito: su questo non si sofferma, e qui è la parte manchevole del suo sistema; il che vuol dire che egli non ha un'estetica, una filosofia sua del linguaggio vera e propria. Ma chi metta questa sua parola Uso o Parlar effettivo in rapporto col suo spirito artistico, vedrà che in esso l'Uso s' identifica con la causa generatrice dell'espressione. E in questo è la superiorità della sua dottrina. V ha di più. Questo propugnare l'Uso vivo del popolo, e del popolo fiorentino che certo fu il grande collaboratore della lingua nazionale, che altro rivela, in sostanza, se non una viva coscienza che il Manzoni avesse dell'attività spirituale collettiva onde il linguaggio si altera, si crea ogni momento? Perchè altri facevano della questione della lingua una questione storica, dimenticavate sempre più che è una questione atttiale di sua natura, dice in un punto ai suoi supposti avversari, e, a suo modo, diceva una verità. Sicché si può dire che egli, pur facendo una questione pratica, rasenta sempre il vero problema scientifico della lingua. E se n' ha una conferma magnifica nella critica eh' ei fa delle leggi immutabili della grammatica generale, dove egli riesce ancor più nuovo e originale e limpido negatore che non fosse il De Sanctis medesimo. Potrei citare moltissimi luoghi che dimostrano eh' egli intuiva la vita spiritunle del linguaggio, tanto come creazione collettiva quanto come creazione individuale. V. specialmente le pagine dove afferma che la causa della lingua non può esser che una, e l'esempio addotto d'una parola del Malherbe che diviene francese dopo solamente che è accettata dall'Uso. Sono le . Ma un luogo singolarmente caratteristico è il seguente: La grande operazione dell'Uso, l'operazione essenziale, permanente e omogenea, quella che fa viver le lingue, è, al contrario, quella di mantenere, e di mantenere incomparabilmente più di quello che, in ogni momento, possa andarsi mutando, com'è s'è accennato dianzi. Unico, tra tutti i letterati italiani, il Manzoni ha comune con SANCTIS (si veda) la conoscenza intima de' grammatici sì antichi che moderni, in particolare, s'intende, dei galli. Una correzione notevole di storia della questione della lingua è l'aver detto nella seconda minuta che della lingua italiana si va dispu- [Di negazione in senso assoluto, veramente, non si potrebbe parlare, in quanto che il Manzoni non nega l'esistenza delle regole, cioè d'un fondamento logico del linguaggio; ma sostiene che queste regole si trasformano via via sotto l'imperio dell'uso, in modo che esse non sono universali né immutabili: il che equivale a non ammenterle, tanto più quando si affermino continuamente i capricci e gli arbitri dell'Uso. Negazione è, e inconfutabile, quando il Manzoni dimostra con ragioni ed esempi l'arbitrarietà delle categorie grammaticali e delle loro funzioni. Dopo dimostrato, rispetto alla causa efficiente de' vocaboli, che ciò che fa essere nelle lingue i rispettivi vocaboli, sia col significato che si chiama proprio, sia con uno traslato, sia considerati ognuno da se, sia aggregati in locuzioni speciali, non è altro che l'Uso; e, rispetto alle regole grammaticali, che ogni effetto grammaticale può essere ottenuto con mezzi diversi; e che, per conseguenza, l'applicazione d'uno piuttosto che d'un altro di essi dipende da un arbitrio, Manzoni si fa a confutare l'opinione che l'Analogia, per una sua virtù propria, produca nelle lingue degli effetti necessari, e quindi indipendenti da qualunque arbitrio, ossia ad abbattere tutto il fondamento della grammatica generale. tando da cinquecent'anni, mentre nella prima aveva detto da trecento. Vi volle evidentemente comprendere anche Dante. Aggiungo qui a suo titolo esclusivo di lode, che il Manzoni nelle innumerevoli esemplificazioni e analisi particolari fa anche (e in che modo!) la grammatica normativa! Questo canone salva la forma non filosofica potrebbe esser propugnato anche dalla nostra estetica, se per arbitrio s'intendesse la libertà dello spirito. E quest' identità, occorre avvertirlo, il Manzoni non pone affatto; né tanto meno sospetta egli l'identità tra linguaggio e attività fantastica: il linguaggio resta sempre per lui qualcosa di estraneo allo spirito, una materia fonica a cui si dia un significato. L'eufonia, p. es., per cui si appella all'autorità di Donato, è per lui un motivo affatto materiale e estraneo agi' intenti razionali della lingua: laddove per l'estetica moderna ogni minima sfumatura fonetica deve riportarsi a un movimento spirituale. Il Manzoni riman sempre in fondo sotto la veduta del logicismo e del dinamismo meccanico. Per analogia M. intende l'applicazione de'medesimi mezzi esteriori e, dirò così, materiali della lingua a de'medesimi intenti del pensiero. Per Manzoni l'analogia è impotente a dare alla lingua legge veruna, né circa i vocaboli, né circa i mezzi grammatica/i, cioè l'inflessioni, i vocaboli che fanno un ufizio grammaticale, la costruzione, in altre parole le categorie grammaticali e sintattiche. Alla confutazione generale serve di discussione la definizione data da Beauzée nell' Encyclopédie Methodìque, art. analogia. In una Nota si fa poi ad esporre la critica delle parti del discorso – “shaggy”-- o categorie, passando in rassegna i vari grammatici antichi, poi quel Bordoni, che ama meglio usurpare il nome di Scaligero che render celebre il suo, Sanzio, Sdoppio e Vossio, i porto-realisti Arnauld e Lancelot, Buffier e Girard, Beauzée, determinando con molta acutezza la posizione d'ognuno e il modificarsi del problema delle categorie ne'vari periodi, colla conclusione della sua insolubilità. In un'appendice discute Se ci siano de'vocaboli necessariamente indeclinabili, concludendo anche qui pell'insolubilità di tali questioni, perchè derivate da una supposizione affatto arbitraria, cioè che tutti i vocaboli di tutte le lingue siano naturalmente e necessariamente divisi e scompartiti in tante classi diverse, o parti dell'orazione, ciascheduna delle quali sia esclusivamente propria a ‘significare’ una data modalità – shaggy – degl’oggetti del pensiero, o, come dicono, a fare una funzione speciale e distinta, e esamina con opportuni esempi comparativi tolti dalla lingua d’Italia le questioni particolari della pretesa essenziale indeclinabilità della preposizione, dell'avverbio, della congiunzione e dell'interiezione. Infine, dopo toccato d'una restrizione e d'una necessità imposte arbitrariamente alla declinazione, viene alla conclusione, sulla scorta della quale abbiam creduto, per ragioni di brevità, di fare il riassunto del pensiero di Manzoni. Gl’errori particolari di alcuni filosofi della lingua circa le categorie grammaticali morfosintattiche dimostra che hanno un'origine comune, la sopraddetta supposizione, che è quella medesima su cui si fonda la così detta grammatica generale. Ma il nome di parti dell'orazione non è forse solenne da secoli? Non sono esse state, già nell'antichità greca, oggetto Cj Di questo cita V Aristarchus, sive De arte grammatica delle ricerche di diversi filosofii e non sono poi, senza interruzione, la base, o dirò cosi, l'ordito delle grammatiche positive e speciali della lingua d’Italia, antica e moderna? Quale è dunque la scoperta per cui la grammatica di Porto Reale acquise e conserva, la reputazione d'aver fondata, o almeno iniziata, una filosofia? E qui Manzoni spiega come poteron sorgere le categorie e il loro variare dai filosofi romani, il cui carattere è la mancanza d'ogni intento sistematico. Ci si vede bensì un progresso, o piuttosto un aumento successivo, ma occasionale e, si può dire, empirico; un'analisi continua, ma che non è né lo svolgimento, né la ricerca d'una sintesi. Se a qualcheduno de'filosofi di quel tempo, che parlarono, in qualunque modo, di parti dell'orazione, fosse potuto venir in mente di ordinarle in un complesso scientifico, pare che Aristotele avrebbe dovuto esser quello. Ma, dai saggi che rimangon di lui, appare tutt'altro. Continua poi fino a Prisciano, che ne enumera quattordici, lo stesso suddividere, e per motivi d’egual valore. L'intento de’grammatici è sempre pratico: indicare le regole positive dei vocaboli – cf. Grice on ‘shaggy’ – ‘significazione’ . We need to be able to apply some such notion as a predication of B (adjectival) on a (nominal). "Smith is tactful," "Smith, be tact-ful," "Let Smith be tactful," and "Oh, that Smith may be tactful" would be required to count, all of them, as predications of "tactful" on "Smith." It would again be the business of some linguistic theory to set up such a sentential characterization. Suppose we, for a moment, take for granted two species of cor-relation, R-correlation (referential) and D-correlation (denotational). We want to be able to speak of some particular object as an R-correlate of a (nominal), and of each member of some class as being a D-correlate of B (adjectival). Now suppose that U has the following two procedures (P): P1: To utter the indicative version of o if (for some A) U wants/ intends A to think that U thinks... (the blank being filled by the infinitive version of o, e.g. "Smith to be tactful"). Also, P1': obtained from P1 by substituting "imperative" "indicative" and "intend"/ "think that U thinks." (Such procedures set up correlations between moods and specifications of "ft.")P2: To utter a t-correlated (cf. P1 and P1' predication of B on a if (for some A) U wants A to d a particular R-correlate of a to be one of a particular set of D-correlates of B. Further suppose that, for U, the following two correlations hold: C1: Jones's dog is an R-correlate of "Fido." C2: Any hairy-coated thing is a D-correlate of "shaggy." Given that U has the initial procedures P1 and P2, we can infer that U has the resultant procedure (determined by P1 and P2): RP1: to utter the indicative version of a predication of ß on a if U wants A to think U to think a particular R-correlate of a to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP1 and C1, we can infer that U has: RP2: To utter the indicative version of a predication of B on "Fido" if U wants A to think U to think Jones's dog to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP2 and C2, we can infer that U has: RP3: To utter the indicative version of a predication of "shaggy" on "Fido" if U wants A to think U to think Jones's dog is one of the set of hairy-coated things (i.e. is hairy-coated). And given the information from the linguist that "Fido is shaggy" is the indicative version of a predication of "shaggy" on "Fido" (as-sumed), we can infer U to have: RP4: To utter "Fido is shaggy" if U wants A to think U to think that Jones's dog is hairy-coated. And RP4 is an interpretant of "For U, 'Fido is shaggy' means 'Jones's dog is hairy-coated." I have not yet provided an explication for statements of timeless meaning relating to noncomplete utterance-types. I am not in a position to provide a definiens for "X (noncomplete) means ... deed, I am not certain that a general form of definition can be provided for this schema; it may remain impossible to provide a definiens until the syntactical category of X has been given. I can, however, provide a definiens which may be adequate for adjectival X (e.g. "shaggy"): D7: "For U, X (adjectival) means'... '"=df. "U has this proce-dure: to utter a y-correlated predication of X on a if (for some A) U wants A to yet a particular R-correlate of a to be.." (where the two lacunae represented by dots are identically completed).Any specific procedure of the form mentioned in the definiens of D7 can be shown to be a resultant procedure. For example, if U has P2 and also C2, it is inferable that he has the procedure of uttering a vt-correlated predication of "shaggy" on a if (for some A) U wants A to dt a particular R-correlate of a to be one of the set of hairy-coated things, that is, that for U "shaggy" means "hairy-coated." I can now offer a definition of the notion of a complete utterance-type which has so far been taken for granted: D8: "X is complete" =df. "A fully expanded definiens for "X means'...'" contains no explicit reference to correlation, other than that involved in speaking of an R-correlate of some referring expression occurring within X." (The expanded definiens for the complete utterance-type "He is shaggy" may be expected to contain the phrase "a particular R-correlate of 'he.") Correlation. We must now stop taking for granted the notion of correlation. What does it mean to say that, for example, Jones's dog is the/an R-correlate of "Fido"? One idea (building in as little as pos-sible) would be to think of "Fido" and Jones's dog as paired, in some system of pairing in which names and objects form ordered pairs. But in one sense of "pair," any one name and any one object form a pair (an ordered pair, the first member of which is the name, the second the object). We want a sense of "paired" in which "Fido" is paired with Jones's dog but not with Smith's cat. "Selected pair"? But what does "selected" mean? Not "selected" in the sense in which an apple and an orange may be selected from a dish: perhaps in the sense in which a dog may be selected (as something with which (to which] the selector intends to do something). But in the case of the word-thing pair, do what? And what is the process of selecting? I suggest we consider initially the special case in which linguistic and nonlinguistic items are explicitly correlated. Let us take this to consist in performing some act as a result of which a linguistic item and a nonlinguistic item (or items) come to stand in a relation in which they did not previously stand, and in which neither stands to noncorrelates in the other realm. Since the act of correlation may be a verbal act, how can this set up a relation between items? Suppose U produces a particular utterance (token) V, which belongs to the utterance-type "shaggy: hairy-coated things." To be able to say that U had by V correlated "shaggy" with each member of the set of hairy-coated things, we should need to be able to say that thereis some relation R such that: (a) by uttering V, U effected that "shaggy" stood in R to each hairy-coated thing, and only to hairy-coated things; (b) uttered V in order that, by uttering V he should effect this. It is clear that condition (b), on which some will look askance because it introduces a reference to U's intention in performing his act of correlation, is required, and that condition (a) alone would be inadequate. Certainly by uttering V, regardless of his inten-tions, U has set up a situation in which a relation R holds exclusively between "shaggy" and each hairy-coated thing Z, namely the relation which consists in being an expression uttered by U on a particular occasion O in conversational juxtaposition with the name of a class to which Z belongs. But by the same act, U has also set up a situation in which another relation R' holds exclusively between "shaggy" and each non-hairy-coated thing Z', namely the relation which consists in being an expression uttered by U on occasion O in conversational juxtaposition with the name of the complement of a class to which Z' belongs. We do not, however, for our purposes, wish to think of U as having correlated "shaggy" with each non-hairy-coated thing. The only way to ensure that R' is eliminated is to add condition (b), which confines attention to a relationship which U intends to set up. It looks as if intensionality is embedded in the very foundations of the theory of language. Let us, then, express more formally the proposed account of cor-relation. Suppose that V= utterance-token of type ""Shaggy': hairy-coated things" (written). Then, by uttering V, U has correlated "shaggy" with (and only with) each hairy-coated thing=(R) {(U effected by V that [Vx] [R "shaggy" x=*Ey (y is a hairy-coated thing)]) and (U uttered V in order that U effect by V that [Vx]... )}.' If so understood, U will have correlated "shaggy" with hairy- 1. The definiens suggested for explicit correlation is, I think, insufficient as it stands. I would not wish to say that if A deliberately detaches B from a party, he has thereby correlated himself with B, nor that a lecturer who ensures that just one blackboard is visible to each member of his audience (and to no one else) has thereby explicitly correlated the blackboard with each member of the audience, even though in each case the analogue of the suggested definiens is satisfied. To have explicitly correlated X with each member of a set K, not only must I have intentionally effected that a particular relation R holds between X and all those (and only those) items which belong to K, but also my purpose or end in setting up this relationship must have been to perform an act as a result of which there will be some relation or other which holds between X and all those (and only those) things which belong to K. To the definiens, then, we should add, within the scope of the initial quantifier, the following clause: "& U's purpose in effecting that Vx (.....) is that (BR') (Vz) (R' "shaggy'z=zEy (y is hairy-coated))."coated things only if there is an identifiable R' for which the condition specified in the definiens holds. What is such an R'? I suggest R'xy=x is a (word) type such that V is a sequence consisting of a token of x followed by a colon followed by an expression ("hairy-coated things") the R-correlate of which is a set of which y is a member. R'xy holds between "shaggy" and each hairy-coated thing given U's utterance of V. Any utterance V' of the form exemplified by V could be uttered to set up R"xy (involving V' instead of V) between any expression and each member of any set of nonlinguistic items. There are other ways of achieving the same effect. The purpose of making the utterance can be specified in the utterance: V = utterance of "To effect that, for some R, 'shaggy' has R only to each hairy-coated thing, 'shaggy': hairy-coated things." The expression of the specified R will now have "V is a sequence containing" instead of "V is a sequence consisting of ... " Or U can use the performative form: "I correlate 'shaggy' with each hairy-coated thing." Utterance of this form will at the same time set up the required relation and label itself as being uttered with the purpose of setting up such a relation. But by whichever form an act of explicit correlation is effected, to say of it that it is (or is intended to be) an act of correlation is always to make an indefinite reference to a relationship which the act is intended to set up, and the specification of the relation involved in turn always involves a further use of the notion of correlation (e.g. as above in speaking of a set which is the correlate [R-correlate] of a particular expression [e.g. "Hairy-coated things"]). This seems to involve a regress which might well be objectionable; though "correla-tion" is not used in definition of correlation, it is used in specification of an indefinite reference occurring in the definition of correlation. It might be considered desirable (even necessary) to find a way of stop ping this regress at some stage. (Is this a characteristically empiricist demand?) If we don't stop it, can correlation even get started (if prior correlation is presupposed)? Let us try "ostensive" correlation. In an attempted ostensive correlation of the word "shaggy" with the property of hairy-coatedness: U will perform a number of acts in each of which he ostends an object (a,, az, ag, etc.). Simultaneously with each ostension he utters a token of the word "shaggy." It is his intention to ostend, and to be recognized as ostending,only objects which are either, in his view, plainly hairy-coated or are, in his view, plainly not hairy-coated (4) In a model sequence these intentions are fulfilled. For a model sequence to succeed in correlating the word "shaggy" with the property of being hairy-coated, it seems necessary (and perhaps also suffi-cient) that there should be some relation R which holds between the word "shaggy" and each hairy-coated thing, y, just in case y is hairy-coated. Can such a relation R be specified? Perhaps at least in a sequence of model cases, in which U's linguistic intentions are rewarded by success, it can; the relation between the word "shaggy" and each hairy-coated object y would be the relation which holds between each plainly hairy-coated object y and the word "shaggy" and which consists in the fact that y is a thing to which U does and would apply, rather than refuse to apply, the word "shaggy." In other words in a limited universe consisting of things which in Us view are either plainly hairy-coated or plainly not hairy-coated, the relation R holds only between the word "shaggy" and each object which is for U plainly hairy-coated. This suggestion seems not without its difficulties: It looks as if we should want to distinguish between two relations R and R'; we want U to set up a relation R which holds between the word "shaggy" and each hairy-coated object; but the preceding account seems not to distinguish between this relation and a relation R' which holds between the word "shaggy" and each object which is in U's view unmistakably hairy-coated. To put it another way, how is U to distinguish between "shaggy" (which means hairy-coated) and the word "shaggy" * (which means "in Us view unmistakably hairy-coated")? If in an attempt to evade these troubles we suppose the relation R to be one which holds between the word "shaggy" and each object to which U would in certain circumstances apply the word "shaggy," how do we specify the circumstances in question? If we suggest that the circumstances are those in which U is concerned to set up an explicit correlation between the word "shaggy" and each member of an appropriate set of objects, our proposal becomes at once unrealistic and problematic. Normally correlations seem to grow rather than to be created, and attempts to connect such growth with potentialities of creation may give rise to further threats of circularity. The situation seems to be as follows: We need to be able to invoke such a resultant procedure as the following, which we will call RP12, namely to predicate B on "Fido," when U wants A to vt that Jones's dog is a D-correlate of B; and we want to be able to say that at least sometimes such a resultant procedure may result from among other things, a nonexplicit R-correlation of "Fido" and Jones's dog. It is tempting to suggest that a nonexplicit R-correlation of "Fido" and Jones's dog consists in the fact that U would, explicitly, correlate "Fido" and Jones's dog. But to say that U would explicitly correlate "Fido" and Jones's dog must be understood as an elliptical way of saying something of the form "U would explicitly correlate 'Fido' and Jones's dog, if p." How is "if p" to be specified? Perhaps as "If U were asked to give an explicit correlation for 'Fido"" But if U were actually faced with a request, he might well take it that he is being asked to make a stipulation, in the making of which he would have an entirely free hand. If he is not being asked for a stipulation, then it must be imparted to him that his explicit correlation is to satisfy some nonarbitrary condition. But what condition can this be? Again it is tempting to suggest that he is to make his explicit correlation such as to match or fit existing procedures. In application to RP12, this seems to amount to imposing on U the demand that he should make his explicit correlation such as to yield RP12. In that case, RP12 results from a nonexplicit correlation which consists in the fact that U would explicitly correlate "Fido" and Jones's dog if he wanted to make an explicit correlation which would generate relevant existing procedures, namely RP12 itself. There is an apparent circularity here. Is this tolerable? It may be tolerable inasmuch as it may be a special case of a general phenomenon which arises in connection with the explanation of linguistic practice. We can, if we are lucky, identify "linguistic rules," so called, which are such that our linguistic practice is as if we accepted these rules and consciously followed them. But we want to say that this is not just an interesting fact about our linguistic practice but also an explanation of it; and this leads us on to suppose that "in some sense," "implicitly," we do accept these rules. Now the proper interpretation of the idea that we do accept these rules becomes something of a mystery, if the "acceptance" of the rules is to be distinguished from the existence of the related practices-but it seems likea mystery which, for the time being at least, we have to swallow, while recognizing that it involves us in an as yet unsolved problem. C. Concluding Note It will hardly have escaped notice that my account of the cluster of notions connected with the term "meaning" has been studded with expressions for such intensional concepts as those of intending and believing, and my partial excursions into symbolic notation have been made partly with the idea of revealing my commitment to the legitimacy of quantifying over such items as propositions. I shall make two highly general remarks about this aspect of my procedure. First, I am not sympathetic toward any methodological policy which would restrict one from the start to an attempt to formulate a theory of meaning in extensional terms. It seems to me that one should at least start by giving oneself a free hand to make use of any intensional notions or devices which seem to be required in order to solve one's conceptual problems, at least at a certain level, in ways which (metaphysical bias apart) reason and intuition commend. If one denies oneself this freedom, one runs a serious risk of underestimating the richness and complexity of the conceptual field which one is investigating. Second, I said at one point that intensionality seems to be embedded in the very foundations of the theory of language. Even if this appearance corresponds with reality, one is not, I suspect, precluded from being, in at least one important sense, an extensionalist. The psychological concepts which, in my view, are needed for the formulation of an adequate theory of language may not be among the most primitive or fundamental psychological concepts (like those which apply not only to human beings but also to quite lowly animals), and it may be possible to derive (in some relevant sense of "derive") the intensional concepts which I have been using from more primitive extensional concepts. Any extensionalist has to deal with the problem of allowing for a transition from an extensional to a nonextensional language; and it is by no means obvious to me that intensionality can be explained only via the idea of concealed references to language and so presupposes the concepts in terms of which the use of language has to be understood. As we study the systematicity of the system, we need to be able to apply some such notion as a ‘predication’ of B adjectival – nome aggetivo on a nominal. "Smith is tactful," "Smith, be tactful," "Let Smith be tactful," and "O, that Smith may be tactful" would be required to count, each of them, as a ‘predication’ of il nome aggettivo "tactful" – educato -- on "Smith”, if you want to specify what ‘educato’ ‘signifies.’ It would be the business of some linguistic theory to set up such a sentential characterisation. Suppose we, for a moment, take for granted two species of cor-relation, a referential correlation and a denotational correlation. We want to be able to speak of some particular thing as a referential correlate of a nominal, and of each member of some class as being, extensionally,, a denotational correlate of B adjectival. Now suppose that the utterer has the following two procedures: To utter the indicative version of o if, for some addressee, the utterer wants/intends the addressee to think that the utterer thinks... -- the blank being filled by the infinitive version of o, e.g. Smith to be tactful, or Fido to be shaggy. Also, another procedure, obtained from the previous one, by substituting "imperative" "indicative" and "intend"/"think that U thinks." Such procedures set up correlations between modes and specifications of "ft." Another procedure: To utter a t-correlated (cf. P1 and P1' predication of B on a if (for some A) U wants A to d a particular R-correlate of a to be one of a particular set of D-correlates of B. Further suppose that, for the utterer, the following two correlations do hold: C1: Smith's dog is an R-correlate of "Fido." C2: Any hairy-coated THING is a D-correlate of the adjective – nome aggettivo -- "shaggy." Given that U has these initial procedures, we can infer that U has a RESULTANT procedure, determined by P1 and P2: to utter the indicative version of a predication of ß on a if U wants A to think U to think a particular R-correlate of a to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP1 and the first correlation, we can infer that U has a further resultant procedure: To utter the indicative version of a predication of B on the nome proprio "Fido" if U wants A to think U to think Smith's dog to be one of a particular set of D-correlates of B. Given RP2 and C2, we can infer that U has, now, still a further resultant procedure: To utter the indicative version of a predication of il nome aggetivo "shaggy" on il nome proprio "Fido" if U wants A to think U to think Smith's dog is one of the set of hairy-coated things -- i.e. is hairy-coated. And given the information that "Fido is shaggy" – Fidus est hirsutus -- is the indicative version of a predication of "shaggy" on "Fido,” as assumed, we can infer U to have the further resultant procedure: To utter the complete sentence now Fidus est hirsutus, "Fido is shaggy" if U wants A to think U to think the complete proloquium, as Varro has it, that Smith's – or indeed Cato’s, dog is hairy-coated. And this resultant procedure is an interpretant, as a semiotician would say, of "For the utterer U, 'Fido is shaggy' or Fidus est hirsutus ‘signifies’: Smith's dog is hairy-coated.’ Grice has at this point not yet provided an explication for a statement, report, or ascription, of timeless ‘significatio’ relating to non-complete utterance-types. Grice feels he is not really in a position to provide a definiens for the generic "X (noncomplete) ‘signifies’ ‘…’. Indeed, Grice is far from certain that a generic form of ‘definition’, or Aristotelian logos, can be provided for a schema such as that – although Plato and Aristotle played with NOMEN and RHEMA. It may well remain impossible to provide a definiens until the syntactical CATEGORY of X has been given – this is the scholastic way: NOMEN EST VOX SIGNIFICATIVA; VERBVM EST VOX SIGNIFICATIVA, NOMEN SVBSTANTIVM EST VOX SIGNIFICATIVA, NOMEN ADIECTIVVM EST VOX SIGNIFICATIVA. NOMEN PROPRIVM EST VOX SIGNIFICATIVE – and it was good that Grice never attended a GRAMMAR school! Grice can, however, provide a definiens which may be adequate for ‘il nome aggetivo,’ as Italians have it, or adjectival X -- e.g. hirsutus, or "shaggy". DEFINITIO or LOGOS: For utterer, X (adjectival – nome aggetivo) ‘signifies’ '... '" iff the Utterer U has this procedure: to utter a y-correlated predication of ‘il nome aggetivo’ X on a if (for some addressee) the utterer wants A to psi-asterisk a particular R-correlate of a to be …,’ where the two lacunae represented by dots are identically completed. Any specific procedure of the form mentioned in the definiens of this DEFINITIO can be shown to be a resultant procedure. E. g. if U has P2 and also the second correlation, it is inferable that U has the procedure of uttering a vt-correlated predication of il nome aggetivo hirsutus or "shaggy" on a if (for some A) U wants A to psi-asketerisk a particular R-correlate of a to be one of the set of hairy-coated things, i. e., that, for U, the specific nome aggetivo hirsutus or "shaggy" means ‘hairy-coated.’ – cf. Lewis/Short, hirsutus, a, um: shaggy. Grice can now offer a definition of the notion of a COMPLETE utterance TYPE which has so far been taken for granted. DEFINITIO: X is complete" iff a fully expanded definiens for "X means '...’” contains no explicit reference to correlation, other than that involved in speaking of an R-correlate of some referring expression occurring within X. The expanded definiens for the complete utterance type "He is shaggy" – Hirsutus est -- may be expected to contain the phrase "a particular R-correlate of 'he,’ and for simplificatory purposes we may either assume demonstrative for ‘he’ in Latin, or involve the conjugated form of ‘est’ to let us know it is not I, or you, or we, or ye, or indeed they the shaggy, but just HE – hirsutus, not hirsutum. We must now stop taking for granted the notion of correlation. What does it mean to say that, for example, Cato's dog is the, or a referential correlate of "Fidus"? One idea, building in as little as possible, would be to think of the NOMEN PROPRIVM "Fidus" and Cato's dog as paired, in some system of pairing in which a NOMEN PROPRIUM and a thing forms an ordered pair. But in one sense of ‘pair,’ any one NOMEN PROPRIVM and any one thing form a pair: an ordered pair, the first member of which is the NOMEN PROPRIVM, the second the thing: as Grice, Grice. We want a sense of ‘pair’ in which the specific – however generic, alas -- "Fidus" is paired with Cato's dog but not with Smith's cat. – or with Cato’s OTHER dog, should he happen to have another one."Selected pair"? But what does "selected" mean? Surely not ‘selected’ in the sense in which an apple and an orange may be selected from a dish, out of your ‘placitum’. Perhaps ‘selected’ qua adjudicated, in the sense in which one of Cato’s dogs may be selected, as something with which, or to which, the selector intends to do something – to beware of him, for example – cave Catonis canem. But in the case of the NOMEN-PROPRVM-thing pair, do what? Beware? Surely that’s too specific. And what is this process of selecting, anyway? Which its range? Grice suggests that we consider initially the special case in which a linguistic item such as a NOMEN PROPRIVM and a non-linguistic item is explicitly correlated. Let us take this to consist in performing some act, or other, as a result of which the linguistic item, the PROPER NAME – say, Frege -- and the non-linguistic item, or items – say the Freges -- come to stand in a relation in which they did not previously stand, and in which neither stands to non-correlates in the other realm. Since this act of co-relation may indeed be a verbal, or sonorous, act, how can this set up a relation between two – or more items? Think: The Freges. Suppose U produces a particular utterance (token) V, which belongs to the utterance-type "hirsutus: hairy-coated things." To be able to say that U had, by uttering V, correlated "hirsutus" with each member of the set of hairy-coated things, we should need to be able to say that there is some relation R such that: by uttering V, U effects that "hirsutus" stan in relation R to each hairy-coated thing, and only to hairy-coated things; and that utteres V in order that, by uttering V he should effect this. It is clear that this second, teleological, goal-oriented condition, on which some will look askance because it introduces a reference to U's intention – indeed with regard to an end -- in performing his act of correlation, is required, and that the first condition alone would clearly be inadequate. Certainly by uttering V, regardless of his intentions, U IS setting up a situation in which a relation R holds exclusively between "hirsutus" and each hairy-coated thing Z, scil.,the relation which consists in being an expression – to use Croce’s favoured idiom – (Grice borrowed it from Collingwood, but never returned it) -- uttered by U on a particular context of utterance or conversational occasion O in conversational juxtaposition – wtin his same conversational move, as it were -- with the name of a class to which Z belongs. But, by the same act – by exclusion or elimination, as Descartes has it, U is also setting up a situation in which another relation R' holds exclusively between "hirsutus" and each non-hairy-coated thing Z', scil., the relation which consists in being an expression uttered by U on conversational occasion O in conversational juxtaposition with the name of the complement of a class to which Z' belongs. Surely Grice does not, however, for HIS purposes, wish to think of U as having explicitly correlated "hirsutus" with each non-hairy-coated thing, such as Julius Caesar, or Ottavian. The only way to ensure that R' is eliminated is to add the further condition, which confines attention to a relationship which U intends to set up. It looks as if intensionality – or intentionality (Urmson had Grice doubt about the spellings here) is embedded in the very foundations of the theory of language. Let us, then, express more formally the proposed account of a co-relation. Suppose that V= utterance-token of type ""hirsutus': hairy-coated things" (inscribed, as T. Fjeld would have it). Then, by uttering V, U has correlated "shaggy" with (and only with) each hairy-coated thing=(R) {(U effected by V that [Vx] [R "shaggy" x=*Ey (y is a hairy-coated thing)]) and (U uttered V in order that U effect by V that [Vx]... )}.' If so understood, U will have correlated "shaggy" with hairy- [The definiens suggested for explicit correlation is, I think, insufficient as it stands. I would not wish to say that if A deliberately detaches B from a party, he has thereby correlated himself with B, nor that a lecturer who ensures that just one blackboard is visible to each member of his audience (and to no one else) has thereby explicitly correlated the blackboard with each member of the audience, even though in each case the analogue of the suggested definiens is satisfied. To have explicitly co-related X with each member of a set K, not only must I have intentionally effected that a particular relation R holds between X and all those, and only those, items which belong to K, but also my purpose or end in setting up this relationship must have been to perform some sort of Austinian baptismal act as a result of which there will be some relation, or other, which holds between X and all those, and only those, things which belong to K. To the definiens, then, we should add, within the scope of the initial quantifier, the clause: "& U's purpose in effecting that Vx (.....) is that (BR') (Vz) (R' "hirsutus' z=zEy (y is hairy-coated)).] coated things only if there is an identifiable R' for which the condition specified in the definiens holds. What is such an R'? Grice suggests: R' xy=x is a (word) type such that V is a sequence consisting of a token of x, followed by a colon, followed by an expression ("hairy-coated things") the R-correlate of which is a set of which y is a member. R'xy holds between "hirsutus" and each hairy-coated thing, given U's utterance of V. Any utterance V' of the form exemplified by V could be uttered to set up R"xy, involving V' instead of V, between any expression – again Croce’s term, borrowed by Grice from Collingwood -- and each member of any set of non-linguistic items. There are, of course, other more complicated ways of achieving the same effect, as you will expect. The purpose of making the utterance can be specified in the utterance: V = utterance of "To effect that, for some R, 'hirsutus' has R only to each hairy-coated thing, 'hirsutus': hairy-coated things." The expression of the specified R will now have "V is a sequence containing" instead of "V is a sequence consisting of ...”. Or U can use the performative – as Scots law goes, ‘operational’ -- form: "I hereby,” with the proper Roman attitude, “co-relate 'hirsutus' with each hairy-coated thing." Utterance of this form displaying such Roman gravitas, will at the same time fit Plato’s and Varro’s description of the first IMPOSTORS of name – and set up the required relation, AND label itself as being uttered with the purpose of setting up such a relation. But by whichever form an act of explicit correlation is effected – Romulus allegedly rejected them all! --, to say of it that it is (or is intended to be) an act of co-relation is, or has to be, always to make an indefinite reference to a relationship which the act is intended to set up, and the specification of the relation involved in turn always involves a further use of the notion of co-relation -- e.g. in speaking of a set which is the referential correlate of a particular expression [e.g. "Hairy-coated things"]). This seems to, but does not, involve a regress which might well be objectionable; though "co-relation" is not blatantly used in definition of ‘correlation,’ ‘co-relation’ is used in the specification of an indefinite reference occurring in the definition of correlation. It might be considered desirable -- why, even necessary -- to find a way of stop ping this regress at some stage. Is this, one pupil asked me, a characteristically empiricist demand? If we do not stop it, can correlation even get started -- if prior co-relation is presupposed, that is? Let us try ‘ostensive’ correlation and play the Witters! In an attempted ostensive correlation of the word NOME ADIECTIVM "hirsutus" with the property of hairy-coatedness: U will perform a number of acts in each of which he ostends an object (a,, az, ag, etc.). Simultaneously, with each ostension, he, say Brutus, utters a token of the word "hirsutus." It is Brutus’s intention to ostend, and to be recognised as ostending, only things – or parts of things (a body part, say), which are either, in his view, plainly hairy-coated or are, in his view, plainly not hairy-coated – or smooth. – an smooth man, say. In a model sequence, these intentions ny Brutus, are fulfilled. For a model sequence to succeed in co-relating the word NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" with the property of being hairy-coated, it seems necessary, but fortunately also sufficient, that there should be some relation R which holds between the word NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" and each hairy-coated thing, y, just in case y – say, Cato’s dog -- is hairy-coated. Can such a relation R be specified? Varro certainly thought it could. Grice: “I’m not so sure myself – as Varro was.” Perhaps at least in a sequence of model cases, in which U's intention is rewarded by success, it can, and the relation between the word NOMEN ADIECTIVM "hirsutus" and each hairy-coated thing y would be the relation which holds between each plainly hairy-coated object y and the word "shaggy" and which consists in the fact that y is a thing to which U does and would apply, rather than refuse to apply, the word "shaggy." In other words in a limited universe consisting of things which in Us view are either plainly hairy-coated or plainly not hairy-coated, the relation R holds only between the word "shaggy" and each object which is for U plainly hairy-coated. This suggestion seems not without its difficulties: It looks as if we should want to distinguish between two relations R and R'; we want U to set up a relation R which holds between the word "shaggy" and each hairy-coated object; but the preceding account seems not to distinguish between this relation and a relation R' which holds between the word "shaggy" and each thing which is, in Brutus’'s view unmistakably hairy-coated – and provided he has learned the correct ‘signification’ of the adjective – from his mother, most likely. To put it another way, how is Brutus, our utterer, to distinguish between "hirsutus,” which ‘signifies,’ of coarse, or course, hairy-coated, and the word "hirsutus" * -- hirsutus with a twist, which now ‘signifies’ "in Us view of things, unmistakably hairy-coated"? If Cicero, in an attempt to evade these troubles, supposes the relation R to be one which holds between the word NOMEN ADIECTIVVM "hirsutus” and each thing to which Brutus (our utterer) would, in this or that conversational circumstance, apply the word "hirsutus," how do we specify these conversational circumstances in question? If we suggest, as Cicero does – in his long letter to Atticus -- that the conversational circumstances are those in which U – Brutus, that is -- is concerned to set up an explicit co-relation between the word NOMEN ADIECTIVVM "hirsutus" and each member of an appropriate set of things, Grice’s proposal becomes at once, unrealistic for a non-Oxonian, and problematic for the rest of the world! Normally, Grice would expectd, a co-relation seems to grow rather than to be created. An attempt to connect such a growth with potentialities of creation may give rise to further threats of circularity, especially for or to the Practical Roman. The situation seems to be, however, and as far as Oxford is concerned, as follows. Grice desperately (to put it mildly, but kindly – ‘despeartely’ is always an understatement at Oxford) needs to be able to invoke such a resultant procedure as the following, namely to predicate B on "Fidus," when U wants A to vt that Cato's dog is a denotational correlate of B; and we want to be able to say that, at least sometimes, such a resultant procedure may result from, among other things, a non-explicit REFERENTIAL now co-relation of "Fidus" and Cato's dog. It is tempting to suggest that a non-explicit referential co-relation of "Fidus" and Cato's dog consists in the fact that Brutus would, explicitly, correlate "Fidus" and Cato's dog. But to say that Brutus would explicitly correlate "Fidus" and Cato's dog must be understood as an elliptical or pleonastic or periphrastic way of saying something of the form "U – Brutus, that is -- would explicitly correlate 'Fidus' and Cato’s dog, if, conversationally, p." How is "if p" to be specified? Perhaps as "if U were asked to give an explicit correlation for 'Fidus"" But if he were actually faced with a request, Brutus might well take it that he is being asked to make a stipulation, in the making of which he would have an entirely free hand. But if Brutus is not being asked for an arbitrary stipulation, it must be imparted to him that his explicit correlation shall have to satisfy some NON-arbitrary, or ‘natural,’ as Cicero prefers, condition. But what condition can this be? Cicero does not say. Again, it is tempting to suggest that Brutus is to make his explicit co-relation such as to match or fit some existing procedure. “If there’s something us Romas are, is traditional,” Varro is alleged to have said. In application to our resultant procedure, this seems to amount to imposing on Brutus the demand that he should make his explicit correlation such as to yield such resultant procedure. In that case, the resultant procedure in fact ‘results’ from a non-explicit co-relation which consists in the fact that Brutus – or any other utterer inAncient Rome, would explicitly correlate "Fidus" and Cato's dog if he wanted to make an explicit correlation which would generate some relevant existing procedure, namely the resultant procedure in question itself. There seems to be a slight circularity here. Is this tolerable? Grice does tolerate it, and we cannot think why you should not! It may be tolerable, Grice explains, in tutorial tones, inasmuch as it may be a special case of a general phenomenon which arises in connection with the explanation of linguistic practice, ‘or conversation, as I prefer.’ We can, if we are lucky or fortunate, identify this or that "linguistic rule," -- so called, -- Grice is reminded of O. P. Wood, “The Force of Linguistic Rules” – The Aristotelian Society --, even analytic Meaning or ‘signification’ postulate alla Carnap, to please Roger Bishop Jones, which is such that our linguistic conversational practice is as if we accepted these rules and more or less consciously – or at least not totally unconsciously, pace Chomsky -- followed them. But we want to say that this is not just an interesting fact about our linguistic conversational practice, but also an explanation – it provides explanatory adequacy, as some pompously put it -- of it; and this leads us on to suppose that "in some sense," "implicitly," we do accept these rules. Think: Kripkenstein! Now the proper interpretation of the idea that we do accept these rules becomes something of a mystery, if the "acceptance" of the rules is to be distinguished from the existence of the related conversational practices -- but it seems like a mystery which, for the time being at least, we shall have to swallow, while recognising that it involves us in an as yet unsolved problem. In any case, it will hardly have escaped notice by now that Grice’s account of the cluster of notions connected with the term "significatio" has been studded with expressions for such intensional concepts as those of intending and believing, and Grivce’s partial amusing, care-free, VERY Oxonian, and leisurely, excursions into strange symbolic notation and expression – “blame it on Oxford!” -- have been made partly with the idea of revealing Grive’s commitment to the legitimacy of quantifying over such items as propositions. Grice goes on tomake two highly general remarks about this aspect of his procedure. First, he is hardly sympathetic toward any methodological policy which would restrict one from the start to an attempt to formulate a theory or analysis – to appease Mrs. Jack -- of ‘signification’ in purely extensional set-theoretical, dully Boolean terms. It seems to Grice that one should at least start by giving oneself a free hand to make use of any intensional notion or devices which you please, and that seem to be required in order to solve one's conceptual problems, at least at a certain level, in ways which, your ugly metaphysical bias apart, reason and intuition commend. If one denies oneself this freedom, one runs a serious risk of underestimating the richness and complexity of the conceptual field which one is investigating – “and my pupils, don’t WANT that!” – “Recall that only the poor learn at Oxford.” Second, Grice said at one point that intensionality seems to be embedded in the very foundations of the theory of language. Even if this appearance corresponds with reality, one is not, Grice suspects, precluded from being, in at least one important sense, an extensionalist – such an ugly word, even when applied to Boole!The psychological concepts which, in Grice’s view, are needed for the formulation of an adequate theory of language, conversation, ‘significatio,’ or what have you, may not be among the most primitive or fundamental psychological concepts (like those which apply not only to human beings but also to some quite lowly animals – such as The Amoeba – as genial Ian Dengler would remind us!), and it may be possible to derive (in some relevant sense of "derive") this or that intensional concept which Grice used in his tutorials from more primitive extensional concepts. Any extensionalist has to deal with the problem of allowing for a transition from an extensional to a non-extensional language; and it is by no means obvious Grice that intensionality can be explained only via the idea, “as Occam sadly thought, to the disgrace of Oxford!” -- of concealed references to language – O ccam’s sermo mentalis -- and so presupposes the concepts in terms of which the use of language has to be understood! E in questo si trovano d'accordo senza fatica, perchè segueno tutti una medesima guida, l'uso – Grice: “Ryle distinguished between use and usage. I don’t!” -- : sfido a prenderne un’altra per comporre delle grammatiche positive. Anche quel novo e artifizioso edilìzio filosofico che è la GRAMMATICA SPECULATIVA di Scoto, è fondato sull’autorità sottintesa e costrutto sul metodo arbitrario d’un grammatico. E l’arbitrio è proseguito da VALLA (si veda) a BUONMATTEI (si veda). Novo e notabile /w in questo l'assunto de’due celebri filosofi galli, che lo fondarono su questo principio. La maggior distinzione di ciò che accade nel nostro spirito è che ci si può considerare e l'oggetto del nostro pensiero, e la forma o la maniera del pensiero medesimom che, applicato al linguaggio, li conduce alla deduzione che, avendo gl’uomini BISOGNO DI SEGNI o INDICI per INDICAR ciò che accade nel loro spirito, la distinzione più generale de’vocaboli dev’essere che gli uni SIGNIFICANO gli oggetti o CONTENUTI de’pensieri, e gl’altri la FORMA, o il modo de’pensieri medesimi. Qui MANZONI (si veda) trova acutamente che una supposizione è stata sostituita da una ricerca. Mentre i fondamenti dell'arte di PARLARE o CONVERSARE dovevano esser cercati altrove che in una distinzione de' vocabili in due categorie. Ciò che da origine a tutte le arbitrarietà della grammatica generale. Ed è una storia lunga e superflua quella di tant’altre questioni dello stesso genere [di quella della pre-posizione non pre-posizione o participio non participio Excepté]; vai a dire se tali o tali altri vocaboli s’hanno a collocare tra gl’avverbi, o tra le pr-eposizioni, o tre le congiunzioni, o tra’nomi, o tra’pro-nomi, o tra’verbi o tra pro-verbi. Questioni non mai sciolte, e, MANZONI osa dire, insolubili, perchè con esse si cerca ne’vocaboli una qualità supposta arbitrariamente, qual'è l'attitudine esclusiva a fare un ufizio grammaticale – cf. Grice on Gellner on Words and Things. Quindi ognuna delle parti puo avere una ragione; nessuna puo aver ragione. Dalla qual conclusione è facile concludere che MANZONI (si veda) colpe a morte la grammatica generale, ma non la grammatica simpliciter. Come tesi pratica, lungi dall’esser una reazione e opposizione al purismo trionfante di CESARI (si veda) come quello che offre un'unità linguistica da seguire di contro alla nuova barbarie del gallicismo e alla babele della LINGUA UNIVERSALE, la teoria di MANZONI (si veda) ne è, non dico la continuazione, ma una trasformazione – cf. la grammatica trasformata – rivoluzione. Il purismo afferma i diritti della lingua letteraria e dei filosofi posteriori che la mantenno viva, ossia dell'unità fiorentina quale si è stabilita. MANZONI (si veda) afferma i diritti dell'unità fiorentina viva e PARLATA in quanto, non discordando da quel tanto di fiorentino ch’è rimasto vivo e ch’è perciò adoperabile e rappresenta il nucleo che gl'italiani hanno in comune, puo essere comunicata a tutti e bastare ai bisogni di tutti, cioè diventare con la maggior facilità e precisione la lingua comune, universale della letteratura e perciò dell’Italia. Su MANZONI (si veda) grammatico, seguendo l’opere inedite o rare da noi esaminate, scrive una memoria ZOPPI (citato da VAILATI) nella Miscellanea per le Nozze Biadego- Bernardinelli, Verona. Il che viene a concordanza con quanto osserva BORGESE (si veda) circa le relazioni tra il purismo classico e il romanticismo. I classicisti puristi hanno quasi troncato tutte le dispute sulla natura storica della nostra lingua, stabilendo ch'ella doves modellarsi sulla toscana, o meglio, sulla fiorentina; se non che, per la medesima ragione che la poesia esprime sentimenti, passioni, opinioni di tempi [Le opposizioni di genere teorico non possono mancare alla tesi di MANZONI (si veda), e non mancarono, come non mancarono le calorose difese. Intervenno nella disputa anche filologi e glottologi, con gl’argomenti a favore e contro che la grammatica storica puo loro offrire. Ma dubitiamo che la partecipazione di non filosofi al dibattito è stato il deus ex machina che è riuscito a risolverlo. Poiché, se i non filosofi possono ben chiarire col metodo positivo come è sorta e si è sviluppata la lingua italiana intesa come evoluzione, non è vero che con questo chiarano ancora che cosa una lingua effettivamente è. Il problema non è filologico. È FILOSOFICO. E noi sappiamo con che LA FILOSOFIA identifica la lingua – il deutero-Esperanto di Grice. Nel fatto invece il problema di MANZONI (si veda) in quanto ha di pratico è risoluto nel senso da lui voluto. Che cosa vuole MANZONI (si veda)? Quello che ottenne, e che dirò con parole di SANCTIS (si veda), di uno cioè che non prende e non puo prender parte a una controversia che non ha per lui alcuna portata né critica né FILOSOFICA. MANZONI (si veda) rinnova la forma, rendendola popolare, perchè combatte a morte la forma convenzionale. Distrugge l'atmosfera classica. Vince la rettorica, producendo una forma semplice, vera, reale, forma cercata nelle viscere stesse del popolo, forma ingentilita con tali colori accessibili al popolo. Su questo nuovo fatto, che non è naturalmente tutt' opera di MANZONI (si veda) e de’suoi valorosi seguaci (son troppi per citarli tutti, ma qui è doveroso ricordare BONGHI (si veda), MORANDI (si veda), e, benché sia manzoniano temperato, OVIDIO (si veda)), sorge la nuova grammatica italiana oggi adottata nelle scuole, cioè la gram[andati, parla anche colle parole morte, quasi è LATINA. I romantici mostrano che, se la poesia vuole imitare il vero, per vero deve intendere quello a cui noi crediamo, e che, se ha da parlare ai contemporanei e non ai defunti, deve usar di quelle parole che possono intendersi anche dai non dotti. Sulla dibattuta questione è pubblicato perfino uno speciale periodico, “L'unità della lingua,” per cura di FANFANI (si veda), GELLI (si veda) e VESCOVI (si veda). Firenze.A titolod'onore dobbiamo qui registrare il proemio d’Ascoli nell’Archivio glottologico, che degnamente combattuto dagl’avversari, solle la controversia alla maggiore elevatezza di discussione possibile. In Vivaldi] matica dell'uso, o della lingua parlata e dell'uso vivo, di cui avemmo tipi invero in qualche parte diversi. Il che chiarendo avremo assolto anche il compito che qui ci è riservato, di dar conto complessivamente di un gruppo di grammatiche, troppo numerose per essere singolarmente esaminate, e troppo uniformi non solo nel principio che lor serve di base ma anche nella configurazione loro, non gran che, s’aggiunga, differente da quella che ha la grammatica del purismo, per meritare un'analisi minuta del loro speciale contenuto, considerato sopratutto che non scaturendo esse, come invece avvenne dal bisogno di rendersi conto della letteratura bisogno che assume aspetto di PROBLEMA FILOSOFICO né connettendosi, come si avverò, agli sforzi compiuti dai filosofi del linguaggio per intenderne la natura e insieme le tradizionali categorie, ma solo rappresentando un indirizzo pratico, come quelle del purismo di CESARI (si veda), vengono a perdere individualmente gran parte del loro interesse in una storia come la di T. Trascurando non senza ragione gl’ultimi epigoni della grammatica del purismo, non esclusi quelli che sotto veste di novità in sostanza esponeno la medesima materia [Melgaj, e tacendo anche per amor di brevità di trattazioni particolari, che per certi rispetti si ricongiungono alla grammatica storica (CAMPO (si veda), Regole pella pronunzia italiana, e per altri che vertono più specialmente sulla SINTASSI tradizionale (Bulgarini e Castagnola, LA STRUTTURA DEL PERIODO – “We studied ‘Syntactic Structure’ with Austin!” – Grice --, e delle solite disquisizioni sullo studio o sull’importanza o SULLA PORTATA FILOSOFICA della grammatica generalmente prive di senso scientifico, noteremo che, se ben presto, dopo cessate completamente le polemiche rinnovatesi più vivacemente coll’elazione di MANZONI (si veda) e quando ormai i fatti cominciano a parlar da sé sorgeno e pullulano le grammatiche del principio dell'uso [cf. Little Oxford Dictionary, Fowler – Grice], invero quella ch’applica rigorosamente, cioè nel suo preteso esclusivismo m’in tutta la sua larghezza e in tutte le sue contemperanze, il concetto fondamentale di MANZONI (si veda), usce Trapani. Torino] relativamente tardi, e precisamente: ed è la Grammatica italiana diMORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda), non essendoci lecito dubitare, anche se non ce ne siamo convinti col nostro studio, di quanto essi affermano nell’introduzione. Più di ventanni fa, uno di noi [MORANDI (si veda), in saggi incorporati in Le correzioni ai Pr. Sp. ], sostene come fosse ormai tempo di rinnovare la grammatica italiana sul concetto fondamentale di MANZONI (si veda): concetto che l’indagini e gli studi filologici hanno sempre meglio illustrato e confermato. Ma questo voto rimane quasi del tutto inesaudito, come puo vedere chiunque confronti accuratamente il nostro lavoro colle grammatiche che si pubblicarono d’allora ad oggi. Cf. la Grammatica italiana dell'uso moderno di FORNACIARI (si veda) e la Grammatica italiana di ZAMBALDI (si veda), la Grammatica della lingua parlata cogl’esempi cavati da MANZONI (si veda) di BONI (si veda), la Grammatica della lingua italiana di PETROCCHI. Son tutte pregevoli, come garantiscono i nomi degl’autori chiari e autorevoli quanto benemeriti e infaticabili cultori del nostro idioma. Ma il principio dell'uso v'è stato applicato diremo così un po'all'ingrosso, con maggior simpatia verso l'uso letterario in quelle di FORNACIARI (si veda) e ZAMBALDI (si veda), con più libertà -- cf. Grice contro Macaulay -- manzoniana, dirò così, nelle altre due. Scendere a particolari qui non possiamo, né ne mette il conto. È un giudizio che i lettori ci possono menar buono anche senza prove, purché pensino ai nomi di codesti autori e alla diffusione che l’opere loro hanno ancora nelle scuole. Il nome di ZAMBALDI (si veda) e più ancora di FORNACIARI assicurano, per es., d’un certo freno, quasi d’una remora prudente e ragionevole alla scapestrataggine grammaticale. Infatti le loro grammatiche si ristampano coi dovuti miglioramenti anche oggi, e sono meglio accette ai maestri che vogliono sì l'uso ma colle debite cautele e restrizioni: gente che ha naturalmente molta fede nella grammatica come ausiliatrice della rettorica pegl’effetti del corretto e bello scrivere degl’alunni. Invece interamente manzoniana nel senso largo ch’abbiamo determinato, ma non ESCLUSIVAMENTE MANZONIANA, perchè vi si tien conto nella fonetica dei più notevoli e certi resultati della gram- [Parma] matica storica, è quella di MORANDI (si veda) e CAPPUCCINI (si veda). I quali l'hanno caratterizzata meglio di quel che potremmo far noi. Posto come norma fondamentale l'uso civile fiorentino, senza punto occultarne, m’anzi mettendone in rilievo i rari e leggieri dissensi coll'uso vivo generale italiano, noi facciamo poi largo luogo anche all'uso letterario, distinguendo il comune od ORDINARIO (Grice on Austin on Donne on Nowell-Smith) del poetico, o dell'antiquato, o dal pedantesco – Grice on Austin against VOLITION --, ecc., e notando spesso ciò che di quest'uso sopravvive tuttora nel volgare, ossia plebeo – cf. Grice the lay --, di Firenze, o ne’vari dialetti. Sicché, quella parte storica della lingua, che anche quando è addirittura morta, può alle volte essere ri-adoperata nello stile poetico, ovvero per ironia – “Methinks the lady doth protest too much” --, o per ischerzo, o per altro, qui non solo non manca, ma ce n'è di più che in molte altre grammatiche, colla differenza però che ci si trova nettamente distinta. E a proposito di lingua, dobbiamo pur dire che dell'usata e usabile abbiam procurato, negl’esempi e nel resto, di darne colla maggiore possibile varietà e ricchezza, senza però invadere il campo proprio del vocabolario, se non quando i vocabolari sono discordi tra loro, o addirittura in errore. Se spesso poi, specialmente rispetto all'uso vivo, noi ricorriamo ai forse, ai più o meno, ai d’ordinario, e simili, anche di questo la colpa non è nostra. Gli è che noi non vogliamo dar per certo ciò che è dubbio, ne sostituire il nostro gusto alla realtà de’fatti. E i fatti, in ogni lingua viva, son di tre specie: ben determinati, e di questi noi diamo regole fisse; che si vanno determinando (“pirot”), e qui noi diciamo la tendenza, il più comune; ancora incerti, e noi notiamo l'incertezza (il deutero-Esperanto di Grice). Non vi par questa una pagina sinteticamente illustrativa della dottrina di MANZONI (si veda) nella sua parte più essenziale e praticamente attuabile? e, nel tempo stesso, non vedete qui disegnato l'ideale della grammatica NORMATIVA? della grammatica che, conscia del suo modesto compito, vi spiana la via all'apprendimento della lingua che vi occorre o vi può occorrere senza mettervi né la catena a’piedi né le manette? La grammatica MORANDI (si veda)-CAPPUCCINI (si veda) chiude l'ultimo momento storico dello svolgimento di questo prodotto di cui siam venuti descrivendo le vicende, riflettendo in sé esattamente l'ambiente linguistico in cui si matura. Delle moltissime altre che le si sono succedute colla rapidità e frequenza onde l’imitazioni sogliono accompagnare l'opera originale, è superfluo qui spender parole, anche se in qualcuna d’esse avessimo da segnalare particolari espedienti didattici, non essendo stato l’assunto di T. il far la storia dell’istituzioni scolastiche e dei metodi d' insegnamento. Ma lasceremmo una lacuna, se non facessimo un cenno dello sviluppo della grammatica storica, non perchè l'argomento rientri nel nostro tema, specie quando si consideri che la grammatica storica si svolge in quest'ultimo suo veramente glorioso periodo affatto indipendentemente, come il suo metodo e i suoi intenti esigeno, dalla MERA GRAMMATICA NORMATIVA il che non accadde, p. es., quando il problema appare unico e intimamente connesso con quello della rifiorita letteratura nazionale ma perchè la grammatica storica s' immischia nelle discussioni intorno alla lingua, o meglio alla tesi di MANZONI (si veda) e, fuori di queste relazioni, vuole esser rappresentata non senza ragione nell’antica sezione della pronunzia e dell'ortografia, costituendovi un riassunto dei principali accertamenti della fonologia. BIANCHI (si veda) in quella sua lodata “STORIA DELLA PRE-POSIZIONE A E DE’SUOI COMPOSTI NELLA LINGUA ITALIANA” dichiara d'essersi giovato di NANNUCCI (si veda), che da noi segna il passaggio dell'antica alla nuova scuola, e che ancora egli stima assai più di certi arrembati, i quali montati a cavalluccio sopra i Bopp, i Grimm e i Diez, si danno il facile vanto di far passar da ciuchi tutti i loro predecessori. Prima ancora di NANNUCCI (si veda), non manca un certo interesse per lo studio storico della lingua. CIAMPI (si veda) nel suo DE VSTE LINGUAE ITALICAE SALTEM ripiglia la vecchia tesi di BRUNI (si veda) e CITTADINI (si veda) con molta dottrina ed erudizione, ma così, mi pare, peggiorandola. LINGVAM ITALICAM extitisse APVD VETVS ITALVM VVLGVS, in multo ante, nec equidem repugnabo, saltem a saeculo R. S. Quinto. Eamque ortam non tantum ab RELIQVIS LATINAE linguae cultioris, sed AB VNIVERSIS VETVSTISSIMIS ITALICIS DIALECTIS, dein, varie, variis [Una grammatica italiana a cui sottostà la coscienza della sua INCONSITENZA FILOSOFICA e che cerca d’attenuare i danni dell'eccessivo schematismo tradizionale è quella di RADICE (si veda), seguace dell'Estetica del Croce, Catania] temporibus, adauctam latino maxime, et graeco sermone: tum edam quibusdam externorum vocibus. Post saeculum vero R. S. alterimi supra decimum, e triviis in aedes hominum elegantiorum successiti hinc et ad normam, libellumque redacta, scriptorum statu et praeceptis grammatices polita est. È il tono degl’eruditi, MURATORI (si veda), TIRABOSCHI (si veda), MAFFEI (si veda), del quale infatti Ciampi ri-pubblica Y ITALICA ehtaibratio hi idem argumentum, riassumendo e criticando tutt'e tre i nominati, che, nello sfogliare le cartapecore antiche, vedendo tante voci e modi della nostra lingua adoperati in tempi ne’quali si crede non sono mai sonati sulle bocche de’parlanti, sono stati condotti a veder chiaro nel problema lasciato insoluto dai precedenti trattatisti: il primo riferisco CIAMPI (si veda), s'intende, conclude che la lingua italiana è derivata dalle rovine del latino, e che è parlata dal volgo; il secondo ridotto l'antichità dell'origine al periodo longobardico e riconnessala alle genti barbare più ch’alle latine; il terzo negato ogni straniera e particolarmente tedesca derivazione, mettendosi così sulla buona via di dimostrarla in tutto d'origine latina sebbene con molte alterazioni della lingua dotta. Anche questa di CIAMPI (si veda) è un'esercitazione erudita, sebbene scende a particolari de usu verborum quæ vocant auxiliaria e di voci e costrutti volgari rintracciati nel latino antico e di vocaboli derivati dal greco. Né puo far fare un passo al vecchio problema. Ma intanto lo mantiene vivo ed è già un progresso e lascia visibile l'orizzonte verso cui avrebbero i posteri spinto così profondamente lo sguardo. Anche MANNO (si veda) col suo fortunato saggio, “Della fortuna delle parole” contribuisce a tener vivo l’interesse per gli studi storici intorno alla lingua; e le stesse polemiche destate dalla proposta e particolarmente le dissertazioni di PERTICARI (si veda) e de’suoi contradittori non possono non considerarsi, con tutti i loro errori e traviamenti più o meno spontanei, non possono non considerarsi almeno come caratteristici episodi nella storia della grammatica storica. Tra le ricerche d'indole storica, si ricora TOSELLI (si veda), ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA, BOLOGNA; BIONDELLI (si veda), ORIGINE E SVILUPPO DELLA LINGUA ITALIANA, Milano; SICHER (si veda), ELEMENTI E STATI DELLA LINGUA ITALIANA, Trento.] La quale si mise finalmente sulla strada regia dell'indagine metodica storico-comparativa, quando, cessate le vane logomachie, le ricerche complessive che si contentano di raggiungere un'idea approssimativa delle parentele delle lingue e del loro stato in determinati periodi storici, pone sulla pietra anatomica il vario materiale linguistico dei gruppi affini mono-genetici criticamente vagliato, e, coi potenti aiuti della comparazione e delle leggi dell'analogia e de’suoni, puo stabilire con matematica sicurezza le derivazioni dell’ITALIANO e delle lingue romanze dal LATINO popolare, fissarne le fasi e le condizioni e costituirsi così in corpo organico di dottrina capace d’ulteriori modificazioni ne’suoi aspetti particolari, ma stabilmente fondato su basi incrollabili, s’intende nel senso che diamo noi a queste parole. Ricordare i nomi e le date più notevoli di questo serio e fecondo lavorìo che rappresenta uno de’caratteri più spiccati e più seri dell'erudizione ci è molto facile. Ci è permesso solo accennare qui che, di fronte ai celebri nomi dei fondatori della scienza positiva della lingua e della grammatica storica particolarmente ROMANZA, Bopp, Diez, e degl’ammirati maestri che ci danno la grammatica storica della lingua d’Italia, Meyer-Lùbke, e alle loro importanti riviste e enciclopedie, Romania, Zeitschrift, Grundriss, ecc., l'Italia può vantare una schiera di valorosi filologi, dai compianti CAIX (si veda), CANELLO (si veda) e MUSSAFIA (si veda) a RAJNA (si veda), Crescini, Parodi, Gorra, Salvioni, Lollis, Biadene, Goidanich, Zingarelli, Lopez, Bartholomaeis, Bertoni, a molti altri, a Renier e Novati, benemeriti della filologia anche pel Giornale storico, ad OVIDIO (si veda), sempre ricercato anche dai colleghi d'Oltralpe a collaborare in libri e periodici, a Teza, cui, come dice un nostro poderoso glottologo, Ceci, nessun territorio linguistico è sconosciuto, a Monaci che fonda riviste che gareggiano felicemente colle straniere migliori e ora è anima d'una fiorentissima e attivissima società filologica, stretti già quasi tutti intorno ad Ascoli, il glorioso fondatore dell’archivio glottologico. Tra i divulgatori della grammatica storica dell’italiano sono degni tra noi di menzione Fornaciari e Mattio, che sono preceduti fuori da Blanc, la cui “Gratnmatik der italienischen Sprachen” ha ancora un certo valore pella dottrina delle forme. Se la grammatica generale, non mai del tutto rassegnata a morire, giacque sotto i colpi e i sarcasmi della scienza della lingua, non mancarono tra noi tentativi d’una FILOSOFIA della GRAMMATICA – ragionata e razionale, ovviamente --, e notevole è quellodi ZOPPI (citato da VAILATI), un rosminiano -- ROSMINI (si veda) -- acuto quanto dotto e diligente e anche garbato espositore. Il quale crede appunto di costruire una scienza della grammatica col connubio della grammatica generale e della scienza positiva del linguaggio, inconsapevolmente ese- [T. ricorda il saggio di Starck, Grammar and Language, Boston, fondato sulla credenza che almeno i tre gruppi attuali e più importanti delle lingue indo-europee sono retti da comuni principi generali; e i numerosi saggi di Grasserie e particolarmente “L’Essai de syntaxe generale,” Louvain, che parimenti a T. sembrano ispirarsi alla medesima fede nelle leggi generali. Per curiosità T. ricorda anche una ristampa della grammatica ragionata di COMPAGNONI (si veda), “Grammatica scientifica, ossia la teoria della lingua italiana secondo i principi naturali del linguaggio,” Milano, e Bert, “Grammaire rationelle et pratique de la langue italienne,” Paris. Inoltre: DONATELLI (si veda), Appunti di logica e grammatica, Venezia; Fink, Logisches und Grammatisches, Progr., Ploen; Peine, Notes sur l’analyse grammaticale et logique, Montemorency, Societé amicale des proff. elèni, de Paris et de départ., Breve contributo agli studi logico-sintattici, e nel testo, modesto contributo a una SINTASSI filosofica della meravigliosa lingua di quel popolo,il greco, a cui nessuna intuizione manca, è il sottotitolo della citata memoria sulla teoria kantiana del giudizio già intuita e fissata nella sintassi de’greci di PIAZZA (si veda), il quale T. non sa quanto si è confortato a proseguire nell’ardua impresa dalla recensione parimente citata che gliene fa CROCE (si veda). II vero fondatore della scienza del linguaggio intesa in senso IDEALISTICO è Humboldt, e sotto i colpi de’principi di questa cade effettivamente la grammatica generale. Ma si sa che il punto di vista humboldtiano è spesso smarrito dagl’indagatori della parola col metodo positivo: e questi non sappiamo quanto possano aver da ridire sulla grammatica generale, che in fondo è un tentativo di filosofia del linguaggio. T. dice qui per chiarezza positiva in ordine a quanto osservo nella nota precedente. Perchè la pubblicazione del frammento di MANZONI (si veda) è posteriore al suo tentativo che risale agli anni quando ne’quali lo pubblica nella Rivista La Sapienza.] guendo un disegno abbozzato già dal Manzoni stesso. Il miglior mezzo di farle cessare [le controversie sulla distribuzione delle parole nell’arbitrarie classi grammaticali] è una GRAMMATICA veramente FILOSOFICA, dice MANZONI (si veda), la quale, in vece di supporre nel fatto della lingua una simmetria arbitraria, cerca nella natura dell'oggetto della mente o anima – PSICOLOGIA RAZIONALE --, e nella condizione imperfetta e necessariamente limitata della lingua, la spiegazione del fatto qual’è, vale a dire di quella molteplice attitudine di diversi vocaboli. Il campo della quale ricerca deve naturalmente essersi allargato colla cognizione più diffusa e più intima di lingue altre volte o ignorate in Europa, o studiate da pochissimi, e con intenti più pratici che FILOSOFICI. Si veda, per un  esempio, ciò che dice d’una di queste il celebre sinologo Rémusat. Molti vocaboli chinesi possono essere adoperati successivamente come sostantivi, come aggettivi, come verbi, e qualche volta anche come particelle. La FILOSOFIA della grammatica, dice ZOPPI (si veda), diversamente dalla grammatica generale, che pretende che certe forme o espedienti grammaticali sono cosi necessari ed inerenti a certe specie di vocaboli da costituire una teorica grammaticale assoluta, a cui devono conformarsi ogni lingua, confrontando i risultati della FILOSOFIA colle leggi psicologiche del pensiero, cerca l’origini, studia, ed espone il PERCHE di quelle forme grammaticali  che  si  trovano DI FATTO diversamente  svolte  ed  attuate nelle  diverse  lingue.  Essa  per  una  parte  è  l'applicazione della filosofia e la logica alla lingua, ed è quindi per questo rispetto scienza cocettuale analitica A PRIORI. Ma  dall'altra è  fondata sulla più diligente e minuta osservazione  -- “linguistic botany” – Grice -- dei fatti che nelle sue molteplici varietà presenta il linguaggio, ed è perciò anche scienza induttiva ed A POSTERIORI (“I don’t give a hoot what the dictionary said” – Grice to Austin). Laonde, la  filosofia  della  grammatica dev’essere il frutto dell’accordo di questi due metodi. La sola logica o l’analisi filosofico concettuale a priori in effetto ci da delle generalità forse per alcuni troppo astratte e spesso apparentemente contradette dai fatti, come è avvenuto delle grammatiche generali. La sola linguistica, poi, ossia, la critica delle lingue si sta paga a raccogliere e ad ordinare dei vocaboli o ad accertare alcune leggi di questo o di quell'idioma, ed a formarne delle [Opere inedite o varie; Manzoni  grammatico] famiglie e dei gruppi, senza però levarsi mai alla sommità di principi universali, in cui deve trovarsi la ragione ultima di tutte le varie forme, onde il pensiero s’attua e si plasma nella parola. Ma noi dubitiamo assai che ZOPPI (si veda) con tutto il suo buon volere sia riuscito a far di meglio che  un  lavoro  di  natura  egualmente arbitraria, vorremmo dire doppiamente arbitraria, com'è quello in cui si uniscono, anzi si confondono due sistemi, l’uno  de’quali  il  logico,  è  falso  e  arbitrario, l’altro, il positivo, è semplicemente metodologico e non gnoseologico e che si giova di schemi e di categorie per pura comodità pratica, senza dare ad essi alcun valore. Due punti di vista sono troppi per comprendere un unico fatto. Congiunti in un terzo non possono dare che un nuovo punto di vista falso, tanto più falso in quanto tra gl’altri due non vi è intimità di rapporti e  l'uno è più insufficiente dell'altro a spiegar da solo quell'unico fatto. E il vero linguaggio, il linguaggio come creazione resta fuori d'ogni considerazione sia storica (storia letteraria) che teorica (estetica). Il superamento della concezione grammaticale della lingua e il concetto della vera natura spirituale e intuitiva d’essa si sono ottenuti in modo pieno e definitivo solamente ai nostri giorni coli 'opera capitale di CROCE (si veda), l’estetica come scienza dell’ESPRESSIONE e linguistica generale, che, riannodandosi  a VICO (si veda), a Hegel, a Humboldt nella  correzione integrativa di Steinthal, scioglie il problema identificando parola e intuizione e riferendo arte e lingua alla medesima attività teoretica dello  spirito, l’intuitiva o fantastica. Qui la grammatica ha finalmente la sua critica completa. Se la lingua è ESPRESSIONE e non esistono classi d’espressioni, la linguistica in quanto ha di riducibile a scienza è tutt'uno coll’estetica, e non  può davvero costruirsi sulle particolari teoriche che sono escogitate dell'interiezione, dell'associazione  [A  questo punto  ZOPPI (si veda) cita MANZONI (si veda), e tutto il brano è  riportato nel saggio su MANZONI (si veda) grammatico  i La filosofia della grammatica, Verona. ZOPPI (si veda) alla fine del suo saggio dà due tavole dimostrative, l’una della genesi psicologica delle parti del discorso, l'altra di quella glottologica.] o convenzione e dell'onomatopea, mescolate insieme: e poi che, se la lingua è creazione spirituale, dev’esser sempre creazione (onde resta senza significato la distinzione del problema in origine e svolgimento), l’altra considerazione che  può  farsi  sul  linguaggio  non  può  esser  che  storico-artistica,  ogni  ESPRESSIONE essendo  un  individuo  artistico  da  studiare  in    stesso  e da rivedere e ricreare in noi col ricollocarci nelle condizioni storiche in cui si produce. Una terza considerazione della lingua, la logica, che consiste nell’elaborare logicamente il fatto estetico, che è di natura sua indivisibile, dividendolo in concetti e ricavando le categorie grammaticali del moto o dell'azione (verbo), dell’ente o materia (nome) eccr, se è lecita, è infeconda pella comprensione del fatto estetico, perchè in quella elaborazione esso è stato distrutto: e quelle categorie non possono valere come modi imitabili d’espressione, come formule e precetti  pella creazione artificiale della lingua. Una tecnica dell' 'espressione è un termine erroneo, contradittorio: e appunto tale è la grammatica normativa, il cui valore è semplicemente didattico. Una forte risonanza dell’estetica di CROCE (si veda),  per quanto riguarda la lingua, s’è avuta nel saggio di Vossler, Positivismo e Idealismo nella scienza della lingua, dove si conducono argute  polemiche contro recenti teorici della lingua e in bellissime particolari analisi è mostrata tutta la fecondità e la verità del principio idealistico propugnato da CROCE (si veda) e si traggono deduzioni importantissime pel metodo e il fine dell'indagine linguistica. Vossler trova nella lingua due aspetti distinti sotto cui dev'essere conformemente considerato: 1’uno del progresso assoluto, cioè dalla libera creazione individuale e teorica, 1’altro del progresso relativo, cioè dello sviluppo regolare e della creazione teorico-pratica collettiva condizionantisi a vicenda. Nel primo caso la considerazione è estetica o stilistica (cioè di storia artistica, o critica letteraria, o storia, semplicemente), nel secondo è storica o evoluzionistica (cioè di storia della coltura, [Con questo titolo  è uscita per i tipi del Laterza di Bari, e per merito di GNOLI (si veda), la traduzione] grammatica storica). Un terzo modo di considerar la lingua, puramente  positivistico o descrittivo senza valutazione  estetica o  spiegazione  evoluzionistica, non esiste. È teoricamente impossibile. Ossia quel terzo modo è la grammatica empirica e normativa,  sussidio didattico. Ma il sistema  idealistico  vige pienamente in entrambe le prime considerazioni. Anche nel momento del progresso relativo della lingua opera un’attività  spirituale. La  grammatica, quando è conoscitiva, è così sciolta o nella storia letteraria o nella storia della cultura, sempre cioè nella storia. Quando vuol esser normativa, e non più empirica ma FILOSOFICA e rigorosa, s’annulla nell'estetica. Col suo saggio  T.  spera d'esser riusciti a confermare la verità di tale sistema idealistico, applicandone i PRINCIPII alla considerazione d'un prodotto caratteristico dello spirito teorico ITALIANO studiato nelle condizioni storiche del suo svolgimento, nei suoi  rapporti cioè coll'arte e colla scienza. Un importante filosofo. Ciro Trabalza. Trabalza. Keywords: la grammatica razionale di Grice, ‘Logic and conversation,’ repinted in Davidson and Harman, Logic and Grammar!. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trabalza”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Trabucco: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della salute – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Lirary, Villa Speranza (Caltagirone). Abstract. Kewyords: salute, sano, sanita. “If there was an adjective that Aristotle loved was healthy” (Grice). Grice attempts an application of ‘healthy’ to Plato, too, in the Republic. Note that ‘salute’ is a corruption of ‘salvus,’ and thus not cognate with ‘sanus’, which is the word Boezio uses to translate hygeion, as used by Plato and Aristotle. Filosofo italiano. Caltagirone, Catania, Sicilia.  Non abbiamo grandi notizie della sua vita, della quale sappiamo solo che esercita con successo la medicina a Caltagirone, soprattutto durante l'epidemia. Per il suo contributo è creato nobile da Fernando d'Aragona. Alcune suoi saggi sono conservate nella biblioteca comunale di Caltagirone, città che gli ha anche dedicato una strada.  Saggi:  “De Morbis puerorum et mulierum.” Chaudon,  Dictionnaire universel, historique, critique, et bibliographique, v. Amico e Statella, V. M., Dizionario topografico della Sicilia, Palermo. Libro d'oro della nobilità dell'imperial casa amoriense, Roma,  s.v. Amati, Dizionario corografico dell'Italia. Trabucco. Keywords: salute, filosofia della salute. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trabucco” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Tragella: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazional dei caduti – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Trezzano sul Naviglio). Abstract. Keywords. per i caduti. Grice, “How I met my wife.” As it happens, Grice was a student at Merton. A younger recipient of the same Senior scholarship, J. S. Watson, called him on short noice to fulfil the task of best man – seeing that the original best man had been killed in action shortly before. It was a Watson’s wedding that Grice met his future wife. While Grice himself was engaged  in action in the North Atlantic, he was transferred to the Admiralty for the remaining of the duration of the war. Filosofo italiano. Trezzano, Milano, Lombardia. Studia a Gorla Minore, Milano, e Torino. Si occupa di serbare la memoria della battaglia di Magenta con la costruzione di una cappella espiatoria all'interno della chiesa per accogliere le spoglie dei caduti. Ricovero vecchi poveri Sito Lombardia Beni Culturali.  Viviani, cfr. Tunesi, Morani Le stagioni, op. cit.. T., Lettera a Murri in: Murri, L. Bedeschi, Carteggio. II. Lettere a Murri. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Le stagioni di un prete, Le stagioni di un prete, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Viviani, Dalle ricerche la prima storia vera, Magenta, Zeisciu. Cesare Tragella. Tragella. Keywords: per i caduti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tragella” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapaninapola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionle – filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Roma). Abstract. Keywords. implicatura. Filosofo italiano. Trapaninapola. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapaninapola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trapè: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’umanità di Varrone -- -- filosofia marchese – scuola di Montegiorgio --filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Montegiorgio). Abstract. Keywords. humanitas, homo, Varrone. Flosofo italiano. Montegiorgio, Fermo, Marche. Uno dei massimi studiosi della filosofia semiotica d’Agostino. Si laurea a Roma con una “Il concorso divino in Colonna” (Tolentino). Insegna a Roma. Promosse la fondazione dell'Istituto patristico augustinianum.  Fonda la "Biblioteca agostiniana" che si occupa della volgarizzazione di Agostino (Città Nuova) e il "Corpus scriptorum augustianorum", che pubblica le opere dei filosofi scolastici agostiniani.  Altri saggi: “Introduzione ad Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea”, Atti del congresso Italiano di filosofia agostiniana, Roma, Tolentino; Varro et Augustinus praecipui humanitatis cultores, Latinitas Augustinus et Varro, Atti del Congresso di studi varroniani, Rieti) – VARRONE --; “Escatologia e anti-platonismo” Augustinianum, “Agostino, filosofo e teologo dell'uomo”; Bollettino dell’Istituto di filosofia (Macerata); Agostino: L'ineffabilità di Dio, in  «La ricerca di Dio nelle religioni (EMI, Bologna); “La Aeterni Patris e la filosofia”, Atti del Congresso Tomistico, Roma; Agostino, l'uomo, il pastore, il mistico” (Roma, Città Nuova); Patrologia, Casale Monferrato, Dizionario patristico e di antichità cristiana, Casale Monferrato, Introduzione e commento alla lettera apostolica «Hipponensem episcopum», Roma, Introduzione ad Agostino, Roma,  L'amico, il maestro, il pioniere, Cremona, apostolo della cultura. Agostino Trapè. Trapè. Keywords: la semiotica d’Agostino, Varrone, humanitas. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trapè” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione conversazionale della morale romana e l’implicatura conversazionale del diritto romano -- Roma antica – scuola di Padova -- filosofia italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Padova). Abstract. Keywords: portico, suicidio, vita pubblica, vita privata, virtute, ius, principe, principato, reppublica, senato, morale, diritto e moral. Roma antica, giustizia morale, giustizia politco-legale, Grice. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Nato da una famiglia illustre e agiata. Mantenne stretti legami con Padova, come dimostra la partecipazione ai festeggiamenti in onore del fondatore, Antenore. Nulla è degli inizi della carriera politica tranne contrasse matrimonio colla figlia di CECINA PETO, console suffetto. Il suocero è implicato nella rivolta di Lucio Arrunzio Camillo Scriboniano che mira ad eliminare Claudio e a RESTAURARE LA REPUBBLICA e pertanto e costretto al suicidio. Lo segue, sebbene T. avesse cercato di impedirlo, anche la moglie.  Probabilmente, dopo la morte del suocero, T. aggiunse il suo nome al proprio, prassi inconsueta per un genero, che può essere letta come un segno di opposizione al principato. Non abbiamo informazioni sulla cronologia della progressione di Trasea tra i ranghi più bassi del cursus honorum ed è possibile, ma non è affatto certo, che la sua carriera politica fosse ad un punto morto.  A seguito della morte di Claudio e l'ascesa di NERONE, l'influenza del precettore del nuovo principe, il filosofo Seneca, del Portico, gli permise T. a di divenire console suffetto acquistando nel frattempo l'importante amicizia del genero ELVIDIO PRISCO. Dopo il consolato, T. ottenne il prestigioso incarico di quindecim-vir sacris faciundis. Tale ascesa e, forse, aiutata dall'attività svolta presso le corti di giustizia né è da escludere una sua nomina come governatore provinciale in accordo alla testimonianza di PERSIO, amico e parente di T., il quale scrive di aver viaggiato con lui. Sostenne in senato la causa di concussione avanzata dai cilici contro il loro ex-governatore, COSSUZIANO CAPITONE, vicino al principe, che e condannato probabilmente proprio per l'influenza e la capacità oratoria mostrata da T.Si oppose ad una mozione con cui i siracusani chiedevano di superare il numero legale di gladiatori per i loro giochi censurando di fatto l'irrilevanza cui e giunto il senato.  Quando, poi, NERONE invia al senato una lettera – scritta da Seneca -- in cui giustifica l'appena compiuto omicidio della madre, T. e il solo ad uscire dall'aula affermando di non poter dire ciò che voleva e che non avrebbe detto quel che poteva, mentre molti dei suoi colleghi si congratulavano bassamente con Nerone. Il pretore ANTISTIO SOSIANO, che scrive poesie diffamatorie su Nerone, a accusato da Cossuziano Capitone, recentemente riabilitato in Senato su impulso del suocero di questi, TIGELLINO, di maiestatis. T. dissente dalla proposta di imporre la pena di morte sostenne la più lieve sanzione dell'esilio, conforme per il reato. La proposta è approvata con larga maggioranza nonostante il parere contrario di Nerone consultato prima della votazione ed il principe e costretto ad aderirvi per far mostra di clemenza. Al processo contro il pro-console di Creta, CLAUDIO TIMARCO, accusato dai provinciali di continui abusi, avendoli costretti a compiere frequenti voti di ringraziamento, T. censura il comportamento del pro-console. Fa approvare a maggioranza un senatoconsulto che però dove aspettare il placet del principe. E dispensato dal principe dal portargli i ringraziamenti, insieme alla delegazione del senato, per la nascita di una figlia. Tale gesto e, probabilmente, il preludio della fine anche perché TIGELLINO, tra i più influenti cortigiani di Nerone e ostile a T. essendo il suocero di Cossuziano Capitone, fatto condannare da T. stesso. Tuttavia, è noto che Nerone dice a Seneca di essersi riconciliato con T. e che Seneca si fosse congratulato perché recupera un'amicizia piuttosto che averlo costretto a chiedere clemenza. Dopo tale vicenda, T. si ritira dalla vita politica. Non sappiamo esattamente quando è presa la decisione ma TACITO fa dire a Capitone, in occasione del processo, che T. ha da oltre III anni disertato tutte le sedute del senato ma, occorre ricordare che la fonte è polemica e quindi poco affidabile. Non è noto neppure quale sia stato il catalizzatore di una tale decisione che contrasta apertamente con la sua vita precedente. Forse è la sua ultima forma di protesta al principe.  In questo lasso di tempo, T. continua a curare gl’interessi dei suoi clienti e probabilmente compose anche la sua “Vita di CATONE [si veda]”, in cui loda il sostenitore della libertà senatoriale contro GIULIO CESARE (si veda) con il quale condivide la filosofia del portico. Tale opera, oggi perduta, e una fonte importante per la biografia di Plutarco. Nerone, dopo aver violentemente represso la congiura dei Pisoni, decide di sbarazzarsi di chiunque sospettava ostile, e tra questi anche T. e Barea Sorano che da tempo detesta. Spinto da Cossuziano Capitone, decide di agire durante la visita del re Tiridate I di Armenia a Roma, come scrive sarcasticamente Tacito "quasi fosse atto da re", affinché passassero inosservate le vicende di due così illustri cittadini. L'accusa contro T. e assunta da Cossuziano Capitone e Marcello Eprio, mentre Ostorio Sabino si occupa di Barea Sorano. Dapprima Nerone esclude T. dal ricevimento in onore di Tiridate ma questi, anziché farsi prendere dal timore, chiede che gli fossero notificati i capi d'accusa e che gli fosse dato tempo di difendersi. Nerone accolge la risposta di T. con agitata premura e come mai prima d'ora comincia a temere la presenza, l'ardimento e lo spirito di libertà della sua vittima e pertanto comanda di convocare il senato. L'imputato, dopo aver consultato gl’amici, decise di non partecipare al processo per evitare che Nerone si incrudelisse anche con la moglie e la figlia e per non prestare orecchio all’ingiurie degl’accusatori. In tale occasione, inoltre, impede al tribuno ARULENO RUSTICO di porre il veto al decreto del senato affermando che una siffatta azione mette in pericolo la vita del tribuno senza salvare la sua. Il giorno del processo, il tempio di Venere Genitrice, luogo di raduno del Senato, e circondato da due coorti della guardia pretoriana. Iniziata la seduta, il questore legge una lettera del principe che, senza far nomi, accusa alcuni senatori di trascurare da tempo i loro doveri e di essere, pertanto, cattivo esempio anche per i cavalieri.  Gl’accusatori accolsero tali affermazioni come un dardo pronto per essere scagliato e subito Cossuziano si scaglia contro T. per essere seguito poi da Marcello Eprio il quale, con maggiore energia, grida che si tratta di LA SALVEZZA DELLO STATO ROMANO e che la longanimità del principe sarebbe venuta meno di fronte all'arroganza dei sottoposti e che fino ad ora troppo indulgenti sono stati i senatori nei confronti di T., di Barea Sorano, definiti faziosi ribelli. Non si ricordano discorsi della difesa ed in ogni caso i senatori, nel più profondo terrore per i reparti armati, non hanno altra alternativa che votare la condanna a morte nella forma del liberum mortis arbitrium ovvero l'ordine di suicidarsi. T. e ovviamente condannato a morte, il genero Elvidio Prisco e esiliato insieme agl’amici Paconio Agrippino e Curzio Montano. Gl’altri imputati, Barea Sorano e la figlia di lui, processati separatamente, seguirono lo stesso destino di T.. Al crepuscolo, T. intento ad intrattenere numerosi ospiti e ad ascoltare con molta attenzione il filosofo Demetrio, del CINARGO, con il quale discute della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal corpo, riceve da uno dei suoi intimi, DOMIZIO CECILIANO, la notizia della condanna. A tal punto, esorta i più a non disperarsi e a ritirarsi in gran fretta per evitare di compromettere le loro sorti con la sua, poi persuase la moglie che, memore della madre, si prepara a seguire nella morte il marito, a restare in vita e a non privare la figlia dell'unico sostegno. Poco dopo, mentre T. si avvia al portico con un'espressione lieta, avendo saputo che il genero, Elvidio Prisco, è stato solo esiliato, giunse il questore a comunicargli ufficialmente la condanna. Si ritira, quindi, accompagnato da Demetrio e dal genero, nelle proprie camere, porse ad uno schiavo le vene di entrambe le braccia e, come il sangue scorse, lo sparse a terra libando a Giove liberatore sempre alla presenza del questore. Infine, dopo molte sofferenze, muore.  In Prato della Valle, Padova, è presente una statua che lo raffigura, opera d’ Andreosi ed eretta a cura della associazione padovana Excisa Civitas. T. è rappresentato in abito consolare, ai suoi piedi un piedistallo, simbolo della costanza con cui sostenne la sua impari lotta contro Nerone. È menzionato nel romanzo Quo Vadis di Sienkiewicz. È menzionato nel romanzo Memorie di Adriano di Yourcenar. Dione Cassio. Tacito. Plinio. Tacito, Historiae. Plutarco Moralia. Geiger. Statua di T. su digilander.libero. Cassio Dione Cocceiano, Historia Romana, libri LXVI-LXVII. Plinio il Giovane, Epistulae. Tacito, Annales. Brunt, Stoicism and the Principate, PBSR, Devillers, Le rôle des passages relatifs à Thrasea Paetus dans les Annales de Tacite, Neronia, Bruxelles, Collection Latomus Geiger, Munatius Rufus and T. on Cato the Younger, Athenaeum. Rudich, Political Dissidence under Nero, Londra, (Strunk, Saving the life of a foolish poet: Tacitus on Marcus Lepidus, T., and political action under the principate, Syllecta Classica, Syme, A Political Group, Roman Papers, Turpin, Tacitus, stoic exempla, and the praecipuum munus annalium, Classical Antiquity, Wirszubski, Libertas as a political idea in Rome in the late republic and early principate, Cambridge. T., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. MPortale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Retori romaniFilosofi romaniScrittori romaniFilosofi del I secoloScrittori del I secolo Romani Nati a Padova Morti a Roma Filosofi giustiziati Stoici Morti per suicidio. The wide circulation of the philosophy of the Porch among Romans of the upper class from the time of Panaetius to the reign of Marcus Aurelius is a familiar fact. Few Romans of note can indeed be marked down as committed ‘filosofi del portico’, and even those, like Seneca, who avowedly belongs to the school borrows ideas from other philosophies. Still, even if eclecticism is the mode, the ‘Porch’ element is dominant. The PORTICO permeates the writings of ‘filosofi’ like Virgil and Horace who professed no formal allegiance to the sect, and became part of the culture that men absorb in their early education. One might think that the Porch exercises an influence comparable, at Oxford, at in some degree with that which Christianity has often had on men ignorant or careless of the nicer points of systematic theology. It has often been supposed that it did much to humanise Roman law and government. That is a contention of which I should be rather sceptical, but it is not my present theme. I propose to examine the effects that The Porch had on men's attitudes to the Principate, the essentially monarchical form of government created by Ottavianus. Prima facie we might expect these effects to have been significant, yet it is not easy to discern exactly what they are. At the very outset an apparent contradiction confronts us. The Porch seems to be both upholders and opponents of the regime. The Stoic Atenodoro is an honoured counsellor of Ottaviano; Seneca the preceptor of Nerone and then one of his chief ministers, Marcus Aurelius Antonino a philosopher on the throne. Seneca exalts the autocratic power of the Princeps. Under Nerone, a ruler vigilant for the safety of each and all of his subjects, anxious to secure their consent, and protected by their affection, Rome (Seneca claims) enjoyed the happiest form of constitution, in which nothing is lacking to our complete freedom but the license to destroy ourselves. We may always suspect Seneca of insincere rhetoric and special pleading. But Seneca’s approval of monarchy in principle is shared by the honest Musonius, and Antonino clearly assumed that it was by divine providence that he had been called to exercise absolute power. And yet that perfect philosopher of the Porch, as Seneca calls him (Const. Sap.), Catone, died in defence of the old Republic, which Giulio Cesare had overthrown and Ottaviano had replaced. Cato’s conduct was still viewed as exemplary by philosophers of the Porch during the Principate. T. writes Catone’s life, and he is the centre of a circle, including ELVIDIO PRISCO and ARULENO RUSTICO, which offers the most intractable opposition to certain princes, opposition which was certainly ascribed to the teaching of the Porch. Nerone’s suspicions of RUBELLIO PLAUTO, a kinsman and potential pretender to the Principate, are enhanced by the allegation that he had adopted the Porch’s presumptuous creed, which made men turbulent and avid for power. Writing soon afterwards, Seneca himself admits that some thought, though erroneously, that the votaries of philosophy were 'defiant and stubborn, men who held in contempt magistrates, kings and all engaged in government', and he advises Lucilius to devote himself to philosophy, but not to boast of it, since philosophy itself, associated with arrogance and defiance, has brought many men into danger. Let it remove your faults and not reproach those of others, and let it not recoil from social conventions ('publicis moribus"), nor produce the appearance of condemning what it does not practise'? Though Seneca speaks of 'philosophy' in general, the context shows that he has in mind only that philosophy in which he thought the truth resided, the Porch. The second passage indeed may suggest that what endangers the Porch was not so much resistance to authority as censure of the behaviour common in the world, which made the Porch generally unpopular. Seneca had also admitted earlier that The Porch had the reputation, in his view undeserved, of excessive harshness, which was held to make it incapable of giving wise advice to rulers. It was under Gaius, Nero, Vespasian and Domitian that the Porch certainly suffered persecution. The last two princes actually expelled professional philosophers from Rome and Italy; Epictetus was among the exiles. Yet he too repudiates the charge that the Porch is opposed to authority. By reconciling the interests of the individual, truly conceived, with those of society, the Porch, Epitteto claims, produced concord in a state and peace among peoples. The Porch teaches men to obey the laws, but not to despise the authority of 'kings', though in his view neither laws nor kings could give or take away anything essential to a man's blessedness. On the other hand, the Stoic would not comply with the orders of 'tyrants', which conflicted with his own moral purpose. We might then infer that it was not political authority, nor monarchy as such, that the Porch rejects, but those rulers whose vile conduct made them 'tyrants',"' and that what the Porch – in a figure like T. -- admires in Catone is not his fight for the Republic but his rectitude and constancy. However, Vespasian was never reproached with tyranny, and ELVIDIO PRISCO, at least, whom Dio called a Republican, and whom Vespasian puts to death, must have had convictions by which an emperor could be judged in political as well as moral terms. The apparent inconsistency in the Porch’s attitude to monarchy is not the only ambiguity in their relations to the state. Seneca meets the charge of political defiance by replying that none are more grateful to rulers who preserve peace than philosophers who have retired from public life to the nobler activity of tranquil contemplation and teaching. Much writing of the Porch suggests that their teaching tended to promote not active resistance to government but entire withdrawal from political activity. Quintilian speaks of philosophers as men prone to neglect their civic duties. P. Suillius had contemptuously referred to Seneca's own 'studia inertia'. In the very passage in which Tacitus marks out ELVIDIO PRISCO as a Stoic he says that 'from early youth he devoted his brilliant mind to deeper studies, not as so many (plerique') do, to make the high-sounding name of philosophy a screen for indolent retirement ('segne otium'), but in order to undertake public duties, while fortified against the strokes of fortune. Evidently, in his judgement, the general tendency of philosophic training was to render men unfit for public careers by making them prefer the life of contemplation. Hence an ambitious mother, like Agricola's, would restrain her son from drinking too deeply at the philosophic spring. Indeed all writings of the Porch illustrate a certain tension between the claims of public activity and those of study and meditation (injra). We must, of course, distinguish sharply between Stoics who deliberately chose 'segne otium' from the start and those, like T., who retires from politics in such a way as to manifest their disapprobation of the government, even though such retirement could be justified by arguments that might rather have persuaded the believer never to enter the political arena. The former might by their indifference to the state deprive it of useful talent, but they constituted no danger to the regime. But we may wonder how a creed which encouraged such quietism could also be accused of making men turbulent enemies of the Princeps. To understand these apparent contradictions in the political attitudes of Stoics under the Principate, we must look more closely than historians generally do at the moral principles they embraced. All I can attempt here is naturally no more than a rather impressionistic sketch of those aspects of Stoic teaching which seem to me most relevant to their actual political behaviour, in office, opposition or retirement. This is no place for a systematic exposition of the logical and physical presuppositions of their moral creed, and indeed the Stoics of our period evinced no keen interest in the dialectical subtleties and doctrinal coherence of the system the earlier masters of their school had evolved. Rhetoric and devotion had largely replaced inquiry and argument. None the less their moral convictions continued to rest on metaphysical dogmata, however uncritically accepted. Like other philosophers, the Stoics assume that each man does and must pursue his individual happiness. This he can secure only if he conforms his life to nature, his own nature and that of the universe, of which his own is of necessity a part. In the impulses of animals and of children we can see how Nature herself directs living beings to seek what is conducive to life and to avoid what is contrary. Life itself and all that assists the proper functioning of the living creature belong to the category of things that are natural and therefore can be described as things of value. They include wealth, health and nearly all that men generally make their objects of endeavour. Now, man is endowed with reason, and reason shows that he cannot live in isolation. We are born for one another, and it is proper to our nature to prefer things of value for our fellows as well as for ourselves. However, experience teaches us that such things may not be in our power. If, then our happiness, or that of our fellows, were to depend at all on their possession, it would not necessarily be within our grasp, our minds would be filled with anxiety, and our failures to obtain what we desire would seem to be limitations on our freedom. But no man can be happy if he is not secure from anxiety and free. Now Nature must have designed our happiness, for all being is permeated by a substance the Stoics described as reason or the divine. This ruling element in the world, which causes all things to work together for good, is also present in our souls, and it is its presence that enables us in some measure to apprehend the providential order of the Universe. Our reason should also be the ruling element in our own nature, as it must be capable of directing us to that true happiness, security and freedom which nature impels us to seek, and which, given the rationality and beneficence of nature, it must be in our power to attain. Hence the so-called things of value cannot be truly good, simply because they are not always and necessarily in our reach. By contrast nothing can ever prevent us from constantly willing to do what is right, even though the resultant actions may fail to produce the effects intended; these effects are external to ourselves and do not or should not affect that permanent disposition of the soul in which our blessedness, security and freedom are to be found. The only true good, which reason prescribes, lies then in a virtuous disposition and in the activity that flows from it, and the only true evil is the lack of such a disposition, while the things of value and their contraries must alike be classed, to use the technical term, as things indifferent to us. Yet this leaves no criterion for identifying the particular acts the good or wise man will perform, and that criterion has still to be supplied by the things of value. Is The acts which were termed in Greek “KaOkovaand” in Latin “officia”, acts incumbent on men, which we may render as duties, even though the word has perhaps excessively Kantian overtones, consist in promoting states of affairs which will contain as much as possible of such secondary goods as health or wealth, and as little as possible of their contraries. We are bound to make the best calculations we can on the consequences of our acts, and to exert ourselves to the utmost in performing them. But we should always act with the reservation in our minds that what we seek may not be attainable and that its actual attainment is not per se good. A father will jump into deep water to rescue his child. But the goodness of his act is not enhanced if the child is saved, nor diminished if it drowns. Indeed, since the universe is providentially ordered, the death of the child, if it occurs, must be for the best. Chrysippus is quoted by Epictetus as saying that, so long as the consequences are not clear to me, I cling to what is best adapted to securing things that accord with nature; for the divine has created me such that I shall choose these things; but if I actually knew that it was now ordained for me to be ill, I would aim at being ill. Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni. As a good Stoic, Catone should not have fought against Caesar, if he could have foreseen Caesar's victory. But lacking this foresight, he could still be subjectively right; and the admiration a Stoic could express for Cato is not in itself incompatible with acceptance of the regime for which Caesar's victory had prepared the way. For the Stoics only the wise man has an understanding of nature so complete and a disposition so unchangeable that he will never do what is not right, and only his actions are truly successful or good. Others may perform the same actions, but in a way that is somehow flawed. However, the wise man, as Seneca remarked, is as rare as the phoenix. Not even the great Stoic teachers pretended to the title. Most of their statements about his conduct may then be understood as the presentation of a model for others, and in fact the Stoics did not hesitate from the first to lay down rules for the guidance of ordinary beings. In such prescriptions they continued to attach value only to the purpose of moral activity, and not to success in performance. The fullest discussion we possess of their teaching on men's duties is to be found in Cicero's “de officiis,” the first two books of which are avowedly based on a treatise of Panaetius. But though Panaetius, who departed in various ways from the doctrines of his predecessors, did not care to describe the ideal sage and expressly turned to the duties of men in whom perfect wisdom was not to be found but whose conduct might still manifest the semblances of virtue ('similitudines honesti'), his concern with this topic was certainly not new. Moreover, there are some indications that Stoics extrapolated the concept of perfect virtue from the conduct of ordinary men which commanded universal approval. Orazio on the bridge could not be called truly brave, because he was no sage. Yet, his heroism gives an idea, by analogy, of what tcourage is. Thus Stoic practical morality was founded on commonly received opinions. While every man is bound to be of service to his fellows, the particular services he should render vary with his special relationships to them. From the first orthodox Stoic thinkers enjoined specific duties on the husband, father, slave-owner and so forth. Tacitus alludes to this practice when he describes ELVIDIO PRISCO as steady in performing all the duties of life, as citizen, senator, husband, son-in-law and friend. Epictetus and others conceive such duties as arising from the place in the world, the station or military post (Tá§is, statio) to which each individual is appointed, and which may limit, as it always defines, the kinds of action incumbent on him; though a life of virtue is open to all, even to slaves, what a man can do determines what he ought to do; for instance, if he is poor, he cannot hold office or endow his city with fine buildings (Ench.). But how do we identify these specific duties, which are given to us by our place in the world? If you are a town-councillor, says Epictetus, remember that you are one; if you are young, that you are young, if old, that you are old, if a father, that you are a father; on reflection each name invariably suggests the appropriate tasks. These tasks can, I think, only have been regarded as obvious if they were those conventionally expected from the persons so designated, and in fact Stoics seldom recommend acts that would have violated conventions. All that Epictetus himself tells a provincial governor is to render just decisions, to keep his hands off others' property, and to see no beauty in another man's wife or a boy or a piece of gold or silver plate. Epictetus does not go far beyond the maxims of abstinentia and integritas, always accepted, if often infringed, by the Roman ruling class. In fact he adds that we ought to look for doctrines that agree with but give additional strength to such common notions of duty. The great mind, as Seneca puts it, is intent on honourable and industrious conduct in that station in which it is placed. The good man does not change the rules, but obeys them more strictly. In another metaphor the Stoics employed the world was viewed as a stage in which each man had to play a part (persona, mpóocov). Panaetius exploited this metaphor in connexion with a doctrine he himself seems to have transferred from aesthetic to ethical theory, that there is a kind of moral beauty, called in Greek pétrov and in Latin decorum, which 'shines out' in virtuous activity, even in that of the man still imperfect in wisdom. It would not be germane to my theme to attempt to expound this doctrine in full, but two points are important. First, just as the physical beauty of a living creature must be attributed to the due relation of all the parts to the whole, so the moral beauty of a man's activity lies in the order and coherence of all his words and deeds, and just as the correct delineation of a figure in a drama depends on the suitability to his character of what he does and says, so in real life men must aim at maintaining the consistency, 'constantia'' or 'aequabilitas, of their conduct. But while the dramatist may properly portray the wicked man, on the stage of life we are all bound to play the role of rational beings subject to the moral law. None the less, the manner of the performance must vary from man to man." Besides the role which is common to all Panatius distinguished three others. The first arises from the individual's special inborn endowments, which he must develop to the full, so far as they are compatible with virtue, and his natural disabilities, which limit what he can do, the second from his position in the world, the third from the choice of a vocation that he is bound to make on the basis of his capacity and of the resources at his disposal, but which tends to commit him for the future. Thus a Roman of rank might choose to be a philosopher or a jurist, an orator or a soldier; having made his decision, he should normally carry it out to the end. For Panaetius it is only by recognizing the potentialities and limitations imposed by his own personality and circumstances that the individual can avoid those inconsistencies in conduct which would mar the moral beauty of his life. 'It is of no avail to contend with nature or to pursue an end you cannot reach'. Similarly in Epictetus' view, 'if you assume a role beyond your ability, the result is that you perform it disgracefully (hoxnuóvndas) and neglect the role you were able to fill. To thine own self be true, And it must follow, as the night the day, Thou canst not then be false to any man. Secondly, according to Panaetius, moral beauty, like physical, attracts the approval and love of other men. Indeed that approval comes to be regarded as a criterion for determining whether particular actions really do manifest 'decorum'. We ought to respect the opinions and feelings of others. Hence deportment, polite conversation and other matters of social etiquette become the subjects of moral precepts. Manual labour is condemned as unbefitting the free man. Even the liberal professions are pronounced below the dignity of an aristocrat. In general the conventions of the upper class society to which both Panaetius and Cicero belonged are unquestioningly accepted. We are told that for actions to be performed in accordance with custom and civic practices no rules need be prescribed. These practices are the rules, and no one should make the mistake of thinking that he has the same license as Socrates or Aristippus to transgress them. It was only their great and superhuman virtue that gave that privilege to them. This teaching justified Romans in treating their own traditions as equivalent to moral laws. It is no accident that the Stoic RUBELLIO PLAUTO 'respected the maxims of old generations' in the strictness of his household, or that Seneca admires the mores antiqui in which Romans had always tended to find the secret of Rome's greatness. The very use of the term “officium” to render Kankov had a similar effect. In common speech “officum” could mean both the kind of service which social conventions expected one man to render another, and the function of a magistrate, for example, or a senator. Its use in ethical theory suggested that such a service or such a function constitutes a moral obligation. Cicero illustrates Panaetius' doctrine of the special duties imposed by a man's individual personality from the suicide of Cato. Not every one would have been right to kill himself in such circumstances. Cato was justified because he had always held that it was better to die than to set eyes on a tyrant; his'constantia' left him no choice. Plutarch, who drew directly or indirectly on a firsthand account, shows that Catone consciously acted on this view. For Catone, death is the only way out. His son might live, but being also a Catone, should not serve Caesar. Others might make their peace with the victor and incur no blame. An anecdote in Plutarch's life of Cicero tells us that Catone also held in that while he himself could not honourably have abandoned his consistent opposition to Caesar, Cicero, whose past conduct had been very different, would have done better to remain neutral in the civil war. Catone’s conceptions are certainly known to the circle of T., whose own life of the hero may be Plutarch's immediate source. When they debate whether T. should appear in the senate to answer the capital charges against him, the question is essentially what course it is fitting – “deceret” -- for him to take, if he were to be true to the course of behaviour he had pursued without a break for so many years. Another man even within his circle is not bound to the same intransigence. Similarly, his friend, PACONIO, says that any one who so much as thought of going to Nero's games should go, but his own 'persona' did not allow him to consider the possibility. ELVIDIO PRISCO is for Epictetus the shining example of a man who was true to his persona. This sort of conception is indeed ascribed to men who are not known to have embraced the Stoic creed, just as the word 'persona' is sometimes used unphilosophically in a way compatible with Panaetius' doctrine but not derived from it. These are further indications that his doctrine corresponded closely with the thought and behaviour natural to traditional Romans. The concept is found in ORAZIO as well as in all the later Stoic writers, Seneca, Musonius, Epictetus and Marcus (and indeed elsewhere); though sometimes they think more of the special duties that were imposed on the individual by his place in the world or his vocation than of those which flow from his inborn propensities and disabilities, a few texts show that that part of Panaetius' doctrine was not wholly forgotten. The idea of decorum also survives in the attention still devoted to etiquette, to seemly ways of walking, talking, laughing, dressing, behaviour at the table and even in bed, for all such behaviour was considered an outward manifestation of the disposition of the soul. It is characteristic that Epictetus would rather have died than shaved off the beard that symbolized his role as a philosopher. In all these precepts we find the assumption that the moral law required performance of traditionally accepted duties and respect for conventions. After telling his readers that the poet can discover how to treat his personae appropriately by learning the duties that belong to the citizen, friend, father, brother, host, senator, judge and general, Horace adds: respicere exemplar vitae morumque iubebo doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces. For the Stoics a virtuous disposition necessarily issued in virtuous activity. All had to perform their duties within that City of Gods and men which was not a city in any ordinary sense, nor a world-state that might one day be brought into being, but the providentially ordered Universe in which all live here and now. However, political activity could certainly be included among these duties. From the first the Stoic fathers had taught that the wise man would take part in public affairs, if there were no hindrance. Indeed it was a famous Stoic paradox that only the wise man was a king or statesman; he alone possessed the art of ruling, whether or not he had any subjects, just as only the doctor has the art of healing, even if he has no patients. His principal aim in politics would be to restrain vice and encourage virtue, ' although he would also necessarily be concerned with the 'things of value' and would treat wealth, fame, health etc. as if they were goods. But it could hardly fail to influence his attitude to such objects of endeavour that he was always to remember that his efforts to promote them might fail, and that failure or success was unimportant; they were not truly goods. As Epictetus observed, 'Caesar seems to provide us with profound peace... but can he give us peace from love or sorrow or envy? He cannot'. And yet blessedness comes only from such spiritual peace. In the real world, according to Chrysippus, all laws and constitutions were faulty. He once despairingly said that if the wise statesman pursued a bad policy he would displease the gods, if a good policy, he would displease men. So too Seneca could suggest that there was no state which could tolerate the wise man or secure his toleration. However, such pessimism did not represent the final judgement of the Stoa. It was recognized, most emphatically by Panaetius, that the state answered human material needs and fulfilled men's natural and reasonable impulse for co-operation." It would hardly have been consistent with the Stoics' faith in providence if all or most existing states had been irremediably evil. Did not the mere existence of any given form of institutions perhaps imply that those institutions served a worthy purpose in the divine economy? At any rate there is no evidence that Stoics condemned any political system as such; for instance what they disapproved of in the tyrant was not his absolute power but his abuse of it. We are told that it was particularly (though not exclusively) in states that exhibited some progress towards perfection that the wise man would be active. Progress must here be construed in a moral sense, of states that tended to imbue their citizens with virtue. Old Sparta apparently evoked Stoic admiration, because of the strict and simple life prescribed by Lycurgus. Sparta was also most often cited as an instance of that mixed or balanced constitution which won the approval of many ancient thinkers, perhaps above all for its stability. In the individual stability of purpose was for Seneca a mark of moral progress, s and perhaps stability was also a Stoic criterion for judging constitutions. Certainly we are told, without explanation, that the old Stoics preferred a mixed constitution. Panaetius is often held, with no certain proof, to have commended the Republican system at Rome for its balance,' and the historical work of his illustrious successor, Posidonius, was probably biased in favour of the Roman aristocracy. At Sparta Cleomenes I, who professed to be re-establishing both the old austerities and the old political balance, enjoyed the assistance of a Stoic counsellor. Cato could probably have cited Stoic texts to justify his struggle to preserve the Republic. On the other hand Stoics did not condemn monarchy in theory. Some scholars even suppose that they gave it their special approbation. No doubt rule by a Stoic sage would have been in their eyes the best form of government. That may be one reason why several of the early Stoic masters wrote treatises on kingship. Yet, given the rarity of the sage, it must have seemed a remote possibility that if he emerged at all, he would also happen to obtain sovereign authority. Probably these treatises were intended to depict the perfect ruler as a model for contemporary kings. Conceivably, like Seneca in the de clementia, their authors did not insist over much on the gulf that divided actual rulers from their ideal. Moreover, a philosopher had the best hope, so it might seem, of effecting what he thought right as the minister of an autocrat, and since kings enjoyed great power in the Hellenistic world, Stoics who were ready to engage in political activity entered their service; this was only natural. However, once the aristocratic Roman Republic had become dominant, they were no less prepared to attend and advise men of influence at Rome. Panaetius was an intimate of Scipio Aemilianus, and Tiberius Gracchus and Cato had their Stoic counsellors. Only after Augustus did monarchy become the one system towards which for practical purposes a Stoic needed to define his attitude. The precepts and examples of the early masters of the school did not require him to reject it on doctrinal grounds; how indeed could he have done so, without impugning the dispensations of Providence? At a merely empirical level Tacitus reluctantly conceded that it was in the interest of peace that all power should be conferred on one man; he had been anticipated, a century earlier, by Strabo, who was an avowed Stoic. Seneca argued that the struggle for Republican freedom had been futile, and not only his career but those of T. and Helvidius, men of firmer resolution, indicate that their principles did not lead these Stoics to condemn the Principate as such. The wise man would not be hindered from participating in public life by any form of government, yet under any form he might conceive that he had a higher duty to a vocation of philosophic investigation and teaching his fellows by precept and example, besides fulfilling the obligations of private life." And under any form he might also see that he had no opportunity for effective political action, because of the wickedness of those in high places at the time. The doctrine that the goodness of every act lay in the disposition from which it was performed and not in its results did not require Stoics to engage in an undertaking doomed to fail ab initio; the wise man would not take a leaking ship to sea, nor, if unfit to fight, enlist in the army. Under a tyranny he simply could not do any service. As for the ordinary man, there were reasons why he might abstain from public affairs which did not apply to the sage. By definition the latter had already attained to that perfect understanding and virtue to which others at best aspired. But the pre-occupations of a busy public career might be sufficient of themselves to prevent imperfect men from ever reaching that goal. Seneca could hold at times that it was justifiable for a man to retire from long public service to private duties and to care of his own soul, at times that the whole of his life was not too long for this task, all the more because his example could be beneficial to others. The sage too was impregnable in his virtue, which he could hardly lose, but in other men moral progress might be impeded by what St. Paul calls 'evil communications' (I Cor.). Moreover, even when arguing that a man should normally undertake public duties, Seneca concedes, in a way reminiscent of Panaetius' emphasis on individual endowments, that he might be debarred not only by his physical, intellectual or pecuniary resources but also by his temperament; he might be too sensitive or insufficiently pliable for life at court, too prone to indignation, or to untimely witticisms that showed high spirit and freedom of speech but would only do the speaker harm. Again, as Panaetius had also held, he might be suited only to contemplation, not to public affairs; and 'reluctante natura, irritus labor est'. None of these considerations applied to the sage, who was omnicompetent and impervious to what others would regard as insults or injuries. Seneca's views on the propriety of a political career are self-contradictory, but the assumption that these contradictions can be explained simply by the hypothesis that he recommended otium only when his own political prospects were impaired and political activity only when himself engaged in public affairs, hardly fits the fact that we find the same antinomy in the sermons of Epictetus and the Meditations of Marcus. Seneca's advocacy of quietism reflects one important aspect of Stoic influence. Epictetus recognizes of course that men are bound to perform the duties that arise from their social relationships, but he is much more insistent on the ultimate worthlessness of all those secondary goods to which activity in the world is inevitably directed. A man of a certain station should take office, but it is wrong for him to set his heart either on holding it or on freedom from its cares; it is significant that he should think it necessary to warn his pupils against yielding to both these kinds of pestic Ofeis i a is les kiy Fallivan my police it cno doubt because no good man would submit to the humiliations on which advancement depends;? the few whose aim is to bring themselves into a right relation with the divine earn the mockery of the crowd, and they can hardly pursue their aim as procurators of Caesar. Epictetus was himself a former slave with no chance of a public career, but it is plain that his audiences were mainly drawn from the upper class, some of them aspirants to a career at Rome, like the young Arrian who took down his words.' In fact Epictetus' own low social station and the academic character of his way of life may have made him less conscious of the dangers of evil communications than Seneca had been, even though two of his diatribes are devoted to the theme (n. 69). We also find a greater serenity in his teaching than in Marcus' reflections. When Marcus looked back to the time of Vespasian or of Trajan, he saw a world in which men were engaged in flattery and boasting, suspicions and plots, praying for the death of others, murmuring at their own lot, given to sexual passions, avarice and political ambition. It was the same in his own court. More than once he dwells with loathing on the dark qualities of those who surrounded him, the emptiness of their aims, their longing for the death of 'the schoolmaster', though he had so greatly toiled, prayed and thought on their behalf; indeed death would be a release, the more merciful, the earlier it came. However, Marcus had his duty to perform; he was set over mankind as the ram over the flock or the bull over the herd (ibid). No other vocation (inó®ois) is so suited to philosophy, that is to say, to the exercise of a reason which has accurately established the rationality of nature and of all that life contains. But it is evidently by a conscious effort that Marcus reconciles himself to the place Providence has assigned him, and he can also say that his role impedes him in the pursuit of philosophy." The general character of his Meditations shows that his inclination was to ponder on the divine order and his own relation to it rather than to consume his energies in 'the daily round, the trivial task' which, nonetheless, furnished him on his own principles with all his reason required him to ask. Those principles taught him that the wise man would serve the state, if there were no external hindrance. But an autocrat could plead no hindrance, so long at least as his natural capacities permitted him to render good service. All the same we can see how a man of Marcus' temperament, set in some lower station, must have preferred that life of contemplation which in the end Seneca had pronounced the best. Thus the more seriously Stoic teaching was accepted, the more ardent in some minds must have been the desire for retirement and meditation, at most combined with the performance of inescapable private duties. Whether Stoics commonly yielded to this desire, as some of their critics averred (p. 9), we cannot say; our records can hardly be expected to commemorate lives of quiet seclusion; Sextius is a rare example, known by name (n. 10). It is with others that we must henceforth be concerned, men who thought themselves bound by their principles to enter public life, who believed what Seneca once said (ep. 96, 5),'vivere militare est', and who tried to play the part, or to occupy the station, to which they had been called by birth and ability. This Stoic concept of the individual's station was applied, as Koestermann showed long ago, to the emperor himself. Augustus seems consciously to have adopted it, probably under the influence of the Stoic Athenodorus; this was known to such panegyrical writers of the time as Ovid and Velleius. Claudius too appears to have spoken of his station, and in his reign and Nero's the notion is found in Seneca and Lucan. Tacitus referred to Vespasian's station, Pliny to Trajan's. Pius himself also employed the term. It survived into the fourth century.? Curiously, Koestermann failed to observe that the idea is implicit in Marcus' Meditations. Pius, according to Marcus, always acted in the way which had been appointed for him. He exhorts himself to let the god within him be lord of a living being, who is a male, a Roman, a ruler, who has taken up his post, as one who awaits the signal for retirement from life, fully prepared. He has to carry out the task set him like a soldier storming the breach. Similarly he speaks of his 'place' in the world, or of his 'vocation'; like all men, he has tasks to perform, proper to his own constitution and nature, and 'as Antoninus, my city and fatherland is Rome'; he must be strenuous in doing his duty, acts of piety and benefit to men, like Pius before him. He is a sort of priest and servant of the gods, and this makes him, rather like the Pope, a servant of men; he regards his life as a 'liturgy' or as 'servitude'. Long before, Antigonus Gonatas under Stoic influence had described kingship as 'noble servitude', and Seneca had applied this to Nero's position. But what were the particular duties that Stoics attached to the station or role of the emperor? According to Seneca he is to be 'vigilant for the safety of each and all'. He belongs to the state, not the state to him.® Seneca recommends Nero to win his subjects' consent, respecting public opinion 3 and freedom of speech,* and to observe the laws. Under the good ruler justice, peace, morality ('pudicitia'), security and the hierarchical social order ('dignitas') will be upheld, and economic prosperity will be assured.& The greatest stress is of course laid, for reasons not hard to discern, on clementia. But it is everywhere implicit that the emperor should be guided by traditional standards and objectives accepted by his subjects. Marcus accepted similar criteria. Marcus adjures himself to do everything as a pupil of Pius, to emulate his justice, beneficence, clemency, piety, frugality, his respect for the opinions of others combined with firmness and foresight in making his own decisions, the purity of his sexual life, his mildness and cheerfulness, his civilitas, and so forth. Marcus himself continually reflects on two themes, the providential order of the world and the duty incumbent on all men to perform acts of fellowship (praxeis koinônikai), a duty that springs from man's place in that order." This creed undoubtedly supplied him with a deeper sense of the value of the virtues that Pius had exemplified, not least his untiring devotion to work. 'Rejoice and take thy rest in one thing, proceeding from one social act to another, with God in mind' (VI 7). There was no novelty in all this. For instance, Hadrian's procurators had proclaimed the 'indefatigable care with which he is unceasingly vigilant for the interests of men'. Fergus Millar has illustrated at length the standard of personal industry which was expected of emperors, though (I suspect) not as often reached as his more unwary readers might suppose. Dio tells us that Marcus himself was a hard worker who applied himself diligently to all the duties of his office, who never said or wrote or did anything as if it were of small account, but who would spend whole days, without hurrying, on the slightest point, believing that it would bring reproach on all his actions, if he neglected any detail. The assiduity always expected of an emperor was now grounded in Marcus' own philosophic convictions. Recently a scholar has censured Marcus for speaking of the obligations we have in the universal city of gods and men without telling us what they are.? But for Marcus each man has his own station in that city: his was that of Rome's ruler. He was not writing a treatise to instruct others, but meditating privately on his own duties, and he could have learned these, in conformity with Epictetus' teaching, by merely considering the name of emperor which he bore; it told him that his task was to do what was expected of an emperor. Numerous principles of government are in fact implicit in his account of Pius, for instance in his allusion to Pius' husbandry of financial resources. The same critic rightly observes that Marcus' policy and legislation were largely traditional, and concludes that he was basically a Roman rather than a Stoic. But the antithesis is false. I suppose that it rests on a presupposition that Stoic teaching on the kinship of all men as such ought to have made genuine believers critical of the existing order and ready, when they had the power, to reform it. But at least after Zeno and Chrysippus (n. 37) no Stoic thinker drew any such practical implications from the doctrines of the school: their aim was to amend the spiritual condition of individuals, not their material lot, nor the social structure. Epictetus held that it was man's task not to change the constitution of things - 'for this is neither vouchsafed us nor is it better that it should be' - but to make his will conform with what happens." So too Marcus, vested with autocratic power, tells himself 'not to look for a Utopia, but to be content if the least thing goes forward, and even in this case to count its outcome a small matter. "3 Marcus' portrait of Pius has special value for two reasons. First, as the product of intimate familiarity and perfect sincerity, it shows us both what Pius was in the eyes of one who had long worked with him closely and what Marcus himself sought to be." It is thus infinitely more authoritative testimony to the practice of Pius and to the ideals of Marcus than we possess for any other ruler in the judgements of historians or in the propaganda of panegyrics and coins. But, in the second place, if we leave on one side a few merely personal traits and anecdotes, it presents a model that corresponds to the conventional view of the good emperor that we can construct from such evidence. The qualities that Marcus imputes to Pius are precisely those for which other emperors take credit themselves or which are lauded by their admirers or flatterers, and the judgements of later historians such as Tacitus and Dio reflect the extent to which they considered these claims justified. Augustus himself provided the prototype. There is thus no sign that Marcus recognized any objectives that had not been pursued by those among his predecessors who had earned the approval of the upper classes, or that his doctrines either led him to question the established principles of imperial policy or offered him any guidance in determining the objective content of his actions. His philosophy inspired him to do what he thought to be right, but what he thought to be right was fixed by tradition. His convictions made him give the most conscientious attention to even trivial tasks, but that very absorption can have left him the less time to re-examine the content of his duties; probably it never occurred to him that such re-examination could be needed. The principles and virtues he admired in Pius are almost the same as, for instance, Pliny had ascribed to Trajan, and Pliny admits that they had been attributed to all earlier rulers, Domitian included, though with less sincerity and truth.? To take one example of the traditional character of the ideal, Pius' firmness of purpose, his self-consistency, recalls the 'constantia' of the Stoic wise man," but it was Tiberius who had proclaimed to the senate his wish to be 'far-sighted in your affairs, constant in dangers, fearless of giving offence for the public interest'. And in this same speech Tiberius re-asserted his policy of treating all Augustus' words and deeds as having the force of law. That was known even to a provincial contemporary; Strabo remarked that he had made Augustus the standard for his administration and commands.' It was by that standard that each of peror our or prided, a deo which the syst a uration of y ravis a adjustments had from time to time to be made, but it developed slowly and almost imperceptibly from a sequence of new expedients rather than from any deliberate pursuit of reform. Deliberate innovation was characteristic only of those emperors whose policy was reversed after they had been overthrown. There are certain features in Marcus' imperial ideal which are highly relevant to the attitudes that Romans of rank might be expected to adopt towards the emperor and his service. Pius had disliked pomp and adulation and treated his friends as one gentleman treats another; Marcus warned himself not to be 'Caesarified'. This civilitas may seem to be no more than a matter of etiquette, but Panaetius had already elevated sensibility for the feelings of others into a moral obligation, and the more indes-tructibly absolute the real power of the emperor appeared, the more the upper class at Rome prized the semblance of his being no more than the first citizen. Perhaps nothing in Domitian's conduct so enraged them as his claim to be 'God and Master' and the behaviour that went with this claim. Moreover, civilitas generally accompanied and conduced to something of more political significance, the emperor's readiness to tolerate free expressions of opinion and to listen to advice. Both Pius and Marcus were notable for respecting such 'libertas' (even though there is no good reason to think that Marcus did not reserve the final decision to himself). 1a Such respect was demanded of emperors by senators, and it could be seen as an indispensable condition of their performing their own role in the service of the state. In name at least the imperial senate retained the highest responsibilities. Augustus had pretended to restore the old Republic, and it could even be said of him and of Tiberius that they had revived the maiestas of the senate. On Republican principles, as stated by Cicero, that should have meant that the senate was once again the ruling organ of the state with the magistrates as its servants;1°4 of these the princeps could no doubt be regarded as the first. In theory he was to be the public choice ('vocatus electusque a re publica'), and Tiberius expressly acknowledged that it was the senate which had entrusted him with his wide powers; like Augustus, he would not allow himself to be styled dominus, but actually addressed the senators as his 'bonos et aequos et faventes dominos', 105 In outward appearance the majesty of the senate had been enhanced by new judicial, electoral and legislative prerogatives, and the privileges of its members were sedulously preserved or extended. At his accession Tiberius had professed to desire that the functions of government discharged by Augustus should be more widely shared; later he censured the senate for casting the whole burden on the emperor; he disliked flattery, and at least pretended that senators should speak their minds; in his reign, as under Augustus, 108 there remained what Tacitus calls vestiges of free speech in the senate. Tiberius began by consulting it on all matters, however weighty;''° it was still expected to be the great council of state. Gnaeus Piso, renowned for his free speaking, urged that it would be proper ('decorum') for the senate and Equites to show that they could assume the burdens of government in the absence of the emperor.!" The reigns of terror in Tiberius' later years and under several of his successors in the first century cowed most members, but the emperors continued, however insincerely, to treat their constitutional rights as unchanged. Claudius could tell the senate that it was 'minime decorum maiestati huius ordinis' that its members should not all give their considered opinions. Pliny tells how Trajan exhorted them to resume their liberty and 'capessere quasi communis imperii curas'; we may be sure that 'quasi' was inserted as discreetly by Pliny as it had tactfully been omitted by Trajan. This was not new, as he remarks; every emperor had said the same, though none had been believed before. Thus in theory the senate remains the great council of state, and just as a conscientious emperor could conceive that he was bound to perform the traditional duties of his station as ruler, so conscientious senators could take seriously the fulfilment of the responsibilities that the emperors themselves continued to recognise as constitutionally belonging to their order. Under Nero T. saw it as his duty 'agere senatorem', to play the role of a senator. At the outset of his reign in Nero declares that the senate should retain its ancient functions, lis and, until the conspiracy of Piso,  most senators are free from the terror that hardly abates in the previous generation. Nero's victims in these years consisted almost wholly of the few who stood too near the throne. T. has some ground for hope, not least in the influence of Seneca, that there is now a place for senatorial freedom. T.’s first recorded initiative consists in unsuccessful opposition to a motion permitting Syracuse to exceed the appointed number of gladiators for a show. T. is standing for the old order. T’s critics urge that an advocate of senatorial liberty should devote himself rather to great questions of state. T. replies that, by attention to the smallest matters, the senate shows its competence to deal with the greatest. To T., virtue is manifest in EVERY ACTIVITY ALIKE. We may recall Marcus' attention to detail and insistence that it was of value if the least thing went forward. T. also shows his care for good government by assisting the Cilicians to obtain the conviction of an oppressive governor. Yet T. is to inveigh against the 'novam provincialium superbiam', manifested in the power some subjects possessed, to secure or prevent votes of thanks to governors in provincial councils. It is  shameful that 'nunc colimus externos et adulamur'. This solicitude for the superior dignity of a senator is no more inconsistent with T’s belief in the common humanity of all men, irrespective of their status, than their failure to challenge the institution of slavery, or indeed to promote strict equality before the law among free men. They never expressed disapproval of degree, priority and place', which were such marked features of the Roman social structure and which they could not have regarded as incompatible with the providential order of the Universe. Not that T. is showing indifference to the true interests of the provincials. It is the 'praevalidi provincialium et opibus nimiis ad iniurias minorum elati' whom T seeks to check. Tacitus makes T. aver his care for good government on this very occasion. T.’s sincerity need not be doubted. And, in all probability, T.’s motion, which was approved after reference to Nero, is beneficial. Once again it only extended the principle of a senatus consultum of Augustus' time. Already T. walks out of the senate rather than assent to the congratulations it proffers to Nero on Agrippina's murder. T. also shows less enthusiasm than Nero desired for the ludi luvenales. T.’s enemies suggested that it is inconsistent that T. himself performs in the garb of a tragic actor in his home town of Padova. But the ludi cetasti which T so honours are of ancient institution, ascribed to Antenor, and it is very possible that T. does no more than tradition requires. By contrast, Nero's histrionic performances are a hated novelty. Ordinary Romans came to detest Nero no less for his breaches of convention than for his crimes; 'I began to hate you' Subrius Flavus told him: 'once you appeared as the murderer of your mother and wife, as charioteer, actor and incendiary' It was typical of a Stoic to disapprove of departures from the old mores. Yet T. still does not despair. What Seneca could excuse, T. overlooks. T. advocates a mild penalty for the praetor, Antistius, accused of treason because he had published poems libellous of the emperor. The senate should not impose sentence of death 'egregio sub principe', when it was free to make its own decision and could opt for clemency. Even flattery of Nero was justified in a good cause, and in fact Seneca's old pupil was not yet ready to disregard the maxims of his master. Long assiduous in attending the senate, T. at last withdraws, though he still performs private duties to his clients in the courts, in the manner Seneca recommends. There is no vestige of evidence that T. conspires. But T.’s retirement implies that, in his view, the regime is irretrievably corrupt, since his previous devotion to public affairs showed that it could not be set down to 'ipsius inertiae dulcedo.’ It may seem strange that his friends, Arulenus Rusticus, tribune, and Helvidius Priscus, did not retire with T. But each Stoic had to make his own decision, true to his own persona. T.’s conduct marks Nero as a tyrant. It may be construed, and genuinely felt, as a threat. Tyrannicide was esteemed in antiquity as not a crime but a noble deed. In an extreme case, according to Seneca, it was an act of mercy to the tyrant himself. The poet, Lucan, who was tinged with Stoicism, had been implicated in Piso's conspiracy,and that was the occasion for the banishment of Musonius, though there was apparently no evidence of his guilt. In general, there is no ground for thinking that Stoics turned to plotting against the emperors of whom they most profoundly disapproved. Epictetus merely insists that no commands of the tyrant can affect true freedom; a man can always choose to obey God rather than Caesar. Thus he only contemplates passive resistance. T. goes no further, and perishes on that ground alone. Under DOMIZIANO too Arulenus Rusticus, called an ape of the Stoics, is said to have suffered death merely for his laudation of T., Herennius Senecio for his biography of the elder Helvidius and for failing to pursue the normal senatorial career, and Helvidius' own son for his withdrawal from politics and for alleged libels on the emperor; by what they did not do, and sometimes by what they said, these men had indicated that Domitian was a tyrant, no more, but that was sufficient offence. The elder Helvidius, T.'s son-in-law, undoubtedly went further. Exiled by Nero and recalled by Galba, he was encouraged by Vitellius' practice of consulting the senate even on minor matters to controvert the emperor's proposals, and new hope was brought by the accession of Vespasian, a friend of T.. At first Helvidius spoke of T. with honour but without insincere adulation. He judged that the time had come for independent action. The senate should indeed 'capessere rem publicam', all the more, as Gnaeus Piso had once held because the emperor was absent. Helvidius proposed that the senate should take immediate measures to remedy the deficiencies of the treasury and to restore the Capitol, a task in which Vespasian might merely be asked to assist. By selecting deputies to congratulate the new ruler it should mark out the men on whom Vespasian should rely for advice. Equally the great delators of Nero's reign, such as T.’s accuser, Eprius Marcellus, should be punished. Perhaps the motives for this demand made by Helvidius' friends as well as by himself were vindictive; we cannot read their minds. But we may see a justification that went beyond rancour, one of the same kind that lay behind the impeachments and Acts of Attainder that served to promote the development of a constitutional monarchy in our own country; the punishment of wicked ministers of the past might deter their like in the future. Helvidius' aim was surely to ensure that Vespasian and his successors should rule by the advice and consent of the senate and of those it trusted. His initiatives found insufficient support. 136 It was in the same year after Vespasian's return that the fatal conflict began. According to Dio Helvidius incurred Vespasian's hatred partly for abusing his friends - that is easy to understand, for Eprius was again in high favour - and still more for turbulence in rousing the people with denunciations of monarchy and praise of a Republican system. 138 That is not to be believed. Long ago Helvidius had consented to serve the Principate; he had recently approved of Vespasian's accession, and rabble-rousing was as alien to Stoic practice as it was futile. Probably Dio confused Helvidius' attachment to libertas, an ambiguous word, with Republican allegiance. 139 But the breach was serious: it led first to Helvidius' arrest and then to his banishment and execution, of which Vespasian himself is said to have repented. He must in the emperor's view have been guilty of treason. But in what way?Dio, in making out that Helvidius appealed to the rabble, probably associates his opposition with the expulsion of Stoic and Cynic philosophers that occurred about the same time. It is highly probably that some Cynics under the Principate did assail monarchy and the whole social order. This view indeed hardly fits the notion that there was a 'Cynic-Stoic' theory of kingship, but that notion should surely be discarded. Just as the Cynic 'citizen of the world' was a man who rejected the ties of citizenship in any particular state, so the Cynic 'king' was one who truly possessed the unfettered freedom that was falsely ascribed to autocrats; both conceptions were moral, not political.140 In any case Cynics and Stoics ought not to be confused, though some Stoics, notably Epictetus, undoubtedly admired the true Cynic's indifference to worldly goods; but not even Epictetus held that it was right, except for a few persons with a special vocation, to neglect ordinary social and political obligations. 14 But just because there was a certain measure of agreement between Stoics and Cynics, and because there were a few Stoics who could be called 'paene Cynici' (n. 37), it was easy for the enemies of aristocratic Stoics to resort to malicious misrepresentation of their attitudes. Thus the accusers of T. had suggested that his attachment to liberty was a mere pretence that concealed anarchic designs inimical to the Roman peace. Tacitus' detailed account of his actions disposes of this calumny. Unfortunately, Tacitus' evidence of Helvidius'  quarrel with Vespasian is lacking, and Dio, usually unsympathetic to philosophers, probably adopted uncritically somewhat similar allegations against him. It is not in the least likely that a man of mature age whohad sought to uphold the authority of the senate and had previously been ready to serve emperors now threw over all his past convictions and engaged in attacks on the whole established order. Epictetus (n. 152) and Tacitus (n. 22) depict him as true to the last to his own role as a senator. We must then look for another explanation. Dio's epitomator collocates Helvidius' quarrel with Vespasian with an incident in which Vespasian left the senate in tears, saying that either his sons would succeed him or no one would. It is an old conjecture, which I would endorse, that Helvidius objected to Vespasian's manifest intention to pass on his power to his sons. Once Titus had actually been invested with imperial power as his father's colleague in 71, Helvidius' protests could plausibly have been construed as treason. If this explanation be true, we can see that there was right on both sides. Constitutionally the choice of a princeps lay with the senate, and a man was to be chosen in the public interest as the person best fitted for the task. There was no reason to think that Titus or Domitian fulfilled this criterion.  In practice the succession had been dynastic from the first, and it had given Rome a series of rulers, every one of whom in senatorial opinion had proved a tyrant. The crimes and follies of Nero had resulted in civil war that imperilled the very fabric of the empire. Galba (having no heir in his family) had allegedly proclaimed a very different principle: the adoption of the best man to be marked out by consent. 147 Yet from the first Flavian supporters had seen in the fact that Vespasian had two grown sons a guarantee of stability. Dynastic sentiment might count for little in the senate, but it made a powerful appeal to the armies and the provinces. '4) Not one of Vespasian's successors could afford to disregard this factor. Marcus Aurelius admired Helvidius as well as Thrasea; from them he had learned, he says, the conception of a state with one law for all, adminstered by the principles of equality and free speech for all alike, and of a monarchy that valued most highly the liberty of the subjects;150 yet he too made a worthless son his successor. We need not think that this must be explained by Aristotle's dry observation that it would be an act above human virtue for an absolute king to disinherit his own son:151 dynastic succession was part of the tradition that Marcus could think it right to accept.Epictetus illustrates his thesis that every man has his own individual role to play by dramatizing a confrontation between Helvidius and Vespasian. 'When Vespasian forbade him to attend the senate, Helvidius replied, "It lies with you to exclude me from the senate, but while I am a senator, I must attend". "Then attend, but say nothing." "Do not ask my opinion and I will say nothing." "But I am bound to ask your opinion." "And I am bound to say what I think right." "But if you speak, I shall put you to death." "When then did I tell you that I was immortal: You will do your part and I mine. It is your part to put me to death, mine to die without trembling, your part to banish me, mine to depart without repining.'" What good did Helvidius do, asks Epictetus, as he stood alone? 'What good does the red stripe do the mantle? What but this? It shines out (iopÉTTE!) as red, and is there as a fine (koóv) example to the rest. Anyone but Helvidius would simply have thanked Vespasian for excusing his attendance, but then Vespasian would not have had to issue any prohibition; any one else would have sat in the senate, inanimate as a jug, or have heaped on the emperor the flatteries he wished to hear. '152 Helvidius had assumed a role, conscious of what his personality required, had prepared himself to play it, and was resolved to play it to the last. And his conception of that role was determined by constitutional principles, to which indeed most men now rendered only lip service. His stand was unsuccesstul. lo a Stoic that was of no consequence. Similarly it is no valid criticism of T. that, in disapproving of Agrippina's murder, he imperils himself without promoting the freedom of the rest. Not all men have the same duties, and in any case you could not prescribe another's conduct, nor could it affect your own blessedness. If my contentions are correct, Stoics as such had no theoretical preference for any particular form of government, monarchical or Republican. They acknowledged the value of the state, and they accepted that an individual whose position in the world and natural endowments permitted him to render the state some service had a duty to take part in public life, but only under certain conditions. His preoccupation with political activity must not be such as to impair his spiritual welfare, and even though the value of every action derived wholly from the agent's state of mind and not at all from the external consequences of the action, it was senseless for a man to involve himself in public cares, if it were certain from the start that he could achieve nothing so long as he acted as a good man should. Thus Stoic teaching may have tended to induce many of its devotees never to emerge from a quiet course of philosophic study and private duties: it certainly led others to retire from public life, or to manifest their opposition to the government, under rulers whose conduct violated moral rules. These rules were, for the Stoics, those which were endorsed by their society. It did not occur to them that the political principles that rulers were commonly expected to observe might need to be reviewed. Each man had a role to perform, a station to fill, the duties of which were fixed by general consent. The good emperor, and the good senator, were bound to carry out these duties conscientiously. It was this way of thinking that united Stoics in power and Stoics in opposition. Hence, as the good ruler, Marcus could easily recognize the merits of good subjects such as Thrasea and Helvidius, who had done their best to play their own, different, parts in public affairs. If in politics success is the standard of judgment, there was little to commend in men who did not identify outward defeat with sheer futility, who admired above all the 'iustum et tenacem propositi virum' and would have thought it praise enough to say that si fractus illabatur orbis impavidum ferient ruinae, without even admitting that there might be something unwelcome in the ruin of the world. Moralists may find some comfort that history occasionally reveals men in high places ready to do or endure anything for what they suppose to be right. The historian can note that what the Stoics supposed to be right, what they could conscientiously devote or sacrifice their lives to doing, was largely settled by the ideas and practices current in their society, and that a Helvidius or a Marcus was inspired by his beliefs not to revalue or reform the established order, but to fulfil his place within that order, in conformity with notions that men of their time and class usually accepted, at least in name, but with unusual resolution, zeal and fortitude. T. was thus a Roman politician of the Porch persuasion. As a member of the Senate, he fearlessly follows an independent line, and in the process antagonised with Nerone, who eventually pressurises the Senate into condemning him to death. T. duly commits suicide by opening his veins in the presence of his son-in-law, Elvidio Prisco and Demetrio di Roma. He was a great admirer of Catone Minore and wrote a biography of him. Publio Clodio Tràsea Peto. Keywords: portico, suicidio, vita pubblica, vita privata, virtute, ius, principe, principato, reppublica, senato, morale, diritto e moral. Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Trasea.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasea: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia italiana – Grice italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Abstract. Keywords: Crotone, filosofia italica. Filosofo italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasea. Keywords: la setta di Crotone, filiale a Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasci: la ragione conversazionale del colloquio lizio con me stesso -- filosofia italo-albanese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Bisignano). Abstract. Keywords. Grice: “A good thing about having a ‘colloquio con me stesso’ is that you don’t need to follow the Cooperative Principle, or do you?! --  But while some such quasi-contractual basis as this may apply to some cases, there are too many types of exchange, like quarreling and letter writing, that it fails to fit comfortably. In any case, one feels that the talker who is irrelevant or obscure has primarily let down not his audience but himself. Filosofo italiano. Bisignano, Cosenza, Calabria. “Spera in Deo”. Nato in una famiglia di origine arbëreshë. Essendo il primogenito della famiglia e, dunque, contravvenendo alle regole del maggiorascato, a causa della salute cagionevole venne avviato alla carriera ecclesiastica nel locale seminario, proseguendo gli studi a Roma e Napoli. È nella città partenopea che si lega particolarmente alla compagnia di Gesù divenendo uno dei confessori più vicini a Isabella della Rovere, principessa di Bisignano. Per non essere distolto dai propri studi filosofici si ritira volontariamente a vita privata, dapprima nella Tuscia e poi ospite nel Castello di Proceno, presso Viterbo di proprietà dei Sforza. Ancora nei primi professore una lapide marmore posta nella rocca ne ricorda la sua permanenza. Da tale esilio usce in pochissime occasioni, assistito dal nipote. Fu durante la reclusione nella rocca di Proceno che ha modo di conoscere GALILEI ospite nel palazzo durante un suo viaggio verso Roma. Dopo esser stato vescovo di Umbriatico,venne creato vescovo di Massimianopoli in partibus infidelium da Alessandro VII. Saggi: “Colloquio con me stesso”, di Antonino. Universam Aristotelis philosophiam; Summa Aristotelicha – LIZIO. Summa theologica dogmatica. Tomassetti, Cenno storico sulla vita dell’illustrissimo T. (Roma); Nutarelli, Proceno-Memorie storiche, Acquapendente, T., Amalfitani di Crucoli, erudito italo albanese Professore or mai dimenticato,  MIT Cosenza. Ferrante Marco Antonio Baffa Trasci. Ferruccio Baffa-Trasci. Trasci. Keywords: “conversazione con me stesso”, lizio, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trasci” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasillo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Grice italo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Roma). Abstract. Keywords. philosophus rex, Antonino. Filosofo italiano. the philosophy teacher or tutor of emperor TIBERIO. A Pythagorean and member of the Accademia. Trasillo. Keywords: Tiberio, principe filosofo. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trasimede: la ragione conversazionale della filiale della setta di Crotone a Metaponto – Roma – filosofia della Basilicata -- filosofia italiana – Grice Italico – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Metaponto). Abstract. Keywords: Crotone. Filosofo italiano. Metaponto, Bernalda, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico. Trasimede. Keywords: setta di Crotone, filiale di Metaponto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trebazio: la ragione conversazionale della repubblica romana e l’implicatura conversazionale del luogo – Roma antica -- la filosofia romana –  filosofia campanese -- filosofia italiana – Grice italo – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Velia). Abstract. Keywords. Filosofo italiano. Novi Velia, Salerno, Campania. È molto dubbio che si debbano prendere alla lettera certe espressioni di CICERONE che accennano l’inclinazione di T. por la filosofia dell’Orto. Provenne da famiglia agiata e pare che si reca a Roma per darsi agli studi giuridici. Per raccomandazione di CICERONE, GIULIO CESARE lo conduce nelle Gallie e si serve di lui per pareri giuridici. Ritornato a Roma all’inizio della guerra civile, T. age da mediatore tra GIULIO CESARE  e CICERONE. Nel conflitto fra CESARE e POMPEO, T. si schiera col primo al quale rimase sempre fedele. Dopo la morte di GIULIO CESARE, T. si reca spesso alla villa Tuscolana di CICERONE, ove gli caddero in mano i "Topica" di Aristotele. Per contentare il suo desiderio di avere chiarimenti di quella trattazione, CICERONE scrive il saggio omonimo che dedica ed invia a T. In seguito T.  segue OTTAVIANO. ORAZIO dedica a T. una satira, in cui lo presenta come un insigne giurista. T. venne nominato cavaliere o da GIULIO CESARE o d'OTTAVIANO. T. è il maggiore giurista del tempo suo e ha come scolaro ANTISTIO LABEONE (si veda). Scrive sul diritto civile e sulle religione, ma ci restano soltanto citazioni di autori posteriori. T. probabilmente adere a un eclettismo simile in parte a quello di CICERONE con forti caratteri dell’ACCADEMIA e del PORTICO, ma non si può dire se accetta la scessi probabilista dell'ACCADEMIA. È in stretti rapporti di amicizia e confidenza con GIULIO CESARE, OTTAVIANO, ORAZIO, MECENATE, oltre che con CICERONE, col quale intrattenne un fitto epistolario e che gli dedica i “Topica”. In qualità di giureconsulto, segue GIULIO CESARE nelle sue campagne galliche, ricoprendo, anche se solo formalmente, la carica di tribuno militare. E inoltre ascoltato consigliere d’OTTAVIANO ed ha notevole fama quale maestro di MARCO ANTISTIO LABEONE (si veda), che, nella fase evolutiva che dalla Res publica al Principato, è l'artefice di quel movimento innovatore del diritto romano che e stato detto dei proculiani.  Delle sue numerose opere nulla si è conservato, se non le frequenti menzioni che di lui si trovano nelle Pandette e nelle Institutiones del Corpus iuris civilis giustinianeo. Da CICERONE e POMPONIO apprendiamo che è allievo a Roma di CORNELIO MASSIMO (si veda). Secondo POMPONIO, la perizia giuridica di T. e maggiore dell'eloquenza, arte in cui fu superato da qualcuno, come CASCELLIO, giuridicamente meno dotato di lui. Potrebbe essersi avvicinato all'ORTO tramite PANSA, una scuola dalla quale si sarebbe poi allontanato su sollecitazione di CICERONE che la considera poco consona alle virtù civili e allo studio e alla pratica del diritto. La questione ritorna poco dopo, quando CICERONE parla dei rischi del disimpegno civico di T., in relazione al suo ruolo di patrono di Ulubrae, i cui cittadini, in nome dell'amicizia tra i due, saputa della presenza dell'oratore di Arpino, si sono mobilitati nel dare un'entusiastica accoglienza. Nelle stesse righe, CICERONE già si mostra perplesso alla notizia di un suo precedente avvicinamento, sulla scia di Selius, all’ACCADEMIA di Carneade, della scessi, una tradizione filosofica un tempo seguita e apprezzata da CICERONE, ma dalla quale, come si evince indirettamente anche dalla lettera, egli aveva preso le distanze in favore di una sua particolare interpretazione del PORTICO. Ha poi una notevole reputazione come maestro di MARCO ANTISTIO LABEONE (si veda), che avrebbe ricoperto un ruolo importante nella cruciale fase di svolta che portò dalla repubblica romana al principato. Nell’accanite dispute dottrinarie che divisero in fazioni i giureconsulti dell'epoca, LABEONE è l'iniziatore di quella corrente innovatrice che sarebbe stata detta dei proculiani. La familiarità con CICERONE è testimoniata dall'intensa corrispondenza – XVII lettere - nelle quali aleggia sempre un tono umoristico e confidenziale e da cui è possibile attingere molte delle notizie sulla sua vita. Ecco come CICERONE, probabilmente ospite di T. (o forse dell'amico THALNA) a VELIA in un viaggio verso la Grecia, si rivolge all'amico assente. Tu però, se, come sei solito, darai ascolto ai miei consigli, serberai i tuoi beni paterni, né lascerai il nobile fiume Alento, né diserterai la casa dei Papiri. Cicerone. Velia, lettera a T. in Roma. Da CICERONE proviene anche qualche annotazione critica sul carattere di T., secondo lui troppo incline, a volte, ad atteggiamenti presuntuosi e giudizi tranchant: come quando CICERONE, in mezzo ai brindisi, viene messo alla berlina dall'amico sulla questione dell'esistenza o meno di una particolare tradizione dottrinaria. L'esistenza della tradizione, a cui peraltro nessuno dei due adere, vienne negata da T.. CICERONE allora, pur rientrato tardi a casa, e tra i fumi dell'alcool, trova il tempo di puntigliose ricerche in biblioteca per dimostrare la fondatezza delle sue ragioni e rinfacciarle all'amico. Tratti caratteriali che CICERONE considera evidentemente difetti e che non manca di rimproverare all'amico, in maniera anche piuttosto aspra. E ora ascoltami bene, mio caro Testa [T.]! Io non so cosa ti renda più superbo, se il denaro che ti guadagni o l'onore che GIULIO CESARE ti fa nel consultarti. Conoscendo la tua vanità, possa io crepare se non credo che tu ami più l'essere da GIULIO CESARE consultato piuttosto che da lui arricchito! -- Cicerone. Roma, Lettera a T. in Gallia. CICERONE lo raccomanda come giureconsulto a GIULIO CESARE, allora pro-console della Gallia, definendolo probo, modesto e dotato di profonda conoscenza e dottrina dello ius civile. T. si une a GIULIO CESARE nella campagna di Gallia venendo investito della carica di tribuno militare. Mostrandosi poco attratto dalle faccende militari, sembra che GIULIO CESARE, pur confermandogli la carica e la paga, lo avesse esentato dagl’oneri connessi. La stessa cautela in materie militari lo dissuase dal seguire GIULIO CESARE in Britannia, facendogli meritare ancora le frecciate di CICERONE che ironicamente si chiede come mai un accanito nuotatore come lui non abbia voluto bagnarsi nell'oceano. Poté quindi godere dei favori di GIULIO CESARE con il quale entra in grande confidenza e al cui fianco resta fedele nel corso della guerra civile. A proposito di tale confidenza è significativo un aneddoto, riportato da SVETONIO, in cui GIULIO CESARE da prova di superbia e scarso rispetto verso il senato romano ricevendo, senza neppure alzarsi, una delegazione senatoria venuta a rendergli onori presso il tempio di Venere genitrices. In quell'occasione GIULIO CESARE letteralmente fulmina T. con lo sguardo, per il solo fatto di aver letto nei suoi occhi una poco gradita esortazione ad alzarsi. Ha anche da GIULIO CESARE il delicato incarico di mediare con CICERONE e con il tentennante SERVIO SULPICIO, nel tentativo, risultato poi vano, di condurre i due dalla sua parte. Dopo l'assassinio di GIULIO CESARE alle idi di marzo, si une alla cerchia d’OTTAVIANO e MECENATE, divenendo consigliere giuridico del principe. Da POMPONIO apprendiamo che T. acquisce l'ufficio di quaestor ma che il suo cursus honorum si ferma a quel gradino per scelta deliberate. T. infatti, non volendo profittare della posizione privilegiata, rifiuta il consolato offertogli d’OTTAVIANO. Si sa ad esempio che OTTAVIANO, dopo aver dato personale attuazione a un fidecomesso formalizzato da un certo LUCIO LENTULO attraverso codicilli, incaricò una commissione di saggi, fra cui T., dall'indiscussa autorità, di pronunciarsi sulla legittimità dei codicilli stessi. Dalla stessa fonte apprendiamo che la favorevole risposta di T. e improntata a un'argomentazione molto pragmatica. I codicilli, più informali di un vero e proprio testamento, permetteno di dare efficacia anche alle disposizioni mortis causa di quei cittadini romani che, impegnati in lunghi viaggi, non potevano conformare le loro volontà nelle solenni formalità richieste al testamento. Ogni sorta di scrupolo sulla legittimità dei codicilli sarebbe svanita quando perfino il prestigioso LABEONE, allievo di T., ne avrebbe fatto personalmente uso. Questa innovazione giuridica infranse la regola secondo cui le disposizioni testamentarie dovessero essere integrate in un unico atto unitario, che disponesse simultaneamente di tutti i beni. Da allora in poi è possibile frammentare le proprie disposizioni testamentarie in una serie di singoli atti scollegati. Alla cerchia di MECENATE appartene ORAZIO che recalcitra, con tono leggero e confidente, ai pareri legali dell'amico sui rischi insiti nella mestiere di poeta satirico. C'è di quelli cui sembro nella satira troppo feroce e oltrepassare i limiti consentiti. T., dimmi tu che cosa fare. Startene quieto. Dici che non devo scriver più versi affatto? Appunto questo. Che mi prenda un malanno se non era questo il meglio. Però soffro d'insonnia. La consulenza si sposta allora su un altro terreno. Coloro che han bisogno di dormire attraversin tre volte il Tevere unti. A sera si bagnino di vino. O se tanta mania ti forza a scrivere osa cantar le imprese dell'invitto Cesare, e avrà compensi la fatica. ORAZIO insiste ancora. Non che gli manchi la voglia ma i suoi mezzi poetici non li sente all'altezza del compito. T. sembra inchiodarlo alla durezza della norma che non tollera ignoranza, ma poi si arrende agli argomenti del poeta e conclude con un'interpretazione pragmatica. Tuttavia vorrei darti il mo consiglio di stare attento, di restare in guardia che non ti porti qualche seria noia l'ignoranza di leggi inviolabili. Se qualcuno abbia scritto contro un altro versi cattivi sia condotto innanzi al tribunale e sia data sentenza. Sta bene. Se cattivi; ma se buoni qualcuno li abbia scritti e con la lode di Cesare che giudica la causa? Se qualcuno ha latrato, integro lui, dietro a un altro che è degno di disprezzo? Saranno disarmate dalle risa le leggi e tu sarai lasciato andare. -- Orazio, Satire. Gli scritti di T. annoverano un De religionibus, in almeno X libri e un “De iure civili”. Delle sue opere, che si conservavano ancora al tempo di POMPONIO, non ci è pervenuto direttamente alcun frammento. Sappiamo tuttavia che e frequentemente citato dai giuristi successivi come desumibile dalle occorrenze nelle Pandette e nelle Institutiones del Corpus iuris civilis giustinianeo. La congettura sulla data di morte si deve a Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Böhlau Verlag. Tale datazione si basa sull'identificazione del LENTULO della diatriba giuridica sui codicilli con il LUCIO CORNELIO LENTULO, pro-console d'Africa. CICERONE pone mano a questa breve opera proprio su richiesta di T. Vi si dedica, lavorando a memoria, nella tappa da VELIA a REGGIO di un suo viaggio -- Si veda: Cic. ad familiares. La decisione di intraprendere questo viaggio è maturata nelle turbolenze successive all'assassinio di GIULIO CESARE, volendo CICERONE raggiungere la Grecia attraverso una lunga e inusuale, ma più sicura navigazione litoranea che, dalle coste tirreniche, attraversasse lo stretto di Sicilia.  Cic. ad familiares. Pomp. Enchiridion, nel frammento incorporato nelle Pandette giustinianee (The Latin Library). Un accenno a una possibile vicenda epicurea di T. compare nell'epistola ad familiares 7.12 scritta dalle paludi pontine. La notizia è riferita a CICERONE dallo stesso PANSA, allora in Gallia e in procinto di diventare tribuno per il biennio 52-51 a.C. L'accenno è inserito in una sorta di canzonatura, in cui Cicerone indulge all'ironia lieve sullo scarso impegno di T. nella campagna di Gallia, quasi l'avesse scambiata per una molle vacanza tarantina. ^ Altre fonti lo indicano invece come epicureo seguace di Irzio, legato di Cesare in Gallia (che sarà console con Pansa). Si veda Gravina. Origines juris civilis (De ortu et progressu juris civilis), riportata in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napol. Ad familiares. L'accoglienza degli ulubrani intenti a rendergli onore viene comicamente resa con l'immagine fabulistica di un'orda di ranocchi gracidanti, in una lettera di poco successiva (ad familiares). Sellius, comune amico dei due, fu un oratore le cui doti non sono ritenute eccelse da Cicerone (Cic. ad familiares). Pomp. Enchiridion, in: Pandette. Il riferimento, non chiaro, a Thalna è in una lettera scritta da Vibo a Tito Pomponio Attico: ad Atticum. Dovrebbe trattarsi, in questo caso, di persona sicuramente diversa dal Thalna nominato (o pseudonimato) in ad Atticum, giudice corrotto ai tempi del famoso processo in cui Clodio fu imputato e Cicerone testimone. È anche possibile che Cicerone, nella corrispondenza, non facesse menzione dell'ospitalità offertagli a Elea da Trebazio, per non compromettere l'amico. Cic. ad familiares. La disputa, per inciso, riguardava l'esistenza di certe tradizioni giuridiche circa una facoltà, in capo all'erede, di perseguire giudizialmente un furto avvenuto prima della successione mortis causa. Cicerone tende ad imputare l'atteggiamento così titubante -- e così poco saggio -- dell'amico agli insegnamenti di Cornelio Massimo. ^ “studiosissimus homo natandi” -- così lo definisce in ad familiares. Svetonio, Vite dei Cesari. Si veda, su Lacus Curtius di Thayer. Il tentativo con Cicerone è in Plutarco, Vite parallele. Cicerone o su Lacus Curtius. La notizia su Sulpicio è tratta dal già citato Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, che riprende, anche in questo caso, il Gravina. Origines juris civilis, Vol. 1, (De ortu et progressu juris civilis). Forse identificabile con Lucio Cornelio Lentulo, console e pro-console d'Africa, morto in Provincia d'Africa (cfr. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Böhlau Verlag, Institutiones. Sul prestigio di T. troviamo questo inciso: «cuius tunc auctoritas maxima erat». ^ Si intende meglio il consiglio se lo si confronta con l'immagine di un T. appassionato nuotatore, già ricordata in una precedente nota (ad familiares.  In questo caso Augusto. In Orazio - Tutte le opere. Versione, introduzione e note di Cetrangolo, Sansoni. Intratext Library. Macrobio, in Saturnalia cita infatti, fra gli altri, il decimo libro della sua opera. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ruiz, T., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, T. su sapere.it, De Agostini. Opere di T. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Portale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Giuristi romaniPolitici romani del I secolo a.C.Giuristi del I secolo a.C.Persone delle guerre galliche[altre] A lawyer and a friend of Cicerone. When he converted to The Garden, Cicerone writes to him questioning whether being a gardener is compatible with belonging to the legal profession. Trebazio is also the author of some works about the divine and its cult. Gaio Trebiano Testa. Keywords: I topica di Cicerone, ius, IVSTVM, legge, Ottaviano, Labeone, satira, Orazio, religione, ius civile, pragmatica del diritto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Trebiano  la ragione conversazionale dell’orto romano e l’implicatura conversazionale del Grice italo – Roma – filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Roma). Abstract. Keywords: edonismo, placitum. Orto. Lucrezio. Il secolo d’oro – Ottaviano. Filosofo italiano. Friend of CICERONE. He takes an interest in philosophy and may have been a ‘Gardener.’ Trebiano. Keywords: Roma antica, l’orto. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Treves: la ragione conversazionale dei giudici e l’implicatura conversazionale della giustizia nella filosofia italiana – ventennio fascista – la scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza  (Torino). Abstract. Keywords. IVSTVM. Grice: “Aristotle claims that IVSTVM is analogical. Ross's suggestion about 'good' would, moreover, be at best only a description of one special case of analogical unification, and would not give us any general account of such unification. I might add that little supplementary assistance is derivable from those who study general semantic concepts; such persons seem to adhere to the principle that silence is golden when it comes to discussion of such questions as the relation between analogy, metaphor, simile, allegory and parable.  So far as Aristotle himself is concerned it seems fairly clear to me that tie primary notion behiad the concept of analogy is that of 'proportion'.  This notion is embodied, for example, in Aristotle's treatment of justice. where one kind of justice is alleged to consist in a due proportion between return (reward or penalty) and antecedent desert (merit or demerit) but it remains a mystery how what starts life as, or as something approximating to, a quantitive relationship gets converted into a not-quantitive relation of correspondence of allinity. It looks as if we might be thrown back upon what we might hope to be inspired conjecture.   Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Compie gli studi al liceo AZEGLIO (vedi) e poi nella facoltà dove entra in contatto, fra gl’altri, con BOBBIO, FOA, LUZZATI, ENTRÈVES, e simpatizza con il gruppo di giustizia e libertà abbracciando i principi del socialismo liberale. Si laurea  sotto la guida di SOLARI con una tesi su Henri de Saint-Simon. Insegna a Messina, dove viene arrestato per sospetta attività contro IL REGIME FASCISTA. Trasferito a Urbino e escluso dal concorso bandito sulla sua cattedra. Insegna a Parma, si trasfere a Milano. Protagonista della rinascita post-bellica della sociologia in Italia, co-opera attivamente col centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e col suo segretario generale Argentine, coordinando fra l'altro una vasta ricerca su “L'amministrazione della giustizia e la società italiana in trasformazione” da cui escono volumi di vari filosofi. Presiede questo comitato facendosi attivo promotore della sociologia del diritto. Fonda  la rivista italiana della disciplina, di cui ottiene il riconoscimento accademico e che insegna a Milano. Difende una posizione filosofica relativista e prospettivista, influenzata da Mannheim, Mills e Kelsen, del quale ultimo introduce in Italia la dottrina pura del diritto positivo. Alieno dal dogmatismo e paladino di una concezione critica della scienza, rifiuta ogni visione metafisica del diritto in favore di una visione metodologica che sfocia nella sociologia del diritto intesa come scienza prevalentemente empirica, non avalutativa, ma ispirata a valori, nel suo caso quelli di libertà e giustizia sociale -- è considerato insigne maestro per un'intera generazione di filosofi e sociologi del diritto. Due sono i problemi che la sociologia del diritto deve affrontare: da un lato la posizione, la funzione e il fine del diritto nella società vista nel suo insieme. Dall'altro la società nel diritto, cioè quei comportamenti effettivi che possono essere conformi e difformi rispetto alle norme, ma comunque forniscono informazioni su come una società vive le regole che si è data. Del primo problema si sono occupate soprattutto le dottrine sociologiche e polito-logiche, mentre sul secondo si sono soffermate le dottrine giuridiche anti-formalistiche. Saggi: “Il diritto come relazione” (Torino); “Diritto e cultura” (Torino); “Spirito critico e spirito dogmatico” (Milano); “Libertà politica e verità” (Milano); “Giustizia e giudici nella società italiana” (Bari); “Introduzione alla sociologia del diritto” (Torino); “Sociologia del diritto -- Origini, ricerche, problem” (Torino); “Sociologia e socialism - ricordi e incontri” (Milano); “Dizionario biografico dei giursti italiani” (Bologna, Il Mulino); Il magistero; in La Nuova Antologia, Colombo, La lezione in La Nuova Antologia, FERRARI, FSociologo del diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, in Ratio Juris,  ss. FERRARI, GHEZZI, La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto (Mimesis, Milano-Udine), Losano, Sociologo (Unicopli, Milano); Marconi, Il legato culturale, in Sociologia del diritto, Tanzi, dalla filosofia alla sociologia del diritto, ESI, Napoli, Nitsch, T. esule in Argentina. Sociologia, filosofia sociale, storia. Con documenti inediti e la traduzione di due scritti di T., Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Sociologia del diritto, Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  When it comes to The Debate between Socrates and Thrasymachus in the Republic, We should bear in mind that Grice’s purpose of looking at the discussion of Justice  is to see if the course of that discussioncould be looked on as a conscious, subconscious, or unconscious venture by Socrates or Plato into the discipline of philosophical escha-tology.  The discussion begins with a pressing invitation to Socrates to take part in an examination of the question "What is Justice?" It is clear that despite the intrusion of distractions Socrates has not lost sight of this focus. Two preliminary answers are put forward; that of Cephalus ("to tell the truth and pay one's debts"); and that of his son Polemar-chus ("to give every man his due"). The first of these answers seems to be an attempt to exhibit the nature of Justice by means of its paradigmatic rules, while the second attempts to provide a general characterization or definition. Socrates points out that even paradigmatic rules allow of exceptions, with the consequence that a practical principle will be needed to identify the exceptions; while Polemarchus's suggested definition is faulted on the grounds that counterintuitively it allows Justice on occasion to be exhibited in causing harm. It seems to be open to Polemarchus to reply to Socrates that the connection of Justice with punishment makes it questionable whether it is counterintuitive to suppose that Justice sometimes involves causing harm. Indeed we might inquire why the answers suggested by Cephalus and Polemarchus are given house-room at all if they are going to be so cursorily handled.  (3) The debate with Thrasymachus. A number of different factors to my mind raise serious questions about the role of this debate in the general scheme for the treatment of Justice in the Republic.  The quality of Thrasymachus's dialectical apparatus seems to be (to put it mildly) not of the highest order. Socrates himself remarks that in the course of the debate the original question ("What is Justice?") becomes entangled in a confused way with a number of other seemingly different questions such as whether the just life is the happiest life (or is more, or less, happy than the unjust life), whether the just life is worthy of choice, etc. What does Thrasymachus achieve beyond the generation of confu-  Socrates' replies to Thrasymachus are by no means always intellectually impeccable; yet so far as I can see, this fact is not pointed out. Glaucon and Adeimantus are dissatisfied with the upshot of this debate and call upon Socrates to show that the just life is the happylife, not making it clear what the connection is between this demand and the answering of the original question about the nature of Justice. (e) Socrates endeavors to meet the demands of Plato's older broth-ers, but to do this, he resorts to the elaborate presentation of an analogy between the soul and the state. What justifies the presentation, in the current context, of the nature of this analogy?  (4) Blow-by-blow details of the debate with Thrasymachus.  Round 1. Thrasymachus at the outset couples the thesis that "jus-tice is the interest of the stronger" with the admission that rulers are not infallible in their estimates of where the interest of the stronger lies. As the comments of Socrates, Polemarchus, and Cleitophon make clear, this leads Thrasymachus into an intolerable tension between the idea that the edicts of the ruler command obedience because they spring from a belief on the part of the ruler that obedience is in the interest of the stronger, and the idea that obedience is demanded if, but only if, it would in fact be conducive to the interest of the stronger. Thrasymachus seeks to repair his position by distinguishing between (a) what the ruler commands and (b) what the ruler commands qua ruler; the latter cannot but be conducive to the interest of the stronger, though no such assurance attends the former.  Though no one points this out, the attempted escape seems to carry the consequence that whether the ruler's commands do or do not call for obedience may be, and may continue to be, shrouded in obscurity.  But apart from this initial confusion, the debate in Round 1 is characterized by a number of further disfigurements or blemishes, responsibility for which may attach not only to Thrasymachus but, by as-sociation, to Socrates. Some of these disfigurements or blemishes may indeed also be visible in subsequent rounds.  It is not made clear, nor indeed is the question raised, whether the kind of justice under discussion is political (or politico-legal) jus-tice, or moral justice. The general tenor of Thrasymachus's remarks would suggest that his concern is with political or politico-legal jus-tice. Indeed it seems not impossible that it is part of Thrasymachus's position that there is no such thing as moral justice, that the concept of moral justice is chimerical and empty. If this were his position, he could be characterized as a certain sort of skeptic; but whether or not it is his position should surely not be left in doubt. Thrasymachus nowhere makes it clear whether he regards the popular application of the term "just," which Thrasymachus may not himself endorse, as a positive or a negative commendation. Are justacts supposed to be acts which fulfill some condition which acts should fulfill, or acts which are free from an imputation that they fulfill some condition which acts should not fulfill? It is not clear whether Thrasymachus's thesis that justice is the interest of the stronger is to be taken as a thesis about the "nominal essence" or about the "real essence" of justice. Is Thrasymachus suggesting that the right way to conceive of justice, the correct interpretation of the term "just," is as signifying that which is in the interest of the stronger? Or is he suggesting that whatever content we attach to the concept of justice, the characteristic which explains why just acts are done and why they have the effects which standardly attend them, is that of being in the interest of the stronger? Thrasymachus seems uninterested in distinguishing between the use of the word "just" ("right") as part of a sentential operator which governs sentences which refer to possible actions (e.g., "it is just  (right) that a person who has contracted a debt should repay it at the appointed time," "it is just for a juror to refuse offers of bribes") and its use as an epithet which applies to actually performed actions (e.g.,  "he distributed payments, for the work done, justly"). The two uses are no doubt intimately connected with one another, but they are surely distinguishable.  (e) Thrasymachus is not at pains to make it clear whether the phrase "the stronger" refers to the ruler or government (the official boss) or to the person or persons who wield political power (the real boss). These persons might or might not be identical.  As a result of these obscurities the precise character of Thrasyma-chus's position is by no means easy to discern.  Round 2. At the end of Round 1, as it seems to me, Socrates seeks to counter Thrasymachus's reliance on a distinction between what the practitioner of an art ordains simpliciter and what the practitioner ordains qua practitioner of that art, by suggesting that if we take this distinction seriously, we shall be led to suppose that when the practitioner acts qua practitioner, his concern is not with his own wellbeing but with the well-being of the subject matter which the art con-trols; so rulers qua rulers will be concerned with the well-being of their subjects rather than of themselves. This contention seems open to the response that there is nothing to prevent the well-being of the subject matter from being, on occasion, that state of the subject matter which is congenial to the interest of the practitioner. This indeed may be the tenor of Thrasymachus's outburst comparing the treat-ment of subjects by rulers with the treatment of sheep by shepherds.  If so, Socrates does not seem to have any better reply than to suggest that the dominance of concern on the part of rulers to obtain compensation for their operations hardly supports the idea that it is common practice for them to use their offices to feather their own nests; a response to which Socrates adds an obscurely relevant demand for a distinction between the practice of an art which is typically not directed toward the interests of the practitioner, and the special case of a concomitant exercise of the art of profit-making, which is so directed.  Thrasymachus, however, complicates matters by introducing a new line of attack against the merits of justice vis-à-vis injustice. He suggests that in the private citizen justice (devotion to the interest of the stronger, that is, of the ruler) is folly, while injustice (devotion to his own interest) is sensible even if dubiously effective; while the grand-scale injustice of rulers, as exhibited in tyranny, has everything to recommend it. It is not clear that this manifesto is legitimate, since it is not clear that, on his own terms, Thrasymachus is entitled to count tyranny as injustice; the tyrant is not preferring his own interests to the interests of someone stronger than himself, since no one is stronger than he. It is true, of course, that while Thrasymachus may not be entitled to call tyranny injustice, he may be equally not entitled to call it justice, since though the tyrant may be the strongest person around, he is certainly not stronger than himself. So perhaps Thrasy-machus's plea for injustice may turn out to be a misfire.  Round 3. In response to a query from Socrates, Thrasymachus recapitulates his position, which is not that injustice is a good quality and justice a bad quality, nor (exactly) the reverse position, but is rather that justice is folly or extreme simplicity, whereas injustice is good sense. With this contention there is also associated Thrasyma-chus's view that injustice implies strength, and that the unjust life rather than the just life is the happy life.  Socrates' reply to Thrasymachus invokes arguments which seem weak to the point of feebleness. In his first argument he gets Thra-symachus to agree that the just man seeks to compete with, or outdo only the unjust man, whereas the unjust man competes both with the just and with the unjust. Reflection on the arts, however, prompts the observation that in general the expert competes only with the inex-pert, whereas the nonexpert competes alike with the inexpert andwith the expert, so it is the just man, not the unjust man, who runs parallel to the general case of the expert, and who therefore must be regarded as possessing not only expertise but also good sense. Among the flaws in this argument one might point particularly to the dubious analogy between the province of justice and the province of the arts, and also to a blatant equivocation with the word "compete," which might mean either "try to perform better than" or "try to get the better off.”  In the succeeding argument against the alleged strength of injustice, Socrates remarks that injustice breeds enmity, observes that efficient and thoroughgoing injustice requires  "honor among thieves," and  concludes that a fully unjust man would in real life be weaker than one who was less fully unjust. Maybe this argument shows that the unjust man cannot, with maximum effectiveness, literally "go the whole hog" in injustice; but this is far from showing that he should never have started on any part of the hog.  Finally, Socrates counters Thrasymachus's claim that the unjust life, rather than the just life, is the happy life, by getting Thrasymachus to agree that at least for certain kinds of things the best state of a thing of that kind lies in the fulfillment of the function of that kind, which will also constitute an exhibition of the special and peculiar excellence of things of that kind; and also that justice is in the required sense the special excellence of the soul; from which he concludes that justice is the best state of the soul and as a consequence gives rise to the happy life. This argument, perhaps, palely foreshadows Socrates' strategy in the main part of the dialogue; but at this point it seems ineffective, since no case has been made out why Thrasymachus should agree to what one would expect him to regard as the quite uncongenial suggestion that justice is the special excellence of the soul.  (5) Transition to the main body of the Dialogue. Glaucon and Ad-eimantus express dissatisfaction with Socrates' handling of Thrasy-machus. Glaucon invokes a distinction between three classes of  goods: those which are desirable only for their own sake, those which are desirable both in themselves and for the sake of their conse-quences, and those which are desirable only for the sake of their con-sequences. He remarks that it is the view of Socrates, shared by himself and Adeimantus, that justice belongs to the second class of goods, those which are doubly desirable; but he wishes to see the truth ofthis view demonstrated, particularly as the generally received opinion seems to be that justice belongs to the third class of goods which are desirable only for the sake of their consequences and have no intrinsic value. He wishes Socrates to show that justice is desirable in respect of its effect on those who possess it, independently of any rewards or consequences to which it may lead. He wishes Socrates to show that it is reasonable to desire to be just rather than merely to seem just, and, indeed, that the life of the just man is happy even if his reputation is bad. Otherwise it will remain feasible:  that the institutions of justice are acceptable only because they secure for us the greater good of protection from the inroads of others at the cost of the lesser evil of blocking our inroads upon others, and that if the possession of Gyges's ring would enable our inroads upon others to remain undiscovered, no reasonable person would deny himself this advantage. Adeimantus reinforces the demands expressed by Glaucon by drawing attention to the support lent by the prevailing education and culture to the received opinion about justice as distinct from the view of it taken by Socrates, Glaucon, and himself. Apart from the tendency to represent the rewards associated with justice as really attending not justice itself but the reputation for justice, Adeimantus observes that even when the rewards are thought of as attending not merely the semblance of justice but justice itself, the rewards are conceived of as material and consequential rather than as consisting in the fact that justice is its own reward. He also points to the fact that even when recognition that it is injustice rather than justice which pays leads to the pursuit of injustice and thereby to the incurring of divine wrath, the prevailing culture and education teach that the gods can be bought off. So unless Socrates follows the course proposed by Glaucon, he will be saddled with the charge that really he agrees with Thrasymachus, that so-called justice is really pursuit of the interest of the stronger, the strength of whose case lies in his command of the big battalions, and that the so-called injustice involved in the alternative pursuit of one's own interests is really inhibited only by the threat of force majeure.  In his attempt to accede to the demands of Glaucon and Adeiman-tus, Socrates embarks on his elaborate analogy between the state and the soul. The details of this presentation lie outside the scope of my present inquiry, which is concerned only with the structural aspects of Socrates' procedure.III. Does Thrasymachus Have a Coherent Position?  When we operate as moral philosophers in the borderland be-tween Ethics and Political Theory, one of the salient questions which we encounter is whether there is a distinction between moral and political concepts and how such a distinction, if it exists, should be characterized. In this connection it will be of great importance to con- sider the viewpoint of a philosopher, if such a philosopher can be found, who maintains that there is no distinction, or at least no genuine distinction, between moral and political concepts in this area or in some significant part of this area. If it were possible without undue distortion to exhibit Thrasymachus as a kind of moral skeptic—as someone who holds, for example, that while political justice, or polit-ico-legal justice, is an intelligible notion with real application, the same cannot be said of moral justice, which can be seen to be ulti-mately an illusion-then it might be philosophically advantageous to regard Thrasymachus in that way. We should examine, therefore, the prospects of success for such an interpretation of Thrasymachus's po-sition. Can he be viewed as one who regards political justice, but not moral justice, as a viable concept? If we attempt to proceed further in this direction, we encounter a difficulty at the outset, in that it is unclear just what concept it is which the friends of moral justice suppose to be the concept of moral justice. Is the term "moral justice" to be thought of as referring to moral value in general, as distinct from other kinds of value? Or is the notion of moral justice to be conceived as possessing some more specific content, so that, while both fairness and loyalty are morally admirable qualities, only the first can be properly regarded as a form of moral justice? And if the notion of moral justice is to be supposed to cover only a part of the domain of moral value, to which part of that domain is its application restricted? To the region of fairness? To that of equality of opportunity? To that of respect for natural rights? Rival candidates seem to abound.  In the case of Plato's Thrasymachus it seems that he, perhaps like Plato himself, is not disposed to engage in the kind of conceptual sophistication practised by Aristotle and by some philosophers since  Aristotle; for Thrasymachus, the friends of moral justice (on the as-sumption that the representation of Thrasymachus as a kind of moral skeptic is legitimate) will be philosophers who treat the term "moral justice" as one which refers to morality, or to moral virtue in general,a usage which Aristotle also recognizes as legitimate, alongside the usage in which "justice" is the name of one or more specific virtues.  If our program requires that we try to represent Thrasymachus as a certain sort of moral skeptic, obviously one part of his position will be that the concept of moral justice is unacceptable. One or both of two forms of unacceptability might be in question, namely alethic unacceptability and semantic unacceptability. The suggestion might be that positive ascriptions of moral justice are never in fact true, and so are always alethically unacceptable, or that such ascriptions, together perhaps with their negations, suffer from some form of un-intelligibility, and so are semantically unacceptable. Some indeed might contend that general alethic unacceptability generates semantic unacceptability, that if a certain kind of characterization is always false, that implies that that kind of characterization is in some way unintelligible. Let us assume that the revised presentation of Thrasy-machus will be one which, for one reason or another, ascriptions of moral justice are semantically unintelligible. This assumption will leave open a considerable range of possibilities with regard to the more precise interpretation of the notion of semantic unacceptability, ranging perhaps from the extreme suggestion that ascriptions of moral justice are just gibberish, to the suggestion that they admit no fully successful rational elucidation. Within the boundaries of this position, the new Thrasymachus might perhaps hold that, though the concept of moral justice is semantically unacceptable, a related concept, which we may call "moral justice»," is fully admissible. Moral justice* is to be supposed to have precisely the same descriptive content as moral justice; ascrip-tions, however, of moral justice* will entirely lack the ingredient of favorable valuation or endorsement which is carried by the term  "moral justice." It might, however, be objected that the proposed separation of the descriptive content of moral justice from its evaluative content is quite inadmissible; if we are looking for predicates which from an ascriptive point of view are specifications of the general descriptive condition for moral justice, but which at the same time lack the evaluative element which attaches to the term "moral justice," we shall need predicates which are considerably more specific than "morally just»." Indeed, some might claim that it is pure fantasy to suppose that any predicate, however specific, could signify a descriptive character which falls within the general character signified by the term "moral justice" after detachment of the term's eval-uative signification. Description cannot be thus severed from evalua-tion.  (5) Whatever may be the final upshot of debate about the possibility of separating the descriptive and the evaluative significations of the term "morally just," it is clear that a further element in the position of the new Thrasymachus will be that whatever semantic unacceptability may attach to moral justice, there is a further kind of jus-tice, namely political (or politico-legal) justice, which is free from this defect. Political justice is a concept which is both intelligible and has application. The old Thrasymachus, however, wished to combine this recognition of the intelligibility and the applicability of the concept of political justice with the contention that the applicability of the concept of political justice to a particular line of actual or possible action provided a basis not for the commendation but rather for the discommendation of that line of action; the wise, prudent, or sensible man would be led away from rather than toward the adoption of a certain course of action, would become less rather than more favorably disposed toward the idea of his becoming engaged in it, if he were told, perfectly correctly, that political justice required his engagement in it. This further contention has the air of paradox; how could the fact that political justice, or indeed any kind of justice, requires a man to undertake a particular course of action, be in the eyes of that man a bad mark against doing the action in question? Can the new Thra-symachus align himself in this matter with the old? It can fairly easily be seen that the idea that the position of the old Thrasymachus involves paradox is ill-founded. That this is so can best be shown by the introduction of one or two fairly simple distinctions. First, a value (or disvalue) may be either intrinsic or extrinsic. Roughly speaking, the value (or disvalue) of x will be intrinsic if it attaches to x in virtue of some element in the character of x; it will be extrinsic if it depends on the nature of some effect of x. To present the distinction somewhat more accurately, a value or disvalue of x will be intrinsic if its presence is dependent on some property of x which may indeed be a causal property, but if it is a causal property, it is one whose value or disvalue does not depend on the value or disvalue of that which is caused. The property of causing raised eyebrows is a causal property and may be one with which value or disvalue is associated; but if the eyebrow-raising is something with which value or disvalue is associated, this is not because of the antecedent value or disvalue of elevated eyebrows, but rather because of a connection between raised eyebrows and sur-prise. A value or disvalue will be extrinsic if it attaches to x in virtue of a causal property the value or disvalue of which depends upon the antecedent value or disvalue of that which is caused. Second, a value or disvalue may be either direct or indirect. A value which is a direct value of x must rest, if it rests on other features at all, on features of x which, at least on balance, are values rather than disvalues; simi-larly, a direct disvalue of x, if it rests on other features of x, must rest on features which are at least on balance disvalues. An indirect value of x may rest on a prior disvalue of x, provided that this disvalue is less than that which would attach to any alternative state of x. The disvalue of being beheaded may be indirectly a value, provided that (for example) it is less than the disvalue which would attach to the only other option, namely to being burned at the stake. The least of a number of possible evils may thus be indirectly a good. The old Thrasymachus, then, was perfectly entitled to deny that political justice is directly a kind of good, provided he was willing to allow (as he was) that indirectly it is, or may be, a good. There is then no conceptual barrier to incorporating in the position of the new Thrasymachus the thesis that political justice is only indirectly a good; it is acceptable only as a way of averting the greater evil of being at the mercy of predators.  (6) This would perhaps be an appropriate moment to consider a little more closely what I have been speaking of as Thrasymachus's combination of rejection of the concept of moral justice and acceptance of the concept of political justice. There are two ways of looking at this matter. One, which is, I think, suggested by my discussion, is that there are two distinct concepts, which some philosophers regard as being both parallel and viable, namely moral justice and political justice. The special characteristic of Thrasymachus is supposed to be that he allows the second concept while rejecting the first. I shall call this approach the "two-concept" view of justice, according to which the unqualified term "justice" might be used to refer to either of two distinct concepts. The second way of looking at things I shall call the  "one-concept" view of justice, according to which the least misleading account of the difference between moral justice and political justice will be not that two different concepts are involved, but that two different kinds of reason or backing may be relied upon in determining the application of a single concept, namely that expressed simply by the word "justice" without the addition of any adjectival modifi-cation. The term "justice" will always ultimately refer to a system of practical rules for the regulation of conduct, perhaps not just any andevery such system but one which conforms to certain restrictions— for example, perhaps, one which is limited to the regulation of certain kinds of conduct or regions of conduct. The difference between moral and political justice might be thought of as lying in the fact that in the case of moral justice the system of rules is to be accepted on account of the intrinsic desirability that conduct of a certain sort should be governed by practical rules or by practical rules of a certain sort, where a system of rules of political justice rests on the desirability of the consequences of making conduct subject to rules, or to those particular rules. This possibly more Kantian conception of the relation between moral and political justice will perhaps carry the consequence that the view of Socrates and his friends that moral justice is desirable independently of the consequences of acting justly is no ac-cident, but is a constitutive feature of moral justice; without it, moral justice would not be moral. It should of course be recognized that the idea that there is only one concept of justice, though there may be different kinds of reason for accepting a system of rules of justice, does not entail that one and the same system of rules of justice may be acceptable for radically different kinds of reasons; there might be a single concept of justice without its ever being true that different sorts of reason could ever justify the acceptance of a single system of rules of justice. We may, of course, if we wish to treat a one-concept view of justice as in fact invoking two concepts of justice; but if we do, we should recognize that the two concepts of justice are higher-order concepts, each relating to different kinds of reasons governing the applicability of a single lower-order concept of justice.  (7) Let us take stock. We seem to have reached a position in which  (a) we have failed to detect any incoherence in the views of the old Thrasymachus, and (b) it seems to be a live possibility that intrinsic desirability is not an accidental feature but is a constitutive feature of moral justice. We should now inquire what considerations, if any, would be grounds for dissatisfaction with the viewpoint of Thra-symacus.  IV. Moral Justice and Skepticism  (1) The claim that what I am presenting is a reconstruction of Socrates' original defense of moral justice rests on my utilization of some of Socrates' leading ideas, notably on the idea that the presence of moral justice in a subject x depends upon a feature or features of components of x, that the relevant feature or features of the compo-nents is that individually each of them fulfills its role or plays its part, whatever that role or part may happen to be (or, perhaps better, taken all together, their overall state is one which realizes most fully their various separate roles), that in satisfying this condition, they, the com-ponents, enable x to realize the special and peculiar virtue of excellence of the type to which x essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as a good or well-conditioned T (where "T" refers to the type in question), and this in turn, if membership of T consists in being a soul, ensures that the life of x is happy, in an appropriate sense of "happy." My account also resembles the original account given by Socrates in that it deploys the notion of analogy which was a prominent ingredient in Socrates' story, though it seeks to improve on Socrates' presentation by making it clear just why the notion of analogy should be brought into this discussion, and by making its appearance something more than an expository convenience. My presentation seeks also to link the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely with the concept of moral injustice but more centrally and more directly with the more widely applicable concept of what one might call "health." This change carries with it an increase in the number of stages to be considered from two (the political and the moral) to three (the physiological, the political, and the moral). My presentation also introduces the suggestion that the very same factors which determine whether a particular entity x, belonging to a certain type T, merits the accolade of being a T which is healthy, well-conditioned, or in good shape, also by their presence (in lower de-grees) determine the difference between the existence (or survival) of x, rather than its nonexistence (or nonsurvival). The same features, for example, which at the physiological stage determine whether a body is or is not well-conditioned, also determine by their appearance or nonappearance in lower degrees whether that body does or does not exist or survive. (This example in fact calls for a more careful formulation.) I shall proceed to a more detailed discussion of the three stages recognized in my account. The complications are consid-erable, and intelligibility of presentation may call for omissions and convenient distortions.  (2) Stage 1. At this stage (the physiological stage) there appear a number of different items or types of item, namely:  physiological things, such as human and animal bodies (ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs).These will include both distinct types of d-component or organ, like the Liver and the Heart, and distinct instances or tokens of these types, like my liver and my heart, or my liver and your heart. Entry will distribute a number of different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For these purposes sets of teeth and pairs of human legs will have to count as single organs. Functional properties of physiological components or organs. These correspond to the jobs or functions which the various organs crucially fulfill in the life of the -thing or body to which they belong, such as walking, eating, achieving, and digestion. For convenient  oversimplification I assume that each organ has just one functional property, which will be variable in degree.  (d) Certain properties of -things (bodies) ("global properties") which will be dependent on the functional properties exhibited by the arrays of physiological components or organs which belong to the things in question. The properties under this head which presently concern me are two in number: one, which will not be variable in degree, will be the property of existence or survival, which will depend on the array of physiological components belonging to a particular d-thing achieving a minimal level with respect to the functional properties of the members of the array, that is to say, a level which is sufficient to ensure that the array of physiological components continues to exhibit some positive degree of the functional properties of that array. The other -thing property which will concern me is one which will be variable in degree; it is the property of well-being, or wellbeing as a -thing of the sort to which it belongs. Maximal well-being will depend on an optimal combined exemplification of the functional properties of a -thing's physiological components. The higher levels of this latter property are commonly known as "bodily health" (with-out qualification), or as "bodily healthiness." At all levels the phrase  "bodily health" may be used to signify the dimension within which variation takes place between one level and another.  (3) Before I embark on a consideration of the details of subsequent stages, perhaps I should amplify the account of my intended proce-dure, including the general structure of my strategy for the characterization and defense of moral justice:  (a) The items involved in the stage 1 (physiological entities or bod-ies, their components or organs, the functional properties, and certain overall features of bodies, such as existence and being in good shape, which are dependent on the functional properties of organs) exist or are exemplified quite naturally and without the aid of analogy at this level. The stage therefore may be regarded as providing paradigms which may be put to work in the specification of related items which appear in subsequent stages and into the constitution of which analogy does enter.  (b) Those members of the list of items, mentioned in 3(a) as appearing in later stages, which are properties as distinct from things, may be specified in two different ways. One way will be to make use of abstract nouns or phrases which are peculiar and special to properties belonging to that stage, and which do not incorporate any reference to more generic properties specifications of which are found also at stages other than the one to which the property under discussion itself belongs. The other way is to build the specifications from what at least seem to be more generic properties, together with a differentiating feature which singles out the particular stage at which the specified properties apply. Leaving on one side for a moment the second mode of specification, I shall comment briefly on the first. This may be expected to yield for us, at the political stage, such properties as those expressed by the phrases "political justice" and "political existence," and by whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this or that part of a state on which the global properties of political justice and political existence will depend.  Again, at the psychological stage, the first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions for the psychological properties of moral justice and psychological existence, and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may be) on which the presence of moral justice and psychological existence will depend. It will be noted that more than one important issue has so far been passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice might be different specifications of a more general feature for which the name "justice," without added qualification, might be appropriate; I have left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded, as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way, perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the question of the objects of reference of the phrase "parts of the soul." Such matters obviously cannot be indefinitely left on one side.  (c) I turn now to the considerably more complicated second mode of specification of the relevant range of properties. As already re-marked, this mode of specification will incorporate references to seemingly generic properties the appearance of which are not restricted to just one stage, a fact which perhaps entitles us to talk here about "multistage" epithets (predicates) and properties. Examples of second-mode specification will be such epithets as "is in good shape as a body" and "is in good shape as a state," both of which incorporate the more generic epithet "is in good shape" which seemingly applies to objects belonging to different stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such "holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different stages, there will also be "meristic" epithets, like "part" itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main suggestions is that the multistage epithets which are characteristically embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly important in view of the fact that it is also one of my contentions that there will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second mode.  It should be observed that although I have claimed that there are two different modes of property-specification, I have not claimed that for each individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen of each mode of specification will be available for use; it may be that in certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode specification, or that a first-mode specification can be made available only via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode specification. Since in my view most of the difficulties experienced by philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode and first-mode specifications might make a substantial contribution to two distinct philosophical questions, namely:  (i) whether it is sometimes true that description presupposes valuation (since second-mode specification seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to go);  (i) whether it is sometimes or always true that valuation presupposes Teleology or Finality, since second-mode specifications characteristically introduce references to functions and purposes.  (d) I shall now recapitulate the main features which I am supposing to attach to first-mode and second-mode specifications, with a view to raising some further questions about the two modes:  (i) Properties which will be specified, when one uses first-mode specifications by single-stage epithets (properties like bodily health, political justice, and, perhaps controversially, moral justice) may also be specified by the use of second-mode specifications which will incorporate references to seemingly multistage properties such as wellbeing and existence. The property of bodily health, for example, may also be referred to as the property of well-being as a physiological entity, the property of political justice as the property of well-being as a political entity (or state), and the property of moral justice (perhaps) as the property of well-being as a psychological entity (or soul).  (ii) The global properties of well-being as this or that type of entity will depend on a maximal (or optimal) degree of fulfillment, by the various parts of the subjects of those global properties, of a sequence of meristic properties associated with the jobs or functions of those  (iii) The very same meristic properties on which the various forms of well-being depend will also determine, at a lower degree of realiza-tion, the difference between the existence and the nonexistence of the entities which inhabit a particular stage.  (iv) It might be possible, by a move which would be akin to that of  "Ramsification," to redescribe the things which inhabit a certain stage, their components or parts, the jobs or functions of such com-ponents, the property of well-being and the property of existence as being just those items which, in a certain realm, are analogical coun terparts to the prime items, in the physiological realm, respectively, of bodies, organs, bodily functions, health, and life (survival).  (v) These proposals might achieve a combination of generalizationand justification (validation) of the items to which they relate, given the assumption that the proposed redescriptions are semantically and alethically acceptable.  Among the questions which most immediately clamor for consideration will be the following:  (Q1) How are we to validate my intuitive judgment that second-mode specifications which involve multistage epithets will always, or at least sometimes, be analogical in character?  (Q2) How are we to elucidate the phrase used in (iv) "in a certain realm"?  (Q3) How is it to be shown that the proposed redescriptions are not merely semantically but also alethically acceptable?  I will take these questions in turn.  (e) Question (Q1) calls for the justification of a thesis which, without offering arguments in its support, I suggested as being correct, namely that if there are multistage epithets, that is to say, epithets which apply sometimes to objects belonging to one stage and also sometimes to objects belonging to another stage, the application of such an epithet to one, and possibly to both, of these segments of its extension must be analogical rather than literal. It seems to me that, before such a thesis can be defended or justified, it needs to be emended, since as it stands it seems most unlikely to be true. Consider first the epithet "healthy"; there would, I think, be intuitive support for the idea that when we talk, for example, of "a healthy mind in a healthy body," at least one of these applications of the epithet  "healthy" must be analogical rather than literal, since only a body can be said to be literally healthy. But if we turn to the epithets  "sound" and "in good order," though I think there will be intuitive support for the idea that both bodies and minds may be said to be sound or to be in good order, and indeed for the idea that bodies and minds can truly be said to be sound or in good order just in case they can truly be said to be healthy, there will not, I think, be intuitive support for the idea that the application of the epithets "sound" and  "in good order" to either bodies or minds, or to both, is analogical rather than literal. I would in fact be inclined to regard the application of each of these epithets to both kinds of entity as being literal. I would suggest that the needed emendation, while it allowed that the literal application of epithets may straddle the division between its applicability to subjects that belong to one stage and to subjects that belong to another, would insist that, when such literal cross-stageapplications occur, they depend upon prior cross-stage applications of some other epithet, where one or even both of the segments of application are analogical rather than literal.  How should the emended thesis be supported? My idea would be that the barriers separating the applications of an epithet to objects belonging to one stage from its application to objects belonging to another will in fact be category-barriers, and that there are good grounds for supposing that objects which differ from one another in category cannot genuinely possess common properties, and so cannot ultimately, at the most fundamental level, be items to which a single epithet will literally and nonanalogically apply. If objects x and y are categorically debarred from sharing a single property, then they are also debarred from falling, literally and nonanalogically, within the range of application of an epithet whose function is to signify just that property. There is nothing to prevent a body and a mind from being, each of them, literally in good order, provided that the condition needed for being literally in good order is that of being either literally healthy (in the case of a body) or (in the case of a mind) (analogically speaking) healthy. Perhaps the first matter to which we should attend in an endeavor to form a clear conception of (for ex-ample) the place of being (analogically speaking) healthy, a feature which may attach to minds, within a generalized notion of being in good order, or (perhaps) of being healthy, is the consideration that the question whether the application of a certain epithet to certain things is literal or analogical, is by no means the same question as the question whether its application to those things is or is not to be taken seriously. It may, for example, remain an importantly serious question whether John Stuart Mill is properly to be regarded as a friend of the working classes long after it has been decided that, if the epithet  "friend of the working classes" does apply to John Stuart Mill, it applies to him analogically rather than literally; it does not apply to him in at all the same kind of way as that in which the epithet "friend of Mr. Gladstone" may have applied or, perhaps, failed to apply to him. The question whether a particular person is in good shape may be a question an important aspect of which is expressed by the question "Is his mind (analogically speaking) healthy?"; if so, given that the first question is, as it may be, one to be taken seriously, the same would be true of the second question.  A second consideration, which we should not allow ourselves to lose sight of, is one which has already been briefly mentioned in thefirst part of this essay. We are operating in an area in which, not infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle would have called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of seemingly distinct kinds of items, and by a number of features each of which is special to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed the way we talk —we shall be led to suppose that these features are all specifications of some more general feature which is manifested, with specific variations, throughout the range formed by the kinds in question, a putative general feature for which ordinary language may even provide us with a candidate's name.  Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to suppose that the members of this range of special features have a common explana-tion, a further general feature which accounts for the first general feature, and also, with the aid of specific variations, for the original range of special features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which the world lays before us. In the present case, the application of this method would be to a range of items which includes bodies, states, and (perhaps) souls and also to such special features of these items as (respectively) bodily health, political justice, and (perhaps) moral justice.  Unfortunately, at this point, we encounter a major difficulty. The items which are the subjects to which the members of the range of special features attach, namely bodies, states, and souls, insofar as they are genuine objects at all, seem plainly to belong to different categories from one another; and these categorial differences would be such as to preclude, if widely received views about categories are to be accepted, the possibility that there are any properties which are shared by items which differ from one another with respect to the kinds to which they belong. It looks, then, as if the possibility that there is a generic property of which the special properties are differ-entiations, and the possibility that there is a further generic property which serves to account for the first generic property, have both been eliminated. I have in fact not attempted to set out a theory of categories which would carry this consequence, and it would certainly be necessary to attempt to fill this lacuna. But the prospects that this undertaking would remove the difficulty do not at first sight seem encouraging. If, then, we are not to abandon all hope of rational so-lution, we shall be forced to do one of three things:  (i) Relinquish the idea of applying here procedures for descriptionand explanation which are operative in examples which are not bedeviled by category difference.  (ii) Argue that the category differences which seem only too prominent on the present occasion are only apparent and not real.  (iii) Devise a less restrictive theory of the effect of category differences on the sharing of properties.  In the light of these problems, we should obviously be at pains to consider whether attention to the notion of analogical application would have any chance of providing relief.  I propose to leave this problem on one side for a moment, returning to consideration of it at a later point; immediately, I shall address myself to a possible response to the suggestion that the question whether the possible application of a given epithet to a certain subject is an issue which it is proper to take seriously, is quite distinct from the question whether such application, if it existed, would be analog-ical or literal. The response would be that the distinction between the two questions does not have to be a simple black-or-white matter; it might be that, while the fact that if such application existed at all it would be an analogical application is not a universal obstacle to the idea that the application is one which should be taken seriously, it is also not true that there is no connection between the two questions; if the inquiry into the application of the epithet is one of a certain sort or one which is conducted with certain purposes in view, then the idea that such application would be analogical stands in the way of the idea that the application is one to be taken seriously; if, however, the character and purposes of the inquiry are of some other sort, then the two questions may be treated as distinct.  It might, for example, be held that if the inquiry about the application of an epithet is one which aims at reaching scientific truth, at laying bare the true nature of reality, then the fact that the application of the epithet would be analogical conflicts with the idea that it should be taken seriously; if, however, the inquirer's concern is not with scientific truth but rather with the acceptability, either in general or in a particular case, of some practical principle (or principle of conduct), then the two questions may be treated as distinct. Something like this "halfway" position is perhaps discernible in Kant; in, for example, his claim that Ideas of Pure Reason, with regard to which no transcendental proofs are available, admits of "regulative" but not of "constitutive" employment, a suggestion which is perhaps repeated in his demand for a nondogmatic kind of teleology, a teleol-ogy which somehow guides our steps without adding to our stock of beliefs. The situation, however, is vastly complicated by the fact that the notion of what is "practical" is susceptible to more than one in-terpretation; on a wider interpretation, any principles or precepts would count as practical provided that they relate to questions about how one should proceed. On a second interpretation of "practical," only those examples of principles and precepts which are "practical" in the first sense will count as "practical" which relate not just to some form of procedure but to procedure in the world of action as distinct from procedure in the world of thought. Imperatives which are practical in the second and narrower sense will, as Kant himself seems to have thought, include those which tell us how to act but will not include those which tell us how to think; they will be concerned with the conduct of the business of life but not with the conduct of the business of thought. This ambiguity leaves principles and precepts which concern conduct of the business of thought in a somewhat indeterminate position; they will be practical in the wider sense since they are concerned with questions about how we should conduct our-selves; however, what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other when we observe that the conduct they prescribe is conduct which is specifically involved in arriving at decisions about scientific truths and the nature of reality. For me the issue is made even more complicated by the fact that I have instinctive sympathy toward the idea that so-called transcendental proofs should be thought of as really consisting in reasoned presentation of the neces-sity, in inquiries about knowledge and the world, of thinking about the world in certain very general ways. This viewpoint would introduce interconnections between what we are to believe and how we are to proceed which will be by no means easy to accommodate.  I return now to discussion of the quandary which I propounded a little while ago, and the severe limitations on explanation seemingly imposed by category-differences between features which need to be explained. As I see it, my task will be to provide a somewhat more formalized characterization of the phenomenon of analogical application than has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical char-acterization, which will at the same time be one which both preserves those category-differences and their consequential features, and at the same time avoids undue restrictions on the application of standard procedures for the construction of explanations. This may seem like a tall order, but I think it can be met.Let us first look at the notion of instantiation and at one or two related notions. If I am informed that x instantiates y (that x is an instance of y), and also that y specifies z (that y is a specification of z, that being y is a way of being z, that y is a form of z), then I am entitled to infer that x instantiates z. If, however, instead of being informed that y specifies z, I am informed that y instantiates z, the situation is different; I cannot infer from the information that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z. The relation of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue, and blue specifies color, then it looks as if azure must specify color. Let us now define a relation of "subinstantiation"; x will subinstantiate z just in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y, then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x instantiates y, then x belongs to a level which is one step lower than that of y, and that if x subinstantiates y, then x belongs to a level which is two steps lower than that of y. Now it seems natural to suppose that when a number of more specialized explanations are brought under a single more general and so more comprehensive ex-planation, this is achieved through representing the various features, which are separately accounted for in the original specialized expla-nations, as being different specifications of a single more general fea-ture. If, however, we were entitled to say that the crucial relation connecting the more specialized explicanda with a generalized expli-candum is not, or at least is not in those cases in which the specialized explicanda are categorically different from one another, that of specification but rather of subinstantiation, then we shall be able to avoid the uncomfortable conclusion that the admissibility of generalized ex-plicanda involves the admissibility of the idea that categorically different subject items may be instances of common properties. An item need not, indeed perhaps cannot, instantiate that which it subinstan-tiates.  To conclude my treatment of the quandary, I need to show, as best I can, that a systematic replacement of references to the relation of specification by references to the relation of instantiation would have no ill effect on the standard procedure for generalizing a set of specialized explanations, with which we have provided ourselves, of the presence of discriminated specialized properties. To fulfill this under-taking, I must consider two cases, one involving the application of aprocedure for generalization which is characterized in terms which involve reference to the relation of specification, and the other in which all references to specification are replaced by references to additional and "higher-level" occurrences of the relation of instantia-tion.  Case I. (i) We start with a group of particulars (x, through x,), with regard to each of which we are informed that it possesses property D; and with two further groups of particulars (y, through Ym and z, through z,) instantiating, respectively, properties E and F. (ii) The generalization procedure begins when we find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and z, through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. (iii) We next find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way 1, respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and C and F, specify in way 3, respectively, P and Q  (iv) We are now, it seems, in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in a corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has in fact been achieved.  Case I1. Case Il begins to differ from Case I only when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q; and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase "first-group instance" either the phrase "second-group instance" or "third-group instance" will be made in what we say about properties B and E and properties C and F.  Though I would not claim to have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of legitimacy of the procedure for generalization with which I am currently concerned. The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be quite un-affected. If I am right in this suggestion I shall, I think, have succeeded in providing what was mentioned in Part I of this essay as a desider-atum, namely a development of a concept of Affinity, which would be less impeded by category-barriers than the more familiar notion of Similitude.  (f) I now turn briefly to question Q2. This is the question how to interpret the expression "in respect to a certain realm" within such phrases as in "an analogical extension, in a certain realm, of the property of health, in the primary physiological realm to which animal and human bodies are central." I should make clear the problem of ambiguity which prompts this question; there is one way of looking at things, one conception, according to which there is a certain realm, which is that to which souls are central, and into which there is projected an analogical extension of the property of health. In this conception the notion of souls is logically prior to the notion of the psychological realm to which souls are central, and both are logically prior to the property which is the analogical extension of the property of health, which in the primary physiological realm is the property of bodies. But there is another conception which might particularly appeal to those who regard souls as being, initially at least, somewhat dubious entities, according to which souls are introduced into the psychological realm to be the subjects or bearers of a property in that realm which is an analogical extension of the property of health, which in the physiological realm belongs to bodies. According to this conception, fairly plainly, the conception of souls is logically posterior both to the notion of the psychological realm and to the analogical extension of the property of health which exists in that realm. Question Q2 is in effect an accusation: it suggests that the two conceptions are mutually inconsistent, since souls cannot be at one and the same time both logically prior to and logically posterior to both the concept of the realm to which they are supposedly central and to a certain property, analogous to bodily health which exists in that world; it further suggests that Socrates (or neo-Socrates) need both of these conceptions, but, of course, cannot have both of them.  To meet this objection, I would suggest that a promising line to take would be to deny that we start with a certain realm, the psychological realm, the nature of which is determined either by the subject-items, namely souls, which are central to it, or by the properties, such as a certain analogue of bodily health, which characterize things in it; and that we then proceed at a later point to add to it the remaining members of these two classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of the elements in the primary physiological realm,souls which are analogues of bodies and a class of properties one of which is an analogue of bodily health, and call the realm to which these analogues belong the psychological realm. In this way the incoherence covertly imputed by question Q2 will be dissolved, since neither of these psychological elements (souls and properties like the analogue of bodily health) will be logically prior to the other. What in fact has been done is to introduce, first, a double analogical extension of two types of items which belong to the primary physiological realm and, second, the notion of a psychological realm for use in a convenient way of talking about what has initially been done.  No doubt more than this will need to be said in a full treatment of the topic; but perhaps for present purposes, which are primarily directed toward defusing a certain criticism, what has been said will be sufficient.  V. Prospects for Ethical Theory (Question Q3)  Question Q3 might be expanded in the following way; we can imagine ourselves encountering someone who addresses us in the following way: "You have certainly achieved something. There is one class of philosophers who would be inclined to deny that the notion of moral justice can be regarded as an acceptable and legitimate con-cept, because there is no way in which the intuitive idea of moral justice can be coherently presented in a rigorous manner. What you have said has shown that such a philosopher's position is untenable; for you have shown that if we allow the possibility of representing moral justice as a certain sort of analogical extension of a basic no-tion, namely health, which is a property of bodies, items which belong to a basic or primary realm of objects, you have succeeded in characterizing in a sufficiently articulated way the possession of moral justice to which the philosopher in question is opposed on the grounds of its incoherence. That is no small achievement, but it is not, nevertheless, from your point of view, good enough. For there will be another class of philosophers who find no incoherence in the notion of moral justice, but claim that lack of incoherence is a necessary condition but not a sufficient condition for accepting moral justice as a genuine feature of anything in the world. The uses that we make of our characterizations of moral justice and other such items must be as part of an as it were encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents of the rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one contains everything which the other contains together with something which the other does not contain, while the other account contains nothing beyond a certain part of what the first account contains, it will be rational, in selecting the optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger vol-ume, unless it can be shown that what is contained in the larger volume but omitted in the smaller one is something which should be present in a comprehensive picture of the rational world. To be fit for inclusion in an account of the rational world, a contribution must be not only coherent but also something which is needed. This demand you have not fulfilled."  To this critic I should be inclined to reply in the following manner.  "I agree with you that more is required to justify the incorporation of moral justice within the conceptual furniture of the world than a demonstration that the notion of moral justice is one which is capable of being coherently and rigorously presented; and I agree that I have not met this additional demand, in whatsoever it may consist. But I think it can be met; and indeed I think I can not only say what is required in order to meet it but also bring off the undertaking of actually meeting it. The required supplementation will, I suggest, involve two elements; first, a demonstration of the value, in some appropriate sense of "value," of the presence in the world of moral justice, and second, a demonstration that it is, again in the same ap. propriate sense, up to us whether or not the notion of moral justice does have application in the world." I shall now enlarge upon the two ingredients of this proposed response.  First Supplementation. A person who is concerned about the realization in the world of moral or political justice will encounter at a number of points alternative options relating to such realization which he may have to take into account. The number of such options will vary according to whether a "two-concept" view or a "one-concept" view is taken of justice; the number will be larger if a two-concept view is taken, and I shall begin with that possibility.  (1) On a two-concept view, there will be two properties the realization of which has to be considered, moral justice and political justice.  One who is concerned about the application of these properties, and who is unhampered by any skeptical reservations, will have to consider the application of each of these properties to a particular indi-vidual, standardly himself, and also to a general subject-item, such as a particular totality of individuals each of whom might consider theapplication to himself as an individual of each of the initial proper-ties. There will also be a variety of distinct motivational appeals which the application of one of these forms of justice has to a particular subject-item, the consequential appeal of that realization (e.g. its payoff), or both. If we go beyond Plato, we might have to add such forms of motivational appeal as that which arises from subscriptions to some principle governing the realization of the initial property.  (2) On a one-concept view the initial array of options will be considerably reduced, though it is perhaps questionable whether such reduction will correspond to any reduction in genuinely distinct and authentic options. On the assumption that it would not, I shall temporarily go along with the idea that a one-concept view is the correct one. On this view a distinction between moral and political justice will reappear as the difference between concern for the application of a single property, that of justice, when it is motivated by the intrinsic appeal of its realization in a given subject-item (one might perhaps say its moral appeal) or alternatively, when it is motivated by the idea of the consequence of such a realization (one might say by its political appeal). One should perhaps be careful to allow that the idea that a single concept or property may exert different forms of motivational appeal does not carry with it the idea that one and the same body of precepts will reflect that concern, regardless of the question whether the motivational foundation is moral or political.  It is crucially important to recognize that situations which are only subtly different from one another may exert quite different forms of motivational appeal. Nothing has so far been said to rule out the possibility that while Socrates and other such persons may each be concerned that people in general should value the realization of justice in themselves because of its intrinsic appeal, that is to say, for moral reasons, nevertheless their concern that people in general should value for moral reasons the realization in themselves of justice is based at least in part on consequential or political grounds rather than on any intrinsic or moral appeal. It is possible to be concerned that people be sensitive to the moral appeal of being just, and at the same time for that concern to be at least partly founded on political rather than on moral considerations. If that is so, then the concern for a widespread realization of moral justice might itself have a nonmoral foundation. Such considerations as these might be sufficient to ensure that the realization of moral justice in a community is of value to that community. This value might consist in the fact that if themembers of a community are morally concerned for the realization of justice in themselves, their manifestation of socially acceptable behavior will not be dependent on the real or threatened operations of law-enforcers, to the advantage of all.  Second Supplementation. If we were to leave things as they are at the end of the first supplementation, though we should perhaps have shown that the realization of moral justice in the world was of value to inhabitants of the world and possibly also absolutely, we should not have escaped the suggestion that this alone is not adequate to our needs; it would leave open the possibility that all one could do would be to pray that moral justice is realized in the world, and then when we have found out whether this is or is not the case, to jubilate or to wail as the case might be. To make good our defense of moral justice, we should need to be able to show that in some sense the realizability of moral justice in the world is up to us. At this point it seems to me we move away from the territory of Socrates and Plato and nearer to the territory of Kant; it also seems to me that at this point the problems become immensely more difficult, and partly because of that, I shall not attempt to devise here a solution to them, but only to provide a few hints about how such a solution might be attained. As we have been interpreting the notion of moral justice, its realizability is an idea which is very close to that of the validity of Morality; and if we were to follow Kant's lead, we should be on our way to a supposition which is close to his idea that the validity of Morality depends upon the self-imposition of law, an idea which, though obscure, seems to suggest that what secures the validity of Morality is something which, in some sense or other of the word "do," is something that we ourselves do, and so perhaps in some sense or other "could," we could avoid doing. What kind of "doing" this might be, and how it might be expected to support Morality, to my mind remain shrouded in darkness even after one has read what Kant has to say; there seems little reason to expect that it would closely resemble the kind of doing with which we are familiar in the ordinary conduct of life. There is also important uncertainty about the proper interpretation of the word "could"; it might refer to some kind of psychological or natural possibility, something which some would be inclined to call a kind of causal possibility; or it might refer to some kind of "rational" possi-bility, the existence of which would require the availability of a reason or possible reason for doing whatever is said to be rationally possible.  Not everything which is psychologically possible is also rationallypossible; and I think it might be strategically advantageous if it could be held that the Kantian view assigns psychological possibility but not rational possibility to the avoidance of the institutive act which underlies Morality; but whether this is Kant's view, and how, if it is his view, it is to be made good, are problems which I do not know how to solve.  VI. The Republic and Philosophical Eschatology  Let me first present what I see as the background to the reconstructed debate between Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps between neo-Thrasymachus and neo-Socrates. Neo-Thrasyma-chus is a Minimalist and a Naturalist who has affinities with Hume; he rejects the concept of moral justice on the grounds that it would be at one and the same time a nonnatural and psychologistic feature and also an evaluative feature. At this point we may suppose that neo-Socrates, who is not committed to any form of Naturalism, will have retorted to neo-Thrasymachus that a blanket rejection of psychologis-tic and evaluative features will totally undermine philosophy. This part of the debate is not recorded, but we may imagine neo-Thrasymachus to have responded that neo-Socrates is in no better shape; for he can make sense of the notion of moral justice only by representing it as a special case of a favorable feature, namely well-being, which spans category-barriers between radically different sorts of entities, such as bodies, political states, and persons. But neo-Socrates himself will be committed to holding a view of universals which will prohibit any such crossing of category-barriers by a single universal. To this charge neo-Socrates may resort to two forms of defense, one less radical than the other. The less radical form would involve the claim that while there have to be category-barriers, these do not have to be as severe and restrictive as the accusation suggests.  The more radical form of defense would refrain from relying on a more permissive account of category-barriers even though it allowed that such increased permissiveness would be in order. It would rely rather on a distinction between concepts which may span category-barriers, whether these are more or less severe in nature, and universals which may not span such barriers. A closely parallel distinction between (i) an expression's having a single meaning and (ii) its being used to signify a single universal can, I think, be found in Aristotle.  This distinction would be made possible by making concepts rest ona foundation of affinities as distinct from the foundation of similarities which underlies universals; affinities may, while similarities may not, be characterizable purely in analogical terms. The working out of such a distinction would be one of a variety of concerns which would be the province of a special discipline of philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion would permit generalization and explanation to cross category-barriers and would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against neo-Socrates and his favored notion of moral justice. At some level of reinterpretation, then, Socrates's appeal to an analogy between the Soul and the State would be at least partly aimed at showing that the concept of Moral Justice, which Thrasymachus would like to banish as theoretically unintelligible, is analogically linked with the concept of bodily health, admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate concept, in such a way that, despite radical categorial differences between the two con-cepts, if the concept of bodily health is intelligible, the concept of Moral Justice is also intelligible.  However, to exhibit Moral Justice as a feature which is really applicable to items in the world, such as persons and actions, more is needed than to show that its ascription to such items is free from incoherence. It will be necessary to show that such ascription, if it were allowed, would serve a point or purpose, and also that it is in some important way up to us to ensure that such ascription is admis sible. The fulfillment of the last undertaking might force us to leav the territory of Socrates and Plato and to enter that of Kant. When it comes to the debate on what Aristotle has as ‘dikaios’ from his years at the Academy, before he moved to the Lycaeum, between Plato’s Socrates and TRASIMACO in Republica, Grice makes it explicit that what we should bear in mind that Grice’s purpose – and indeed Treves’s -- of looking at the discussion of  δίκαιον” – Cicero’s IVSTVM -- is to see if the course of that discussion between TRASIMACO and SOCRATE could be looked on as a conscious, sub-conscious, or even un-conscious venture by Socrates – indeed Plato, as Ryle would point out: “We are not sure Socrates existed” -- into eschatology. TRASIMACO’s and SOCRATES’s discussion – Grice: “I would not call it a conversation” -- begins with a pressing invitation to Socrates to take part in an examination of the question "What is δίκαιον?" – or as Hardie prefers, “What do you mean by δίκαιον?” It is clear that, despite the intrusion of distractions, Socrates – whom from now on Grice calls PLATO -- has not lost sight of this focus. Two preliminary answers are put forward. The first is that of Cephalus ("δίκαιον =df ‘to tell the truth and pay one's debts’ – Thou shalt pay thy debts – P. G. R. I. C. E. Clarendon --). The second is that of of Polemarchus – Cephalus’s son,  it happens -- δίκαιον =df to give every man his due – cf. Horatio Nelson, a maxim crucial, but trite. A maxim tremendous, but trite. CEFALO’s answer seems to be an attempt to exhibit the nature of δίκαιον by means of a paradigmatic rule – alla Flew or Urmson. POLEMARCO’s answer, instead, attempts to provide a general or generic – via genus -- characterisation or definition, terminus or horos – logos.  Socrates – or Plato -- points out that even a paradigmatic rule allows of this or that exception – Hare: “Do not tell the truth to the Nazi enquirer” -- , with the consequence that a practical principle is needed to identify this or that exception. POLEMARCO’s suggested definition or conceptual analysis is faulted on the grounds that, counter-intuitively it allows δίκαιον on occasion to be exhibited in causing harm – cf. Lucas on the justification of punishment in PHILOSOPHY. It seems to be open to Polemarco to reply to Socrates or Plato that the connection of δίκαιον with punishment makes it questionable whether it is counter-intuitive to suppose that δίκαιον sometimes involves causing harm. Indeed, we might inquire why the answers suggested by Cefalo and Polemarco are given house-room at all if they are going to be so cursorily handled! The debate with Thrasymachus. A number of different factors to Grice’s mind raise serious questions about the role of this debate in the general scheme for the treatment of δίκαιον in Republica. The quality of Thrasymachus's dialectical apparatus seems to be, to put it mildly, not of the highest order. Socrates himself remarks that in the course of the debate the original question ("What is δίκαιον?") becomes entangled in a confused way with a number of other seemingly different questions such as whether the just -- δίκαιον -- life is the happiest life, or is more, or less, happy than the unjust [not δίκαιον] life, whether the just [δίκαιον] life is worthy of choice, etc. What does Thrasymachus achieve beyond the generation of confusion? Socrates's replies to Thrasymachus are by no means always intellectually impeccable. Yet, so far as Grice and T. can see, this fact is not pointed out. Glaucon and Adeimantus are dissatisfied with the upshot of this debate and call upon Socrates to show that the just δίκαιον life is the happy life, not making it clear what the connection is between this demand and the answering of the original question about the nature of δίκαιον. Socrates endeavours to meet the demands of GLAUCONE e ADEMANTO -- Plato's brothers, as it happens: his was a philosophical family -- but to do this, Socrates resorts to the elaborate presentation of a FULL-BLOWN analogy between the soul psyche ANIMA and the state LO STATO. What justifies the presentation, in the current context, of the nature of this full-blown – Cajetan, almost -- analogy? Blow-by-blow details of the debate with Thrasymachus.  Round 1. Thrasymachus at the outset couples the thesis that " δίκαιον =df the interest – not the duty -- of the stronger" with the admission that a ruler – the rex -- may not not infallible in his estimates of where the interest – not the duty -- of the stronger lies. As the comments of Socrates, Polemarchus, and Cleitophon make clear, this leads Thrasymachus into an intolerable tension between the idea that the edicts of the ruler or rex – think Fasage -- command obedience because they spring from a belief on the part of the ruler that such intended obedience is in the interest of the stronger, and the idea that obedience is demanded if, BUT only if, it would in fact be conducive to the interest of the stronger. Thrasymachus seeks to repair his position by distinguishing between (a) what the ruler commands and (b) what the ruler commands qua ruler. The latter cannot but be conducive to the interest – not duty -- of the stronger, though no such assurance attends the former. Though no one points this out, the attempted escape seems to carry the consequence that whether the ruler's commands do, or do not, call for obedience may be, and may continue to be, shrouded in obscurity. But, apart from this initial confusion, the debate in Round 1 is characterised by a number of further disfigurements or blemishes, responsibility for which may attach not only to Thrasymachus but, by association, to Socrates. Some of these disfigurements or blemishes may indeed also be visible in subsequent rounds. It is not made clear, nor indeed is the question raised, whether the kind of δίκαιον under discussion is political (or politico-legal) δίκαιον, or moral δίκαιον. The general tenor of Thrasymachus's remarks would suggest that his concern is with political or politico-legal δίκαιον. Indeed it seems not impossible that it is part of Thrasymachus's position that there is no such thing as moral δίκαιον, that the concept of moral δίκαιον is chimerical and empty. If this were his position, he could be characterized as a certain sort of sceptic, avant la letter – the Porch had not been built yet! -- ; but whether or not it is his position should surely not be left in doubt. Thrasymachus nowhere makes it clear whether he regards the popular, or vulgar, application of the term "δίκαιον," which Thrasymachus may not himself endorse, as a positive or a negative commendation. Are just δίκαιον acts supposed to be acts which fulfill some condition which acts should fulfill, or acts which are free from an imputation that they fulfill some condition which acts should not fulfill? In other words, is Trasimaco defending Hall’s view on EXCLUDERS? It is not clear whether Thrasymachus's thesis that δίκαιον is the interest of the stronger is to be taken as a thesis about the "nominal essence" – alla Robinson: what is there? you name it -- or about the "real essence" of δίκαιον. Is Thrasymachus suggesting that the right way to conceive of δίκαιον, the correct interpretation of the term " δίκαιον," is as ‘signifying’ that which is in the interest of the stronger? Or is he suggesting that whatever content we attach to the concept of δίκαιον, the characteristic which explains why just δίκαιον acts are done and why they have the effects which standardly attend them, is that of being in the interest of the stronger? Thrasymachus seems uninterested in distinguishing between the use of the word " δίκαιον " – what Austin would have as ‘just’, ‘fair’, or "right" -- as part of a sentential operator which governs a sentence which refers to this or that possible action (e.g., "it is δίκαιον -- just  or right -- that a person who has contracted a debt should repay it at the appointed time," "it is δίκαιον  --just -- for a juror to refuse offers of bribes" -- and its use as an adjunctive – aggetivo -- epithet which applies to actually performed actions -- e.g.,  "he distributed payments, for the work done, justly -- δίκαιον. These two uses are no doubt intimately connected with one another – cf. it is certain, x is certain --, but they are surely distinguishable. Thrasymachus is not at pains to make it clear whether the phrase "the stronger" refers to the ruler or government, the official boss, or to the person or persons who wield political power (legitimately or not): the real boss. These persons might or might not be identical.  Think Mussolini – I owe this remark to T. As a result of these obscurities which Grice one and again forbirds from conversation – ‘avoid obscurity of expression – be perspicuous [sic] -- the precise character of Thrasymachus's position is by no means easy to discern.  Round 2. At the end of Round 1, as it seems to Grice, Socrates seeks to counter Thrasymachus's reliance on a distinction between what the practitioner of an art ordains simpliciter and what the practitioner ordains qua practitioner of that art – think Picasso --, by suggesting that if we take this distinction seriously, we shall be led to suppose that when the practitioner acts qua practitioner, his concern is not with his own well-being but with the well-being of the subject matter which the art controls.Therefore, rulers, qua rulers, will be concerned with the well-being of their subjects rather than with the well-being of themselves. This contention seems open to the response that there is nothing to prevent the well-being of the subject matter from being, on occasion, that state of the subject matter which is congenial to the interest of the practitioner. This indeed may be the tenor of Thrasymachus's outburst comparing the treatment of subjects by rulers with the treatment of (allegedly good) sheep by an (allegedly good) shepherd – in fact, Catholics in Italy call Christ The Lord is My Shepherd – PASTORE.  If so, Socrates does not seem to have any better reply than to suggest that the dominance of concern on the part of rulers to obtain compensation for their operations hardly supports the idea that it is common practice for them to use their offices to feather their own nests; a response to which Socrates adds an obscurely relevant demand for a distinction between the practice of an art which is typically not directed toward the interests of the practitioner, and the special case of a concomitant exercise of the art of profit-making, which is so directed. Thrasymachus, however, complicates matters by introducing a fresh line of attack against the merits of δίκαιον vis-à-vis injustice – non- δίκαιον. He suggests that in the private citizen δίκαιον (devotion to the interest of the stronger, that is, of the ruler) is folly, while injustice – non- δίκαιον -- (devotion to his own interest) is sensible even if dubiously effective; while the grand-scale injustice – non- δίκαιον  -- of rulers, as exhibited in tyranny – cf. Aristotle on ‘consttutio’ as an analogical term in JOACHIM --, has everything to recommend it. It is not clear that this manifesto is legitimate, since it is not clear that, on his own terms, Thrasymachus is entitled to count tyranny as injustice – non- δίκαιον; the tyrant is not preferring his own interests to the interests of someone stronger than himself, since no one is stronger than he (is). It is true, of course, that while Thrasymachus may not be entitled to call tyranny injustice – non- δίκαιον --, he may be equally not entitled to call it justice -- δίκαιον --, since though the tyrant may be the strongest person around, he is certainly not stronger than himself. So perhaps Thrasymachus's plea for injustice – non- δίκαιον  -- may turn out to be a misfire.  Round 3. In response to a query from Socrates, Thrasymachus recapitulates his position, which is not that injustice – non- δίκαιον -- is a good quality and justice -- δίκαιον -- a bad quality, nor (exactly) the reverse position, but is rather that δίκαιον is folly or extreme simplicity, whereas non- δίκαιον is good sense. With this contention there is also associated Thrasymachus's view that non- δίκαιον implies strength, and that the unjust – non- δίκαιον -- life rather than the just δίκαιον life is the happy life. Socrates' reply to Thrasymachus invokes arguments which seem weak to the point of feebleness. In his first argument, Socrates gets Thrasymachus to agree that the just δίκαιον man seeks to compete with, or outdo only the unjust -- non δίκαιον -- man, whereas the unjust – non δίκαιον -- man competes both with the just -- δίκαιον and with the unjust, non δίκαιον. Reflection on the arts, however, prompts the observation that, in general, the expert competes only with the inexpert, whereas the non-expert competes alike with the inexpert AND with the expert, so it is the just δίκαιον man, not the unjust non δίκαιον man, who runs parallel to the general case of the expert, and who therefore must be regarded as possessing not only expertise but also good sense. Among the flaws in this argument, one might point particularly to the dubious analogy between the province of the δίκαιον and the province of the arts, and also to a blatant aequi-vocality with  "compete," by whose utterance, in Greek, the utter might mean  "try to perform better than", but also "try to get the better off.”  In the succeeding argument against the alleged strength of injustice non δίκαιον, Socrates remarks that injustice, non δίκαιον breeds enmity, observes that efficient and thorough-going injustice, non δίκαιον, requires  "honour among thieves," and concludes that a fully unjust – non δίκαιον  -- man would in real life be weaker than one who was less fully unjust – non δίκαιον. Maybe this argument shows that the unjust, non δίκαιον, man cannot, with maximum effectiveness, literally "go the whole hog" in injustice, or non δίκαιον; but this is far from showing that he should never have started on any part of the hog. Finally, Socrates counters Thrasymachus's claim that the unjust, non δίκαιον, life, rather than the just, δίκαιον, life, is the happy life, by getting Thrasymachus to agree that at least for certain kinds of things the best state of a thing of that kind lies in the fulfillment of the function or metier of that kind or genus, which will also constitute an exhibition of the special and peculiar excellence – ANDREIA, or virtus -- of things of that kind; and also that justice, δίκαιον, is in the required sense the special excellence of the soul psyche ANIMVS ANIMA; from which he concludes that justice, δίκαιον, is the best state of the soul and as a consequence gives rise to the happy life. This argument, perhaps, palely foreshadows Socrates's strategy in the main part of the dialogue. But at this point it seems ineffective, since no case has been made out why Thrasymachus should agree to what one would expect him to regard as the quite uncongenial suggestion that justice, δίκαιον, is the special excellence of the soul. Transition to the main body of the Dialogue. Glaucon and Adeimantus express dissatisfaction with Socrates's handling of Thrasymachus. Glaucon invokes a distinction between three classes of  goods: those which are desirable only for their own sake, those which are desirable both in themselves and for the sake of their consequences, and those which are desirable only for the sake of their consequences, which Glaucon dubs ‘futilitarian.’ Glaucon goes on to remark that it is the view of Socrates, shared by himself and Adeimantus, that justice, δίκαιον, belongs to the second class of goods, those which are doubly desirable; but he wishes to see the truth of this view demonstrated, particularly as the generally received opinion seems to be that justice belongs to the third class of goods which are desirable only for the sake of their consequences and have no intrinsic value. He wishes Socrates to show that justice, δίκαιον, is desirable in respect of its effect on those who possess it, independently of any rewards or consequences to which it may lead – duty without interest, in Prichard’s terms. He wishes Socrates to show that it is reasonable to desire to be just, δίκαιον, rather than merely to seem just, δίκαιον, and, indeed, that the life of the just, δίκαιον, man is happy even if his reputation is bad. Otherwise it will remain feasible: that the institutions of justice, δίκαιον, are acceptable only because they secure for us the greater good of protection from the inroads of others at the cost of the lesser evil of blocking our inroads upon others – benevolence versus self-love --, and that if the possession of Gyges's ring would enable our inroads upon others to remain undiscovered, no reasonable person would deny himself this advantage. Adeimantus reinforces the demands expressed by Glaucon by drawing attention to the support lent by the prevailing education and culture to the received opinion about justice, δίκαιον, as distinct from the view of it taken by Socrates, Glaucon, and himself. Apart from the tendency to represent the rewards associated with justice, δίκαιον, as really attending not justice, δίκαιον, itself but the reputation for justice, δίκαιον, Adeimantus observes that even when the rewards are thought of as attending not merely the semblance of justice, δίκαιον, but justice, δίκαιον, itself, the rewards are conceived of as material and consequential rather than as consisting in the fact that justice, δίκαιον, is its own reward. He also points to the fact that,even when recognition that it is injustice, non δίκαιον, rather than justice, δίκαιον, which pays leads to the pursuit of injustice, δίκαιον, and thereby to the incurring of divine wrath, the prevailing culture and education teach that the gods can be bought off. So unless Socrates follows the course proposed by Glaucon, he will be saddled with the charge that really he agrees with Thrasymachus, that so-called justice, δίκαιον, is really pursuit of the interest of the stronger, the strength of whose case lies in his command of the big battalions, and that the so-called injustice, δίκαιον, involved in the alternative pursuit of one's own interests is really inhibited only by the threat of force majeure. In his attempt to accede to the demands of Glaucon and Adeimantus, Socrates embarks on his elaborate analogy between the state and the soul. The details of this presentation lie outside the scope of Grice’s inquiry, which is concerned only with the structural, eschatological aspects of Socrates' procedure. Does Thrasymachus have a coherent position?  When we operate, as moral philosophers, in the borderland between ethics and political theory – not Hart’s JURISPRUDENCE! – when or why was that chair instituted at Oxford, and wy doesn’t it count as philosophy?--, one of the salient questions which we encounter is whether there is a distinction between a moral concept and a political concept, and how such a distinction, if it exists, should be characterised. In this connection it will be of great importance to consider the view-point of a philosopher, if such a philosopher can be found, who maintains that there is no distinction – “I don’t count Mussolini as a philosopher” (Grice) --, or at least no genuine distinction, between a moral concept and a political concept in this area of the δίκαιον, or in some significant part of this area. If it were possible without undue distortion to exhibit Thrasymachus as a kind of moral (avant la letter) sceptic — as someone who holds, for example, that while political justice δίκαιον, or politico-LEGAL justice δίκαιον – the deontological alla Kelsen --, is an intelligible notion with real application, the same cannot be said of moral justice, δίκαιον, which since Prichard, at Oxford, can be seen to be ultimately an illusion, it might be philosophically advantageous to regard Thrasymachus in that way. We should examine, therefore, the prospects of success for such an interpretation of Thrasymachus's position. Can he be viewed as one who regards political justice δίκαιον, but not moral justice δίκαιον, as a viable concept?  If we attempt to proceed further in this direction, we encounter a difficulty at the outset, in that it is unclear just what concept it is which who Grice calls The Friends of Moral Justice δίκαιον suppose to be the concept of moral justice δίκαιον. Is the term – or phrase -- "moral justice" δίκαιον to be thought of as referring to moral value – axis -- in general, as distinct from other kinds of value? Or is the notion of moral justice, δίκαιον, to be conceived as possessing some more specific content, so that, while both fairness and loyalty are morally admirable qualities, only the first can be properly regarded as a form of moral justice δίκαιον? And if the notion of moral justice, δίκαιον, is to be supposed to cover only a part of the domain of moral value, to which part of that domain is its application restricted? To the region of fairness – Cricket is an Englishman? To that of equality of opportunity – VICO, AEQVITAS alla romana? To that of respect for this or that natural right? Rival candidates seem to abound – as we well know – and not just at Oxford! In the case of Plato's Thrasymachus it seems that he, perhaps like Plato himself, is not disposed to engage in the kind of conceptual sophistication practised later by Plato’s former pupil, Aristotle – I am reminded at this point of my own tutor Hardie, whose bedside book was the ETHICA NICOMACHEA -- and by some philosophers since  Aristotle – notably my tutor, from Scotland, Hardie. For Thrasymachus, The Friends of Moral Justice δίκαιον (on the assumption that the representation of Thrasymachus as a kind of moral sceptic is legitimate) will be philosophers who treat the term or phrase "moral justice δίκαιον " as one which refers to morality, or to moral virtue in general, a usage which, not Philippa Foot, but Aristotle also recognises as legitimate, alongside the usage in which "justice" δίκαιον is the name of one or more specific virtues, and for which he offers an analogical explanation in terms of quantitative merit/demerit to non-quantitative reward-punishment – the proportio or aequilibrium praised by Cicero. If our programme requires that we try to represent Thrasymachus as a certain sort of moral sceptic, obviously one part of his position will be that the concept of moral justice δίκαιον is unacceptable. One or both of two forms of unacceptability might be in question, namely alethic unacceptability and semantic unacceptability, concerning what an utterer might ‘signify’ by uttering δίκαιον. The suggestion might be that a positive ascription of moral justice, δίκαιον, are never in fact true, and so are always alethically unacceptable, or that such ascriptions, together perhaps with their negations, suffer from some form of un-intelligibility, and so are semantically unacceptable. Cfr. Carnap: It is not the case that pirots karulise elastically. Some indeed might contend that it is general or generalized alethic unacceptability which generates semantic unacceptability, concerning what an utterer might ‘signify’ – but recall Humpty-Dumpty on ‘glory’ --, that if a certain kind of characterization is always false, that implies that that kind of characterisation is in some way unintelligible. Let us assume that the revised presentation of Thrasymachus will be one which, for one reason or another, ascriptions of moral justice, δίκαιον, are semantically unintelligible, by way of an utterer ‘signifying’ by the uttering of δίκαιον. This assumption will leave open a considerable range of possibilities with regard to the more precise interpretation of the notion of semantic unacceptability, concerning what an utterer ‘signifies’ – consider Humpty Dumpty --, ranging perhaps from the extreme suggestion that an ascriptions of moral justice, δίκαιον, are just gibberish, as Humpty-Dumpty’s Jabberwocky, to the suggestion that they admit no fully successful rational elucidation – cf. Grice’s pupil Strawson on the bounds of sense – grenzen der sinnlichkeit.. Within the boundaries of this position, the new Thrasymachus might perhaps hold that, though the concept of moral justice, δίκαιον, is semantically unacceptable, a related concept, which we may call "moral justice», -** δίκαιον - Owen would have a double star here -- " is fully admissible. Moral justice* δίκαιον *-- I’ll use just one star -- δίκαιον is to be supposed to have precisely the same descriptive content as moral justice δίκαιον; ascriptions, however, of moral justice*, δίκαιον, will entirely lack the ingredient of favourable valuation or endorsement which is carried by the term  "moral justice δίκαιον." It might, however, be objected that the proposed separation of the descriptive content of moral justice, δίκαιον, from its evaluative content is quite inadmissible. If we are looking for a predicate which from an ascriptive point of view is the specification of the general descriptive condition for moral justice, δίκαιον, but which at the same time lack the evaluative element which attaches to the term "moral justice," δίκαιον , we shall need predicates which are considerably more specific than "morally just»." δίκαιον .Indeed, some might claim that it is pure fantasy to suppose that any predicate, however specific, could ‘signify’ a descriptive character which falls within the general character ‘signified’ by the term "moral justice", δίκαιον , after detachment of the term's very core evaluative ‘signification’! Description cannot be thus severed from evaluation, or the etic from the emic. Whatever may be the final upshot of debate about the possibility of separating the descriptive ‘signification’ and the evaluative ‘signification’ of the term "morally just," δίκαιον , it is clear that a further element in the position of the new Thrasymachus will be that whatever semantic unacceptability may attach to moral justice, δίκαιον, there is a further kind of justice, δίκαιον, namely political (or politico-legal) justice, δίκαιον – of the type Hart adored, and Hare, on occasion, too--, which is free from this defect. Political justice, δίκαιον, is a concept which is both intelligible and has application. Thrasymachus, however, wishes to combine this recognition of the intelligibility and the applicability of the concept of political justice, δίκαιον, with the contention that the applicability of the concept of political justice, δίκαιον, to a particular line of actual or possible action provided a basis not for the commendation but rather for the discommendation of that line of action; the wise, prudent, or sensible man would be led away from rather than toward the adoption of a certain course of action, would become less rather than more favorably disposed toward the idea of his becoming engaged in it, if he were told, perfectly correctly, that political justice, δίκαιον, required his engagement in it. This further contention has the air of paradox; how could the fact that political justice, δίκαιον, or indeed any kind of justice, δίκαιον, requires a man to undertake a particular course of action, be in the eyes of that man a bad mark against doing the action in question? Can the new Thrasymachus align himself in this matter with the old? It can fairly easily be seen that the idea that the position of Thrasymachus involves paradox is ill-founded. That this is so can best be shown by the introduction of one or two fairly simple distinctions. First, a value (or disvalue) may be either intrinsic or extrinsic. Roughly speaking, the value (or disvalue) of x will be intrinsic if it attaches to x in virtue of some element in the character of x; it will be extrinsic if it depends on the nature of some effect of x. To present the distinction somewhat more accurately, a value or disvalue of x will be intrinsic if its presence is dependent on some property of x which may indeed be a causal property, but if it is a causal property, it is one whose value or disvalue does not depend on the value or disvalue of that which is caused. The property of causing raised eyebrows is a causal property and may be one with which value or disvalue is associated; but if the eyebrow-raising is something with which value or disvalue is associated, this is not because of the antecedent value or disvalue of elevated eyebrows, but rather because of a connection between raised eyebrows and surprise, or moral indignation (in Strawson’s case). A value or disvalue will be extrinsic if it attaches to x in virtue of a causal property the value or disvalue of which depends upon the antecedent value or disvalue of that which is caused. Second, a value or disvalue may be either direct or indirect. A value which is a direct value of x must rest, if it rests on other features at all, on features of x which, at least on balance, are values rather than disvalues; similarly, a direct disvalue of x, if it rests on other features of x, must rest on features which are at least on balance disvalues. An indirect value of x may rest on a prior disvalue of x, provided that this disvalue is less than that which would attach to any alternative state of x. The disvalue of being beheaded – if you are Charles I, if not Antoinette - may be indirectly a value, provided that (for example) it is less than the disvalue which would attach to the only other option, namely to being burned at the stake – as Bruno and a few other Italian philosophers were on account of the technicalities of axe-yielding – never mind the guillotine The least of a number of possible evils may thus be indirectly a good. Thrasymachus, then, is perfectly entitled to deny that political justice, δίκαιον, is directly a kind of good, provided he was willing to allow, as he is, that indirectly it is, or may be, a good. There is then no conceptual barrier to incorporating in the position of the new Thrasymachus – think my pupil Nozick (And I did my best by teaching Rawls’s ‘Fairness’ on Saturday mornings! -- the thesis that political justice, δίκαιον, is only indirectly a good; it is acceptable only as a way of averting the greater evil of being at the mercy of predators. This would perhaps be an appropriate moment to consider a little more closely what Grice is speaking of as Thrasymachus's combination of rejection of the concept of moral justice, δίκαιον, and acceptance of the concept of political justice, δίκαιον. There are two ways of looking at this matter. One, which is, I think, suggested by Grice’s discussion, is that there are two distinct concepts, which some philosophers regard as being both parallel and viable, namely moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον. The special characteristic of Thrasymachus is supposed to be that he allows the second concept while rejecting the first. I shall call this approach the "two-concept" view of justice, δίκαιον  -- senses are not to be multiplied, etc. -- according to which the unqualified term "justice", δίκαιον, might be used to refer to either of two distinct concepts. The second way of looking at things I shall call the  "one-concept" view of justice, δίκαιον, according to which the least misleading account of the difference between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will be not that two different concepts are involved, but that two different kinds of reason or backing may be relied upon in determining the application of a single concept, namely that expressed simply by the word "justice" δίκαιον -- without the addition of any adjectival modification. The term "justice" δίκαιον will always ultimately refer to a system of practical rules for the regulation of conduct, perhaps not just any and every such system but one which conforms to certain restrictions — for example, perhaps, one which is limited to the regulation of certain kinds of conduct or regions of conduct. The difference between moral justice, δίκαιον , and political justice, δίκαιον, might be thought of as lying in the fact that in the case of moral justice, δίκαιον, the system of rules is to be accepted on account of the intrinsic desirability that conduct of a certain sort should be governed by practical rules or by practical rules of a certain sort, where a system of rules of political justice, δίκαιον, rests on the desirability of the consequences of making conduct subject to rules, or to those particular rules. This possibly rather more Kantian conception of the relation between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will perhaps carry the consequence that the view of Socrates and his friends that moral justice, δίκαιον, is desirable independently of the consequences of acting justly is no accident, but is a constitutive feature of moral justice, δίκαιον; without it, moral justice, δίκαιον, would not be moral. It should of course be recognised that the idea that there is only one concept of justice, δίκαιον, though there may be different kinds of reason for accepting a system of rules of justice, does not entail that one and the same system of rules of justice may be acceptable for radically different kinds of reasons. There might be a single concept of justice, δίκαιον, without its ever being true that different sorts of reason could ever justify the acceptance of a single system of rules of justice, or δίκαιον. We may, of course, if we wish to treat a one-concept view of justice δίκαιον as in fact invoking two concepts of justice δίκαιον; but if we do, we should recognise that the two concepts of justice δίκαιον are higher-order concepts, each relating to different kinds of reasons governing the applicability of a single lower-order concept of justice δίκαιον. Let us take stock. We seem to have reached a position in which  we have failed to detect any incoherence in the views of Thrasymachus, and it seems to be a live possibility that intrinsic desirability is not an accidental feature but is a constitutive feature of moral justice δίκαιον. We should now inquire what considerations, if any, would be grounds for dissatisfaction with the viewpoint of Thrasymacus.  When it comes to moral Justice δίκαιον and Scepticism, the claim that what Grice is presenting is a reconstruction of Socrates' original defense of moral justice δίκαιον rests on my utilisation of some of Socrates' leading ideas, notably on the idea that the presence of moral justice δίκαιον in a subject x depends upon a feature or features of components of x, that the relevant feature or features of the components is that individually each of them fulfills its role or plays its part, whatever that role or part may happen to be (or, perhaps better, taken all together, their overall state is one which realizes most fully their various separate roles), that in satisfying this condition, they, the components, enable x to realize the special and peculiar virtue of excellence ANDREIA or virtvs of the type to which x essentially belongs, that this fact entitles us to regard x as a good or well-conditioned T (where "T" refers to the type in question), and this in turn, if membership of T, or U, for universalia, if you wish to forget about Russell,consists in being a soul, ensures that the life of x is happy, in an appropriate sense of "happy." Grice’s account also resembles the original account given by Socrates in that it deploys the notion of analogy which is a prominent ingredient in Socrates' story, though it seeks to improve on Socrates' presentation by making it clear just why the notion of analogy should be brought into this discussion, and by making its appearance something more than an expository convenience. Grice’s presentation seeks also to link the idea of maximal or optimal fulfillment of function not merely with the concept of moral injustice non δίκαιον but more centrally and more directly with the more widely applicable concept of what one might call "health." This change carries with it an increase in the number of stages to be considered from two (the political and the moral) to three (the PHYSIOLOGICAL, the political, and the moral). Grice’s presentation also introduces the suggestion that the very same factors which determine whether a particular entity x, belonging to a certain type T, merits the accolade of being a T which is healthy, well-conditioned, or in good shape, also by their presence (in lower degrees) determine the difference between the existence or survival of x, rather than its non-existence, or non-survival, or lack of operancy. The same features, for example, which at the physiological stage determine whether a body is or is not well-conditioned, also determine by their appearance or non-appearance in lower degrees whether that body does or does not exist or survive, i. e. collapses instead. This example in fact calls for a more careful formulation. Grice proceeds to a more detailed discussion of the three stages recognized in his account. The complications are considerable, and intelligibility of presentation may call for omissions and convenient distortions. At Stage 1, the physiological stage, there appear a number of different items or types of item, viz.:  physiological things, such as human and animal bodies -- ф-thing,, -thing» ф-thingn; physiological components (ф-components or bodily organs. These will include both distinct types of d-component or organ, like the Liver and the Heart, and distinct instances or tokens of these types, like GRICE’S liver and  GRICE’S heart, or GRICE’s liver and STRAWSON’s heart. Entry will distribute a number of different types of bodily organ one apiece among human or animal bodies. For these purposes, sets of teeth and pairs of human legs will have to count as each a single organ. Functional properties of physiological components or organs. These correspond to the jobs or functions which the various organs crucially fulfill in the life of the -thing or body to which they belong, such as walking, eating, achieving, and digestion. For convenient  oversimplification I assume that each organ has just one functional property, which will be variable in degree.  (d) Certain properties of -things (bodies) ("global properties") which will be dependent on the functional properties exhibited by the arrays of physiological components or organs which belong to the things in question. The properties under this head which presently concern me are two in number: one, which will not be variable in degree, will be the property of existence or survival, which will depend on the array of physiological components belonging to a particular d-thing achieving a minimal level with respect to the functional properties of the members of the array, that is to say, a level which is sufficient to ensure that the array of physiological components continues to exhibit some positive degree of the functional properties of that array. The other -thing property which concerns Grice is one which will be variable in degree; it is the property of well-being, or well-being as a -thing of the sort to which it belongs. Maximal well-being will depend on an optimal combined exemplification of the functional properties of a -thing's physiological components. The higher levels of this latter property are commonly known as "bodily health" (with-out qualification), or as "bodily healthiness." At all levels the phrase  "bodily health" may be used to signify the dimension within which variation takes place between one level and another.  (3) Before I embark on a consideration of the details of subsequent stages, perhaps I should amplify the account of my intended proce-dure, including the general structure of my strategy for the characterization and defense of moral justice:  (a) The items involved in the stage 1 (physiological entities or bod-ies, their components or organs, the functional properties, and certain overall features of bodies, such as existence and being in good shape, which are dependent on the functional properties of organs) exist or are exemplified quite naturally and without the aid of analogy at this level. The stage therefore may be regarded as providing paradigms which may be put to work in the specification of related items which appear in subsequent stages and into the constitution of which analogy does enter.  (b) Those members of the list of items, mentioned in 3(a) as appearing in later stages, which are properties as distinct from things, may be specified in two different ways. One way will be to make use of abstract nouns or phrases which are peculiar and special to properties belonging to that stage, and which do not incorporate any reference to more generic properties specifications of which are found also at stages other than the one to which the property under discussion itself belongs. The other way is to build the specifications from what at least seem to be more generic properties, together with a differentiating feature which singles out the particular stage at which the specified properties apply. Leaving on one side for a moment the second mode of specification, I shall comment briefly on the first. This may be expected to yield for us, at the political stage, such properties as those expressed by the phrases "political justice" and "political existence," and by whatever epithets are appropriate for the expression of the features of this or that part of a state on which the global properties of political justice and political existence will depend.  Again, at the psychological stage, the first method will give us, unless the state is beset by illusion, expressions for the psychological properties of moral justice and psychological existence, and for the particular features of parts of the soul (whatever these parts may be) on which the presence of moral justice and psychological existence will depend. It will be noted that more than one important issue has so far been passed over; I have ignored the possibility that political and moral justice might be different specifications of a more general feature for which the name "justice," without added qualification, might be appropriate; I have left it undetermined whether "parts of the state" are to be regarded, as they were by Socrates, as particular political classes or in some other way, perhaps as political offices or de-partments; and I have so far ducked the question of the objects of reference of the phrase "parts of the soul." Such matters obviously cannot be indefinitely left on one side.  (c) I turn now to the considerably more complicated second mode of specification of the relevant range of properties. As already re-marked, this mode of specification will incorporate references to seemingly generic properties the appearance of which are not restricted to just one stage, a fact which perhaps entitles us to talk here about "multistage" epithets (predicates) and properties. Examples of second-mode specification will be such epithets as "is in good shape as a body" and "is in good shape as a state," both of which incorporate the more generic epithet "is in good shape" which seemingly applies to objects belonging to different stages, namely to animal bodies and to states. In addition to such "holistic" epithets which apply to subjects which inhabit different stages, there will also be "meristic" epithets, like "part" itself, which apply to parts of such aforementioned subjects. One of my main suggestions is that the multistage epithets which are characteristically embedded in second-mode specifications always, or at least in all but one kind of cases, apply only analogically to the subjects to which they do apply. I may remark that we shall need to exercise considerable care not to become entangled with our own bootlaces when we talk about analogical epithets, the analogical application of epithets, and analogical properties. Such care is particularly important in view of the fact that it is also one of my contentions that there will be properties the possession of which may be nonanalogically conveyed by use of the first mode, and analogically conveyed by use of the second mode.  It should be observed that although I have claimed that there are two different modes of property-specification, I have not claimed that for each individual property, at least within a certain range of prop-erties, a specimen of each mode of specification will be available for use; it may be that in certain cases the vocabulary would provide only for a second-mode specification, or that a first-mode specification can be made available only via a stipulative definition based initially on a preexisting second-mode specification. Since in my view most of the difficulties experienced by philosophers concerning this topic have arisen from doubts and discomforts about the applicability and consequences of second-mode specifications, gaps which appear in the ranks of first-mode specifications might be expected to favor neo-Socrates rather than neo-Thrasymachus, unless neo-Thrasymachus can make out a good case in favor of the view that where first-mode specifications are lacking, second-mode specifications will also be lacking; in which case the onus of proof will lie on the skeptic rather than on his opponent. It should also be observed that further discus-sion of the relation between second-mode and first-mode specifications might make a substantial contribution to two distinct philosophical questions, namely:  (i) whether it is sometimes true that description presupposes valuation (since second-mode specification seems only too often to rely on ideas about how things should go or ought to go);  whether it is sometimes or always true that valuation presupposes Teleology or Finality, since second-mode specifications characteristically introduce references to functions and purposes.  (d) I shall now recapitulate the main features which I am supposing to attach to first-mode and second-mode specifications, with a view to raising some further questions about the two modes: Properties which will be specified, when one uses first-mode specifications by single-stage epithets (properties like bodily health, political justice, and, perhaps controversially, moral justice) may also be specified by the use of second-mode specifications which will incorporate references to seemingly multistage properties such as wellbeing and existence. The property of bodily health, for example, may also be referred to as the property of well-being as a physiological entity, the property of political justice as the property of well-being as a political entity (or state), and the property of moral justice (perhaps) as the property of well-being as a psychological entity (or soul).  (ii) The global properties of well-being as this or that type of entity will depend on a maximal (or optimal) degree of fulfillment, by the various parts of the subjects of those global properties, of a sequence of meristic properties associated with the jobs or functions of those  (iii) The very same meristic properties on which the various forms of well-being depend will also determine, at a lower degree of realiza-tion, the difference between the existence and the nonexistence of the entities which inhabit a particular stage.  (iv) It might be possible, by a move which would be akin to that of  "Ramsification," to redescribe the things which inhabit a certain stage, their components or parts, the jobs or functions of such com-ponents, the property of well-being and the property of existence as being just those items which, in a certain realm, are analogical coun terparts to the prime items, in the physiological realm, respectively, of bodies, organs, bodily functions, health, and life (survival).  (v) These proposals might achieve a combination of generalizationand justification (validation) of the items to which they relate, given the assumption that the proposed redescriptions are semantically and alethically acceptable.  Among the questions which most immediately clamor for consideration will be the following:  Question 1: How are we to validate my intuitive judgment that second-mode specifications which involve multistage epithets will always, or at least sometimes, be analogical in character?  Question 2 is: How are we to elucidate the phrase used in (iv) "in a certain realm"?  (Q3) How is it to be shown that the proposed redescriptions are not merely semantically but also alethically acceptable?  I will take these questions in turn.  Question 1 calls for the justification of a thesis which, without offering arguments in its support, I suggested as being correct, namely that if there are multistage epithets, that is to say, epithets which apply sometimes to objects belonging to one stage and also sometimes to objects belonging to another stage, the application of such an epithet to one, and possibly to both, of these segments of its extension must be analogical rather than literal. It seems to me that, before such a thesis can be defended or justified, it needs to be emended, since as it stands it seems most unlikely to be true. Consider first the epithet "healthy"; there would, I think, be intuitive support for the idea that when we talk, for example, of "a healthy mind in a healthy body," at least one of these applications of the epithet  "healthy" must be analogical rather than literal, since only a body can be said to be literally healthy. But if we turn to the epithets  "sound" and "in good order," though I think there will be intuitive support for the idea that both bodies and minds may be said to be sound or to be in good order, and indeed for the idea that bodies and minds can truly be said to be sound or in good order just in case they can truly be said to be healthy, there will not, I think, be intuitive support for the idea that the application of the epithets "sound" and  "in good order" to either bodies or minds, or to both, is analogical rather than literal. I would in fact be inclined to regard the application of each of these epithets to both kinds of entity as being literal. I would suggest that the needed emendation, while it allowed that the literal application of epithets may straddle the division between its applicability to subjects that belong to one stage and to subjects that belong to another, would insist that, when such literal cross-stageapplications occur, they depend upon prior cross-stage applications of some other epithet, where one or even both of the segments of application are analogical rather than literal.  How should the emended thesis be supported? My idea would be that the barriers separating the applications of an epithet to objects belonging to one stage from its application to objects belonging to another will in fact be category-barriers, and that there are good grounds for supposing that objects which differ from one another in category cannot genuinely possess common properties, and so cannot ultimately, at the most fundamental level, be items to which a single epithet will literally and nonanalogically apply. If objects x and y are categorically debarred from sharing a single property, then they are also debarred from falling, literally and nonanalogically, within the range of application of an epithet whose function is to signify just that property. There is nothing to prevent a body and a mind from being, each of them, literally in good order, provided that the condition needed for being literally in good order is that of being either literally healthy (in the case of a body) or (in the case of a mind) (analogically speaking) healthy. Perhaps the first matter to which we should attend in an endeavor to form a clear conception of (for ex-ample) the place of being (analogically speaking) healthy, a feature which may attach to minds, within a generalized notion of being in good order, or (perhaps) of being healthy, is the consideration that the question whether the application of a certain epithet to certain things is literal or analogical, is by no means the same question as the question whether its application to those things is or is not to be taken seriously. It may, for example, remain an importantly serious question whether John Stuart Mill is properly to be regarded as a friend of the working classes long after it has been decided that, if the epithet  "friend of the working classes" does apply to John Stuart Mill, it applies to him analogically rather than literally; it does not apply to him in at all the same kind of way as that in which the epithet "friend of Mr. Gladstone" may have applied or, perhaps, failed to apply to him. The question whether a particular person is in good shape may be a question an important aspect of which is expressed by the question "Is his mind (analogically speaking) healthy?"; if so, given that the first question is, as it may be, one to be taken seriously, the same would be true of the second question.  A second consideration, which we should not allow ourselves to lose sight of, is one which has already been briefly mentioned in thefirst part of this essay. We are operating in an area in which, not infrequently perhaps, we shall be under pressure from what Aristotle would have called an Aporia. We find ourselves confronted by a number of seemingly distinct kinds of items, and by a number of features each of which is special to one of these kinds. If we heed intuition — also, perhaps, if we heed the way we talk —we shall be led to suppose that these features are all specifications of some more general feature which is manifested, with specific variations, throughout the range formed by the kinds in question, a putative general feature for which ordinary language may even provide us with a candidate's name.  Furthermore, if we heed intuition, we shall be led to suppose that the members of this range of special features have a common explana-tion, a further general feature which accounts for the first general feature, and also, with the aid of specific variations, for the original range of special features. To follow this route would seemingly be just to follow the procedures which we constantly employ in describing and accounting for the phenomena which the world lays before us. In the present case, the application of this method would be to a range of items which includes bodies, states, and, perhaps, souls and also to such special features of these items as (respectively) bodily health, political justice, and (perhaps) moral justice.  Unfortunately, at this point, we encounter a major difficulty. The items which are the subjects to which the members of the range of special features attach, namely bodies, states, and souls, insofar as they are genuine objects at all, seem plainly to belong to different categories from one another; and these categorial differences would be such as to preclude, if widely received views about categories are to be accepted, the possibility that there are any properties which are shared by items which differ from one another with respect to the kinds to which they belong. It looks, then, as if the possibility that there is a generic property of which the special properties are differ-entiations, and the possibility that there is a further generic property which serves to account for the first generic property, have both been eliminated. I have in fact not attempted to set out a theory of categories which would carry this consequence, and it would certainly be necessary to attempt to fill this lacuna. But the prospects that this undertaking would remove the difficulty do not at first sight seem encouraging. If, then, we are not to abandon all hope of rational so-lution, we shall be forced to do one of three things:  (i) Relinquish the idea of applying here procedures for descriptionand explanation which are operative in examples which are not bedeviled by category difference.  (ii) Argue that the category differences which seem only too prominent on the present occasion are only apparent and not real.  (iii) Devise a less restrictive theory of the effect of category differences on the sharing of properties.  In the light of these problems, we should obviously be at pains to consider whether attention to the notion of analogical application would have any chance of providing relief.  I propose to leave this problem on one side for a moment, returning to consideration of it at a later point; immediately, I shall address myself to a possible response to the suggestion that the question whether the possible application of a given epithet to a certain subject is an issue which it is proper to take seriously, is quite distinct from the question whether such application, if it existed, would be analog-ical or literal. The response would be that the distinction between the two questions does not have to be a simple black-or-white matter; it might be that, while the fact that if such application existed at all it would be an analogical application is not a universal obstacle to the idea that the application is one which should be taken seriously, it is also not true that there is no connection between the two questions; if the inquiry into the application of the epithet is one of a certain sort or one which is conducted with certain purposes in view, then the idea that such application would be analogical stands in the way of the idea that the application is one to be taken seriously; if, however, the character and purposes of the inquiry are of some other sort, then the two questions may be treated as distinct.  It might, for example, be held that if the inquiry about the application of an epithet is one which aims at reaching scientific truth, at laying bare the true nature of reality, then the fact that the application of the epithet would be analogical conflicts with the idea that it should be taken seriously; if, however, the inquirer's concern is not with scientific truth but rather with the acceptability, either in general or in a particular case, of some practical principle (or principle of conduct), then the two questions may be treated as distinct. Something like this "halfway" position is perhaps discernible in Kant; in, for example, his claim that Ideas of Pure Reason, with regard to which no transcendental proofs are available, admits of "regulative" but not of "constitutive" employment, a suggestion which is perhaps repeated in his demand for a nondogmatic kind of teleology, a teleol-ogy which somehow guides our steps without adding to our stock of beliefs. The situation, however, is vastly complicated by the fact that the notion of what is "practical" is susceptible to more than one in-terpretation; on a wider interpretation, any principles or precepts would count as practical provided that they relate to questions about how one should proceed. On a second interpretation of "practical," only those examples of principles and precepts which are "practical" in the first sense will count as "practical" which relate not just to some form of procedure but to procedure in the world of action as distinct from procedure in the world of thought. Imperatives which are practical in the second and narrower sense will, as Kant himself seems to have thought, include those which tell us how to act but will not include those which tell us how to think; they will be concerned with the conduct of the business of life but not with the conduct of the business of thought. This ambiguity leaves principles and precepts which concern conduct of the business of thought in a somewhat indeterminate position; they will be practical in the wider sense since they are concerned with questions about how we should conduct our-selves; however, what is given with one hand seems to be swiftly taken away by the other when we observe that the conduct they prescribe is conduct which is specifically involved in arriving at decisions about scientific truths and the nature of reality. For me the issue is made even more complicated by the fact that I have instinctive sympathy toward the idea that so-called transcendental proofs should be thought of as really consisting in reasoned presentation of the neces-sity, in inquiries about knowledge and the world, of thinking about the world in certain very general ways. This viewpoint would introduce interconnections between what we are to believe and how we are to proceed which will be by no means easy to accommodate.  I return now to discussion of the quandary which I propounded a little while ago, and the severe limitations on explanation seemingly imposed by category-differences between features which need to be explained. As I see it, my task will be to provide a somewhat more formalized characterization of the phenomenon of analogical application than has yet been offered, perhaps a logico-metaphysical char-acterization, which will at the same time be one which both preserves those category-differences and their consequential features, and at the same time avoids undue restrictions on the application of standard procedures for the construction of explanations. This may seem like a tall order, but I think it can be met.Let us first look at the notion of instantiation and at one or two related notions. If I am informed that x instantiates y (that x is an instance of y), and also that y specifies z (that y is a specification of z, that being y is a way of being z, that y is a form of z), then I am entitled to infer that x instantiates z. If, however, instead of being informed that y specifies z, I am informed that y instantiates z, the situation is different; I cannot infer from the information that x instantiates y and y instantiates z, that x instantiates z. The relation of instantiation is not transitive, since if azure specifies blue, and blue specifies color, then it looks as if azure must specify color. Let us now define a relation of "subinstantiation"; x will subinstantiate z just in case there is some item or other, y, such that x instantiates y and y instantiates z. We might perhaps offer, as a slightly picturesque representation of the foregoing material, the statements that if x specifies y, then x and y belong to the same level or order of reality as one another, if x instantiates y, then x belongs to a level which is one step lower than that of y, and that if x subinstantiates y, then x belongs to a level which is two steps lower than that of y. Now it seems natural to suppose that when a number of more specialized explanations are brought under a single more general and so more comprehensive ex-planation, this is achieved through representing the various features, which are separately accounted for in the original specialized explanations, as being different specifications of a single more general fea-ture. If, however, we were entitled to say that the crucial relation connecting the more specialized explicanda with a generalized expli-candum is not, or at least is not in those cases in which the specialized explicanda are categorically different from one another, that of specification but rather of subinstantiation, then we shall be able to avoid the uncomfortable conclusion that the admissibility of generalized ex-plicanda involves the admissibility of the idea that categorically different subject items may be instances of common properties. An item need not, indeed perhaps cannot, instantiate that which it subinstan-tiates.  To conclude my treatment of the quandary, I need to show, as best I can, that a systematic replacement of references to the relation of specification by references to the relation of instantiation would have no ill effect on the standard procedure for generalizing a set of specialized explanations, with which we have provided ourselves, of the presence of discriminated specialized properties. To fulfill this under-taking, I must consider two cases, one involving the application of aprocedure for generalization which is characterized in terms which involve reference to the relation of specification, and the other in which all references to specification are replaced by references to additional and "higher-level" occurrences of the relation of instantia-tion.  Case I. (i) We start with a group of particulars (x, through x,), with regard to each of which we are informed that it possesses property D; and with two further groups of particulars (y, through Ym and z, through z,) instantiating, respectively, properties E and F. The generalization procedure begins when we find further properties A, B, C, such that x, through x,, Y, through Ym and z, through Z, instantiate, respectively, A, B, and C; and (as we know or legitimately conjecture) A implies D, B implies E, and C implies F. We next find the more general properties P, Q, such that A and D, specify in way 1, respectively, P and Q; B and E, specify in way 2, respectively P and Q; and C and F, specify in way 3, respectively, P and Q  (iv) We are now, it seems, in a position to predict that whatever instantiates property P, will, in a corresponding way, instantiate property Q; that is to say, to predict for example that anything which has A will have D; and though I would hesitate to say that provision of the materials for systematic prediction is the same thing as explana-tion, I would suggest that, at least in the context which I am consid-ering, it affords sufficient grounds for supposing that explanation has in fact been achieved.  Case I1. Case Il begins to differ from Case I only when we reach stage (iii). In Case Il stage (iii), instead of saying that A and D specify in way 1, respectively, P and Q, we shall say something to the effect that A and D are "first group" instances, respectively, of P and Q; and precisely parallel changes, introducing, instead of the phrase "first-group instance" either the phrase "second-group instance" or "third-group instance" will be made in what we say about properties B and E and properties C and F.  Though I would not claim to have a wholly clear head in the mat-ter, it seems to me that the difference between Case Il and Case I generates no obstacle to the attribution of legitimacy of the procedure for generalization with which I am currently concerned. The scope for systematic prediction, and so for explanation, will be quite un-affected. If I am right in this suggestion I shall, I think, have succeeded in providing what was mentioned in Part I of this essay as a desider-atum, namely a development of a concept of Affinity, which would be less impeded by category-barriers than the more familiar notion of Similitude.  (f) I now turn briefly to question Q2. This is the question how to interpret the expression "in respect to a certain realm" within such phrases as in "an analogical extension, in a certain realm, of the property of health, in the primary physiological realm to which animal and human bodies are central." I should make clear the problem of ambiguity which prompts this question; there is one way of looking at things, one conception, according to which there is a certain realm, which is that to which souls are central, and into which there is projected an analogical extension of the property of health. In this conception the notion of souls is logically prior to the notion of the psychological realm to which souls are central, and both are logically prior to the property which is the analogical extension of the property of health, which in the primary physiological realm is the property of bodies. But there is another conception which might particularly appeal to those who regard souls as being, initially at least, somewhat dubious entities, according to which souls are introduced into the psychological realm to be the subjects or bearers of a property in that realm which is an analogical extension of the property of health, which in the physiological realm belongs to bodies. According to this conception, fairly plainly, the conception of souls is logically posterior both to the notion of the psychological realm and to the analogical extension of the property of health which exists in that realm. Question Q2 is in effect an accusation: it suggests that the two conceptions are mutually inconsistent, since souls cannot be at one and the same time both logically prior to and logically posterior to both the concept of the realm to which they are supposedly central and to a certain property, analogous to bodily health which exists in that world; it further suggests that Socrates (or neo-Socrates) need both of these conceptions, but, of course, cannot have both of them.  To meet this objection, I would suggest that a promising line to take would be to deny that we start with a certain realm, the psychological realm, the nature of which is determined either by the subject-items, namely souls, which are central to it, or by the properties, such as a certain analogue of bodily health, which characterize things in it; and that we then proceed at a later point to add to it the remaining members of these two classes of elements. Rather, we start off with analogues of two of the elements in the primary physiological realm,souls which are analogues of bodies and a class of properties one of which is an analogue of bodily health, and call the realm to which these analogues belong the psychological realm. In this way the incoherence covertly imputed by question Q2 will be dissolved, since neither of these psychological elements (souls and properties like the analogue of bodily health) will be logically prior to the other. What in fact has been done is to introduce, first, a double analogical extension of two types of items which belong to the primary physiological realm and, second, the notion of a psychological realm for use in a convenient way of talking about what has initially been done.  No doubt more than this will need to be said in a full treatment of the topic; but perhaps for present purposes, which are primarily directed toward defusing a certain criticism, what has been said will be sufficient. When it comes to the prospects for ethical theory -- Question 3  Question 3 might be expanded in the following way. we can imagine ourselves encountering someone who addresses us in the following way: "You have certainly achieved something. There is one class of philosophers who would be inclined to deny that the notion of moral justice, δίκαιον, can be regarded as an acceptable and legitimate concept, because there is no way in which the intuitive idea of moral justice, δίκαιον, can be coherently presented in a rigorous manner. What you have said has shown that such a philosopher's position is untenable; for you have shown that if we allow the possibility of representing moral justice, δίκαιον, as a certain sort of analogical extension of a basic notion, namely health, which is a property of bodies, items which belong to a basic or primary realm of objects, you have succeeded in characterizing in a sufficiently articulated way the possession of moral justice, δίκαιον, to which the philosopher in question is opposed on the grounds of its incoherence. That is no small achievement, but it is not, nevertheless, from your point of view, good enough. For there will be another class of philosophers who find no incoherence in the notion of moral justice, δίκαιον, but claim that lack of incoherence is a necessary condition but not a sufficient condition for accepting moral justice, δίκαιον, as a genuine feature of anything in the world. The uses that we make of our characterizations of moral justice, δίκαιον, and other such items must be as part of an as it were encyclopedic picture of the fundamental ingredients and contents of the rational world; and if, of the two would-be encyclopedic accounts, one contains everything which the other contains together with something which the other does not contain, while the other account contains nothing beyond a certain part of what the first account contains, it will be rational, in selecting the optimum encyclopedic volume, to prefer the smaller to the larger volume, unless it can be shown that what is contained in the larger volume but omitted in the smaller one is something which should be present in a comprehensive picture of the rational world. To be fit for inclusion in an account of the rational world, a contribution must be not only coherent but also something which is needed. This demand you have not fulfilled." To this critic Grice should be inclined to reply in the following manner. "I agree with you that more is required to justify the incorporation of moral justice, δίκαιον, within the conceptual furniture of the world than a demonstration that the notion of moral justice, δίκαιον, is one which is capable of being coherently and rigorously presented; and I agree that I have not met this additional demand, in whatsoever it may consist. But I think it can be met; and indeed I think I can not only say what is required in order to meet it but also bring off the undertaking of actually meeting it. The required supplementation will, I suggest, involve two elements. First, a demonstration of the value, in some appropriate sense of "value," of the presence in the world of moral justice, and second, a demonstration that it is, again in the same ap. propriate sense, up to us whether or not the notion of moral justice does have application in the world." I shall now enlarge upon the two ingredients of this proposed response.  First Supplementation. A person who is concerned about the realization in the world of moral or political justice, δίκαιον, will encounter at a number of points alternative options relating to such realization which he may have to take into account. The number of such options will vary according to whether a "two-concept" view or a "one-concept" view is taken of justice, δίκαιον; the number will be larger if a two-concept view is taken, and I shall begin with that possibility. On a two-concept view, there will be two properties the realization of which has to be considered, moral justice δίκαιον and political justice δίκαιον. One who is concerned about the application of these properties, and who is unhampered by any sceptical reservations, will have to consider the application of each of these properties to a particular individual, standardly himself, and also to a general subject-item, such as a particular totality of individuals each of whom might consider the application to himself as an individual of each of the initial properties. There will also be a variety of distinct motivational appeals which the application of one of these forms of justice, δίκαιον, has to a particular subject-item, the consequential appeal of that realization (e.g. its payoff), or both. If we go beyond Plato, we might have to add such forms of motivational appeal as that which arises from subscriptions to some principle governing the realization of the initial property. On a one-concept view the initial array of options will be considerably reduced, though it is perhaps questionable whether such reduction will correspond to any reduction in genuinely distinct and authentic options. On the assumption that it would not, Grice temporarily goes along with the idea that a one-concept view is the correct one. On this view a distinction between moral justice, δίκαιον, and political justice, δίκαιον, will reappear as the difference between concern for the application of a single property, that of justice, δίκαιον, when it is motivated by the intrinsic appeal of its realization in a given subject-item (one might perhaps say its moral appeal) or alternatively, when it is motivated by the idea of the consequence of such a realization (one might say by its political appeal). One should perhaps be careful to allow that the idea that a single concept or property may exert different forms of motivational appeal does not carry with it the idea that one and the same body of precepts will reflect that concern, regardless of the question whether the motivational foundation is moral or political.  It is crucially important to recognize that situations which are only subtly different from one another may exert quite different forms of motivational appeal. Nothing has so far been said to rule out the possibility that while Socrates and other such persons may each be concerned that people in general should value the realization of justice, δίκαιον,in themselves because of its intrinsic appeal, that is to say, for moral reasons, nevertheless their concern that people in general should value for moral reasons the realization in themselves of justice, δίκαιον, is based at least in part on consequential or political grounds rather than on any intrinsic or moral appeal. It is possible to be concerned that people be sensitive to the moral appeal of being just, δίκαιον, and at the same time for that concern to be at least partly founded on political rather than on moral considerations. If that is so, then the concern for a widespread realization of moral justice, δίκαιον, might itself have a non-moral foundation, as Prichard attempted at Oxford with his duty and interest, repr. by Urmson. Such considerations as these might be sufficient to ensure that the realization of moral justice in a community is of value to that community. This value might consist in the fact that if themembers of a community are morally concerned for the realization of justice, δίκαιον, in themselves, their manifestation of socially acceptable behavior will not be dependent on the real or threatened operations of law-enforcers, to the advantage of all.  Second Supplementation. If we were to leave things as they are at the end of the first supplementation, though we should perhaps have shown that the realization of moral justice in the world was of value to inhabitants of the world and possibly also absolutely, we should not have escaped the suggestion that this alone is not adequate to our needs; it would leave open the possibility that all one could do would be to pray that moral justice, δίκαιον, is realized in the world, and then when we have found out whether this is or is not the case, to jubilate or to wail as the case might be. To make good our defense of moral justice, we should need to be able to show that in some sense the realizability of moral justice in the world is up to us. At this point it seems to me we move away from the territory of Socrates and Plato and nearer to the territory of Kant; it also seems to me that at this point the problems become immensely more difficult, and partly because of that, I shall not attempt to devise here a solution to them, but only to provide a few hints about how such a solution might be attained. As we have been interpreting the notion of moral justice, δίκαιον, its realizability is an idea which is very close to that of the validity of morality; and if we were to follow Kant's lead, we should be on our way to a supposition which is close to his idea that the validity of morality depends upon the self-imposition of law, an idea which, though obscure, seems to suggest that what secures the validity of Morality is something which, in some sense or other of the word "do," is something that we ourselves do, and so perhaps in some sense or other "could," we could avoid doing. What kind of "doing" this might be, and how it might be expected to support Morality, to my mind remain shrouded in darkness even after one has read what Kant has to say; there seems little reason to expect that it would closely resemble the kind of doing with which we are familiar in the ordinary conduct of life. There is also important uncertainty about the proper interpretation of the word "could"; it might refer to some kind of psychological or natural possibility, something which some would be inclined to call a kind of causal possibility; or it might refer to some kind of "rational" possi-bility, the existence of which would require the availability of a reason or possible reason for doing whatever is said to be rationally possible.  Not everything which is psychologically possible is also rationallypossible; and I think it might be strategically advantageous if it could be held that the Kantian view assigns psychological possibility but not rational possibility to the avoidance of the institutive act which underlies morality; but whether this is Kant's view, and how, if it is his view, it is to be made good, are problems which I do not know how to solve. When it comes to The Republic and Philosophical Eschatology, Grice presents what he sees as the background to the reconstructed debate between Thrasymachus and Socrates, or rather perhaps between neo-Thrasymachus and neo-Socrates. Neo-Thrasymachus is a Minimalist and a Naturalist who has affinities with Hume – and his name is Nozick; he rejects the concept of moral justice, δίκαιον, on the grounds that it would be at one and the same time a non-natural and psychologistic feature and also an evaluative feature. At this point we may suppose that neo-Socrates, who is not committed to any form of Naturalism, will have retorted to neo-Thrasymachus that a blanket rejection of psychologistic and evaluative features will totally undermine philosophy. This part of the debate is not recorded, but we may imagine neo-Thrasymachus to have responded that neo-Socrates is in no better shape; for he can make sense of the notion of moral justice, δίκαιον, only by representing it as a special case of a favourable feature, namely well-being, which spans category-barriers between radically different sorts of entities, such as a body, a political state, or a person. But neo-Socrates himself will be committed to holding a view of universals which will prohibit any such crossing of category-barriers by a single universal. To this charge neo-Socrates may resort to two forms of defense, one less radical than the other. The less radical form would involve the claim that while there have to be category-barriers, these do not have to be as severe and restrictive as the accusation suggests.  The more radical form of defense would refrain from relying on a more permissive account of category-barriers even though it allowed that such increased permissiveness would be in order. It would rely rather on a distinction between concepts which may span category-barriers, whether these are more or less severe in nature, and universals which may not span such barriers. A closely parallel distinction between  an expression's having a single meaning and its being used to ‘signify’ a single universal can, Grice thinks, be found in Aristotle. Vide Grice, “Aristottle on the multiplicity of being” and the three modes of unification of universalia via recursion – the logically developing series, the focus, or the analogy or proportion. This distinction would be made possible by making concepts rest ona foundation of affinities as distinct from the foundation of similarities which underlies universals; affinities may, while similarities may not, be characterizable purely in analogical terms. The working out of such a distinction would be one of a variety of concerns which would be the province of a special discipline of philosophical escha-tology. The key to its success would lie in the observance of a distinction between instantiation and subinstantiation. The latter notion would permit generalization and explanation to cross category-barriers and would undermine the charges of incoherence brought by neo-Thrasymachus against neo-Socrates and his favored notion of moral justice, δίκαιον. At some level of reinterpretation, then, Socrates's appeal to an analogy between the soul and Mussolini’s Italian state, say, would be at least partly aimed at showing that the concept of Moral Justice, δίκαιον, which Thrasymachus would like to banish as theoretically unintelligible, is analogically linked with the concept of bodily health, admitted by everyone, including Thrasymachus, as a legitimate concept, in such a way that, despite radical categorial differences between the two concepts, if the concept of bodily health is intelligible, the concept of Moral Justice, δίκαιον, is also intelligible.  However, to exhibit Moral Justice as a feature which is really applicable to items in the world, such as persons and actions, more is needed than to show that its ascription to such items is free from incoherence. It will be necessary to show that such ascription, if it were allowed, would serve a point or purpose, and also that it is in some important way up to us to ensure that such ascription is admis sible. The fulfillment of the last undertaking might force us to leav the territory of Socrates and Plato and to enter that of Kant, or even worse, if we follow Gentile, Hegel! Samuele Renato Treves. Renato Treves. Treves. Keywords: giudice, giustizia, giusto, ventennio fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Treves” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia,  Grice e Tria: la ragione conversazionale da Roma a Roma via Roma; o, l’implicatura conversazionale della terza Roma – la scuola di Laterza -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Laterza). Abstract. Keywords: la terza Roma, la prima Roma. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Laterza, Taranto, Puglia. Studia filosofia a Napoli e Roma. Uditore di diritto  presso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni rimane al servizio di questa abbazia anche quando e trasferito a Roma, è nominato vicario generale di monsignor Gherardi, vescovo di Loreto e Recanati, e tale rimase. Più tardi, con monsignor Firrao, ha l'incarico di nunzio straordinario alla Corte del Portogallo.  Quando monsignor Firrao, per questione di salute, è trasferito in Svizzera, T. anda con lui a Lucerna. Durante la sua permanenza in Svizzera intraprende un'importante missione in Svezia e Germania. Eletto vescovo di Cariati e Cerenzia, entra in carica presiedendo il sinodo. Trasferito poi a Larino, partecipa al concilio di Benevento. Nominato consulente del Sacro Offizio e arcivescovo di Tiro.  Divenne esaminatore di Vescovi ed è insignito del titolo di cavaliere dell'ordine di S. Giacomo per i suoi meritori servigi resi alla Corte di Lisbona. Il suoi eruditi saggi includeno:  “Memorie storiche civili di Larino (Roma); “Accommodamento tra il papato e la corte reale di Napoli” (Roma), “Benedetto XIII”. Memorie storiche degli scrittori, regno di Napoli, Napoli, Tipografia dell'Aquila di Puzziello, Diocesi di Larino, Pietro Pollidori Giovan Battista Pollidori. Giovanni Andrea Tria. Tria. Keywords: la terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tria” – The Swimming-Pool Library. Tria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO; ossia, Grice e Trincheri: la ragione conversazionale secondo Andrea Speranza, e l’implicatura conversazionale – la scuola di Pieve di Teco -- filosofia ligure -- la filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Pieve di Teco). Abstract. Keywords. Andrea Speranza. The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An Old-World philosopher such as Turoldo would never have imagined to be compared to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been educated in a tradition that would make little sense of Turoldo as a ‘Grice italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers. Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His heritage remains. Turoldo’s place in the history of philosophy is other. But there are connections, and here they are. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Pieve di Teco, Imperia, Liguria. Nato da una famiglia benestante che ha in possesso alcuni ettari di terreno. Appassionato alli romantici, e riconosciuto e si afferma all'interno della cerchia dei letterati del suo tempo grazie alla brillante difesa in favore di Manzoni, quando quest'ultimo pubblica  la sua prima tragedia, “Il Conte di Carmagnola”. E con il sostegno del suo maestro e amico Goethe, famoso filosofo e scrittore romantico, che riusce a far valere la proprio opinione positiva nei confronti dell'autore dei Promessi sposi. Poche altre notizie biografiche si conoscono a proposito della sua vita che, a causa di un incidente in cui fere a morte il suo amico, Andrea Speranza, crolle in una situazione estremamente travagliata.  Grice: “”Andrea Speranza” may mean different things.” Trincheri. Keywords: Andrea Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trincheri” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Troilo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della conflagrazione – la scuola di Chieti -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Perano). Abstract. Keywords: conflagrazione. The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An Old-World philosopher such as Turoldo would never have imagined to be compared to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been educated in a tradition that would make little sense of Turoldo as a ‘Grice italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers. Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His heritage remains. Turoldo’s place in the history of philosophy is other. But there are connections, and here they are. Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Perano, Chieti, Abruzzo. Insegna a Palermo e Padova. Lincei. Partito dal positivismo del suo tutore ARDIGÒ, pervenne a una sorta di meta-fisica, da lui chiamata realismo assoluto, che richiama il panteismo di BRUNO (vedi). L'essere eterno infinito, tutt'uno con lo spirito assoluto, è il presupposto e il principio unificatore degl’esseri relativi. Trascendente e indeterminato, l'essere si immanentizza e si determina nella realtà e negl’individui, oggettivandosi di fronte ai soggetti come assolutamente altro da questi.  Saggi: “Il misticismo”; Idee e ideali del positivism, La filosofia di BRUNO”; “Il positivismo e i diritti dello spirito”; “Figure e studi di storia della filosofia”; “Lo spirito della filosofia”; “Le ragioni della trascendenza o del realismo assoluto”. Società Filosofica Italiana Sezione di Sulmona, riferimenti in Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Roma; Pra F. Minazzi, Ragione e storia nella filosofia italiana (Rusconi, Milano); Cappelli, L'orizzonte filosofico: Idealismo e Positivismo, Pra. Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, T., biografia e  nel sito della Società Filosofica Italiana, Sezione di Sulmona "Capograssi". CLASSICI DEL RIDERE. BRUNO (vedasi), In tristitia hilaris, in hilaritale tristis  Or  eccovi un convito sì grande, sì picciolo, sì maestrale, si disciplinale, sì sacrilego, si religioso che certo credo che non v’è poca occasione da divenir eroico, dismesso. Maestro, discepolo; credente, miscredente; gaio, triste; sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora, ridente con Democrito, piangente  con Eraclito. Cena  delle   Ceneri.  Proemiale  epistola  al  signor  di  Mauvissiero. sione democriteggiare,  che  è  nella  satanica  Declamae    che  zione della  Cabala  del  Cavallo  Pegaseo, torna nel dialogo della Causa Principio et Uno, dove il pensiero va con ala superba, per altezze magnifiche. Ma è evidente dal testo dei passi stessi accennati che BRUNO non intende affatto  stabilire ne una contrapposizione radicale di riso e di pianto, ne la sua posizione propria. Mentre invece egli qui riguarda le cose dal semplice punto di vista esteriore e comune; onde tutto si presta alla considerazione dell'uno o dell'altro di questi, che si potrebbero chiamare anch'essi  A'jo  lo^oi  delle cose. Non senza piegare sotto questo rispetto verso un impetuoso riso che circola e  guizza in tutte le sue opere e scoppia fin in mezzo agl’argomenti più gravi, senza sottigliezza e senz’ambagi, aperto e rude, come un suggello di giudizio e di sanzione. Ma se ben consideriamo la natura del suo riso, ci appare come esso non ha mai nulla di esteriore o che puo farlo considerare quale fine a se medesimo. Il comico, in quanto tale, veramente, non c'è in Bruno. In lui non si  aprono quelle brevi parentesi d’azzurro,  che, per  esempio,  tra-   [Chi potrà donar freno alle lingue che non mi mettano ne medesimo predicamento, come colui che corre appo h vestigi degl’altri, che circa cotal  soggetto, sia quando si conclude la dedica dell'opera stessa, con austere parole in cui vibra il senso profondo della nolana  filosofia. Il tempo tutto toglie e tutto dà. Ogni cosa  si muta, nulla s'annichila. È un solo che non può mutarsi, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s'aggrandisce e mi si magnifica l’intelletto. Suggestive parole, le quali, a traverso la trama ridicola della favola, a traverso l'ingenuità e talora la sconcezza degli svolgimenti e degl’episodi, costituiscono come un'atmosfera di  più profonda meditazione, entro cui s’accendono d’opposto riflesso l'ilarità triste e la tristezza ilare dello psicologo, del moralista, del filosofo. Cosi, il riso di BRUNO è veramente filosofico – cf. Grice, LAUGH WITH PHILOSOPHY, NOT AT PHILOSOPHY --; e però esso non s'intende nel suo significato e nel suo valore, non s'intende nel suo intimo segreto. Spampanato.  Alla Signora Morgana.  SPAMP eccovi la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo, puo chiarir alquanto certe Ombre dei- idee, le quali invero spaventano le bestie, e come {ussero diavoli danteschi, fan rimaner gl’asini lungi a dietro; ed in cotesta patria, ove voi siete, puo far contemplar l'animo mio a molti, e fargli vedere che non è al tutto  smesso  De V Infinito Universo e Mondi.  Wagner. Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirto, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudin se lo si considera diversamente e sotto gl’altri particolari e più facili aspetti che può presentare, come il letterario, e quello morale, nel senso più stretto e più pratico della parola. Non che ciò sia trascurabile. Ma certo  non è tutto, e non è il più. Onde è avvenuto che anche qualche grande, come CARDUCCI (vedasi), non intende in particolare il Candelaio e disconosce in generale, in BRUNO (vedasi), il filosofo. E che quel riso, se pur s’esplica nella forma della comedia e della satira; se nel gonfiarsi delle tendenze letterarie ha spunti di violento anti-accademismo e di anti-petrarchismo. Se ritrae i tipi  classici del pedante, dell'avaro libertino, del marito sciocco, dello scroccone, etc, non è un riso, per cosi dire, letterario. E s’ancora vuole, secondo la massima tradizionale, castigare ridendo mores, non è nel senso immediato e, diciamo, esclusivo della morale. A chi studii a fondo l'etica di BRUNO, appare come il riso e la satira del Nolano non solo sono profondamente inseriti in essa,  ma quasi ne seguano lo stesso schema di svolgimento. Sembrano veramente corrispondere alle tre fasi o aspetti dell'etica, la psicologica e descrittiva, la costruttiva e, in certo senso, dialettica, e la conclusiva o  razionale e filosofica propriamente) la satira in concreto e in particolare, di vizii e difetti e debolezze e sconcezze degl’uomini. La satira in astratto di quegli stessi vizi e difetti e  imbecillità, considerati possiamo pur dire ex altiore causa, criticamentee simbolicamente, in correlazione colle virtù, negli  O Eccovi avanti gl’occhi ociosi princinii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento uomini e negli dei. La satira, infine, che ha vera e propria    intenzione filosofica, nella critica e nel sarcasmo di carattere eterodosso verso i tradizionali valori scientifici, morali, politici e religiosi, e che comprendendo e riassumendo anche l’altre due forme accennate, esplica appieno il significato, della tristitia hilaris e della hilaritas tristis. E si  ha qui una profonda espressione di quella oppositorum coincidentia, che, formula ricorrente nella  filosofia di BRUNO, assume forse la sua maggiore consistenza e significazione precisamente sotto l'aspetto morale, nella caratteristica compenetrazione di riso e pianto, e nella fase culminante dell'etica propriamente, colla trattazione, per quanto frammentaria e balenante, del problema dell’opposizioni e dell’armonie morali. Si possono distinguere, appunto, questi tre aspetti o momenti  del riso di BRUNO; ed approssimativamente e quasi a mo'd’esemplificazione, si possono riferire al Candelaio il  primo; allo Specchio della Bestia trionfante ed al Cantus Circaeus il secondo; ed il terzo allo Spaccio stesso, alla Cabala del cavallo Pegaseo ed  all’asino cillenico, con i richiami   alle altre opere veramente costruttive, quali sorxO la Cena delle Ceneri, De la Causa, Principio  et Uno, etc. di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studii incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.Vedrete, etc. Candelaio. Proprologo. E di fronte a questa materia di morale miseria, l'A., nell’evidente contrapposizione del urologo al Proprologo, delinea se medesimo, a L’autore, si voi Io conosceste, direste, ch'ave  una fisionomia smarrita, etc. per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta di nulla, ritroso, fantastico com un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Non sono inutili la distinzione, necessariamente sommaria, ed il riferimento ai tre gradi progressivi dell’etica; giacche questa nota di coincidenza e d’analogia può far vedere come il riso di BRUNO non  è un episodio, ma ri-entri quasi nella linea della sua filosofia e, in sostanza, tiene della stessa suggestiva profondità di tutta la sua etica. Perciò la materia della satira, la quale non è leggiera, come potrebbe forse apparire a taluno, ma più tosto grave e pensosa, pur nella facezia e nella licenza, è disposta secondo quella triplice divisione che naturalmente segue la partizione dell'etica di BRUNO. Comunque, è ben certo che il significato del caratteristico riso di Bruno sta nel complesso dei suoi momenti e dei suoi aspetti. Solo nell'insieme, e sopra tutto tenendo conto della sua formula integrale che s’estende alle considerazioni estreme della filosofìa, ma costituisce pure il solenne avvertimento ed il motto del Candelaio, si può intendere il suo vero senso umano ed universale, il suo valore filosofico. Bisogna tener conto della formula compiuta, ch’esplicitamente apposta alla prima opera italiana, a quella che più s’avvicina nella forma e nel contenuto ai molti e tradizionali componimenti morali del tempo, sta ad indicar quasi di questo l'avviamento verso uno spirito nuovo; e, riprodotta più oggettivamente, in uno scritto, fra altri, di prevalente sostanza etica, che è dei più personali ed importanti, il De Vinculis, come a ragione giudica TOCCO (vedasi), sembra abbracciare l'intero sistema morale e filosofico di BRUNO. A prescindere dagli strani  richiami, i quali, pur facendo la necessaria parte alla consueta fantastica associazione di BRUNO, prendono un significato rilevantissimo allorché vediamo, e dobbiamo pur confessare  senza intenderne a pieno il motivo e la portata reale, ricongiunti in una relazione singolare la luce del Candelaio e l’ombre dell’idee, la filosofia della comedia e la filosofia dell’Infinito Universo e Mondi e molti altri accenni si potrebbero trovare ancora nell’altre opere; a prescindere da ciò, e ben evidente che anche un sommario esame della formula dell’ilarità di BRUNO ci riporta,  per cosi dire, nel cuore della sua fondamentale inspirazione filosofica. Certo essa si presta ad un'analisi puramente e strettamente morale; a cui è connesso un atteggiamento particolare psicologico, sentimentale del filosofo. Da tal punto di vista potremo cogliere qualche lato del pensiero, qualche momento dello spirito bizzarro e tempestoso di BRUNO. Ma se, arrestandoci a ciò,  ritenessimo soli o ponessimo definitivi questo lato e questo  momento, noi non avremmo e non intenderemmo affatto BRUNO nella sua interezza e nella sua essenza, sotto questo rispetto. Il fastidito, il perseguitato, l'insonne, l'errante, il misconosciuto, l'odiato può anche umanamente esprimere un senso tragico, di riduzione e quasi di confusione, in un disprezzo ed in un'amarezza superiori, della sua tristezza e del suo riso; può, sopra tutto, esprimere la sua forza tremenda, ridendo nella tristezza ed essendo triste nell'ilarità; può anche, mefistofelicamente, ridere laddove gl’altri piangono e piangere laddove gl’altri ridono; può, infine, riportare tutto ciò ad un senso vago di scetticismo e di  Bruno, In tristitìa  hilaris, etc. 2. pessimismo, che più d'una volta pur si  accenna nell'opera di BRUNO; ora in forma propria, come per esempio in quelle parole del Candelaio dove si dice, m conclusione non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono, ora con qualche formula usuale, come il biblico omnia vanitas. Massime l’ilarità triste, presa separatamente, si presta ad una significazione più particolare,  esprimendo quella che è l'essenza amara d’ogni satira; la quale veste di riso ciò che in realtà è solo degno di compassione pella sua debolezza, pella sua deficienza, pella sua bruttura, specialmente nell'ordine umano. Ma questo, mentre non dà il lineamento vero ed intiero di BRUNO, riferendosi solo al  flusso delle sue vicende personali, intellettuali e sociali, se ben si consideri  presuppone, in fondo, una diversa e superiore posizione della sua stessa personalità; e, ciò che più importa, ancora, un diverso e superiore punto di vista della sua speculazione morale propriamente detta e filosofica. Il che appare dalla prima parte della formula, e più dall'insieme. L’ilarità che è triste e la tristezza che è ilare non indica un bisticcio, si una intuizione profonda, morale e  filosofica; in quanto non si limita a considerazioni parziali d’umanità, ma scende alla totale contemplazione umana, ed a questa aggiunge, anzi connette in un inscindibile complesso, la considerazione della realtà universale. Sono l’ultime parole che precedono l'entrata del Bidello. Naturalmente qui il senso è del tutto particolare e riferito al mondo del Candelaio, che sta per entrare  materialmente in iscena. A nessuno più che a Bruno ripugna la concezione della realtà umana staccata ed avulsa dalla realtà totale; e più a lui ripugna quella definizione dell'uomo, a cui accenna non senza ironia Benedetto Spinoza, come l’animale capace di ridere. Qui siamo fuori del campo morale, sia che questa capacità di ridere si prenda nella sua espressione più semplice e primitiva, nella sua espressione inferiore e FISIOLOGICA (BERGSON – risus significat naturaliter laetitiam animae -- dove, in sostanza, non e che l'animalità. nel senso pre-umano, dunque; sia che si prenda nel senso estremo opposto, nel senso cioè di NIETZSCHE, che nel Super-uomo travolge l'Uomo. L'umanità vera ha il suo segno nel riso che si fa pensoso di tristezza e nella tristezza che  s'illumina in una visione trascendente di gioia; SEGNO NATURALE vero d’umanità, che è morale ed estetico insieme, e che ha in Bruno un assertore d'incomparabile energia. II quale trae il motivo e la forza possente e luminosa dell'affermazione sua, in un certo senso nuovissima, non già da fonti, che trascendono, in sostanza, l'uomo e la realtà, come sono propriamente le fonti e gli  ideali religiosi, al di là, immortalità, ricompensa divina, etc, che fanno piacente la tristezza, il dolore, la morte, bensì dalle stesse fonti della vera umanità e della vera realtà, in una superba considerazione filosofica. Cosi ritroviamo Bruno e cogliamo il vero suo spirito. Cosi, d’un punto di vista più particolare ma non meno importante, possiamo intendere come se la rozza asprezza  dell'autore, e circostanze speciali della sua vita e del suo tempo, lo conducono a parlar volgare e sconcio, adoperare forme e figure licenziose e toccare talora l'oscenità, tutto ciò è trasfigurato e purificato nell'intento profondo che lo domina: qui veramente il riso, che sembra infettarsi d’elementi estremi, è triste. Questa tristezza purifica e redime; ed accenna, appunto, a qualche cosa di  più alto a CUI mira il filosofo, e che trascende l’ilarità per se e la tristezza in se. Così, la considerazione dell’ilarità di Bruno ci conduce a veder, sotto nuova luce e forse non meno profondamente della pura indagine speculativa, una parte, da cui non si può prescindere, del suo pensiero. Di là dalla hilaritas tristis, la tristitia hilaris può riferirsi ad un altro importante aspetto dello spirito  di BRUNO: l'ottimismo. Il quale ha la sua vera significazione,che ri-appare con altre forme, in altri sistemi, non tanto copie espressione morale per se, o perchè conferisca una coloritura particolare alla visione di BRUNO del mondo; ma in quanto esprime, in certo modo, l'aspetto intrinseco e la risoluzione culminante della realtà stessa. L'ottimismo morale qui è coessenziale, assolutamente, coll'essere e coll'immanente suo ordine ontologico: il nuovo mondo della realtà infinita che, escludendo ogni trascendenza, è essere, potenza e legge eterna a se, non può non essere, per ciò stesso, che uno ahsolutissimo in cui Ente, Vero, Bene fanno la medesima cosa. Che significato possono avere in questo universo il dolore, il brutto, il disordine, il male e la morte, il  caso e la fortuna? ALLA BRUNO, tutto ciò appartiene alla superficie, alla esteriorità, alla contingenza ed alla transitorietà del mondo; tutto ciò che è pluralità e particolarità è la spuma che si gonfia, scorre e si frange sulla realtà; non è la realtà; tutto ciò è di ente, non ente. come dice con sottigliezza grammaticale, ma con pensiero profondo Bruno. Il mondo si presenta, dunque, sotto  questi due aspetti: quello della totalità, dell'unità, dell'assoluto e dell'eterno; e quello del vario, molteplice, fluente, disgregantesi nel tempo e nella particolarità. L'uomo sta di fronte a questo mondo, spettatore e partecipe, ad un tempo, della sua realtà e della sua transitorietà; di fronte a questo enorme ritmo, ond'esso quasi sgorga e si discioglie fuori di se, nel molteplice, nel disgregato  e nel relativo, e si rituffa in se nella pienezza dell'essere ch’è assolutezza d'eternità. Allora l'uomo che riguarda e ch’agisce in questo mondo, se si fermi a ciò che è particolare, scorre e cambia volto, può e deve trovar motivo alla sua tristezza; ma s’approfondisca lo sguardo e l'azione, allora il particolare transfluisce nell'universale, il contingente nell'infinito, il relativo nell'assoluto: la  visione e la consapevolezza di ciò può dare, dà, filosoficamente, la tristezza gioconda. Questo e il segno del conseguimento della più alta coscienza e della più profonda realtà; questa è la visione sub specie aeterni, ed è quasi comunicazione coll'assoluto. Allora la tristezza svanisce; alla realtà particolare e contingente subentra un'altra più profonda realtà. Dileguano le nubi e brilla il  sole, o apparisce il cielo stellato. Il riso stesso s’è trasfigurato; esso, ormai nel campo della contemplazione e dell'azione più alta, è divenuto eroico furore e beatitudine.  BRUNO vuol accogliere quanto di più caratteristicamente espressivo dell’ilarità triste e della tiistezza ilare circola, guizza o s'indugia nella vasta opera di BRUNO (vedasi), e le dà un fascino strano ed acuto. Forniscono  qui la materia solo gli scritti ITALIANI; che sono più varii di contenuto e più vivi di forma e quasi più liberamente riflettono l'anima del filosofo e dell'uomo. Laddove i latini sono o più tecnici e scolastici, come quelli ch’appartengono ai gruppi dell’opere Lulliane, Mnemoniche, Espositive e critiche; o più solenni come le brevi, importantissime Orazioni; ovvero rielaborano più rigidamente, in gran parte con veste poetica, come De minimo. De Monade e De Immenso, contenuto d’opere italiane. Tuttavia, neppur l’opere latine mancano di qualche sprazzo del pensoso suggestivo riso, come il Cantus  Circaeus; il quale, mentre riguarda l'arte della memoria, è di carattere essenzialmente  morale. Forse non appare chiaro a prima vista il significato messo in rilievo  e che possiam dire ascendente, del riso di BRUNO, secondo lo schema generale dell'etica. Ma se ben SI consideri, esso risulta, in sostanza, non meno sicuro che l’intima compenetrazione di quel riso in tutte le parti dell'opera del nolano, anche nelle più  astratte, speculative ed astruse; come là dove si tratta dell'eroico slancio pella conoscenza e  pell’ideale, o della cosmologia, dei  principii dell'universo e della verità. La   Filosofia   di  Bruno, Le  opere di Bruno. Bruno,  Coli.  Profili,  Formi'gglni,  Roma. La materia morale agitata dal filosofo è una; massa viva e turbmosa su cui cadono il suo ghigno e la sua tristezza, come gocce di fuoco. Ma non si può sconoscere la differenza dell'atteggiamento spirituale, e, in un certo senso, del fine medesimo, nel  Candelaio, per esempio, ed anche in pagihe affini d’altre opere, e nello Spaccio della Bestia trionfante. Nell'uno v'è, sopra tutto, il quadro satirico, dipintura e constatazione dei vizii e difetti e debolezze e sconcezze degl’uomini; nell'altro l'approfondimento critico di tutto questo mondo, e la contrapposizione fra simbolica e dialettica di corrispondenti pregi, virtù, valori, nel cielo e  nella   terra,  negl’uomini e negli dei. Nell'uno è la materia fermentante ed oscura di Menandro e di Teofrasto, di Plauto e di Terenzio, di Machiavelli e di Molière; nell'altro la materia di Xenofane e d’Aristofane, ed è anche, come non a torto è stato da taluno notato, lo spirito d’ALIGHIERI.  Poiché la bestia che si deve spacciare non è solo ciò che d'impuro e triste offende praticamente l'uomo  e il convitto umano, ma quello altresì che contamina e sminuisce i diritti, la libertà, la santità della mente nelle sue più alte funzioni contemplativa e speculativa. E, insomma, trattasi dell'affrancazione totale dell'uomo e dello spirito, che fanno tutt'uno. E come nel Candelaio medesimo c'è qualche oscuro accenno a più profondo intento ed a relazioni speculative, cosi lo Spaccio della  Bestia  trionfante segna la  strada  La filosofia soggettiva,  l'Etica-  Bruno.  Profilo  cit. pella più completa conquista etica ed elevazione spirituale. Purgare, liberare: questo è il motivo dell'opera strana e stupenda di fantasia e di riso. Purificare ciò che è fuori dell'uomo, ma che cosa è fuori dell'uomo, dal  punto di vista morale?, e ciò che è nell'uomo: il mondo superno e celeste, che la  scienza tiene incorruttibile, e che al filosofo appar pieno e guasto d'infinita corruzione; e perfino il mondo infero, la sede stessa del peccato e della bruttura, che la credenza a quello opponeva. Abbiam notizia d'un  dialogodi BRUNO,  Il Purgatorio dell’Inferno il quale nel titolo d'apparente bisticcio ma di trasparente significato, completa suggestivamente il disegno della totale purgazione.  Occorre, finalmente, mondare e rinnovare la scienza e la filosofia, la stessa mente umana; ed a questo mira, con passione intensa, con forza eroica, il filosofo.  E se tale opera, che più propriamente riguarda lo spirito, appare nella forma ridicola di quella vivacissima e scintillante trattazione che ha per Nella Cena delle Ceneri, Teofilo,  Bruno, dice: Non dubitate, Prudenzio, perchè del  buon vecchio non ri si guasterà nulla. A voi, Smitho, manderò quel dialogo del nolano, che si chiama Purgatorio dell'Inferno, e ivi vedrai il frutto della redenzione. L'accenno al frutto della redenzione, che forse rende estremamente eterodosso lo scritto, non toglie nulla all'idea dello spaccio dell'inferno; forse la rende più  forte. Cosi pure, per essa nulla importa che, a quanto pare, il  purgatorio sia stato composto qualche anno avanti della Bestia trionfante. L'idea potrebbe essere stata estesa dall'inferno al cielo. Ma  l'opinione  di BERTI (vedasi), Vita  di BRUNO, e di Frith, Life of Bruno, Londra, resta anche da   dimostrare. L’Asinità, ciò non oscura affatto il pathos intenso e puro ch’agita ogni fibra dell'instauratore e che sembra discendere in lui dall'ardore stesso  del divino Platone. Ne la frenesia da cui si lascia trasportare Bruno impedisce di scorgere, d’ultimo, la sovrana bellezza della visione che s'apre davanti al suo occhio  profondo, ed innanzi alla quale egli stesso rimane estatico e commosso. Così come per Xenofane colofonio, del quale v'è qualche traccia nello spinto del Nolano e Castrucci; che dopo aver spacciato, sia lecito adoperar questa  espressione, gli Dei della superstizione, dell'ignoranza e della corruzione, riguardando nel cielo, purificato, dice che tutto è Dio. Culmina, dunque, la critica, la satira, la derisione e la tristezza delle brutture e degl’errori umani, un mondo morale e spirituale di bellezza, di bontà, di verità. All’instaurazione cosmologica, onde si rompevano e disfacevano i palchi dipinti e i congegni  d’orbi e di cieli, si congiungono l’instaurazione morale, e l’intellettuale, le quali finiscono per coincidere, sul principio dell'indissolubile ternano d’Ente, Vero e Bene; che Bruno contempla, ragiona e  sente con impeto straordinario.  Candelaio e Canto di Circe, Spaccio della Bestia trionfante ed Eroici furori. Cena delle Ceneri e Asino cillenico. Cabala del cavallo pegaseo e Causa  Principio et Uno esprimono e  fondono  insieme, a  traverso. Noti sono i framm. di Xenofane circa la critica degli Dei. Quello citato è  riferito d’Aristotele, Metafisica. Le diverse interpretazioni del passo non disdicono al concetto fondamentale qui  adombrato.  i momenti che singolarmente rappresentano i valori del mondo e dello spirito. E però, non illegittimamente, si chiude questo  libro dell’ilarità triste e dell’ilare  tristezza di Bruno, che speriamo rechi qualche vantaggio, illuminando la pur sempre scarsamente conosciuta opera del nolano, con alcune fra le pagine più solenni della sua filosofia, fra le parole più alte della sua anima. Erminio Troilo. Troilo. Keywords: conflagrazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Troilo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tronti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degli spiriti liberi – filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Keywords. democrazia -- Filosofo italiano. Considerato uno dei principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico. Insegna a Siena, vive a Roma.  Fonda “Quaderni Rossi” e “Classe operaia”. Anima l'esperienza radicale dell'operaismo. Tale esperienza, che va considerata per molti versi la matrice della sinistra, si caratterizza per il fatto di mettere in discussione le organizzazioni del movimento operaio -- partito e sindacato -- e di collegarsi direttamente, senza intermediazioni, alla classe in sé e alle lotte di fabbrica. Influenzato da VOLPE (vedi), s’allontana di GRMASCI, o almeno dalla sua versione ufficiale promossa dal PCI togliattiano. Ri-apre la strada rivoluzionaria. Di fronte all'irruzione dell'operaio-massa sulla scena delle società, il suo operaismo propone un'analisi delle relazioni di classe. Mette l'accento sul fattore inter-soggettivo. La sua filosofia, debitrice anche all’’Operaio” di Jünger, trova una sistemazione con la pubblicazione di “Operai e capitale” (Einaudi, Torino), un saggio di forte impatto letterario che esercita un'influenza notevole sulla contestazione e più in generale sull'ondata di mobilitazione. È proprio la sconfitta della spontaneità operaia e dell'ondata di mobilitazione, colta anticipatamente da lui e non invece da altri operaisti come NEGRI (vedi) -- di qui la rottura tra loro -- a indurlo a spostare la sua riflessione sul problema del politico, ovvero della direzione e della mediazione politica. Pubblica “L’autonomia del politico” (Feltrinelli, Milano),  una teoria politica realista che, in un'originale commistione di Marx e Schmitt, e capace di colmare i limiti della inter-soggettività sociale. Si tratta di una fase più intellettuale che politica. Fonda l'influente rivista Laboratorio politico. Riavvicinatosi al PCI di Berlinguer, e finalmente riabilitato dal gruppo dirigente del partito, entrando a far parte più volte del Comitato centrale. Eletto al Senato della Repubblica nelle liste del Partito Democratico della Sinistra, membro della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali.  Non avendo condiviso le trasformazioni post-comuniste del partito, la sua filosofia assume toni pessimistici, concentrandosi sulla fine della politica moderna e sulla critica della democrazia. Presidente del Centro per la riforma dello stato. Eletto al Senato nelle liste del Partito Democratico per la Lombardia.  È tra i parlamentari a firmare un emendamento contro l'articolo del disegno di legge Cirinnà riguardante l'adozione del configlio. Altri saggi: “Hegel politico” (Istituto dell'Enciclopedia italiana, Roma); ““Soggetti, crisi, potere” (Cappelli, Bologna); “Il tempo della politica” (Riuniti, Roma); “Con le spalle al futuro: per un altro dizionario politico” (Riuniti, Roma); “Berlinguer: il principe disarmato” (Sisifo, Roma); “La politica al tramonto” (Einaudi, Torino); “Cenni di Castella” (Cadmo, Fiesole); “Teologia e politica al croce-via della storia” (Albo Versorio, Milano); Passaggio Obama. L'America, l'Europa, la Sinistra (Ediesse); “La democrazia dei cittadini: dai cittadini per l'Ulivo al Partito Democratico” (Ediesse); “Non si può accettare” (Ediesse); “Noi operaisti” (Derive Approdi); “Dall'estremo possible” (Ediesse); “Per la critica del presente” (Ediesse); “Dello spirito libero: frammenti di vita e di pensiero” (Saggiatore); “Il nano e il manichino: la teologia come lingua della politica” (Castelvecchi); “Il demone della politica” (Il Mulino); “Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi”; “La città futura” (Feltrinelli, Milano); ““Cromwell” (Saggiatore, Milano); “Operaismo e centralità operaia” (Riuniti, Roma); “Il politico: da MACHIAVELLI a Cromwell; da Hobbes a Smith” (Feltrinelli, Milano); “Il destino dei partiti” (Ediesse); “Rileggendo "La libertà comunista", “Un altro marxismo” (Fahrenheit 451, Roma); “Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva” (Angeli, Milano); Per la critica della democrazia politica” “Guerra e democrazia” (Manifesti, Roma); “Politica e destino” (Sossella, Roma); “Finis Europae. Una catastrofe teologico-politica” (Bibliopolis, Napoli). Ne “La politica al tramonto”, un capitolo porta il titolo “Karl und Carl”, per sotto-lineare, anche qui allusivamente, la necessità di completare Marx con Schmitt", Autobiografia filosofica, in Storia della filosofia, Filosofi italiani contemporanei, Le Grandi Opere del Corriere della Sera, Bompiani, Milano. Unioni civili: i numeri che mettono a rischio le adozioni gay, su Termometro Politico; Unioni civili, 30 senatori Pd contro le adozioni. E Gay pubblica la lista: "Scrivi al malpancista". Loro: "Squadristi", su Il Fatto Quotidiano. Le piume, le fidanzate, lo zio comunista. I 60 anni di R. Zero, Altri Mondi, Alcaro, Dellavolpismo (VOLPE) e nuova sinistra, Dedalo, Bari, Preve, La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (Dedalo); Gobbi, Com'eri bella, classe operaia. Storia fatti e misfatti dell'operaismo italiano (Longanesi, Milano); Leo, Per una storia di Classe Operaia, in Bailamme, Mezzadra, Operaismo, in Esposito e Galli, Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Romai; Basso, Gozzini e Sguazzino, delle opere e degli scritti. Dipartimento di Filosofia-Università degli Studi, Siena;  Berardinelli, Stili dell'estremismo. Critica del pensiero essenziale (Riuniti, Roma), Pozzi, Roggero, Borio, “Futuro anteriore: dai Quaderni rossi ai movimenti globali. Ricchezze e limiti dell'operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Alegre, Roma); Corradi, Storia dei marxismi in Italia (Manifesto, Roma); Pozzi, Roggero, Guido Borio, Gli operaisti, Derive Approdi, Roma, Peduzzi, Lo spirito della politica e il suo destino. L'autonomia del politico, il suo tempo, Ediesse-Crs, Roma, Trotta e Milana, L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», cd con la raccolta completa della rivista «classe operaia» (Derive Approdi, Roma); Peduzzi, A Cartagine poscia io venni incubi sulla teoria marxista, Arduino Sacco editore, Roma,; Filippini, T. e l'operaismo politico degli anni Sessanta, Euro Philosophie, Milanesi, Nel Novecento, Storia, teoria, politica nel pensiero (Mimesis, Milano); Abecedario (Formenti), Derive Approdi, Operaismo Quaderni Rossi Classe operaia (rivista) Panzieri Negri Cacciari Ingrao Centro per la Riforma dello Stato, TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere su senato, Senato della Repubblica; T., su Openpolis, Associazione Openpolis.  Registrazioni di T., Radio Radicale.. Centro per la Riforma dello Stato, "Storia e critica del concetto di democrazia" -- intervento di T., disponibile anche in file audio, su global project Sitoitaliano per la filosofia:  su lgxserver uniba. Conricerca-Futuro Anteriore, su alpcub."Lotta contro gl’idoli" (intervento di T. per Rai Educational, su emsf. rai. Intervista "La lotta di classe c'è ancora", La Repubblica,  "Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del '900", La Repubblica. Mario Tronti. Tronti. Keywords: L’implicatura di Hobbes, libero spirito, democrazia --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tronti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuberone: la ragione conversazionale degl’accademici a Roma – filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Keywords: Roma antica. Filosofo italiano. Friend of CICERONE. Accademia. Enesidemo dedicates his discourses on Pirrone to him. Lucio Elio Tuberone. Keywords: Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuberone: la ragione conversazionale della repubblica romana e l’implicatura conversazionale della storia romana— Roma -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Keywords. Roma antica. Filosofo italiano. Nipote di Lucio Emilio Paolo, tribuno della plebe, si oppone a SCIPIANO (vedi) Africano Minore e a Caio Tiberio GRACCO (vedi). Pretore. Poco lodato come oratore, si distinse per la cultura giuridica. La semplicità della sua vita e la rigidezza di suo carattere lo portano verso il ortico, la cui dottrina applica nella condotta. Conosce Panezio di Rodi e ne segue l'insegnamento. Da T. e da ECATONE gli futtono i scritti. La cosa è dubbia per l'influenza di Posidonio su T. Figlio di Emilia, sorella di SCIPIONE Emiliano. Rigido seguace dello stoico Panezio, studioso di diritto e di astronomia. Uomo rigoroso e severo oppositore di GRACCO, è bocciato all'elezione per la pretura. Console, CICERONE lo considera giurista di vaglia con una solida scientia iuris. Tutta la sua famiglia del resto gode fama di grande dottrina giuridica. Nome d'una famiglia romana, alla quale appartengono varî giuristi. Il primo è console, e di lui CICERONE loda la dottrina giuridica. Lucio Elio T. fu legato di Q. CICERONE, proconsole d'Asia. Più noto è il figlio di lui, Quinto Elio T., che col padre prende parte alla guerra fra GIULIO CESARE (vedi) e POMPEO (vedi), parteggiando per quest'ultimo, ma fu perdonato dopo Farsalo. Console, propone un senatoconsulto sul matrimonio confarreato. A parte un'opera ad Oppium, di cui si ignora l'argomento, scrive alcuni libri de officio iudicis, destinati come guida del giudice privato del processo formulare. Le sue opinioni sono citate più volte con grande rispetto dalla dottrina posteriore. Scrive anche Historiae, in XIV libri. Keywords: Cicero, iuris, portico, scessi, studied under Panezio. Quinto Elio Tuberone. Keywords: Roma antica. Per H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tulelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’equilibrio conversazionale: per una metafisica dell’etica – la scuola di Zagarise -- filosofia calabrese --  filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Zagarise). Abstract. Keywords: equilibrio. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Zagarise, Catanzaro, Calabria. A lui sono ad oggi intitolate una via a Zagarise e una a S.Elia, e una sala della biblioteca di Catanzaro. Targa commemorativa in suo onore, inoltre, posto davanti alla casa comunale di Zagarise un busto che lo raffigura, realizzato da Calveri. Zagarise, busto creato da Calveri, installato davanti al comune di Zagarise. Figlio dal marchese Gaetano T., studia presso il convento del ritiro dei filippini a Zagarise e poi frequenta a Catanzaro il real liceo ginnasio e il corso presso il pontificio seminario teologico regionale S. Pio X. Vive a Napoli dove compì studi filosofici e apre una scuola dove insegna filosofia morale ed estetica. La richiesta di poter istituire una scuola e inviata alle autorità competenti, le quali, prima di concedere le relative autorizzazioni, chiesero al vescovo di Catanzaro dettagliate notizie in merito alla condotta morale e politica del richiedente, la risposta inviata loro fu. Elemento di condotta soda, casta e onesta. Tra gl’allievi della sua scuola molti sono appartenenti a famiglie di alto rango sociale, e tra questi, è possibile annoverare i figli del re Borbone che, in segno di stima, gli fanno dono di un orologio da camera di manifattura francese opera dei fratelli Japis. Molto amico di SETTEMBRINI (vedi), il quale lo cita nelle sue "Lezioni di letteratura italiana", gli trasmitte l’amore per la filosofia e gl’ideali patriottici.Allievo di PUOTI e di GALLUPPI del quale studia e diffunde la filosofia, evidenziando il parallelismo con Kant, così come divulga quello di altri filosofi, tra cui CAPASSO, ROSSI, e MASCI. Insegna filosofia a Napoli dietro l’impulso di SANCTIS, iniziando un periodo di vero splendore per l’ateneo napoletano. Cadde il regno delle due Sicilie e, favorevole alla formazione di uno stato unitario, porta avanti una battaglia a livello morale e giuridico per l’abolizione della pena di morte che fino ad allora era in vigore in tutti gli stati d’Europa tranne il gran ducato di Toscana. La stessa a abolita con l'adozione del codice penale del regno d'Italia -- il cosiddetto Codice ZANARDELLI. La fine della dominazione dei Borboni è colta come un’occasione di rinnovamento sociale e morale ed egli instilla nei suoi insegnamenti la consapevolezza che il rinnovamento politico dove essere accompagnato a quello morale, egli riscontra nella popolazione un’evidente scarsità intellettuale e un sentimento religioso che si manifesta mediante pratiche di culto sempre più lontane dall’essere ricche di valori spirituali e una società sempre più formalista, cerca di contrastare questa tendenza in affinità a GIOBERTI.  E un patriota e un liberale. La sua attività di filosofo fa si che la sua notorietà e la sua reputazione cresceno, e inoltre un oppositore degli hegeliani napoletani, e a capo degl’oppositori degli Spaventiani (SPAVENTA – vedi) e rappresentante del movimento filosofico del quale fanno parte GALLUPI, COLECCHI, CUSANI, e GRAZIA. Sul suo valore si sono pronunciati, fra gl’altri, anche CROCE e RUSSO. Socio ordinario dell’accademia di scienze morali e politiche di Napoli a l’accademia reale pontaniana. In relazione all'accademia di scienze morali e politiche di Napoli, T. e PESSINA, in qualità di soci dell'accademia, di collocare nell'atrio dell'Università degli Studi di Napoli un busto in marmo raffigurante GALLUPPI, realizzato da Calì è inaugurato con una cerimonia a cui prendeno parte il rettore Imbriani, dei rappresentanti e diversi studenti. Della stessa accademia oltre ad esserne socio ne è anche tesoriere come si evince dalla Gazzetta ufficiale del regno d'Italia n cui è contenuta la ri-elezione alla suddetta carica (omissis) S.M., sulla proposta del ministro della pubblica istruzione, ha, con RR. decreti fatte le nomine e disposizioni seguenti: (omissis) T. Paolo Emilio, socio della società reale di Napoli, approvata la sua ri-elezione a tesoriere dell'accademia di scienze morali e politiche della predetta Società; (omissis), socio corrispondente dell’accademia cosentina accademia di scienze, lettere e belle arti degli zelanti e dei dafnici. Vive a Napoli. Nelle sue ultime volontà traspare chiaramente un radicato e forte legame con la sua terra di origine, infatti i primi due punti del suo testamento furono: volendo lasciare una prima testimonianza di affetto a Catanzaro, col fine di promuovere e favorire nel mio nativo comune di Zagarise l’educazione morale e l’istruzione letteraria e scientifica. Dispone inoltre che è destinata una somma in dote ad una ragazza indigente di Zagarise e che il resto del patrimonio del filosofo è suddiviso tra i suoi parenti.  Il documento, disponibile presso l’archivio notarile di Napoli, e depositato nel capoluogo campano presso lo studio del notaio Mazzitelli sito in via S. Giovanni numero 19. Dondazione di libri alla città di Catanzaro al fine di fondare una biblioteca pubblica T. volle donare a Catanzaro alcuni libri affinché potessero rappresentare una base di partenza per la costituzione di una biblioteca auspicando che il suo gesto potesse rappresentare un’esortazione a contribuire al suo ampliamento, una volta istituita, da parte di altr’uomini generosi e amanti della filosofia. Catanzaro accetta il legato che, in caso contrario, si sarebbe dovuto destinare ad ampliare il patrimonio della biblioteca del real liceo di Catanzaro o ad un erede del de cuius nel caso in cui il anche direttivo del liceo non avesse accettato la donazione. I libri furono trasferiti da Napoli a Catanzaro a spese del comune, così come indicato nelle ultime volontà del filosofo, e venne istituita la biblioteca comunale che venne denominata Biblioteca Municipale di Catanzaro "Onestà e lavoro", ma che oggi è conosciuta come Biblioteca comunale F. De Nobili. Volendo lasciare una prima testimonianza di affetto a Catanzaro ove ebbi i primi semi del mio sapere e le prime aspirazioni alla libertà della patria italiana, lego al comune i miei pochi libri col fine espresso ed incondizionato di formare il primo fondo ad una biblioteca pubblica da fondarsi in loco adatto a vantaggio dei studiosi e dei cultori della filosfia. Istituzione di una rendita per far studiare un uomo meritevole del comune di Zagarise Per quanto concerne il comune natio, nell’intenzione di promuovere l’educazione morale, l’istruzione filosofica nello stesso, istituì una rendita annuale, denominata Monte o Istituto T. per far si che dei filosofi meritevoli del suddetto comune potessero studiare. A perenne ricordo di ciò egli dispose nelle sue ultime volontà che è realizzata una breve iscrizione su una lastra di marmo e che la stessa fosse posta in un luogo pubblico del comune di Zagarise. Col fine di promuovere e favorire nel mio nativo comune di Zagarise l'educazione morale e l'istruzione letteraria e scientifica e così sospingere quei miei concittadini sulla via della civiltà, istituisco un Monte o Istituto per l'educazione ed istruzione dei studiosi di detto Comune da elevarsi dal real governo in ente morale e giuridico con la dotazione di annue lire duemila di rendita al 5 per cento iscritto al gran libro dei regno d'Italia. All'uopo destino due certificati di rendita a me intestati dell'annua rendita di L. millesettecento con la data di Firenze e l'altro dell'annua rendita di L. trecento della stessa data. Sì fatta annua rendita è unicamente ed esclusivamente impiegata per l'educazione e istruzione nella filosofia di un filosofo fatto volta per volta per modo che si dirà qui appresso nato a Zagarise da genitori ivi domiciliati almeno da dieci anni compiti, dell'età non minore di anni sette, che sa almeno leggere e scrivere e mostri in generale attitudine e buona disposizione agli studi filosofici. Saggi: “I principi sostanziali ed informatori della scienza” (Napoli, Regia Università); “Dei sistemi morali e della loro possibile riduzione” (Napoli, Regia Università); “La moralità della scienza e della vita” (Napoli, Regia Università); “Elogio di V. Buonsanto” (Napoli, Fibreno); “Filadelfos di G. Gemelli: Accademia di scienze morali e politiche” (Napoli, Regia Università); “L’infallibilità della ragione umana considerata nella triplice sfera della scienza, politica, e della religione” (Napoli, Regia Università); “La morale indipendente” (Napoli, Regia Università); “L’educazione popolare in Italia” (Napoli, Vaglio); La filosofia morale (Napoli, Regia Università); “Metafisica dell’estetica” (Napoli, Regia Università); “Una formula metafisica” (Napoli,  Regia Università);  “GALLUPPI” (Napoli, Regia Università); “Papasso e Rossi” (Napoli, Cutaneo); “Libero Stato” (Napoli, Regia Università); “Estetica” (Napoli, Vaglio); “Capasso” (Napoli, Tramater); “La rosa di Gerico” (Napoli, Poligama); “Metafisica dell'etica” (Napoli, Regia Università); “Dei sistemi filosofici”; “L’equilibriio”; “La pena di morte” (Napoli, Regia Università); “Baldacchini” (Regia Università, Napoli”, Elogio di Cilento. Sulla Bella di Camarda, poema di Cappelli (Napoli); “Armonia della libertà politica e della scienza morale”; “ Preso da immenso desiderio e ardente”; “Padre, partisti, forse desolato”; “Aspirazione a Dio”. Il pensiero morale di T., C. Nardi. Società Napoletana di Storia Patria,  Lettere a Milli, F. Adamoli. Collana "Fondo Milli" il Poeta.Via a Zagarise  Via a Catanzaro. La famiglia dona a Zagarise un'opera raffigurante il filosofo. Discorso di Imbriani all'inaugurazione del busto di Galluppi posto nell'Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli  Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Zagarise e dintorni, Faragò.  Lira italiana. Marchese Cavaliere Paolo Emilio Tulelli. Paolo Emilio Tulelli. Tulelli. Keywords: filosofia italiana, l’equilibrio, metafisica dell’etica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tulelli” – The Swimming-Pool Library. Tulelli.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Turco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’agnella, commedia nuova – la scuola di Mantova – filosofia lombarda -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Asola). Abstract. Keywords: commedia nuova, agnella. Flosofo lombardo. Filosofo italiano. Asola, Mantova, Lombardia. Nasce da una anticha e nobile famiglie, allora fiorente cittadina della Repubblica di Venezia, dove ricopre importanti cariche politiche in qualità di deputato, oratore e avvocato della comunità.  La sua prima opera, un dialogo, “Agnella”, venne rappresentato ad Asola durante i festeggiamenti per la visita dei duchi di Nemours e Beaulieu e altri illustri francesi al loro seguito. “Agnella” venne in pubblicata in seguito prima a Treviso, poi a Venezia. Contemporaneo ed amico di MANUZIO che in una lettera encomia la sua canzone in lode di Carlo V scritta in occasione della morte di quest'ultimo. Scrive: Letta la vostra canzone scritta in morte del Gran Carlo V, veramente Signor Carlo onorato, non troppo benigna stella, essendo voi dotato di si pellegrino ingegno e di tante altre lodevoli qualità, vi condanna a scrivere dove tra molte tenebre non può risplendere la vostra virtù, con la quale potevate illustrare voi stesso ed il secolo nostro eccitando in altri il desiderio di assomigliarvi. Laddove hora, avendo voi il campo ristretto per esercitare le vostre più nobili parti, non veggo come possano apparire effetti degni di voi ed alla vostra nobile industria corrispondenti. Questa lettera è in seguito stampata in Venezia da Gavardo che, sempre a Venezia, pubblica una tragedia in versi, intitolata “Calestri”. Altre opere sono stampate anche in Il Sepolcro de la illustre signora Beatrice di Dorimbergo, Brescia Fabbio, Mangini, Storie Asolane, Lettera di MANUZIO a Turchi, Lett. Volg. Venezia. Carlo Turco. Turco. Keywords: commedia nuova, agnella. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Turco” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Turoldo: le XII fatiche della ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Coderno – filosofia friulana -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco  di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Coderno). Abstract. Keywords. la ragione. The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An Old-World philosopher such as Turoldo would never have imagined to be compared to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been educated in a tradition that would make little sense of Turoldo as a ‘Grice italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers. Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His heritage remains. Turoldo’s place in the history of philosophy is other. But there are connections, and here they areFilosofo friulano -- Filosofo italiano. Coderno, comune di Sedegliano, Udine, Friuli-Venezia Giulia. Figura profetica, resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale, di ispirazione conciliare, tenuto da alcuni uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento spirituale, il che gli ha valso il titolo di coscienza inquieta. Riceve con intensità le caratteristiche della semplice cultura umana del suo ambiente nativo e prevalentemente contadino. Colse e fece propria la dignità delle condizioni povere della sua terra, che costituirono una solida radice informante tutto lo sviluppo della sua sensibilità e della sua attività futura. Accolto tra i servi di Maria nel convento di S. Maria al Cengio a Isola Vicentina, sede triveneta della casa di formazione dell'ordine servita, dove trascorse l’anno di noviziato. Emise la professione religiosa. Pronuncia i voti solenni a Vicenza. Incomincia gli studi filosofici a Venezia.  Nel santuario della Madonna di Monte Berico di Vicenza e ordinato presbitero da  Rodolfi, arcivescovo di Vicenza. Assegnato al convento di S. Maria dei servi in S. Carlo al Corso in Milano. Su invito di Schuster, arcivescovo della città, tenne la predicazione domenicale nel duomo milanese. Insieme con il suo confratello, compagno di studi durante tutto l’iter formativo nell’ordine dei servi e amico Piaz, si iscrive al corso a Milano e conseguì la laurea con una tesi dal titolo, “La fatica della ragione: Contributo per un'ontologia dell'uomo”, redatta sotto la guida di BONTADINI. Sia BONTADINI sia BO gl’offriranno il ruolo d’assistente universitario, a Milano, il secondo a Urbino. Durante l'occupazione nazista di Milano collabora attivamente con la resistenza creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino l'Uomo. Il titolo testimonia la sua scelta dell'umano contro il dis-umano, perché la realizzazione della propria umanità. Questo è il solo scopo della vita. La sua militanza dura tutta la vita, interpretando il comando evangelico essere nel mondo senza essere del mondo come un essere nel sistema senza essere del sistema. Rifiuta sempre di schierarsi con un partito. Il suo impegno nel dialogo senza preconcetti e nel confronto di idee talvolta anche duro, si tradusse in particolare nel far nascere, insieme con PIAZ, il centro culturale la Corsia dei Servi -- il vecchio nome della strada che dal convento dei servi conduceva al duomo. Uno dei principali sostenitori del progetto Nomadelfia, il villaggio nato per accogliere gl’orfani di guerra con la fraternità come unica legge, fondato da SALTINI nell'ex campo di concentramento di Fossoli presso Carpi, raccogliendo fondi presso la ricca borghesia milanese. Si rende noto al grande pubblico con due raccolte di liriche “Io non ho mani” -- che gli valse il Premio letterario Saint Vincent -- e “Gl’occhi miei” lo vedranno, presentato nella collana mondadoriana Lo Specchio d’Ungaretti.  A seguito di prese di posizione assunte da politici locali e da alcune autorità ecclesiastiche, deve lasciare Milano e soggiornare in conventi dei servi dell’Austria e della iera. Venne dai superiori dell’ordine assegnato al convento della S. Annunziata di Firenze, e qui incontra personalità affini al suo modo di sentire, quali fra VANNUCCI, BALDUCCI, PIRA, e molti altri che nell’ambiente fiorentino animano un tempo in cui si accendono speranze di rinnovamento a tutti i livelli. Ma anche da Firenze è costretto ad allontanarsi e trascorre un periodo di peregrinazioni all’estero.  Ri-entrato in Italia, venne assegnato al convento di S. Maria delle Grazie, nella “sua” Udine. Ma con il ri-entro in Italia porta con sé un progetto, nato a contatto cogl’emigrati friuliani: realizzare un film che raccontasse la nobiltà della povera vita rurale del suo Friuli. Il film con il titolo “Gl’ultimi” e ispirato al racconto “Io non ero fanciullo” scritto da T. in precedenza, venne concluso con la regia di Pandolfi. Presentato a Udine, “Gl’ultimi” tuttavia fu ben presto rifiutato dall’opinione pubblica friulana, che lo ritenne addirittura offensivo. Incomincia a cercare un sito dove dare avvio a una nuova esperienza religiosa comunitaria, allargata alla partecipazione anche di laici. Questo luogo, con le indicazioni ricevute d’amici, venne individuato nell’antico Priorato cluniacense di S.Egidio in Fontanella. Ottenuto il consenso del vescovo bergamasco GADDI, vi si insedia ufficialmente. Costruì accanto allo storico edificio del Priorato una casa per l’ospitalità, la Casa di Emmaus, titolo ispirato all’episodio in cui Gesù risorto si manifesta a Emmaus alla cena nello spezzare il pane. La casa costituì un simbolico richiamo alla semplice accoglienza, senza distinzioni di censo, di religione, o altro: aspetti che caratterizzarono tutta la presenza e la sua multiforme opera. Costituì inoltre un punto di riferimento per molti protagonisti della storia culturale e civile italiana. Per molte personalità del mondo ecclesiale e d’altre confessioni cristiane; un solido incentivo al rinnovamento di linguaggi e di strutture; un laboratorio di creazioni liturgiche e celebrative, di cui continuano a essere testimoni la versione metrica per il canto dei salmi e migliaia di inni liturgici. Insieme con altri frati, impegnati particolarmente in iniziative di rinnovamento spirituale e culturale, diede avvio alla pubblicazione di una rivista, il cui titolo è ispirato all’ordine dei servi di Maria, “Servitium”, e ad altre pubblicazioni che si ricollegavano all’esperienza editoriale della Corsia dei Servi. La pubblicazione della rivista continua tuttora con cadenza bimestrale, unitamente all’edizione di altre proposte librarie edite sotto l’omonimo marchio Servitium.  Molti sono i suoi interventi sui media, dalla carta stampata alle trasmissioni radio e televisive; molti i luoghi e le circostanze in cui è stato chiamato a intervenire con la sua avvincente parola. Da ricordare in particolare i suoi “viaggi della memoria” nei luoghi della Shoah, tra cui spicca quello a Mauthausen. In quest’occasione compose una preghiera, poi recitata nella cerimonia conclusiva, pubblicata successivamente nel saggio, “Ritorniamo ai giorni del rischio”. Colpito da un tumore del pancreas, visse con lucida consapevolezza e trasparente coraggio l’ultimo periodo della vita, dando una incoraggiante testimonianza sul cammino verso “sorella morte”. Migliaia di persone sfilarono accanto alla bara in cui era esposto il corpo di padre I funerali a Milano videro la partecipazione di una numerosa folla nella chiesa di S. Carlo al Corso, dove presiedette le esequie il cardinale MARTINI, che aveva consegnato a T. il primo "Premio Lazzati", affermando la propria opinione secondo la quale la chiesa riconosce la profezia troppo tardi. Un secondo rito funebre venne celebrato nel pomeriggio a Fontanella di Sotto il Monte, presente ancora una folla che copre tutta la collina circostante l’antico priorato. Nel cimitero riposa ora sotto una semplice croce lignea, in mezzo alla sua gente. Servitium dedica perciò alla sua figura un quaderno a frate dei servi di S. Maria e ugualmente fa nel decennale.  La grande passione. Saggi: Poesia e opere letterarie «Lungo i fiumi..» I Salmi Milano, San Paolo, O sensi miei...: Poesie (Milano, Rizzoli). Sul monte la morte, Servitium, La morte ha paura, Servitium,  poesie, Milano, Garzanti Teatro, Servitium,  I giorni del rischio con Salmodia della speranza e rappresentazione in Duomo a Milano con Moni Ovadia, Servitium,   Salmi e cantici. Versione metrica per il canto di T., Servitium,  La passione di S. Lorenzo, Servitium, La terra non sarà distrutta, Servitium, Luminoso vuoto. Scritti, Servitium, David M. T., Capovilla, Nel solco di Giovanni, lettere inedite, Servitium. Saggistica e spiritualità. Lettere dalla Casa di Emmaus, Servitium, La parabola di Giobbe, Servitium, Santa Maria. Servitium, Mia chiesa, una terra sola, Servitium,  Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia. Milano, Rizzoli, Come i primi trovadori, Servitium, Colloqui con Giovanni, Servitium, Profezia della povertà, Servitium, Chiamati ad essere, Servitium, È Natale, Servitium, Mio amico don Milani, Servitium, Pregare, Servitium, Anche Dio è infelice, S. Paolo, Amare Cinisello Balsamo, Edizioni S. Paolo, Padre del mondo, Servitium,  Povero sant’Antonio, Il Messaggero, Padova. Narrativa Mia infanzia d’oro (con “Ritratto d’autore” Servitium, e poi la morte dell'ultimo teologo Torino, Gribaudi. “Gli ultimi” Regia: Pandolfi; soggetto: T.; sceneggiatura: Pandolfi e T.. Tra le tante, ci è un'iniziativa che è tentata pochi giorni prima della morte di Moro e che è stata evocata da Craxi nel corso della sua audizione nella prima Commissione d'inchiesta. In quella circostanza, l'onorevole Craxi afferma che è chiamato da T., che gli chiedeva sostanzialmente di domandare alla nunziatura apostolica di dichiararsi disponibile come sede per far svolgere una trattativa. T. chiese II giorni di silenzio stampa e insistette molto, con veemenza, affermando che era la sola via possible. Legislatura, Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Moro, Resoconto stenografico, “Tra i memoriali di Mauthausen”, in “Ritorniamo ai giorni del rischio. Maledetto colui che non spera”, Milano, Corriere "E T. nascose le armi dei partigiani" La vita, la testimonianza Morcelliana. Piaz e la Corsia dei Servi di Milano, Morcelliana, T. e gl’organi divini. Lettura concordanziale di “O sensi miei...”, Olschki, Una vita con gli amici; Il mondo delle amicizie di T., documentario Salvi, Roma, Rai-Educational, Elia, La peregrinatio poietica prefazione di Terza, Firenze, Olschki, Cardinali, Il Dio Inseguito. Viaggio alla scoperta della poesia di T., Edizioni Pro Sanctitate, Roma, Romero Balducci, Piaz, Fabbretti. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. David Maria Turolo. David M. Turoldo. David Turoldo. Giuseppe Turoldo. Turoldo. Keywords: gl’ultimi, le XII fatiche della ragione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Turoldo” – The Swimming-Pool Library. Turoldo.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Tuveri: FILOSOFIA SARDA, NON ITALIANA -- all’altra isola -- la ragione conversazionale sarda e l’implicatura conversazionale sarda – la scuola di Collinas -- filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Collinas). Abstract. Keywords: la lingua sarda -- The phrase ‘Grice italo’ is meant as provocative. An Old-World philosopher such as Tuveri would never have imagined to be compared to a tutor at a varsity in one of the British Isles, but there you are! It is meant as a geo-political reminder, too. Many Italian philosophers have been educated in a tradition that would make little sense of Tuveri as a ‘Grice italo,’ but there you are. My note is meant as a tribute to both philosophers. Grice has been deemed an extremely original philosopher, and by Oxford canons he certainly was. He was the primus inter pares at the Play Group, the epitome of ordinary-language philosophy throughout most of the twentieth century. His heritage remains. Tuveri’s place in the history of philosophy is other. But there are connections, and here they are.Filosofo sardo. Filosofo italiano.  Collinas, Sardinia. Grice: “Or should we say, ‘filosofo sardo’?” -- Figlio un noto avvocato. Studia a Cagliari. Di idee repubblicane comincia l'attività in polemica con molti intellettuali monarchici e conservatori. Federalista, al parlamento sub-alpino si oppose alla fusione della Sardegna col Piemonte, ed è in forte contrapposizione con GIOBERTI per le posizioni anti-repubblicane e anti-mazziniane – vedi: MAZZINI. Fonda La Gazzetta Popolare, collabora con numerosi giornali e assunse la direzione del Corriere di Sardegna. Sindaco, propose il nome di Collinas. Lotta contro il centralismo del regno di Sardegna chiedendo maggiore autonomia, soprattutto fiscale, per i piccoli comuni. Amico di CATTANEO e MAZZINI, solleva la questione sarda, promuovendo un riscatto della Sardegna e del popolo sardo contro uno stato giudicato centralista e oppressivo. Scrive numerosi saggi filosofici. Assessorato della pubblica istruzione della regione auto-noma della Sardegna  promouove la ristampa dei suoi saggi, editore Delfino, con una introduzione di BOBBIO. Saggi: “Pintor” (Torino, Cassone); “Specifici contro il codinismo, (Cagliari, Arcivescovile); “Del diritto dell'uomo alla distruzione dei cattivi governi: trattato filosofico” (Cagliari, Nazionale); “Il governo e i comuni” (Cagliari, Nazionale); “Esazione e compulsione” (Cagliari, Timon); “La questione barracellare” (Cagliari, Timon); “Della libertà e delle caste” (Cagliari, Corriere di Sardegna); “Sofismi politici” (Napoli, Rinaldi); “Il veggente: Del dritto dell'uomo alla distruzione dei cattivi governi”); Accardo, Carta, Mosso; introduzione di Bobbio; Corrias e Orru, Opuscoli politici. Saggio delle opinioni politiche del signor deputato sardo Pintor; Specifici contro il codinismo, Sotgiu, Piano e Contu, Scritti giornalistici. Questione sarda, federalismo, politica internazionale, questione religiosa, Piano, Contu e Carta, Per la vita e i tempi di T. e altre opere, Delogu,  Fonte: "Centro di studi filologi sardi". Scheda sul sito della Camera  Indipendentismo sardo. Google. Da T. all'intuizione della concorrenza istituzionale, Bomboi. Venezia.    lingua sarda Disambiguazione – Se stai cercando la lingua prelatina, vedi Lingua protosarda. Sardo Sardu Parlato in Italia Regioni Sardegna Parlanti Totale 1 000 000 (2010, 2016)[1][2] - 1 350 000 (2016)[3] Altre informazioni Tipo SVO[4][5][6] Tassonomia Filogenesi Lingue indoeuropee Lingue italiche Lingue romanze Lingue italo-occidentali Lingue romanze meridionali Sardo (Logudorese, Campidanese) Statuto ufficiale Minoritaria riconosciuta in Italia (bandiera) Italia dalla l.n. 482/1999[7] (in Sardegna (bandiera) Sardegna dalla l.r. n. 26/1997[8] e l.r. n.22/2018[9]) Codici di classificazione ISO 639-1 sc ISO 639-2 srd ISO 639-3 srd (EN) Glottolog sard1257 (EN) Estratto in lingua Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 1 Totu sos èsseres umanos naschint lìberos e eguales in dinnidade e in deretos. Issos tenent sa resone e sa cussèntzia e depent operare s'unu cun s'àteru cun ispìritu de fraternidade.[10] Distribuzione geografica della lingua sarda, coi suoi relativi dialetti in dettaglio, nonché di quelle alloglotte in Sardegna Manuale Il sardo (nome nativo sardu /ˈsaɾdu/, lìngua sarda /ˈliŋɡwa ˈzaɾda/ nelle varietà campidanesi o limba sarda /ˈlimba ˈzaɾda/ nelle varietà logudoresi e in ortografia LSC[11]) è una lingua[12] parlata in Sardegna e appartenente alle lingue romanze del ramo indoeuropeo. Per differenziazione evidente sia ai parlanti nativi, sia ai non sardi, sia agli studiosi, è considerata autonoma dagli altri sistemi dialettali di area italica, gallica e iberica: viene pertanto classificata come idioma a sé stante nel panorama neolatino.[13][14][15][16][17] Dal 1997 la legge regionale riconosce alla lingua sarda pari dignità rispetto all'italiano.[8] Dal 1999, con la legge nazionale sulle minoranze linguistiche,[7][18][19] la lingua sarda, risultandovi inclusa assieme a undici altri gruppi, è de jure tutelata con diversi progetti finora sostenuti, per quanto ancora non risulti integrata in ambito scolastico per il suo apprendimento. Fra le dodici comunità di minoranza, quella sarda è la più robusta in termini assoluti[20][21][22][23][24][25] benché in continua diminuzione nel numero di locutori[20][26] e lingua minoritaria in pericolo di estinzione. Situazione attuale[modifica | modifica wikitesto] Per quanto la comunità di locutori possa definirsi come avente una "elevata coscienza linguistica"[27], il sardo è attualmente classificato dall'UNESCO nei suoi principali dialetti come una lingua in serio pericolo di estinzione (definitely endangered), essendo gravemente minacciato dal processo di deriva linguistica verso l'italiano, il cui tasso di assimilazione, ingenerato dal diciannovesimo secolo in poi, presso la popolazione sarda è ormai alquanto avanzato in via esclusiva e sottrattiva verso gli idiomi storici dell'isola. Lo stato alquanto fragile e precario in cui ormai versa la lingua, in forte regresso finanche nell'ambito familiare, è illustrato dal rapporto Euromosaic, in cui, come riportato nel 2000 dal linguista Roberto Bolognesi, il sardo «è al 43º posto nella graduatoria delle 50 lingue prese in considerazione e delle quali sono stati analizzati (a) l’uso in famiglia, (b) la riproduzione culturale, (c) l’uso nella comunità, (d) il prestigio, (e) l’uso nelle istituzioni, (f) l’uso nell’istruzione».[28] I sociolinguisti hanno classificato il panorama linguistico della Sardegna come diglossico a partire dall'unità d'Italia nel 1861 fino agli anni cinquanta del Novecento, in accordo con la politica linguistica del paese che designava l'italiano come la sola lingua ufficiale da promuovere in ambiti quali l'amministrazione e istruzione, relegando di conseguenza il sardo e altre minoranze linguistiche a domini non ufficiali,[29] quando non a un piano di disvalore. A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, sarebbe subentrato un predominio totale dell'italiano finanche nei domini informali, ingenerando timori sull'estinzione della lingua sarda,[30] riconosciuta da tempo sotto il profilo linguistico ma solo allo scadere del secolo come minoranza linguistica della Repubblica italiana. Le ricerche effettuate negli ultimi anni sembrano indicare un declino dello stigma associato alla sardofonia, anche per una maggiore consapevolezza e grazie agli sforzi dei progetti istituzionali finora approntati, i quali non hanno tuttavia significativamente inciso sulle pratiche odierne dei parlanti nell'isola, ormai improntate sull'italofonia regionale.[31] La popolazione sarda in età adulta non sarebbe a oggi più capace di portare avanti una singola conversazione nella lingua etnica,[32] essendo questa ormai impiegata in via esclusiva solo dallo 0,6% del totale,[33] e meno del 15%, all'interno di quella giovanile, ne avrebbe ereditato competenze, peraltro del tutto residuali[34][35] nella forma deteriore descritta da Bolognesi come «un gergo sgrammaticato».[36] Per le generazioni più giovani e, ad oggi, in predominanza monolingui in italiano, il sardo parrebbe essere diventato un ricordo e «poco più che la lingua dei loro nonni»,[37] essendone del tutto stata recisa la trasmissione intergenerazionale almeno dagli anni Sessanta. Essendo il futuro prossimo della lingua sarda tutt'altro che sicuro[38], Martin Harris asseriva già nel 2003 che, qualora non si fosse riusciti a invertire la tendenza, essa si sarebbe del tutto estinta, lasciando meramente le sue tracce nell'idioma ora prevalente in Sardegna, ovvero l'italiano (specificamente nella sua giovane variante regionale), sotto forma di sostrato.[39] La lingua sarda non è stata de facto ancora introdotta nella scuola, benché sia riconosciuta dal 1999 come minoranza linguistica della Repubblica, in contemporanea con le altre undici. Da qualche tempo sono tuttavia in atto progetti di recupero volti a riguadagnare al sardo un ruolo di lingua alta e riparare a detta interruzione di trasmissione intergenerazionale, nell'esigenza, sentita anche e soprattutto presso le classi anagrafiche più giovani e i ceti culturalmente più avveduti, di riappropriarsi di un patrimonio che passate politiche linguistiche non avrebbero tutelato.[40] Quadro generale[modifica | modifica wikitesto] (inglese) «Sardinian is an insular language par excellence: it is at once the most archaic and the most individual among the Romance group.» (italiano) «Il sardo è una lingua insulare per eccellenza: è allo stesso tempo la più arcaica e la più distinta nel gruppo delle lingue romanze.» (Rebecca Posner, John N. Green (1982). Language and Philology in Romance. Mouton Publishers. L'Aja, Parigi, New York. p. 171) Classificazione delle lingue neolatine (Koryakov Y.B., 2001).[41] La lingua sarda è ascritta nel gruppo distinto del Romanzo Insulare (Island Romance), assieme al còrso antico (quello moderno fa parte a pieno titolo della compagine italoromanza, così come gli idiomi sardo-corsi). Panorama linguistico dell'Europa sudoccidentale nei secoli fino a oggi. Il sardo è classificato come lingua romanza, ovvero derivata dal latino volgare. Celebre è il giudizio espresso dal Wagner nel 1950, per il quale il sardo costituiva l'evidenza di un "parlare romanzo arcaico" non avente stretta parentela con alcun dialetto italiano della terraferma, e solo per questioni politiche, poi successivamente risolte col suo riconoscimento definitivo e ufficiale a minoranza linguistica della Repubblica, "uno dei tanti dialetti dell'Italia, come lo è anche il serbo-croato o l'albanese".[42] Il sardo è considerato da molti studiosi come una delle lingue più conservative derivanti dal latino, se non la più conservativa;[43][44][45][46] a titolo di esempio, lo storico Manlio Brigaglia rileva che la frase in latino pronunciata da un romano di stanza a Forum Traiani Pone mihi tres panes in bertula ("Mettimi tre pani nella bisaccia") corrisponderebbe alla sua traduzione in sardo corrente Ponemi tres panes in sa bèrtula.[47] La relativa prossimità fonologica della lingua sarda al latino volgare (in particolare per quanto riguarda le vocali accentate) era stata analizzata anche dal linguista italo-americano Mario Andrew Pei nel suo studio comparativo del 1949[48] e ancor prima notata, nel 1941, dal geografo francese Maurice Le Lannou nel corso del suo periodo di ricerca in Sardegna.[49] Sebbene la base lessicale sia quindi in massima misura di origine latina, il sardo conserva tuttavia diverse testimonianze del sostrato linguistico degli antichi Sardi prima della conquista romana: si evidenziano etimi protosardi[50] e, in misura minore, anche fenicio-punici[51] in diversi vocaboli e soprattutto toponimi, che in Sardegna si sarebbero preservati in percentuale maggiore rispetto al resto dell'Europa latina.[52] Tali etimi riportano a un sostrato paleomediterraneo che rivelerebbe relazioni strette con il basco.[53][54][55] In età medievale, moderna e contemporanea la lingua sarda ha ricevuto influenze di superstrato dal greco-bizantino, ligure, volgare toscano, catalano, castigliano e infine italiano. Caratterizzato da una spiccata fisionomia che risalta dalle più antiche fonti disponibili,[56] il sardo è ritenuto da vari autori come parte di un gruppo autonomo nell'ambito delle lingue romanze.[16][17][40][57][58][59] La lingua sarda è stata rapportata da Max Leopold Wagner e Benvenuto Aronne Terracini all'ormai estinto latino d'Africa, con le cui varietà condivide diversi parallelismi e un qual certo arcaismo linguistico, nonché un precoce distacco dal comune ceppo latino;[60] il Wagner ascrive gli stretti rapporti tra l'ormai estinta latinità africana e quella sarda, inter alia, anche alla comune esperienza storico-istituzionale nell'Esarcato d'Africa.[61] A confortare tale teoria si menzionano le testimonianze di alcuni autori, quali l'umanista Paolo Pompilio[62] e il geografo Muhammad al-Idrisi, che visse a Palermo nella corte del re Ruggero II.[63][64][65][66][67] La comunanza sarda e africana del vocalismo,[40] nonché di diverse parole alquanto rare se non assenti nel resto del panorama romanzo, come acina (uva), pala (spalla), o anche spanus nel latino africano e il sardo spanu ("rossiccio"), costituirebbe la prova, per J. N. Adams, del fatto che una discreta quantità di vocabolario fosse un tempo condivisa tra Africa e Sardegna.[68] Sempre con riguardo al lessico, Wagner osserva come la denominazione sarda per la Via Lattea (sa (b)ía de sa báza o (b)ía de sa bálla, letteralmente "la via o il cammino della paglia") si discosti dall'intero panorama romanzo e si ritrovi piuttosto nelle lingue berbere.[69] Ciononostante, un'altra classificazione proposta da Giovan Battista Pellegrini associa, comunque, il sardo al ramo italoromanzo sulla base non tipologica, ma di valutazioni sociolinguistiche contemporanee a suo dire espresse dalla popolazione sarda, pur rilevandone le peculiarità nell'intero panorama latino (Romània).[70][71][72][73] Prima di lui, Bernardino Biondelli, nei suoi Studi linguistici del 1856, pur ammettendo per la "famiglia sarda" un'autonomia linguistica «in guisa da poter essere considerata come una lingua distinta dall'italiana, del pari che la spagnuola», la aveva comunque accorpata ai vari "dialetti italici" della penisola, stanti gli stretti rapporti della lingua con il progenitore latino e la dipendenza politica dell'isola dall'Italia.[74] Discussa è l'assegnazione tipologica delle varietà linguistiche sardo-corse, ovvero il gallurese e il sassarese: per taluni andrebbero ricomprese nel sardoromanzo, per altri sarebbero del tutto separate dal dominio linguistico sardo e invece incluse nell'italoromanzo.[75] Il Wagner (1951[76]) annette il sardo alla Romània occidentale, mentre Matteo Bartoli (1903[77]) e Pier Enea Guarnerio (1905[78]) lo ascrivono a una posizione autonoma tra la Romània occidentale e quella orientale. Da altri autori ancora, il sardo è classificato come l'unico esponente ancora in vita di una branca un tempo comprensiva finanche della Corsica[79][80] e della summenzionata sponda meridionale del Mediterraneo.[81][82] Thomas Krefeld descrive, in merito, la Sardegna linguistica come «una Romània in nuce» contraddistinta dalla «combinazione di tratti panromanzi, tratti macroregionali (iberoromanzi e italoromanzi) e perfino tratti microregionali ed esclusivamente sardi», la cui distribuzione spaziale varia in ragione della dialettica tra spinte innovatrici e altre tendenti alla conservatività.[83] Secondo Brenda Man Qing Ong e Francesco Perono Cacciafoco, la lingua sarda sarebbe un diasistema comprensivo di varietà e sottovarietà che non hanno subìto l'unificazione linguistica o nazionale, ma contengono comunque elementi linguistici, fonetici, grammaticali e lessicali simili.[84] Varietà linguistiche di tipo sardo[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Sardo logudorese e Sardo campidanese. «Due dialetti principali si distinguono nella medesima lingua sarda; ciò sono il campidanese, e ’l dialetto del capo di sopra.» (Francesco Cetti. Storia naturale della Sardegna, I quadrupedi. G. Piattoli, 1774) I dialetti della lingua sarda propriamente detta vengono convenzionalmente ricondotti a due ortografie standardizzate e reciprocamente comprensibili, l'una riferita ai dialetti centro-settentrionali (o "logudoresi") e l'altra a quelli centro-meridionali (o "campidanesi").[85][86] Le caratteristiche che vengono solitamente considerate dirimenti sono l'articolo determinativo plurale (is ambigenere in campidanese, sos / sas in logudorese) e il trattamento delle vocali etimologiche latine E e O, che rimangono tali nelle varietà centro-settentrionali e sono mutate in I e U in quelle centro-meridionali; esistono però numerosi dialetti detti di transizione, o Mesanía (es. arborense, barbaricino meridionale, ogliastrino, ecc.), che presentano i caratteri tipici ora dell'una, ora dell'altra varietà. Tale percezione dualistica dei dialetti sardi, originariamente registrata in via esogena per la prima volta dal naturalista Francesco Cetti (1774)[87][88] e riproposta in seguito da Matteo Madao (1782), Vincenzo Raimondo Porru (1832), Giovanni Spano (1840) e Vittorio Angius (1853),[89][90] piuttosto che segnalare la presenza di effettive isoglosse, costituisce per Roberto Bolognesi la prova di un'adesione psicologica dei Sardi alla suddivisione amministrativa dell'isola effettuata nel 1355 da Pietro IV d'Aragona tra un Caput Logudori (cabu de susu, "capo di sopra") e un Caput Calaris et Gallure (cabu de jossu, "capo di sotto") ed estesa poi alla tradizione ortografica in una varietà logudorese e campidanese illustre.[91][92] Il fatto che tali varietà illustri astraggano dai dialetti effettivamente diffusi nel territorio,[93] che invece si collocano lungo uno spettro interno o continuum di parlate reciprocamente intellegibili,[94][95][96] fa sì che risulti difficile tracciare un confine reale tra le varietà interne di tipo "logudorese" e di tipo "campidanese", problematica comune nella distinzione dei dialetti delle lingue romanze. Dal punto di vista propriamente scientifico, tale classificazione binaria non è condivisa da alcuni autori,[91][97] coesistendo proposte alternative di classificazione tripartita[98][99][100] e quadripartita.[101] I vari dialetti sardi, pur accomunati da morfologia, lessico e sintassi fondamentalmente omogenei, presentano rilevanti differenze di carattere fonetico e talvolta anche lessicale, che non ne ostacolano comunque la mutua comprensibilità.[85][97] Distribuzione geografica[modifica | modifica wikitesto] Viene tuttora parlata in quasi tutta l'isola di Sardegna da un numero di locutori variabile tra 1 000 000 e 1 350 000 unità, generalmente bilingue (sardo/italiano) in situazione di diglossia (la lingua sarda è utilizzata prevalentemente nell'ambito familiare e locale mentre quella italiana viene usata nelle occasioni pubbliche e per la quasi totalità della scrittura). Più precisamente, da uno studio commissionato dalla Regione Sardegna nel 2006[102] risulta che ci siano 1 495 000 persone circa che capiscono la lingua sarda e 1 000 000 di persone circa in grado di parlarla. In modo approssimativo i locutori attivi del campidanese sarebbero 670 000 circa (il 68,9% dei residenti a fronte di 942 000 persone in grado di capirlo), mentre i parlanti delle varietà logudoresi-nuoresi sarebbero 330 000 circa (compresi i locutori residenti ad Alghero, nel Turritano e in Gallura) e 553 000 circa i sardi in grado di capirlo. Nel complesso solo meno del 3% dei residenti delle zone sardofone non avrebbe alcuna competenza della lingua sarda. Il sardo è la lingua tradizionale nella maggior parte delle comunità sarde nelle quali complessivamente vive l'82% dei sardi (il 58% in comunità tradizionalmente campidanesi, il 23% in quelle logudoresi). Aree non sardofone In virtù delle emigrazioni dai centri sardofoni, principalmente logudoresi e nuoresi, verso le zone costiere e le città del nord Sardegna il sardo è, peraltro, parlato anche in aree non sardofone: Nella città di Alghero, dove la lingua più diffusa, assieme all'italiano, è un dialetto del catalano (lingua che, oltre all'algherese, comprende tra le altre anche le parlate della Catalogna, del Rossiglione, delle Isole Baleari e di Valencia), il sardo è capito dal 49,8% degli abitanti e parlato dal 23,2%. Il mantenimento plurisecolare del catalano in questa zona è dato da un particolare episodio storico: le rivolte anticatalane da parte degli algheresi, con particolare riferimento a quella del 1353,[103] furono infruttuose poiché la città fu alfine ceduta nel 1354 a Pietro IV il Cerimonioso. Questi, memore delle sollevazioni popolari, espulse tutti gli abitanti originari della città, ripopolandola dapprima con soli catalani di Tarragona, Valencia e delle Isole Baleari e, successivamente, con indigeni sardi che avessero però dato prova di piena fedeltà alla Corona di Aragona. A Isili il romaniska è invece in via d'estinzione, parlato solo da un sempre più ristretto numero di individui. Tale idioma fu importato anch'esso in Sardegna nel corso della dominazione iberico-spagnola, a seguito di un massiccio afflusso di immigrati rom albanesi che, insediatisi nel suddetto paese, diedero origine a una piccola colonia di ramai ambulanti. Nell'isola di San Pietro e parte di quella di Sant'Antioco, dove persiste il tabarchino, dialetto arcaizzante del ligure. Il tarbarchino fu importato dai discendenti di quei liguri che, nel Cinquecento, si erano trasferiti nell'isolotto tunisino di Tabarka e che, per via dell'esaurimento dei banchi corallini e del deterioramento dei rapporti con le popolazioni arabe, ebbero da Carlo Emanuele III di Savoia il permesso di colonizzare le due piccole e inabitate isole sarde nel 1738: il nome del comune appena fondato, Carloforte, sarebbe stato scelto dai coloni in onore del sovrano piemontese. La permanenza compatta in una sola locazione, unita ai processi proiettivi di auto-identificazione dati dalla percezione che i tabarchini avrebbero avuto di sé stessi in rapporto agli indigeni sardi,[104] hanno comportato nella popolazione locale un alto tasso di lealtà linguistica a tale dialetto ligure, ritenuto un fattore necessario per l'integrazione sociale: difatti, la lingua sarda è compresa da solo il 15,6% della popolazione e parlata da un ancor più esiguo 12,2%. Nel centro di Arborea (Campidano di Oristano) il veneto, trapiantato negli anni trenta del Novecento dagli immigrati veneti giunti a colonizzare il territorio ivi concesso dalle politiche fasciste, è oggigiorno in regresso, soppiantato sia dal sardo sia dall'italiano. Anche nella frazione algherese di Fertilia sono predominanti, accanto all'italiano, dialetti di tale famiglia (anch'essi in netto regresso) introdotti nell'immediato dopoguerra da gruppi di profughi istriani su un preesistente sostrato ferrarese. Un discorso a parte va fatto per i due idiomi parlati nell'estremo nord dell'isola, linguisticamente gravitanti sulla Corsica e quindi la Toscana: l'uno a nord-est, sviluppatosi da una varietà del toscano (il còrso meridionale) e l'altro a nord-ovest, influenzato dal toscano/corso e genovese.[105] Francesco Cetti, che per primo, come si è detto, operò la classificazione bipartita del sardo, aveva reputato l'idioma sardo-corso «che si parla in Sassari, Castelsardo e Tempio» come «straniero» e «non nazionale» (ovvero, "non sardo") al pari del dialetto catalano di Alghero, giacché sarebbe a suo dire «un dialetto italiano, assai più toscano, che non la maggior parte de’ medesimi dialetti d'Italia».[106] La maggior parte degli studiosi li considera infatti come parlate geograficamente sarde ma tipologicamente facenti parte, assieme al corso, del sistema linguistico italiano per sintassi, grammatica e in buona parte anche lessico.[107] Secoli di contiguità hanno fatto sì che tra gli idiomi sardo-corsi, afferenti all'area italiana, e la lingua sarda vi fossero reciproche influenze sia fonetico-sintattiche sia lessicali,[108] senza però comportarne l'annullamento delle differenze fondamentali tra i due sistemi linguistici. Nello specifico, i cosiddetti idiomi sardo-corsi sono: il gallurese, parlato nella parte nord-orientale dell'isola, è di fatto una varietà del còrso meridionale. L'idioma sorse verosimilmente a seguito dei notevoli flussi migratori che, procedenti dalla Corsica, investirono la Gallura dalla seconda metà circa del XIV.[109] secolo o, secondo altri, invece, a partire dal XVI secolo[110] La causa di tali flussi andrebbe ricercata nello spopolamento della regione dovuto a pestilenze, incursioni e incendi. il turritano o sassarese, parlato a Sassari, Porto Torres, Sorso, Castelsardo e nei loro dintorni, ebbe invece origine più antica (XII-XIII secolo). Esso conserva grammatica e struttura di base corso-toscana a riprova della sua origine comunale e mercantile, ma presenta profonde influenze del sardo logudorese in lessico e fonetica, oltre a quelle minori del ligure, del catalano e dello spagnolo. Nelle zone di diffusione del gallurese e del sassarese, la lingua sarda è capita dalla massima parte della popolazione (il 73,6% in Gallura e il 67,8% nel Turritano), anche se è parlata da una minoranza di locutori: il 15,1% in Gallura (senza la città di Olbia, dove la sardofonia ha un notevole rilievo, ma comprese le piccole enclavi linguistiche come Luras) e il 40,5% nel Turritano, grazie alle numerose isole linguistiche in cui i due idiomi convivono. Competenza del sardo all'interno delle diverse aree linguistiche[modifica | modifica wikitesto] La presente tavola sinottica è contenuta nel già citato rapporto di Anna Oppo (curatrice), Le Lingue dei Sardi. Una Ricerca Sociolinguistica, commissionato dalla Regione Autonoma di Sardegna alle Università di Cagliari e di Sassari.[111] Attiva Passiva Nessuna Totale Interv. Area logudoresofona 76,0% 21,9% 2,1% 100% 425 Area campidanesofona 68,9% 27,7% 3,4% 100% 919 Città di Alghero 23,2% 26,2% 50,6% 100% 168 Area sassaresofona 27,3% 40,5% 32,2% 100% 575 Città di Olbia 44,6% 38,9% 16,6% 100% 193 Area galluresofona 15,1% 58,5% 26,4% 100% 53 Carloforte e Calasetta 12,2% 35,6% 52,2% 100% 90 Storia[modifica | modifica wikitesto] Preistoria e storia antica[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Lingua protosarda. Le origini e la classificazione della lingua protosarda o paleosarda non sono al momento note con certezza. Alcuni studiosi, tra cui il linguista svizzero esperto degli elementi di sostrato Johannes Hubschmid, hanno creduto di potere riconoscere diverse stratificazioni linguistiche nella Sardegna preistorica.[51] Queste stratificazioni, cronologicamente collocabili in un periodo molto ampio che va dall'età della pietra a quella dei metalli, mostrerebbero, a seconda delle ricostruzioni proposte dai diversi autori, similitudini con le lingue paleoispaniche (proto-basco, iberico), lingue tirseniche e l'antico ligure.[112][113] Anche se la dominazione di Roma, iniziata nel 238 a.C., importò fin da subito nell'amministrazione locale la lingua latina attraverso il ruolo dei negotiatores di etnia strettamente italica, la romanizzazione dell'isola non procedette in maniera affatto spedita:[114] si stima che i contatti linguistici con la metropoli continentale fossero probabilmente già cessati a partire dal I secolo a.C.,[115] e le lingue sarde, fra cui il punico, permasero nell'uso ancora per diverso tempo. Si reputa che il punico continuò a essere usato fino al IV secolo d.C.,[116] mentre il nuragico resistette fino al VII secolo d.C. presso le popolazioni dell'interno che, guidate dal capo tribale Ospitone, adottarono anch'esse il latino con la loro conversione al cristianesimo.[117][Nota 1] La prossimità culturale della popolazione locale rispetto a quella cartaginese risaltava nel giudizio degli autori romani,[118] in particolare presso Cicerone le cui invettive, nello schernire i sardi ribelli al potere romano, vertevano nel denunciarne la inaffidabilità per via della loro supposta origine africana[Nota 2] avendone in odio i portamenti, la loro disposizione verso Cartagine piuttosto che Roma, nonché una lingua incomprensibile.[119] Diverse radici paleosarde rimasero invariate e in molti casi furono incamerate nel latino locale (come Nur, che presumibilmente compare anche in Norace, e che si ritrova in diversi toponimi quali Nurri, Nurra e molti altri); la regione dell'isola che avrebbe derivato il suo nome dal latino Barbaria (in italiano "paese dei Barbari",[120] lemma comune all'ormai desueto "Barberia") si oppose all'assimilazione romana per un lungo periodo: vedasi, a titolo di esempio, il caso di Olzai, in cui circa il 50% dei toponimi è derivabile dal sostrato linguistico protosardo.[51] Oltre ai nomi di luogo, sull'isola sono presenti diversi nomi di piante, animali e terminologia geomorfica direttamente riconducibili agli antichi idiomi indigeni.[121] Anche nel suo fondo latino il sardo presenta diverse peculiarità, dovute all'adozione di vocaboli sconosciuti e/o da tempo caduti in disuso nel resto della Romània linguistica.[122][123] Durata del dominio romano e nascita delle lingue romanze.[124] Per quanto lentamente, il latino sarebbe alla fine comunque diventato la lingua madre della maggior parte degli abitanti dell'isola.[125] Come risultato di questo profondo processo di romanizzazione, l'odierna lingua sarda è oggi classificata come lingua romanza o neolatina,[121] presentante caratteristiche fonetiche e morfologiche simili al latino classico. Alcuni linguisti sostengono che la lingua sarda moderna sia stata la prima lingua a dividersi dalle altre lingue che si stavano evolvendo dal latino.[126] Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente e una parentesi vandalica di 80 anni, la Sardegna fu riconquistata da Bisanzio e inclusa nell'Esarcato d'Africa.[127] Il Casula è convinto che la dominazione vandalica procurò una «netta frattura con la tradizione redazionale romano-latina o, quantomeno, una sensibile strozzatura» così che il successivo governo bizantino poté impiantare «i propri istituti operativi» in un «territorio conteso tra la "grecìa" e la "romània"».[128] Luigi Pinelli ritiene che la presenza vandala avesse «estraniato la Sardegna dall'Europa legando il suo destino al dominio africano» in un legame volto a rafforzarsi ulteriormente «sotto la dominazione bizantina non solo per aver l'impero romaico compreso l'isola all'Esarcato africano, ma per averne, sia pure indirettamente, sviluppata la comunità etnica facendo ad essa acquistare molte delle caratteristiche africane» che avrebbero permesso a etnologi e storici di elaborare la teoria dell'origine africana dei paleosardi,[129] ormai deprecata. Nonostante un periodo di quasi cinque secoli, la lingua greca dei bizantini non diede in prestito al sardo che alcune espressioni rituali e formali; significativo, d'altro canto, l'utilizzo dell'alfabeto greco per redigere testi in primo volgare sardo, ovvero una lingua neolatina.[130][131] Periodo giudicale[modifica | modifica wikitesto] Estratto del Privilegio Logudorese (1080)[132] (sardo) «In nomine Domini amen. Ego iudice Mariano de Lacon fazo ista carta ad onore de omnes homines de Pisas pro xu toloneu ci mi pecterunt: e ego donolislu pro ca lis so ego amicu caru e itsos a mimi; ci nullu imperatore ci lu aet potestare istu locu de non (n)apat comiatu de leuarelis toloneu in placitu: de non occidere pisanu ingratis: e ccausa ipsoro ci lis aem leuare ingratis, de facerlis iustitia inperatore ci nce aet exere intu locu […]» (italiano) «In nome di Dio, amen. Io giudice Mariano de Lacon faccio questa carta a onore di tutti gli uomini di Pisa, per il dazio che mi chiesero; e io la dono loro perché sono a loro amico caro ed essi a me; che nessun imperatore che abbia a potestare in questo luogo non possa togliere loro questo dazio concesso con placito: di non uccidere arbitrariamente un pisano: e per i beni che venissero arbitrariamente tolti, gli faccia giustizia l'imperatore che ci sarà nel luogo […]» (Privilegio Logudorese 1080) Quando gli omayyadi si impadronirono del Nordafrica, ai bizantini non rimasero dei precedenti territori che le Baleari e la Sardegna; Luigi Pinelli ritiene che tale evento abbia costituito uno spartiacque fondamentale nel percorso storico della Sardegna, determinando la definitiva recisione di quei legami culturali in precedenza assai stretti tra quest'ultima e la sponda meridionale del Mediterraneo: «le comunanze con le terre d'Africa si dileguarono, come nebbia al sole, per effetto della conquista islamita giacché questa, a causa dell'accanita resistenza dei sardi, non riuscì, come avvenuto in Africa, ad estendersi nell'isola».[129] Nonostante le numerose spedizioni intraprese verso la Sardegna, infatti, gli arabi non sarebbero mai riusciti a conquistarla e a stabilirvisi, a differenza della Sicilia.[133] Michele Amari, citato dal Pinelli, scrive che «i tentativi dei musulmani di Africa di conquistare la Sardegna e la Corsica furono frustrati per il valore inconcusso degli abitatori di quelle isole poveri e valorosi che si salvarono per due secoli dal giogo degli arabi».[134] Essendo Costantinopoli impegnata nella riconquista della Sicilia e del Meridione italiano, caduti anch'essi nelle mani degli arabi, questa distolse la propria attenzione dall'isola che, quindi, procedette a dotarsi di competenze via via maggiori fino all'indipendenza.[135] Pinelli reputa che «la conquista araba separò la Sardegna da quel continente senza che, però, si verificasse una riunione all'Europa» e che detto evento «determina una svolta capitale per la Sardegna dando vita al governo nazionale di fatto indipendente»,[129] retto da una figura chiamata "giudice" (judike o juighe in sardo), intesa come autentico sovrano a capo di una statualità (Logu) sovrana, perfetta, non patrimoniale ma superindividuale (iudex sive rex, da cui il sardo judicadu e la resa italiana in "giudicato"), piuttosto che nel suo significato in italiano di comune "magistrato".[136] Il Casula ritiene che, da un esame degli elementi diplomatistici e paleografici, l'isola emerga dal «black-out documentario» anteriore al Mille con un'assunzione di sovranità avvenuta, intorno al secolo IX, come «conseguenza marginale dell'occupazione della Sicilia da parte degli Arabi e dalla disgregazione dell'Impero carolingio»;[137] una lettera di Brancaleone Doria, marito di Eleonora d'Arborea, recita che nell'ultimo decennio del secolo XIV il giudicato arborense avrebbe avuto già "cinquecento anni di vita" e fosse, perciò, nato verso la fine dell'800.[138] Il volgare sardo, sviluppando nel tempo le due varianti ortografiche logudoresi e campidanesi, costituì durante il periodo medioevale la lingua ufficiale e nazionale dei quattro Giudicati isolani, anticipando in emancipazione le altre lingue neolatine[139][140][141][142] tra cui il volgare toscano, come riportava in guisa di esempio da seguire per gli italiani "sulla scorta dei vicini Sardi" lo storico e diplomatista Ludovico Antonio Muratori.[Nota 3] L'eccezionalità della situazione sarda, che costituisce in tal senso un caso unico nell'intero panorama romanzo, consiste nel fatto che tali testi ufficiali furono redatti fin dall'inizio in lingua sarda per comunicazioni interne ed escludessero del tutto il latino, a differenza di quanto accadeva nel periodo coevo nelle regioni geografico-culturali di Francia, Italia e Iberia; il latino in Sardegna era infatti impiegato solo nei documenti concernenti rapporti esterni con il continente europeo.[143] La coscienza linguistica sulla dignità del sardo era tale da giungere, nelle parole di Livio Petrucci, a un suo impiego «in epoca per la quale nulla di simile è verificabile nella penisola» non solo «in campo giuridico» ma anche «in qualunque altro settore della scrittura».[144] Il Casula riporta in merito che i «documenti "per l'interno", cioè destinati ai Sardi» fossero già in volgare sardo, laddove quelli «per l'esterno» fossero in «latino "quasi merovingico"».[145] La lingua sarda presentava allora un numero ancor maggiore di arcaismi e latinismi rispetto a quella attuale, l'utilizzo di caratteri oggi entrati in disuso nonché in diversi documenti una grafia della lingua scritta che risentiva degli influssi continentali degli scrivani, spesso toscani, genovesi o catalani. Scarsa la presenza di lemmi germanici, giunti perlopiù attraverso lo stesso latino, e degli arabismi, importati a loro volta dall'influsso iberico.[146] Dante Alighieri nel suo De vulgari eloquentia (1303-1305) ne riferisce ed espelle criticamente i sardi, a rigore "non italiani (Latii) per quanto a questi superficialmente accomunabili",[147][148] in quanto agli occhi di Dante parlerebbero non una lingua neolatina, bensì in latino schietto imitandone la gramatica «come le scimmie imitano gli uomini: dicono infatti domus nova e dominus meus».[147][148][149] Tale asserzione è in realtà prova di quanto il sardo, ormai evolutosi autonomamente dal latino, fosse divenuto già in quell'epoca, nelle parole del Wagner, un'autentica e impenetrabile "sfinge"[146], ovvero una lingua pressoché incomprensibile a tutti fuorché gli isolani. Famosi sono due versi del XII secolo attribuiti al trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras, che nel suo poema Domna, tant vos ai preiada equipara il sardo per intelligibilità a due lingue del tutto escluse dallo spazio romanzo, quali il tedesco (un idioma germanico) e il berbero (un idioma afroasiatico): «No t'entend plui d'un Todesco / Sardesco o Barbarì» (lett. "Non ti capisco più di un tedesco / o sardo o berbero")[150][151][152][153][154][155] e quelli del fiorentino Fazio degli Uberti (XIV secolo) il quale nel Dittamondo scrive dei sardi: «una gente che niuno non la intende / né essi sanno quel ch'altri pispiglia » (lett. "una gente che nessuno capisce / né essi capiscono quel che gli altri bisbigliano").[149][156] Il condaghe di San Pietro di Silki (1065-1180), scritto in sardo Il primo documento scritto in cui compaiono elementi della lingua sarda risale al 1065 e si tratta dell'atto di donazione da parte di Barisone I di Torres indirizzato all'abate Desiderio a favore dell'abbazia di Montecassino,[157] noto anche come Carta di Nicita.[158] Prima pagina della Carta de Logu arborense (Biblioteca universitaria di Cagliari). Altri documenti di grande rilevanza sono i Condaghi, la Carta di Orzocco (1066/1073),[159] il Privilegio Logudorese (1080-1085) conservato presso l'Archivio di Stato di Pisa, la Prima Carta cagliaritana (1089 o 1103) proveniente dalla chiesa di San Saturnino nella diocesi di Cagliari e, assieme alla Seconda Carta Marsigliese, conservata negli Archivi Dipartimentali delle Bouches-du Rhone a Marsiglia, oltre a un particolare atto (1173) tra il Vescovo di Civita Bernardo e Benedetto, allor amministratore dell'Opera del Duomo di Pisa. Statuti Sassaresi Gli Statuti Sassaresi (1316)[160] e quelli di Castelgenovese (c. 1334), scritti in logudorese, sono un altro importante esempio di documentazione linguistica della Sardegna settentrionale e della Sassari comunale; è infine d'uopo menzionare la Carta de Logu[161] del Regno di Arborea (1355-1376), che sarebbe rimasta in vigore fino al 1827. Per quanto i testi a noi rimasti provenissero da zone alquanto lontane l'una dall'altra, quali il nord e il sud dell'isola, il sardo si presentava allora piuttosto omogeneo:[162] benché le differenze ortografiche tra il logudorese e il campidanese cominciassero a intravedersi, il Wagner rinveniva in tale periodo «l'originaria unità della lingua sarda».[163] Paolo Merci vi riscontra una «larga uniformità», così come Antonio Sanna e Ignazio Delogu, per il quale sarebbe stata la vita comunitaria a sottrarre l'ortografia sarda ai localismi.[162] A detta di Carlo Tagliavini, nell'isola si andava formando una koinè illustre basata piuttosto sul modello ortografico logudorese.[164] In seguito alla scomparsa del giudicato di Cagliari e di quello di Gallura nella seconda metà del XIII secolo, sarebbe stato il dominio dei Gherardesca e della Repubblica di Pisa sugli ex-territori giudicali a provocare, secondo Eduardo Blasco Ferrer, una prima frammentazione del sardo, con un considerevole processo di toscanizzazione della lingua locale.[165] Nel settentrione della Sardegna, invece, furono i genovesi a imporre la propria sfera di influenza, sia mediante la nobiltà sardo-genovese di Sassari, sia attraverso i membri della famiglia Doria che, anche dopo l'annessione dell'isola da parte dei catalano-aragonesi, conservarono i propri feudi di Castelsardo e Monteleone in qualità di vassalli dei sovrani della Corona d'Aragona.[166] Alla seconda metà del XIII secolo risale la prima cronaca redatta in lingua sive ydiomate sardo,[167] seguendo gli stilemi tipici del periodo. Il manoscritto, redatto da un anonimo e oggi conservato presso l'Archivio di Stato di Torino, reca il titolo di Condagues de Sardina e traccia le vicende dei Giudici succedutisi nel Giudicato di Torres; l'ultima edizione critica della cronaca sarebbe stata ripubblicata nel 1957 da Antonio Sanna. La politica estera del giudicato di Arborea, indirizzata a unificare il resto dell'isola sotto il suo regno[168][169] e a preservare la propria indipendenza da ingerenze straniere, oscillò tra una posizione di alleanza con gli aragonesi in funzione antipisana a una, di senso contrario, antiaragonese, instaurando alcuni legami culturali con la tradizione italiana.[169][170][171] La contrapposizione politica fra il giudicato di Arborea e i sovrani aragonesi si manifestò anche con l'adozione di certe matrici culturali toscane, quali alcuni moduli linguistici nell'Oristanese.[172] Ciononostante, in linea con la propria politica estera, il giudicato arborense si contraddistinse per diverse innovazioni, quali un proprio tipo di scrittura cancelleresca (la gotica cancelleresca arborense, derivata dalla triangolare italiana) e per una qual certa riluttanza a sottoporsi eccessivamente all'influsso di culture forestiere, maturata sulla consapevolezza di una propria identità autoctona, etnica, antropologica, culturale e linguistica.[173] In merito a detta cancelleresca, sulla cui costituzione il Casula non ha dubbi, egli dice che «non parrà arbitrario, quindi, se cercheremo di spiegare il modello attraverso i campioni offertici dai documenti originali della curia giudicale dell'Arborea, la quale ci sembra facesse qualcosa di più che abbandonarsi all'esecuzione passiva e sciatta della grafia gotica appresa in Italia o importata dagli italiani, verosimilmente dai Pisani: i Sardi oristanesi, infatti, calligrafarono, caratterizzarono, collettivizzarono e conservarono questa scrittura fino alla fine del giudicato. In poche parole: con essa crearono la propria cancelleresca, che dopo il 1323 può essere contrapposta alla cancelleresca catalana delle scrivanie regie dell'isola.[174]» In ogni caso, una qual certa influenza italiana poté essere mantenuta nel giudicato arborense grazie alla presenza in loco di alcuni notai, giuristi e medici provenienti dalla suddetta penisola, nonché di alcuni uomini d'arme toscani a capo di milizie locali, fra cui Cicarello di Montepulciano e Giuliano di Massa: Mariano IV d'Arborea, che aveva trascorso parte della propria giovinezza in Catalogna, avrebbe impartito ordini ai propri comandanti in italiano o in sardo «secondo la loro nazionalità d'origine».[175] Periodo aragonese e spagnolo[modifica | modifica wikitesto] L'infeudamento della Sardegna da parte di papa Bonifacio VIII nel 1297, senza che questi avesse tenuto conto delle realtà statuali già presenti al suo interno, portò alla fondazione nominale del Regno di Sardegna: ovvero, di uno stato che, per quanto privo di summa potestas, entrò di diritto quale membro in unione personale entro la compagine mediterranea della Corona di Aragona. Ebbe così inizio, nel 1353, una lunga guerra tra quest'ultima e, al grido di «Helis, Helis», il precedente alleato Giudicato di Arborea, in cui la lingua sarda avrebbe rivestito un ruolo di codice di contrassegno etnico.[176] La guerra aveva tra i suoi motivi un mai sopito e antico disegno arborense di instaurare «un grande Stato-Nazione isolano, tutto indigeno» assistito dalla partecipazione stavolta massiccia, per la prima e ultima volta nella loro storia, finanche del resto dei Sardi, ovvero non giudicali (Sardus de foras) e residenti nei possedimenti signorili o regnicoli,[177] nonché una diffusa insofferenza per l'imposizione di un regime feudale che minacciava la sopravvivenza di radicate istituzioni autoctone e, lungi dall'assicurare la riconduzione dell'isola a un regime unitario, vi aveva solo introdotto, a detta di Ugone d'Arborea in una lettera inviata al cardinale Napoleone Orsini, "tot reges quot sunt ville" ("tanti re-padroni quanti sono i paesi"),[178] laddove "Sardi unum regem se habuisse credebant" ("i sardi credevano di avere un solo re"). Il conflitto tra le due entità sovrane si concluse dopo sessantasette anni con la definitiva vittoria della "confederazione" aragonese nella storica battaglia di Sanluri nel 30 giugno 1409 e, infine, la rinuncia dei diritti di successione arborensi da parte di Guglielmo III di Narbona nel 1420. Tale evento, accompagnato alla scomparsa del re di Sicilia Martino il Giovane nel 1409, segnò per Francesco Cesare Casula l'uccisione reciproca delle due "nazioni", sarda e catalana, e per l'isola "l'inizio del vero medioevo feudale",[179] terminato solo nel 1836: per il Casula, il predetto avvenimento, paragonato per rilevanza storica alla «fine del Messico azteco», dovrebbe ritenersi «né trionfo né sconfitta, ma la dolorosa nascita della Sardegna di oggi».[180] Durante e dopo questo conflitto, sarebbe stato sistematicamente neutralizzato ogni focolaio di ribellione antiaragonese, quali la rivolta di Alghero nel 1353, quella di Uras del 1470 e infine quella di Macomer nel 1478, richiamata nel De bello et interitu marchionis Oristanei;[181] da quel momento, «quedó de todo punto Sardeña por el rey».[182] Il Casula reputa che i vincitori emersi dal conflitto avessero poi proceduto a distruggere la preesistente produzione documentaria dell'età giudicale, redatta perlopiù in lingua sarda ma anche in altri idiomi che meglio si confacevano alle relazioni della sofisticata cancelleria arborense, non lasciando dietro di sé che «poche pietre» e, nel complesso, un «esiguo gruppo di documenti»,[183] molti dei quali sono infatti tuttora conservati e/o rimandano ad archivi fuori dell'isola.[184] Nello specifico, la documentazione giudicale e il suo palazzo sarebbe stata data completamente alle fiamme il 21 maggio 1478, mentre il viceré faceva trionfalmente il proprio ingresso ad Oristano dopo aver domato la summenzionata ribellione marchionale, che minacciava la ripresa di una soggettività arborense de jure abolita nel 1420 ma ancora ben viva nella memoria popolare.[185] Il catalano, lingua della corte della Corona d'Aragona, assunse anche nell'isola l'egemonia, in una condizione diglossica in cui il sardo venne relegato a una posizione alternativa, quando non secondaria: emblematica era la situazione delle città soggette al ripopolamento aragonese, quali Cagliari[186] e in cui, nella testimonianze di Giovanni Francesco Fara,[187] per un tempo il catalano subentrò interamente al sardo come ad Alghero, tanto da generare espressioni idiomatiche quali no scit su catalanu ("non sa il catalano") per indicare una persona che non sapeva esprimersi "correttamente".[188][189] Il Fara, nella medesima prima monografia di età moderna dedicata ai Sardi e la Sardegna, riporta anche il vivace plurilinguismo presso «un medesimo popolo», per via dei movimenti migratori «di spagnoli (tarragonesi o catalani) e di italiani» nell'isola, ivi giunti per praticarvi il commercio.[187] Ciononostante, la lingua sarda non scomparve affatto dall'uso ufficiale: la tradizione giuridica nazionale dei catalani nelle città convisse con quella preesistente dei sardi, contrassegnata nel 1421 dalla conferma della stessa Carta de Logu arborense da parte del Parlamento del sovrano di Aragona Alfonso il Magnanimo,[190][191] quale intelaiatura fondamentale di una rete di rapporti localmente stratificata nei vari capitoli di grazia. In ambito amministrativo ed ecclesiastico, si seguitò a impiegare il sardo per usi normati dalla scrittura fino al Seicento inoltrato.[192][193] Le corporazioni religiose fecero anch'esse uso della lingua. Il regolamento del seminario di Alghero, emanato dal vescovo Andreas Baccallar il 12 luglio 1586, era in sardo;[194] essendo diretti all'intera diocesi di Alghero e Unioni, i provvedimenti destinati alla diretta conoscenza del popolo erano redatti in sardo, oltre che in catalano.[195] Il primo catechismo ad oggi rinvenuto in "lingua sardisca" di matrice posttridentina è del 1695, in calce alle costituzioni sinodali dell'arcivescovato di Cagliari.[196] L'avvocato Sigismondo Arquer, autore della Sardiniae brevis historia et descriptio (il cui paragrafo relativo alla lingua sarebbe stato grossomodo estrapolato anche da Conrad Gessner nel suo "Sulle differenti lingue in uso presso le varie nazioni del globo"[197]), riferisce che in Sardegna fossero parlate due lingue, ovvero lo "spagnolo, tarragonese o catalano" appreso dagli elementi iberici nelle città, e il sardo nel resto del Regno:[189] per quanto quest'ultimo fosse ormai frazionato a causa delle dominazioni straniere (ovvero "latini, pisani, genovesi, spagnoli e africani"), l'Arquer riporta come i sardi nondimeno "fra loro si comprendessero perfettamente".[198] Il gesuita portoghese Francisco Antonio, nel 1561, riportava che «la lingua ordinaria di Sardegna è il sardo, come l'italiano lo è d'Italia. [...] Nelle città di Cagliari e di Alghero la lingua ordinaria è il catalano, sebbene vi sia molta gente che usa anche il sardo».[189][199] I Gesuiti, che fondarono dei collegi a Sassari (1559), Cagliari (1564), Iglesias (1578) e Alghero (1588), inizialmente promossero una politica linguistica a favore del sardo, usandolo nell'esercizio del loro ministero con grande favore delle popolazioni che, per la prima volta, si sentivano rivolgere nella loro lingua, piuttosto che in quella catalana, spagnola o italiana; tuttavia, tale pratica fu ritenuta inopportuna dal nuovo generale dell'Ordine, Francesco Borgia, che nel 1567 impose per tutte le attività l'utilizzo esclusivo del castigliano.[200] L'influenza del toscano, fra il XIV e il XV secolo, si manifestò nel Logudoro, sia in alcuni documenti ufficiali, sia come lingua letteraria: l'internazionalizzazione del Rinascimento italiano, a partire dal XVI secolo, avrebbe infatti ravvivato in Europa l'interesse per la cultura italiana, manifestandosi anche in Sardegna soprattutto nell'impiego aggiuntivo di suddetta lingua presso alcuni autori, parallelamente al sardo e a quelle iberiche che, comunque, conservarono la loro preminenza. In questi stessi secoli o in epoca immediatamente successiva, anche a causa della progressiva diffusione del corso in Gallura nonché in ampie zone della Sardegna nord-occidentale, cui si è fatto accenno in precedenza, il logudorese settentrionale assunse talune caratteristiche fonetiche (palatalizzazione e suoni fricativi-palatalizzati) dovute al contatto con l'area linguistica toscana (sic)[201]. Come rileva Bruno Migliorini, la Sardegna ebbe con la penisola italiana complessivamente «scarsi rapporti».[202] Nel Parlamento del 1565, lo stamento militare richiese, nella forma di una petizione da parte di Álvaro de Madrigal, che gli statuti di Iglesias, Bosa e Sassari, fino ad allora redatti "in lingua genovese, pisana o italiana", fossero tradotti "in lingua sarda o in quella catalana", giacché «non è opportuno né è giusto che delle leggi del Regno siano in lingua straniera».[203][204] In questo primo periodo iberico abbiamo una qual certa documentazione scritta della lingua sarda tanto in letteratura quanto in atti notarili, essendo l'idioma maggiormente diffuso e parlato, che però ben esplica l'influenza iberica. Antonio Cano (1400-1476) compose, nel XV secolo, il poema di carattere agiografico Sa Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (pubbl. 1557);[205] è una delle opere letterarie più antiche in lingua sarda, nonché più rilevanti sotto l'aspetto filologico del periodo. Estratto de sa Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (A. Cano, ~1400)[205] O Deu eternu, sempre omnipotente, In s’aiudu meu ti piacat attender, Et dami gratia de poder acabare Su sanctu martiriu, in rima vulgare, 5. De sos sanctos martires tantu gloriosos Et cavaleris de Cristus victoriosos, Sanctu Gavinu, Prothu e Januariu, Contra su demoniu, nostru adversariu, Fortes defensores et bonos advocados, 10. Qui in su Paradisu sunt glorificados De sa corona de sanctu martiriu. Cussos sempre siant in nostru adiutoriu. Amen. Nel 1479 si ebbe l'unificazione fra il regno di Castiglia con quello di Aragona. Tale unificazione, di carattere esclusivamente dinastico, non comportò, sotto il profilo linguistico, cambiamenti di sorta. Il castigliano o spagnolo tardò infatti a imporsi come lingua ufficiale dell'isola e non oltrepassò i domini della letteratura e dell'istruzione:[2] fino al 1600 i pregones si pubblicarono perlopiù in catalano e solo a partire dal 1602 si iniziò a utilizzare anche il castigliano, che per Giovanni Siotto Pintor sarebbe stato usato nelle leggi e decreti a partire dal 1643.[206][207][208] Nel XVI secolo, il sardo conobbe una prima rinascita letteraria. L'opera Rimas Spirituales del letterato sassarese Gerolamo Araolla, che scrisse in sardo, castigliano e italiano, si prefisse il compito di "magnificare et arrichire sa limba nostra sarda", allo stesso modo in cui i poeti spagnoli, francesi e italiani lo avevano fatto per la loro rispettiva lingua,[209][Nota 4] seguendo schemi già collaudati (es. la Deffense et illustration de la langue françoyse, il Dialogo delle lingue): per la prima volta fu così posta la cosiddetta "questione della lingua sarda", poi approfondita da vari altri autori. L'Araolla è anche il primo autore sardo a stringere in nesso la parola "lingua" con "nazione", il cui riconoscimento non è direttamente espresso a chiare lettere ma dato per scontato, data la "naturalezza" con la quale gli autori di diverse nazioni si cimentano in una propria letteratura nazionale.[210] Antonio Lo Frasso, poeta nativo di Alghero (città che ricorda con affetto in vari versi[Nota 5]) e vissuto a Barcellona, fu probabilmente il primo intellettuale di cui abbiamo testimonianza a comporre in sardo liriche amorose, benché abbia scritto maggiormente in un castigliano pregno di catalanismi; si tratta in particolare di due sonetti (Cando si det finire custu ardente fogu e Supremu gloriosu exelsadu) e di un poema in ottave reali, facenti parte della sua opera principale Los diez libros de Fortuna de Amor (1573).[Nota 6] Nel XVII secolo vi fu una produzione letteraria anche in italiano, per quanto limitata (nel complesso, secondo le stime della scuola di Bruno Anatra, circa l'87% dei libri stampati a Cagliari era in spagnolo[211]); nello specifico si trattava di alcuni scrittori plurilingui, come Salvatore Vitale, nato a Maracalagonis nel 1581, che accanto all'italiano utilizzò anche lo spagnolo, il latino e il sardo, Efisio Soto-Real (il cui vero nome fu Giuseppe Siotto), Eusebio Soggia, Prospero Merlo e Carlo Buragna, il quale aveva vissuto lungamente nel Regno di Napoli[212]. Nel complesso, gli istruiti e la classe dirigente sarda dell'epoca conoscevano assai bene lo spagnolo e avrebbero scritto tanto in spagnolo quanto in sardo fino al XIX secolo; Vicente Bacallar Sanna, per esempio, fu uno dei fondatori della Real Academia Española.[213] Lo spagnolo si affermò, pertanto, tardivamente ma riuscì a ritagliarsi, comunque, una posizione di eminente prestigio nei campi elitari della letteratura e dell'erudizione, rispetto al catalano, la cui forza di propagazione fu tale da entrare nella massima parte delle contrade della Sardegna centrale e meridionale e in alcune aree di quella settentrionale (ma non certamente nel capitolo di Sassari, dove i contratti d'appalto iniziarono a privilegiare lo spagnolo dal 1610,[214] gli atti ufficiali vennero scritti in sardo logudorese fino al 1649[215] e gli statuti di alcune prestigiose confraternite sassaresi in italiano[216]; in aree quali Macomer, gli archivi parrocchiali impiegarono il sardo fino al 1623[214]), resistendo tenacemente negli atti pubblici e nei libri di battesimo. Il sardo resistette, inoltre, nella drammatica religiosa, nella redazione di atti notarili nelle aree interne[217] e negli atti e statuti delle confraternite, come quello dei disciplinanti di Torralba[218]. Il sardo restò comunque l'unico e spontaneo codice della popolazione sarda, rispettato e anche appreso dai conquistatori.[219] Il sardo era, a pari merito rispetto al castigliano, catalano e portoghese, una delle lingue la cui conoscenza era richiesta per potere essere ufficiali dei tercios, nei cui ranghi i sardi erano considerati "spanyols", come richiesto dagli Stamenti nel 1553;[220] dal momento che potevano fare carriera e arrivare in posizione di comando solo coloro che parlassero almeno una di queste quattro lingue, Vicente G. Olaya sostiene che «gli italiani che parlavano male lo spagnolo cercavano di farsi passare per valenciani per provare a essere promossi».[221] La situazione sociolinguistica era caratterizzata da una competenza, sia attiva sia passiva, nelle città delle due lingue iberiche e del sardo nel resto dell'isola, come riportato da varie testimonianze coeve: Cristòfor Despuig, ne Los Colloquis de la Insigne Ciutat de Tortosa, sosteneva nel 1557 che, per quanto la lingua catalana si fosse ritagliata un posto di «cortesana», "non tutti la parlano, dal momento che in molte parti dell'isola si conserva ancora l'antica lingua del Regno" («llengua antigua del Regne»),[204] tributando a quest'ultima un insigne riconoscimento; l'ambasciatore e visitador reial Martin Carillo (supposto autore dell'ironico giudizio sulla nobiltà sarda: pocos, locos y mal unidos[211]) notò nel 1611 che le principali città parlavano il catalano e lo spagnolo, ma al di fuori di queste non si capiva altra lingua che il sardo, compresa da tutti nell'intero Regno;[204] Joan Gaspar Roig i Jalpí, autore del Llibre dels feyts d'armes de Catalunya, riportava a metà del Seicento che in Sardegna «parlen la llengua catalana molt polidament, axì com fos a Catalunya»;[204] Anselm Adorno, originario di Genova ma residente a Bruges, notò nei suoi pellegrinaggi come, nonostante una cospicua presenza di stranieri residenti nell'isola, i nativi di questa parlassero comunque la loro lingua («linguam propriam sardiniscam loquentes»[222]); un'altra testimonianza è offerta dal rettore del collegio gesuita sassarese Baldassarre Pinyes che, a Roma, registrava la partizione etnica e linguistica del Regno, scrivendo: «per ciò che concerne la lingua sarda, sappia vostra paternità che essa non è parlata in questa città, né in Alghero, né a Cagliari: la parlano solo nelle ville».[223] La consistente presenza, nel capo di sopra, di feudatari valenzani e aragonesi, oltre che di soldati mercenari lì stanziati di guardia, rese i dialetti logudoresi più esposti alle influenze castigliane; inoltre, altri vettori di ingresso furono, per quanto concerne i prestiti linguistici, la poesia orale, le opere teatrali e i già menzionati gocius o gosos (vocabolo derivante da gozos, stante per "inni sacri"). La poesia popolare si arricchì di altri generi, quali le anninnias (ninne nanne), gli attitos (lamenti funebri), le batorinas (quartine narrative), i berbos e paraulas (malefici e scongiuri) e i mutos e mutetos. Si annoti che diverse testimonianze scritte del sardo permasero anche negli atti notarili, i quali pur subirono crudi castiglianismi e italianismi nel lessico e nella forma, e nell'allestimento di opere religiose a scopo di catechesi, quali Sa Dottrina et Declarassione pius abundante e Sa Breve Suma de sa Doctrina in duas maneras. Frattanto il parroco orgolese Ioan Mattheu Garipa, nell'opera Legendariu de Santas Virgines, et Martires de Iesu Christu che provvedette a tradurre dall'italiano (il Leggendario delle Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo), pose in evidenza la nobiltà del sardo rapportandola al latino classico e attribuendole nel Prologo, come Araolla prima di lui,[209] un'importante valenza etnico-nazionale.[Nota 7][224] Secondo il filologo Paolo Maninchedda, tali autori, a partire dall'Araolla, «non scrivono di Sardegna o in sardo inserirsi in un sistema isolano, ma per iscrivere la Sardegna e la sua lingua – e con esse, se stessi – in un sistema europeo. Elevare la Sardegna ad una dignità culturale pari a quella di altri paesi europei significava anche promuovere i sardi, e in particolare i sardi colti, che si sentivano privi di radici e di appartenenza nel sistema culturale continentale».[225] Nei primi anni del Settecento, nell'isola si impiantò l'Arcadia e si assistette a una grande varietà di generi poetici, che variavano dalla poesia epica di Raimondo Congiu a quella satirica di Gian Pietro Cubeddu e quella sacra di Giovanni Delogu Ibba.[226] Periodo sabaudo e italiano[modifica | modifica wikitesto] L'esito della guerra di successione spagnola determinò la sovranità austriaca dell'isola, confermata poi dai trattati di Utrecht e Rastadt (1713-1714); pur tuttavia durò appena quattro anni giacché, nel 1717, una flotta spagnola rioccupò Cagliari e nell'anno successivo, per mezzo di un trattato poi ratificato all'Aia nel 1720, la Sardegna venne assegnata a Vittorio Amedeo II di Savoia in cambio della Sicilia; il rappresentante di quest'ultimo, il conte di Lucerna di Campiglione, ricevette infine, da parte del delegato austriaco don Giuseppe dei Medici, l'atto definitivo di cessione, a condizione che i "diritti, statuti, privilegi della nazione" oggetto della trattativa diplomatica fossero conservati.[227] L'isola entrò così nell'orbita italiana dopo quella iberica,[228] benché tale trasferimento di autorità, in un primo tempo, non implicasse per i sudditi isolani alcun cambiamento in fatto di lingua e costumi: i sardi seguitarono a usare il sardo e le lingue iberiche e persino i simboli dinastici aragonesi e castigliani sarebbero stati sostituiti dalla croce sabauda solo nel 1767.[229] Fino al 1848, la Sardegna sarebbe infatti rimasta uno stato con le proprie tradizioni e istituzioni, per quanto senza summa potestas e in unione personale entro i domini perlopiù alpini di Casa Savoia.[227] La lingua sarda, benché praticata in condizione di diglossia, non era mai stata ridotta al rango sociolinguistico di "dialetto", essendone comunque universalmente percepita la indipendenza linguistica e parlata da tutte le classi sociali;[230] lo spagnolo era invece il codice linguistico di prestigio conosciuto e adoperato dagli strati sociali di almeno media cultura, talché Joaquín Arce ne riferisce nei termini di un paradosso storico: il castigliano era ormai diventato lingua comune degli isolani nel secolo stesso in cui cessarono ufficialmente di essere spagnoli.[231][232] Constatata la situazione corrente, la classe dirigente piemontese, in questo primo periodo, si limitò a mantenere le istituzioni politico-sociali locali, avendo però cura di svuotarle allo stesso tempo di significato,[233] nonché di trattare «egualmente li seguaci dell'uno e dell'altro partito, con lasciarli però divisi, ad evitare che si possino unire per ricavarne nell'occasione quel buon uso che la Rivalità può produrre».[234] Tale approccio, improntato al pragmatismo, era dovuto a tre motivi di ordine eminentemente politico: in primo luogo la necessità, nei primi tempi, di rispettare alla lettera le disposizioni del Trattato di Londra, firmato il 2 agosto 1718, il quale imponeva il rispetto delle leggi fondamentali e dei privilegi del Regno appena ceduto; in secondo luogo, l'esigenza di non generare attriti sul fronte interno dell'isola, in larga parte filospagnolo; in terzo e ultimo luogo la speranza, covata dai regnanti sabaudi per qualche tempo ancora, di potersi disfare della Sardegna e riacquisire la Sicilia.[235] Dal momento che l'imposizione di una nuova lingua, quale l'italiano, in Sardegna avrebbe infranto una delle leggi fondamentali del Regno, Vittorio Amedeo II sottolineò nel 1721 come tale operazione dovesse essere portata a termine "insensibilmente", ovvero in modo relativamente furtivo.[236] Tale prudenza si riscontra ancora nel giugno del 1726 e nel gennaio del 1728, allorquando il Re espresse l'intenzione non già di abolire il sardo e lo spagnolo, ma solo di diffondere maggiormente la conoscenza dell'italiano.[237] Lo smarrimento iniziale dei nuovi dominatori, subentrati ai precedenti, rispetto all'alterità culturale che riconoscevano al possedimento isolano[238] è evinto da un apposito studio, da loro commissionato e pubblicato nel 1726 dal gesuita barolese Antonio Falletti, dal nome "Memoria dei mezzi che si propongono per introdurre l'uso della lingua italiana in questo Regno" in cui si raccomandava all'amministrazione sabauda di applicare il metodo di apprendimento "ignotam linguam per notam expōnĕre" ("presentare una lingua sconosciuta [l'italiano] attraverso una conosciuta [lo spagnolo]").[239] Nello stesso anno, Vittorio Amedeo II aveva manifestato la volontà di non poter più tollerare la mancata conoscenza dell'italiano presso gli isolani, dati i disagi che ciò stava comportando per i funzionari giunti in Sardegna dalla terraferma.[240] Le restrizioni sui matrimoni misti tra donne sarde e ufficiali piemontesi, fino ad allora proibiti per legge,[241] sarebbero state revocate e questi anzi incoraggiati allo scopo di meglio diffondere la lingua tra i nativi.[242] La relazione tra il nuovo idioma e quello nativo, inserendosi entro un contesto storicamente contrassegnato da una marcata percezione di alterità linguistica,[40][243] si pose fin da subito nei termini di un rapporto (ancorché ineguale) tra lingue fortemente distinte, piuttosto che tra una lingua e un suo dialetto come invece avvenne poi in altre regioni italiane; gli stessi spagnoli, costituenti la classe dirigente aragonese e castigliana, solevano inquadrare il sardo come una lingua distinta sia rispetto alle proprie sia all'italiano.[244] La percezione dell'alterità del sardo era, però, pienamente avvertita anche dagli italiani che si recavano nell'isola e ne riportavano la loro esperienza con i nativi.[245][246][247] L'italiano, nonostante venisse da taluni anche in Sardegna settentrionale ritenuto "non nativo" o "forestiero"[248], aveva svolto in quell'angolo di Sardegna fino ad allora un proprio ruolo, provocando nelle parlate e nella tradizione scritta un processo di toscanizzazione iniziato nel XII secolo e consolidatosi successivamente;[249] nelle zone sardofone, corrispondenti all'area centro-settentrionale e meridionale dell'isola, era invece pressoché sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione, dotta e no. Purtuttavia, la politica del governo sabaudo in Sardegna, allora diretta da Bogino, di alienare l'isola dalla sfera culturale e politica spagnola in modo da assimilarla a quella più italiana del Piemonte,[250][251] ebbe quale riflesso l'introduzione diretta dell'italiano per legge nel 1760[252][253] sulla scorta degli Stati di terraferma e in particolare del Piemonte,[254] nei quali l'impiego dell'italiano era ufficialmente consolidato da secoli, nonché ulteriormente rinforzato dall'editto di Rivoli[255]. Difatti, nel provvedimento in questione venne, tra le altre cose, «vietato senza riserve nello scrivere e nel dire l'uso della favella castigliana; il quale, a quarant'anni d'un dominio italiano, era siffattamente abbarbicato nel cuore degli anziani maestri di lettere».[256] Nel 1764 l'imposizione esclusiva della lingua italiana fu infine estesa a tutti i settori della vita pubblica,[257][258] quali anche l'istruzione[259][260] parallelamente alla riorganizzazione delle Università di Cagliari e Sassari, le quali videro l'arrivo di personale continentale, e a quella dell'istruzione inferiore, in cui si stabiliva l'invio di insegnanti provenienti dal Piemonte per supplire all'assenza di insegnanti sardi italofoni[261]: nello specifico, già nel 1763 si previde l'invio in Sardegna di «alcuni abili professori italiani» per «stenebrare i maestri sardi dai loro errori» e indirizzare «pel buon sentiero maestri e discepoli».[256] Tale manovra ineriva soprattutto a un progetto di allacciamento della cultura sarda a quella della penisola italiana[262] e di rafforzamento geopolitico del dominio savoiardo sulla classe colta isolana, ancora molto legata alla penisola iberica; il proposito non sfuggì alla classe dirigente sarda, la quale deplorava il fatto che «i Vescovi piemontesi hanno introdotto el predicar in italiano» e, in un documento anonimo attribuito agli Stamenti ed eloquentemente chiamato Lamento del Regno, denunciò come «sonosi tolte le arme, i privilegi, le leggi, la lingua, l'Università, e la moneta d'Aragona, con disonore de la Spagna, con detrimento di tutti i particolari».[204][263] Ciò nonostante, Milà i Fontanals scriveva nel 1863 che, ancora nel 1780, si continuava a impiegare il catalano negli strumenti notarili,[204] così come in sardo, mentre in spagnolo furono redatti, fino al 1828, i registri parrocchiali e atti ufficiali;[264] nel 2017 è stato rinvenuto un libro di gosos, originario di Ozieri, redatto in castigliano in onore di Sant'Efisio del 1850.[265] L'effetto più immediato fu, così, l'emarginazione del sardo piuttosto che delle lingue iberiche, dal momento che per la prima volta anche i ceti abbienti della Sardegna rurale (i printzipales) cominciarono a percepire la sardofonia come un concreto svantaggio.[257] Girolamo Sotgiu asserisce in merito che «la classe dirigente sarda, così come si era spagnolizzata, ora si italianizzava senza mai essere riuscita a sardizzarsi, a riuscire a trarre, cioè, dall'esperienza e dalla cultura del popolo dal quale proveniva quegli elementi di concretezza senza i quali una cultura e una classe dirigente sembrano sempre stranieri anche nella loro patria. Questo d'altra parte era l'obiettivo che il governo sabaudo si era proposto e che, nella sostanza, riusciva anche a perseguire».[256] Il sistema amministrativo e penale di matrice francese introdotto dal governo sabaudo, capace di estendersi in maniera quanto mai articolata presso ogni villaggio della Sardegna, rappresentò per i sardi il principale canale di contatto diretto con la nuova lingua egemone;[266] per le classi più elevate, la soppressione dell'ordine dei Gesuiti nel 1774 e la loro sostituzione con i filoitaliani Scolopi,[267] nonché le opere di matrice illuministica, stampate nella terraferma in italiano, ricoprirono un ruolo considerevole nella loro italianizzazione primaria. Nello stesso periodo di tempo, vari cartografi piemontesi italianizzarono i toponimi dell'isola: benché qualcuno fosse rimasto inalterato, la maggior parte subì un processo di adattamento alla pronuncia italiana, se non di sostituzione con designazioni in italiano, che perdura tutt'oggi, spesso artificioso e figlio di un'erronea interpretazione del significato nell'idioma locale.[258] Francesco Gemelli, ne Il Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, così ritrae il pluralismo linguistico dell'isola nel 1776, rinviando a I quadrupedi di Sardegna un migliore esame «dell'indole della lingua sarda, e delle precipue differenze tra 'l sassarese e 'l toscano»: «cinque linguaggi parlansi in Sardegna, lo spagnuolo, l'italiano, il sardo, l'algarese, e 'l sassarese. I primi due per ragione del passato e del presente dominio, e delle passate, e presenti scuole intendonsi e parlansi da tutte le pulite persone nelle città, e ancor ne' villaggi. Il sardo è comune a tutto il Regno, e dividesi in due precipui dialetti, sardo campidanese e sardo del capo di sopra. L'algarese è un dialetto del catalano, perché colonia di catalani è Algheri; e finalmente il sassarese che si parla in Sassari, in Tempio e in Castel sardo, è un dialetto del toscano, reliquia del dominio de' Pisani. Lo spagnuolo va perdendo terreno a misura che prende piede l'italiano, il quale ha dispossessato il primo delle scuole, e de' tribunali».[268] Il primo studio sistematico sulla lingua sarda fu redatto nel 1782 dal filologo Matteo Madao, con il titolo de Il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua antologia colle due matrici lingue, la greca e la latina. Lamentando egli in premessa il generale declino della lingua («La lingua della Sarda nostra nazione, comecchè venerabile per la sua antichità, pregevole per l'ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante per le bellezze, che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma dimenticanza in fino al dì d'oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e dagli stranieri negletta come inutile»[269]), l'intenzione patriottica che animava Madau era quella di accreditare il sardo come lingua nazionale dell'isola,[270][271][272] seguendo l'esempio di autori quali il già citato Araolla in periodo iberico; purtuttavia, il clima di repressione del governo sabaudo sulla cultura sarda avrebbe indotto il Madau a velare i suoi proponimenti con intenti letterari, rivelandosi alla fine incapace di tradurli in realtà.[273] Il primo volume di dialettologia comparata fu realizzato nel 1786 dal gesuita catalano Andres Febres, noto in Italia con il falso nome di Bonifacio d'Olmi, di ritorno da Lima in cui aveva pubblicato un libro di grammatica mapuche nel 1764.[274] Trasferitosi a Cagliari, si appassionò al sardo e condusse un lavoro di ricerca su tre specifici dialetti; scopo dell'opera, intitolata Prima grammatica de' tre dialetti sardi,[275] era «dare le regole della lingua sarda» e spronare i sardi a «cultivare ed avantaggiare l'idioma loro patrio, con l'italiano insieme». Il governo di Torino, esaminata l'opera, decise di non permetterne la pubblicazione: Vittorio Amedeo III considerò un affronto il fatto che il libro contenesse una dedica bilingue rivoltagli in italiano e sardo, un errore che i suoi successori, pur richiamandosi a una "patria sarda", avrebbero poi evitato, premurandosi di fare uso del solo italiano.[273] Sul finire del Settecento, sulla scia della rivoluzione francese, si formò un gruppo di piccolo-borghesi, chiamato "Partito Patriottico", che meditava l'instaurazione di una Repubblica Sarda svincolata dal giogo feudale e sotto la protezione francese; si diffusero così nell'isola numerosi pamphlet, stampati prevalentemente in Corsica e scritti in lingua sarda, il cui contenuto, ispirato ai valori dei Lumi e apostrofato dai vescovi sardi come "giacobino-massonico", incitava il popolo alla ribellione contro il dominio piemontese e i soprusi baronali nelle campagne. Il prodotto letterario più famoso di tale periodo di tensioni, scoppiate il 28 aprile 1794, fu il poema antifeudale de Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, quale testamento morale e civile nutrito degli ideali democratici francesi e contrassegnato da un rinnovato sentimento patriottico.[276][277] Nel clima di restaurazione monarchica seguito alla rivoluzione angioiana, il cui sostanziale fallimento segnò per la Sardegna uno storico spartiacque sul suo futuro,[278] l'intellettualità sarda, caratterizzata tanto da un atteggiamento di devozione nei confronti della propria isola quanto di comprovata fedeltà verso la Casa Savoia, pose in maniera ancora più esplicita la "questione della lingua sarda", usando però generalmente l'italiano quale lingua veicolare dei testi. Nel diciannovesimo secolo, in particolare, all'interno dell'intellettualità sarda si registrò una frattura tra l'aderenza a un sentimento "nazionale" sardo e la dimostrazione di lealtà nei confronti della loro nuova "nazionalità" italiana,[279] per la quale infine la classe dirigente propendette come reazione alla minaccia rappresentata dalle forze sociali rivoluzionarie[280]. Il richiamo alla "nazione sarda" di medievale memoria, con le sue istituzioni, la sua propria storia e patrimonio culturale è, anzi, in questo periodo più frequente che in quelli successivi, scomparendo poi del tutto con l'affermazione dello stato unitario;[281] per Pasquale Tola in un suo saggio, la lingua sarda, come lingua dei sardi, ne rappresenta il segno inconfondibile del «carattere nazionale» e anch'essa è riscoperta nel primo venticinquennio dell'Ottocento,[282] con strumenti approntati alla sua conoscenza scientifica. A breve distanza dalla rivolta antifeudale, nel 1811, si rileva la pubblicazione del sacerdote Vissentu Porru, la quale era però riferita alla sola variante meridionale (da cui il titolo di Saggio di grammatica del dialetto sardo meridionale) e, per prudenza nei confronti dei regnanti, espressa soltanto in funzione dell'apprendimento dell'italiano, anziché di tutela del sardo;[283] nel 1832-34 Porru pubblicò il Nou dizionariu universali sardu-italianu[284]. Degno di nota è il lavoro del canonico, professore e senatore Giovanni Spano, la Ortographia sarda nationale ("Ortografia nazionale sarda") del 1840;[285] benché ufficialmente seguisse l'esempio del Porru[Nota 8], cui pure rinviava, per Massimo Pittau egli elevò un dialetto del sardo su base logudorese a koinè illustre in virtù dei suoi stretti rapporti con il latino, in maniera analoga al modo in cui il dialetto fiorentino si era culturalmente imposto a suo tempo in Italia quale "lingua illustre".[286][287] Ciononostante, Giovanni Spano teneva in considerazione nelle sue opere anche le altre varietà della lingua.[288] A detta del giurista Carlo Baudi di Vesme, la proscrizione e lo sradicamento della lingua sarda da ogni profilo privato e sociale dell'isola sarebbe stato auspicabile nonché necessario, quale opera di "incivilimento" dell'isola, perché fosse così integrata nell'orbita ormai spiccatamente italiana del Regno;[289][290] dato che la Sardegna «non è Spagnuola, ma non è Italiana: è e fu da secoli pretta Sarda»,[291] occorreva, a cavallo delle circostanze che «l'accesero dell'ambizione, del desiderio, dell'amore delle cose italiane»,[291] promuovere maggiormente tali tendenze per «trarne profitto nel comune interesse»,[291] in ragione del quale si dimostrava «quasi necessario[292]» diffondere in Sardegna la lingua italiana "presentemente nell'interno sì poco conosciuta"[291] in prospettiva della Fusione Perfetta: «la Sardegna sarà Piemonte, sarà Italia; ne riceverà e ci darà lustro, ricchezza e potenza!».[293][294] L'istruzione primaria, offerta solo in italiano, contribuì dunque a una pur lenta diffusione di tale lingua tra i nativi, innescando per la prima volta un processo di erosione ed estinzione linguistica; il sardo venne infatti presentato dal sistema educativo come la lingua dei socialmente emarginati, nonché come sa limba de su famine o sa lingua de su famini ("la lingua della fame"), corresponsabile endogeno dell'isolamento e miseria secolare dell'isola, e per converso l'italiano quale agente di emancipazione sociale attraverso l'integrazione socioculturale con la terraferma continentale. Nel 1827 venne infine abrogata per sempre la Carta de Logu, lo storico corpus giuridico tradizionalmente noto come «consuetud de la nació sardesca», in favore delle più moderne "Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna", pubblicate in italiano per espresso ordine del re Carlo Felice di Savoia.[295][296] Cimitero storico di Ploaghe, nel quale si sono conservati 39 epitaffi scolpiti in sardo e 3 in italiano.[297] Si noti, a sinistra, la presenza di una lapide in lingua sarda con riferimento a prenomi storici del tutto assenti in quelle, più a destra, scritte invece in lingua italiana. La fusione perfetta del 1847 con la terraferma sabauda, auspicata da Baudi di Vesme come l'inizio della «gloriosa rigenerazione della Sardegna»[298] e nata sotto gli auspici, espressi da Pietro Martini, di un «trapiantamento in Sardegna, senza riserve e ostacoli, della civiltà e cultura continentale»,[299] avrebbe determinato la perdita della residuale autonomia politica sarda[58][295][300] nonché il definitivo declassamento del sardo rispetto all'italiano, marcando così il momento storico in cui, convenzionalmente, nelle parole di Antonietta Dettori «la 'lingua della sarda nazione' perse il valore di strumento di identificazione etnica di un popolo e della sua cultura, da codificare e valorizzare, per diventare uno dei tanti dialetti regionali subordinati alla lingua nazionale».[301] Nonostante queste politiche di acculturazione, l'inno del Regno di Sardegna sabaudo e del Regno d'Italia (composto da Vittorio Angius e musicato da Giovanni Gonella nel 1843) sarebbe stato S'hymnu sardu nationale ("l'inno nazionale sardo") finché nel 1861, anno della proclamazione del Regno d'Italia, non venne anch'esso del tutto sostituito dalla Marcia reale.[302] Tra il 1848 e il 1861, l'isola sarebbe piombata in una crisi sociale ed economica destinata a durare fino al primo dopoguerra.[58] Il canonico Salvatore Carboni pubblicò a Bologna, nel 1881, un'opera polemica intitolata Sos discursos sacros in limba sarda, nel quale egli lamentava che la Sardegna «hoe provinzia italiana non podet tenner sas lezzes e sos attos pubblicos in sa propia limba» ("oggi, da provincia italiana qual è, non può disporre di leggi e atti pubblici nella propria lingua") e, sostenendo che «sa limba sarda, totu chi non uffiziale, durat in su Populu Sardu cantu durat sa Sardigna» ("la lingua sarda, benché non ufficiale, durerà nel popolo sardo quanto la Sardegna"), si domandava alfine «Proite mai nos hamus a dispreziare cun d'unu totale abbandonu sa limba sarda, antiga et nobile cantu s'italiana, sa franzesa et s'ispagnola?» ("Perché mai dovremmo disprezzare con un totale abbandono la lingua sarda, antica e nobile quanto l'italiana, la francese e la spagnola?").[303] L'età contemporanea[modifica | modifica wikitesto] (sardo) «A sos tempos de sa pitzinnìa, in bidda, totus chistionaiamus in limba sarda. In domos nostras no si faeddaiat atera limba. E deo, in sa limba nadìa, comintzei a connoscher totu sas cosas de su mundu. A sos ses annos, intrei in prima elementare e su mastru de iscola proibeit, a mie e a sos fedales mios, de faeddare in s'unica limba chi connoschiamus: depiamus chistionare in limba italiana, «la lingua della Patria», nos nareit, seriu seriu, su mastru de iscola. Gai, totus sos pitzinnos de 'idda, intraian in iscola abbistos e allirgos e nde bessian tontos e cari-tristos.» (italiano) «Quando ero bambino in paese parlavamo tutti in lingua sarda. Nelle nostre case non si parlava nessun'altra lingua. E io cominciai a conoscere tutte le cose del mondo nella lingua nativa. A sei anni andai in prima elementare e il maestro di scuola proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell'unica lingua che conoscevamo: dovevamo parlare in lingua italiana, "la lingua della Patria", ci diceva serio. Fu così che tutti i bambini del paese entravano a scuola svegli e allegri e ne uscivano intontiti e tristi.» (Francesco Masala, Sa limba est s'istoria de su mundu, Condaghes, p.4) All'alba del Novecento, il sardo era rimasto oggetto di ricerca pressoché solo tra gli eruditi isolani, faticando a entrare nel circuito d'interesse internazionale e ancor di più risentendo di una qual certa marginalizzazione in ambito strettamente nazionale: si osserva infatti «la prevalenza degli studiosi stranieri su quelli italiani e/o l'esistenza di fondamentali e tuttora insostituiti contributi ad opera di linguisti non italiani».[304] In precedenza, il sardo aveva trovato menzione in un libro di August Fuchs sui verbi irregolari nelle lingue romanze (Über die sogennannten unregelmässigen Zeitwörter in den romanischen Sprachen, Berlin, 1840) e, in seguito, nella seconda edizione della Grammatik der romanischen Sprachen (1856-1860) redatta da Friedrich Christian Diez, accreditato come uno dei fondatori della filologia romanza;[304] alle pioneristiche ricerche degli autori tedeschi seguì, nei confronti della lingua sarda, un qual certo interesse anche da parte di alcuni italiani, quali Graziadio Isaia Ascoli e, soprattutto, il suo discepolo Pier Enea Guarnerio, che per primo in Italia classificò il sardo come un membro a sé della famiglia linguistica romanza senza più, come si soleva in ambito nazionale, subordinarlo al gruppo dei dialetti italiani.[305] Wilhelm Meyer-Lübke, autorità indiscussa in linguistica romanza, pubblicò nel 1902 un saggio sul sardo logudorese dall'indagine del condaghe di San Pietro di Silki (Zur Kenntnis des Altlogudoresischen, in "Sitzungsberichte der kaiserliche Akademie der Wissenschaft Wien", Phil. Hist. Kl., 145) dal cui studio avvenne la iniziazione alla linguistica sarda dell'allora studente universitario Max Leopold Wagner: all'attività di quest'ultimo si deve gran parte delle conoscenze novecentesche sul sardo in campo fonetico, morfologico e in parte anche sintattico.[305] Durante la mobilitazione per la prima guerra mondiale, l'esercito italiano arruolò la popolazione «di stirpe sarda[306]» istituendo la Brigata di fanteria Sassari il 1º marzo 1915 a Tempio Pausania e a Sinnai. A differenza delle altre brigate di fanteria italiane, i coscritti della Sassari erano solo sardi (compresi molti ufficiali). Attualmente è l'unica unità in Italia avente un inno in una lingua diversa dall'italiano, che sarebbe stato scritto quasi alla fine del secolo, nel 1994, da Luciano Sechi: Dimonios ("diavoli"), derivando il suo titolo dal soprannome Rote Teufel (in tedesco "diavoli rossi"). Il servizio militare obbligatorio intorno a questo periodo ricoprì una qual certa rilevanza nel processo di deriva linguistica all'italiano ed è indicato dallo storico Manlio Brigaglia come «la prima grande "nazionalizzazione" di massa» dei sardi, «più che per altri popoli regionali».[307] Tuttavia, analogamente ai membri del servizio di leva che parlavano Navajo negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, così come ai parlanti Quechua durante la guerra delle Falkland,[308] ai nativi sardi madrelingua fu offerta la possibilità di essere reclutati come code talker per trasmettere, attraverso le comunicazioni radio, informazioni tattiche in sardo che altrimenti sarebbero state intercettate dall'esercito austro-ungarico, dal momento che alcune delle sue truppe provenivano da regioni di lingua italiana alle quali, perciò, quella sarda era del tutto estranea:[309] Alfredo Graziani scrive nel suo diario di guerra che «avendo saputo che molti nostri fonogrammi venivano intercettati, si era adottato il sistema di comunicare al telefono soltanto in sardo, certi che a quel modo non avrebbero potuto mai capire quanto si diceva».[310] Per evitare tentativi di infiltrazione da parte di dette truppe italofone, nelle postazioni presidiate da reclute sarde della Brigata Sassari si imponeva a chiunque si presentasse da loro di identificarsi dimostrando di parlare sardo: «si ses italianu, faedda in sardu!».[309][311][312] In coincidenza con l'anno dell'indipendenza irlandese, l'autonomismo sardo riemerse come espressione del movimento dei combattenti, coagulandosi nel Partito Sardo d'Azione (PsdAz) che, entro breve tempo, sarebbe assurto ad attore fra i più rilevanti nella vita politica isolana; ai primordi, il partito non avrebbe tuttavia avuto caratteri di rivendicazione strettamente etnica, essendo la lingua e cultura sarda ampiamente percepiti, nelle parole di Toso, come «simboli del sottosviluppo della regione».[58] La politica di assimilazione forzosa culminò nel ventennio del regime fascista[2], che avviò una campagna di compressione violenta delle istanze autonomistiche e determinò, infine, il decisivo ingresso dell'isola nel sistema culturale nazionale attraverso l'operato congiunto del sistema educativo e di quello monopartitico,[313] in un crescendo di multe e divieti che condussero a un ulteriore decadimento sociolinguistico del sardo;[314] fra le varie espressioni culturali sottoposte a censura, il regime era anche riuscito a bandire, dal 1932 al 1937 (1945 in alcuni casi[315]), il sardo dalla chiesa e dalle manifestazioni del folklore isolano,[316] quali le gare poetiche tenute nella suddetta lingua.[317][318][319] Paradigmatico fu l'alterco tra il poeta sardo Antioco Casula (noto come Montanaru) e l'allora giornalista fascista dell'Unione Sarda Gino Anchisi, durante il quale quest'ultimo, riuscendo a fare bandire la presenza del sardo dai giornali isolani, affermò che «morta o moribonda la regione», come d'altronde proclamava il regime,[Nota 9] «morto o moribondo il dialetto (sic)»[320] che della regione era d'altronde «l'elemento spirituale rivelatore»;[321] le argomentazioni del Casula si prestavano, in effetti, a possibili temi eversivi, dal momento che questi pose, per la prima volta nel XX secolo, la questione della lingua come una pratica di resistenza culturale endogena,[322] il cui repertorio linguistico nelle scuole sarebbe stato necessario per mantenere una "personalità sarda" e allo stesso tempo riconquistare una "dignità" percepita come perduta.[323] Un altro poeta, Salvatore Poddighe, si sarebbe suicidato per depressione in seguito al sequestro del suo magnum opus, Sa Mundana Cummedia.[324] Nel complesso, a fronte di una parziale resistenza nelle zone interne, entro la fine del ventennio il regime era riuscito con successo a sradicare nell'isola i modelli culturali locali con altri impiantati per via esogena, provocando, nelle parole di Guido Melis, «la compressione della cultura regionale, la frattura sempre più netta tra il passato dei sardi e il loro futuro "italiano", la riduzione di modi di vita e di pensiero molto radicati a puro fatto di folclore», nonché uno strappo «non più rimarginabile tra le generazioni».[325] Nel 1945, in seguito all'avvenuto ripristino delle libertà politiche, il Partito Sardo d'Azione avrebbe richiesto per l'isola l'autonomia come stato federale in seno alla nuova Italia sorta dalla Resistenza[58]: fu nel contesto del secondo dopoguerra che, al crescere della sensibilità autonomista, il partito principiò a contrassegnarsi per desiderata impostati sulla specificità linguistica e culturale della Sardegna.[58] Manlio Brigaglia parla del ventennio come di una seconda fase di "nazionalizzazione di massa" dei sardi e della Sardegna, in quanto caratterizzata da «una politica deliberatamente puntata alla sua "italianizzazione"» e da una «guerra dichiarata» dal regime e dalla Chiesa all'uso della lingua sarda.[326] Nel complesso, la consapevolezza del tema concernente l'erosione linguistica entrò più tardi, nell'agenda politica sarda, rispetto a quanto avvenuto in altre periferie europee contrassegnate da minoranze etnolinguistiche:[327] al contrario, tale periodo fu contrassegnato dal rifiuto del sardo da parte dei ceti medi,[314] essendo la lingua e cultura sarda ancora largamente inquadrate come "simboli del sottosviluppo regionale".[300] Buona parte della classe dirigente e intellettuale sarda, particolarmente sensibile ai richiami egemonici di quelle continentali, reputava infatti che la "modernizzazione" dell'isola fosse attuabile solo in alternativa ai suoi contesti socioculturali di tipo "tradizionale", quando non attraverso il loro «seppellimento totale».[328][329] Si è osservato, a livello istituzionale, un forte osteggiamento del sardo e nel circuito intellettuale italiano, concezione poi interiorizzata nell'immaginario comune nazionale, esso era (il più delle volte per ragioni ideologiche o come residuo, adottato per inerzia, di vecchie[Nota 10] consuetudini date dalle prime) spesso ritenuto come una variante degenerata dell'italiano,[330] contrariamente all'opinione degli studiosi e persino di alcuni nazionalisti italiani come Carlo Salvioni,[331][Nota 11] subendo tutte le discriminazioni e i pregiudizi legati a una tale associazione, soprattutto l'essere ritenuto una forma bassa di espressione[332][333][334] ed essere ricondotta a un certo "tradizionalismo".[335][336] I sardi furono così indotti, come del resto avvenuto presso altre comunità di minoranza, a sbarazzarsi di quanto percepivano recasse il timbro di un'identità stigmatizzata.[337] Al momento della stesura dello statuto autonomistico, il legislatore decise di eludere a fondamento della "specialità" sarda riferimenti alla sua identità geografica e culturale[338][339][340][341] che, pur facendo da colonna portante delle originarie argomentazioni giustificative a fondamento dell'autonomia, erano considerati pericolosi prodromi a rivendicazioni più estreme quando non di ordine indipendentista; Antonello Mattone sostiene al riguardo che in tale progetto erano rimasti «inspiegabilmente in ombra i problemi legati agli aspetti etnici e culturali della questione autonomistica, per i quali i consultori non mostrano alcuna sensibilità, a differenza di tutti quei teorici (da Angioy a Tuveri, da Asproni a Bellieni) che invece proprio in questo patrimonio avevano individuato il titolo primario per un reggimento autonomo».[342] Il disegno dello Statuto, emerso in un quadro nazionale ormai mutato dalla rottura dell'unità antifascista, nonché in un contesto contrassegnato dalle croniche debolezze della classe dirigente sarda e dalla radicalizzazione tra le istanze federalistiche locali e quelle, per converso, più apertamente ostili all'idea di autonomia per l'isola,[343] emerse infine come il risultato di un compromesso, limitandosi piuttosto al riconoscimento di alcune istanze socioeconomiche nei confronti della terraferma,[344][345] quali la sollecitazione allo sviluppo industriale della Sardegna con uno specifico "piano di rinascita" approntato dal centro.[Nota 12][346][347] Lo statuto, infine redatto dalla Commissione dei 75 a Roma, trovava così per il legislatore una ragione giustificativa non tanto in circostanze geografiche e culturali, quanto nella cosiddetta "arretratezza" economica della regione, alla cui luce si auspicava il suddetto piano di industrializzazione per l'isola in tempi brevi: diversamente da altri statuti speciali, quello sardo non vi richiama la effettiva comunità destinataria nei suoi ambiti sociali e culturali, i quali erano piuttosto inquadrati, dall'anzidetta Commissione dei 75, all'interno di una sola collettività, ovvero quella nazionale italiana.[348][Nota 13] Lungi dall'affermazione di un'autonomia sarda fondata sul riconoscimento di una specifica identità culturale, come avvenuto in Valle d'Aosta o Alto Adige, il risultato di tale stagione fu quindi «un autonomismo nettamente economicistico, perché non si volle o non si poté disegnare un’autonomia forte, culturalmente motivata, una specificità sarda che non si esaurisse nell’arretratezza e nella povertà economica»[349] Emilio Lussu, che a Pietro Mastino confidò di aver votato a favore della bozza finale solamente «per evitare che per un solo voto lo Statuto non venisse approvato neppure così ridotto», fu l'unico esponente, nella seduta del 30 dicembre 1946, a rivendicare invano l'obbligo dell'insegnamento della lingua sarda, sostenendo che essa fosse «un patrimonio millenario che occorre conservare».[350] Nel mentre, ulteriori politiche di stampo assimilatore sarebbero state applicate anche nel secondo dopoguerra,[2] con un'italianizzazione progressiva di siti storici e oggetti appartenenti alla vita quotidiana e un'istruzione obbligatoria che ha insegnato l'uso della lingua italiana, non prevedendo un parallelo insegnamento di quella sarda e, anzi, attivamente scoraggiandolo attraverso divieti e sorveglianza diffusa di chi lo promuovesse:[351] i maestri disprezzavano infatti la lingua, ritenendola un rude dialetto e contribuendo a un ulteriore abbassamento del suo prestigio presso la comunità sardofona stessa. Secondo alcuni studiosi, i metodi adottati per promuovere l'uso dell'italiano, improntati a un'italofonia esclusiva e sottrattiva,[352] avrebbero inciso negativamente sulle performance scolastiche degli studenti sardi.[353][354][355] Fenomeni riscontrabili in maggiore concentrazione in Sardegna, quali i tassi di abbandono scolastico e delle ripetenze, analoghi a quelli di altre minoranze linguistiche,[353] avrebbero solo negli anni Novanta messo in discussione la effettiva efficacia di un'istruzione strettamente monolingue, con nuove proposte volte a un approccio comparativo.[356] Le norme statutarie così delineate si rivelarono, nel complesso, uno strumento inadeguato per rispondere ai problemi dell'isola;[300][357] a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, inoltre, prese avvio il vero processo di sostituzione radicale e definitiva della lingua sarda con quella italiana,[358] a causa della diffusione, sia sul territorio isolano sia nel resto del territorio italiano, dei mezzi di comunicazione di massa che trasmettevano nella sola lingua italiana.[359] Soprattutto la televisione ha diffuso l'uso dell'italiano e ne ha facilitato la comprensione e l'utilizzo anche tra le persone che, fino a quel momento, si esprimevano esclusivamente in sardo. A partire dalla fine degli anni Sessanta,[300][357][360] in coincidenza con la rinascita di un sardismo declinato sotto il segno di un "revivalismo linguistico e culturale",[361] cominciarono a essere avviate numerose campagne a favore di un bilinguismo effettivamente paritario quale elemento di salvaguardia dell'identità isolana: per quanto già nel 1955 fossero state stabilite cinque cattedre di linguistica sarda[362], una prima richiesta effettiva venne sporta per mezzo di una delibera adottata all'unanimità dall'Università di Cagliari nel 1971, in cui si richiedeva all'autorità politica regionale e nazionale il riconoscimento dei sardi come minoranza etnica e linguistica e del sardo come idioma coufficiale dell'isola.[363][364][Nota 14] Una prima bozza di legge sul bilinguismo fu redatta dal Partito Sardo d'Azione nel 1975[365]. Famoso il richiamo patriottico espresso qualche mese prima di morire, nel 1977, da parte del poeta Raimondo Piras, che in No sias isciau[Nota 15] invitava al recupero della lingua per opporsi alla dissardizzazione culturale delle generazioni successive[315]. Nel 1978 una legge di iniziativa popolare per il bilinguismo raccolse migliaia di firme, ma non fu mai implementata in quanto incontrò la ferma opposizione della sinistra e in particolare del Partito Comunista Italiano,[366] che a sua volta procedette a proporre un proprio progetto di legge "per la tutela della lingua e della cultura del popolo sardo" due anni più tardi[367]. Un rapporto della commissione parlamentare d'inchiesta sul banditismo avrebbe messo in guardia da «tendenze isolazioniste particolarmente dannose per lo sviluppo della società sarda, che di recente si sono manifestate con la proposta di considerare il sardo come una lingua di una minoranza etnica».[368] Negli anni Ottanta, all'attenzione del Consiglio regionale furono presentati così tre progetti di legge aventi contenuto simile alla delibera adottata dall'Università di Cagliari.[358] Nel corso degli anni Settanta, si registrò nelle aree rurali un significativo processo di deriva linguistica verso l'italiano non solo nel Campidano, ma anche in aree geografiche un tempo reputate linguisticamente conservatrici, quali Macomer nella provincia di Nuoro (1979), ove si era costituita una classe operaia e una imprenditoriale di origine prevalentemente esogena;[369] alla ridefinizione della struttura economico-sociale ancora in atto corrispose, infatti, un'accentuata mutazione del repertorio linguistico, che determinò a sua volta uno slittamento dei valori su cui si basavano l'identità etnica e culturale delle comunità sarde.[370][Nota 16] Tale questione è stata oggetto di analisi sociologiche sui mutamenti occorsi nell'identità della comunità sarda, i cui atteggiamenti sfavorevoli nei confronti della sardofonia sarebbero significativamente influenzati da uno stigma di presunta "primitività" e "arretratezza" a lungo impressole dalle istituzioni, di ordine politico e sociale, favorevoli all'italianità linguistica.[371] Il sardo avrebbe subito un arretramento senza sosta rispetto all'italiano, per via di un "complesso della minoranza" che spinse la comunità sarda a un atteggiamento fortemente svalutavivo nei confronti della propria lingua e cultura.[372][373] Negli anni successivi, tuttavia, si sarebbe registrato un parziale cambio di atteggiamento: non solo la lingua sarebbe stata inquadrata come un positivo marcatore etnico/identitario,[374] sarebbe anche stata il canale attraverso il quale avrebbe trovato espressione l'insoddisfazione sociale a fronte delle misure approntate a livello centrale, reputate incapaci di provvedere alla soddisfazione dei bisogni sociali ed economici dell'isola.[375] Allo stesso tempo, però, si osservò come tale sentimento positivo nei confronti della lingua contrastasse con il suo uso effettivo, che procedette a calare sensibilmente.[376] Nel gennaio del 1981 il giornale bilingue "Nazione Sarda" pubblicò un'inchiesta la quale riportava che, nel 1976, il Ministero dell'Istruzione aveva pubblicato una nota per richiedere informazioni sugli insegnanti che utilizzavano la lingua sarda nelle scuole, e che il Provveditorato di Sassari aveva pubblicato una circolare con oggetto "Scuole della Sardegna - Introduzione della lingua sarda" nella quale chiedeva ai presidi e ai direttori scolastici di astenersi da iniziative di quel tipo e di informare il provveditorato a riguardo di qualunque attività legata all'introduzione del sardo nei loro istituti.[377][378][379] Nel 1981 il Consiglio Regionale dibatté e votò per l'introduzione del bilinguismo per la prima volta.[380][381] In risposta alle pressioni esercitate da una risoluzione del Consiglio d'Europa sulla tutela delle minoranze nazionali, nel 1982 fu creata dal governo italiano un'apposita commissione per meglio indagare la questione;[382] l'anno successivo fu presentato un disegno di legge al Parlamento, ma senza successo. Una delle prime leggi definitivamente approvate dal legislatore regionale, la "Legge Quadro per la Tutela e Valorizzazione della Lingua e della Cultura della Sardegna" del 3 agosto 1993, fu subito bocciata dalla Corte costituzionale a seguito di un ricorso del governo centrale, che la riteneva "esorbitante per molteplici aspetti dalla competenza integrativa e attuativa posseduta dalla Regione in materia di istruzione".[383][384] Come è noto, si sarebbero dovuti aspettare altri quattro anni perché la normativa regionale non fosse sottoposta a giudizio di costituzionalità, e altri due perché il sardo potesse trovare riconoscimento in Italia contemporaneamente ad altre undici minoranze etnolinguistiche. Infatti, la legge nazionale n.482/1999 sulle minoranze linguistiche storiche fu approvata solo in seguito alla ratifica, da parte italiana, della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d'Europa nel 1998.[382] Una ricerca promossa da MAKNO nel 1984 rivelò che tre quarti dei sardi erano a favore tanto dell'educazione bilingue nelle scuole (il 22% del campione auspicava un'introduzione obbligatoria e il 54,7% una facoltativa) quanto di uno status di bilinguismo ufficiale come la Valle d'Aosta e l'Alto Adige (62,7% del campione a favore, 25,9% contrario e 11,4% incerto).[385] Tali dati sono stati parzialmente corroborati da un'altra indagine demoscopica svolta nel 2008, in cui il 57,3% mostrava un atteggiamento favorevole verso la presenza del sardo in orario scolastico assieme all'italiano.[386] Un'altra ricerca, condotta nel 2010, segnala un parere decisamente favorevole da parte della stragrande maggioranza dei genitori verso l'insegnamento della lingua a scuola, ma non il suo impiego come idioma veicolare.[387] Chiesa del Pater Noster, Gerusalemme. Iscrizione del Padre Nostro (Babbu Nostru) in sardo Alcune personalità ritengono che il processo di assimilazione possa portare alla morte del popolo sardo[388][389][390] diversamente da quanto avvenuto, per esempio, in Irlanda (isola in gran parte linguisticamente anglicizzata). Benché risultino in ordine alla lingua e cultura sarda profondi fermenti di matrice identitaria,[358][391] ciò che si riscontra attraverso analisi pare sia una lenta ma costante regressione nella competenza sia attiva sia passiva di tale lingua, per motivi di natura principalmente politica e socioeconomica (l'uso dell'italiano presentato come una chiave di avanzamento e promozione sociale,[392] stigma associato all'impiego del sardo, il progressivo spopolamento delle zone interne verso quelle costiere, l'afflusso di genti dalla penisola e i potenziali problemi di mutua comprensibilità fra le varie lingue parlate,[Nota 17] ecc.): il numero di bambini che userebbe attivamente il sardo crolla a un dato inferiore al 13%, peraltro concentrato nelle zone interne[393] quali il Goceano, l'alta Barbagia e le Baronie.[34][394][395] Prendendo in esame la situazione di taluni centri logudoresi a economia tradizionale (come Laerru, Chiaramonti e Ploaghe) in cui il tasso di sardofonia dei bambini è comunque pari allo 0%, Mauro Maxia parla in merito di un autentico caso di "suicidio linguistico" in capo a ormai poche decine di anni.[396] Purtuttavia, secondo le suddette analisi sociolinguistiche, tale processo non risulta affatto omogeneo,[397][398] presentandosi in maniera ben più evidente nelle città che non nei paesi. Al giorno d'oggi, il sardo è una lingua la cui vitalità è riconoscibile in un'instabile[358] condizione di diglossia e commutazione di codice, e che non entra, o non vi ha ampia diffusione, nell'amministrazione, nel commercio, nella Chiesa (in cui si registra una qual certa attività per introdurvi la lingua[399][400]), nella scuola,[396] nelle università locali di Sassari[401][402] e di Cagliari e nei mass media.[403][404][405][406] Seguendo la scala di vitalità linguistica proposta da un apposito pannello dell'UNESCO nel 2003,[407] il sardo fluttuerebbe tra una condizione di "sicuramente in pericolo di estinzione" (definitely endangered: i bambini non apprendono più la lingua), attribuitogli anche nel Libro Rosso, e una di "serio pericolo di estinzione" (severely endangered: la lingua è perlopiù usata dalla generazione dei nonni in su); secondo il criterio EGIDS (Expanded Graded Intergenerational Disruption Scale) proposto da Lewis e Simons, il sardo sarebbe in bilico tra il livello 7 (Instabile: la lingua non è più trasmessa alla generazione successiva[408]) e il livello 8 (Moribonda: gli unici parlanti attivi della lingua appartengono alla generazione dei nonni[408]), corrispondenti rispettivamente ai due gradi della scala UNESCO sopramenzionati. Il grado di progressiva assimilazione e penetrazione dell'italiano tra i sardofoni è confermato dalle ricerche dell'ISTAT,[409] secondo le quali il 52,1% della popolazione sarda impiega ormai esclusivamente l'italiano in ambito familiare, mentre il 31,5% pratica alternanza linguistica e solo il 15,6% riporta di usare il sardo o altre lingue non italiane; al di fuori dell'ambiente privato e amicale, le percentuali sanciscono in maniera ancora più schiacciante l'esclusiva predominanza raggiunta dall'italiano nell'isola (87,2%) alle spese del sardo e altre lingue, tutte ferme al 2,8%. Gli anni '90 hanno conosciuto un rinnovamento delle forme espressive nel panorama musicale sardo: molti artisti, spaziando dai generi più tradizionali quali il canto (cantu a tenore, cantu a chiterra, gosos, ecc.) e il teatro (Mario Deiana) a quelli più moderni quale il rock (Kenze Neke, Askra e KNA, Tzoku, Tazenda, ecc.) e addirittura rap e hip hop (Dr. Drer & CRC posse, Quilo, Sa Razza, etc.) utilizzano infatti la lingua per promuovere l'isola e riconoscere i suoi vecchi problemi e le nuove sfide.[410][411][412][413] Vi sono anche dei film (come Su Re, parzialmente Bellas mariposas, Treulababbu, Sonetàula, etc.) realizzati in sardo con i sottotitoli in italiano,[414] e altri ancora con i sottotitoli in sardo.[415] A partire dalle sessioni d'esame tenute nel 2013, hanno suscitato sorpresa, data la mancata istituzionalizzazione de facto della lingua, dei tentativi da parte di alcuni allievi di presentare l'esame o parte di esso in lingua sarda.[416][417][418][419][420][421][422][423][424][425][426][427] Sono inoltre sempre più frequenti anche le dichiarazioni di matrimonio in tale lingua su richiesta dei coniugi[428][429][430][431][432] Ha suscitato particolare scalpore l'iniziativa virtuale di alcuni sardi su Google Maps, in risposta a un'ordinanza del Ministero delle Infrastrutture che ordinava a tutti i sindaci della regione di eliminare i cartelli in sardo piazzati all'ingresso dei centri abitati: tutti i comuni avevano infatti ripreso il loro nome originario per circa un mese, finché lo staff di Google non decise di riportare la toponomastica nel solo italiano.[433][434][435] Di rilevanza è l'impiego, da parte di alcune società sportive quali la Dinamo Basket Sassari[436] e il Cagliari Calcio, della lingua nelle sue campagne promozionali.[437][438] In seguito a una campagna di adesioni,[439] è stata resa possibile l'inclusione del sardo fra le lingue selezionabili su Facebook. L'opzione di scelta è ora a tutti gli effetti attiva ed è possibile avere la pagina in lingua sarda.[440][441][442]; è anche possibile selezionare la lingua sarda su Telegram[443][444] Il sardo è presente quale lingua configurabile anche in altre applicazioni, quali F-Droid, Diaspora, OsmAnd, Notepad++, QGIS, Stellarium,[445] Skype,[446] ecc. Nel 2016 è stato inaugurato il primo traduttore automatico dall'italiano al sardo,[447] VLC media player per Android, Linux Mint Debina Edition 2 "Betsy", Firefox,[448][449] ecc. Anche il motore di ricerca DuckDuckGo è stato interamente tradotto in lingua sarda. La comunità sardofona costituirebbe ancora, con circa 1,7 milioni di parlanti autodichiaratisi nativi (di cui 1.291.000 presenti in Sardegna), la più consistente minoranza linguistica riconosciuta in Italia[23] benché sia paradossalmente, allo stesso tempo, quella cui è garantita meno tutela. Al di fuori dell'Italia, in cui al momento non è prevista pressoché alcuna possibilità di insegnamento strutturato della suddetta lingua minoritaria (l'Università di Cagliari si distingue per avere aperto per la prima volta un corso specifico nel 2017;[450] quella di Sassari, di rimando, nel 2021 ha annunciato l'apertura di un curriculum parzialmente dedicato alla lingua sarda in filologia moderna[451]), si tengono talvolta corsi specifici in paesi quali Germania (università di Stoccarda, Monaco, Tubinga, Mannheim,[452] ecc.), Spagna (università di Gerona),[453] Islanda[454] e Repubblica Ceca (università di Brno)[455][456]; per un qual certo periodo di tempo, il prof. Sugeta ne teneva alcuni anche in Giappone all'università di Waseda (Tokyo).[457][458][459] La estrema fragilità sociolinguistica del sardo è stata valutata dal gruppo di ricerca Euromosaic, commissionato dalla Commissione europea con l'intenzione di tracciare un quadro delle minoranze etnolinguistiche nei territori europei; questi, posizionando il sardo al quarantunesimo posto su un totale di quarantotto lingue di minoranza europee, rilevando un punteggio pari al greco del sud Italia,[460] conclude così il suo rapporto: (inglese) «This would appear to be yet another minority language group under threat. The agencies of production and reproduction are not serving the role they did a generation ago. The education system plays no role whatsoever in supporting the language and its production and reproduction. The language has no prestige and is used in work only as a natural as opposed to a systematic process. It seems to be a language relegated to a highly localised function of interaction between friends and relatives. Its institutional base is extremely weak and declining. Yet there is concern among its speakers who have an emotive link to the language and its relationship to Sardinian identity.» (italiano) «Sembra si tratti di ancora un'altra lingua di minoranza in pericolo. Le agenzie deputate alla produzione e riproduzione della lingua non adempiono più al ruolo che svolgevano la scorsa generazione. Il sistema educativo non sostiene in alcun modo la lingua e la sua produzione e riproduzione. La lingua non gode di alcun prestigio e in contesti lavorativi il suo impiego non promana da alcun processo sistematico, ma è meramente spontaneo. Pare sia una lingua relegata a interazioni tra amici e parenti altamente localizzate. La sua base istituzionale è estremamente debole e in continuo declino. Ciononostante, si riscontra una qual certa preoccupazione presso i suoi locutori, i quali hanno un legame emotivo con la lingua e la sua relazione con l'identità sarda.» ( Relazione Euromosaic "Sardinian language use survey". URL consultato l'11 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 18 maggio 2018)., Euromosaic, 1995) Frequenza d'uso delle lingue regionali in Italia (ISTAT, 2015) Come spiega Matteo Valdes, «la popolazione dell’isola constata, giorno dopo giorno, il declino delle proprie parlate originarie, si fa complice di questo declino trasmettendo ai figli la lingua del prestigio e del potere ma, contemporaneamente, sente che la perdita delle lingue locali è anche perdita di se stessi, della propria storia, della propria specifica identità o diversità».[461] Roberto Bolognesi ritiene che la perdurante stigmatizzazione del sardo come la lingua dei ceti "socialmente e culturalmente svantaggiati" comporti l'alimentazione di un circolo vizioso che ulteriormente promuove il regresso della lingua, irrobustendone il giudizio negativo presso quelli che più si percepiscono come competitivi: difatti, «è chiaro come questa identificazione sia da sempre una self-fulfilling prophecy, una profezia che si conferma da sé: un meccanismo perverso che ha condannato e ancora condanna alla marginalità sociale i sardoparlanti, escludendoli sistematicamente da quelle interazioni linguistiche e culturali in cui si sviluppano i registri prestigiosi e lo stile alto della lingua, innanzitutto nella scuola».[462] Essendo il processo di assimilazione ormai giunto a compimento,[463] il bilinguismo in gran parte sulla carta[464] e mancando ancora misure concrete per un uso ufficiale anche solo all'interno della Sardegna, la lingua sarda continua dunque la sua agonia, seppur con minore velocità rispetto a qualche tempo fa, soprattutto grazie all'impegno di coloro che nei vari contesti ne promuovono la rivalutazione in un processo che, da alcuni studiosi, è stato definito come "risardizzazione linguistica".[465] Nel mentre, l'italiano continua a erodere,[461] nel tempo, sempre più spazi associati al sardo, ormai in stato di generale deperimento con la già menzionata eccezione di alcune "sacche linguistiche". In merito alla predominanza ormai completamente raggiunta dall'italiano, Telmon registra «l'atteggiamento fortemente utilitaristico che i sardi hanno assunto nei suoi confronti. Pur essendo sentito infatti come fondamentalmente estraneo alle tradizioni più autenticamente popolari, il suo possesso viene considerato necessario e, in ogni caso, simbolo potente di avanzamento sociale, anche nel caso di diglossia senza bilinguismo».[466] Laddove la pratica linguistica del sardo è ora per tutta l'isola in netto declino, è invece comune nelle nuove generazioni di qualunque estrazione sociale,[467] ormai monolingui e monoculturali italiane, quella dell'italiano regionale di Sardegna o IrS (spesso chiamato dai sardofoni, in segno di ironico spregio, italiànu porcheddìnu,[468] letteralmente "italiano maialesco"): si tratta di una parlata dialettale dell'italiano che, nelle sue espressioni diastratiche,[469] risente grandemente degli influssi fonologici, morfologici e sintattici del sardo anche in quei parlanti che non hanno alcuna conoscenza di tale lingua.[470] Roberto Bolognesi sostiene che, a fronte della persistente negazione e rifiuto della lingua sarda, è come se questa si sia vendicata sull'originaria comunità di parlanti «e continui a vendicarsi "inquinando" il sistema linguistico egemone»,[36] rievocando l'avvertimento gramsciano profferito all'alba del secolo precedente. Infatti, a fronte di un italiano regionale ormai prevalente che, per Bolognesi, «si tratta in effetti di una lingua ibrida sorta dal contatto fra due sistemi linguistici diversi»,[471] «il (poco) sardo usato dai giovani costituisce spesso un gergo sgrammaticato infarcito di oscenità e di costruzioni appartenenti all'italiano»:[36] la popolazione padroneggerebbe dunque solo "due lingue zoppe" le cui manifestazioni non scaturirebbero da una norma riconoscibile, né costituirebbero una fonte di sicurezza linguistica chiara:[36] Bolognesi ritiene che «per i parlanti sardi, quindi, il rifiuto della propria identità linguistica originaria non ha comportato la sperata e automatica omologazione ad un’identità socialmente più prestigiosa, ma l’acquisizione di un’identità di serie B (né veramente sarda, né veramente italiana), non più autocentrata ma bensì periferica rispetto alle fonti di norma linguistica e culturale, le quali rimangono ancora al di fuori della loro portata: sull’altra riva del Tirreno».[471] D'altra parte, Eduardo Blasco Ferrer riscontra una propensione dei sardofoni esclusivamente per la pratica di commutazione di codice, piuttosto che per quella di commistione o commutazione intrafrasale (code-mixing) tra le due diverse lingue.[472] Nel complesso, dinamiche quali il tardivo riconoscimento come minoranza linguistica, accompagnato da un'opera di graduale ma plurisecolare e pervasiva italianizzazione promossa dal sistema educativo e da quello amministrativo, cui seguì la recisione della trasmissione intergenerazionale, hanno fatto sì che la vitalità odierna del sardo possa definirsi come gravemente compromessa.[473] Vi è una sostanziale divisione tra chi crede che l'attuale normativa in tutela della lingua sia ormai giunta troppo tardi,[474][475] ritenendo che il suo impiego sia stato oramai interamente sostituito dall'italiano, e chi invece asserisce che sia fondamentale per rafforzare l'uso corrente, per quanto debole, di questa lingua. Le considerazioni sulla frammentazione dialettale della lingua sono portate da alcuni come argomento contrario a un intervento istituzionale per il suo mantenimento e valorizzazione: altri rilevano che questo problema sia già stato affrontato in diversi altri casi, come per esempio il catalano, la cui piena introduzione nella vita pubblica dopo la repressione franchista è stata possibile solo grazie a un processo di standardizzazione dei suoi eterogenei dialetti. In generale, la standardizzazione della lingua sarda è argomento controverso.[476][477] Fiorenzo Toso rileva, a paragone con l'attuale forza del catalano garantita dalla elaborazione di uno standard scritto a fronte di «sottovarietà dialettali anche molto differenziate tra loro», che «la debolezza del sardo risiede invece, tra gli altri elementi, nell'assenza di un tale standard, poiché i parlanti logudorese o campidanese non si riconoscono in una varietà sopradialettale comune».[478] A oggi si ritiene improbabile il rinvenimento di una soluzione normativa alla questione linguistica sarda.[358] In conclusione, fattori fondamentali per la riproduzione nel tempo del gruppo etnolinguistico, quali la trasmissione intergenerazionale della lingua, rimangono ad oggi estremamente compromessi senza che se ne possa apparentemente frenare la progressiva perdita,[479] in stadio ormai avanzato. Al di là dello strato sociale già interessato dal suddetto processo e che risulta quindi italofono monolingue, persino tra molti sardofoni si riscontra ora una "limitata padronanza attiva o anche solo esclusivamente passiva della loro lingua": l'attuale competenza comunicativa tra le coorti anagrafiche più giovani non andrebbe oltre la conoscenza di qualche formula stereotipata e neanche gli adulti sarebbero più in grado di portare avanti una conversazione nella lingua etnica,[32][480]. Le indagini demoscopiche finora effettuate sembrano indicare che il sardo venga ormai considerato dalla comunità come uno strumento di riappropriazione del proprio passato, piuttosto che di effettiva comunicazione per il presente e il futuro[481] Il sardo tra le comunità linguistiche di minoranza riconosciute ufficialmente in Italia[482][483] Riconoscimento istituzionale[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Legislazione italiana a tutela delle minoranze linguistiche e Toponimi della Sardegna. Segnaletica locale bilingue italiano/sardo Segnale di inizio centro abitato in sardo a Siniscola/Thiniscole Il sardo è riconosciuto come lingua dalla norma ISO 639 che le attribuisce i codici sc (ISO 639-1: Alpha-2 code) e srd (ISO 639-2: Alpha-3 code). I codici previsti per la norma ISO 639-3 ricalcano quelli utilizzati dal SIL per il progetto Ethnologue e sono: sardo campidanese: "sro" sardo logudorese: "src" gallurese: "sdn" sassarese: "sdc" La lingua sarda è stata riconosciuta con legge regionale n. 26 del 15 ottobre 1997 "Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna" come lingua della Regione autonoma della Sardegna dopo l'italiano (la legge regionale prevede la tutela e valorizzazione della lingua e della cultura, pari dignità rispetto alla lingua italiana con riferimento anche al catalano di Alghero, al tabarchino dell'isola di San Pietro, al sassarese e gallurese, la conservazione del patrimonio culturale/bibliotecario/museale, la creazione di Consulte Locali sulla lingua e la cultura, la catalogazione e il censimento del patrimonio culturale, concessione di contributi regionali ad attività culturali, programmazioni radiotelevisive e testate giornalistiche in lingua, uso della lingua sarda in fase di discussione negli organi degli enti locali e regionali con verbalizzazione degli interventi accompagnata dalla traduzione in italiano, uso nella corrispondenza e nelle comunicazioni orali, ripristino dei toponimi in lingua sarda e installazione di cartelli segnaletici stradali e urbani con la denominazione bilingue). La legge regionale applica e regolamenta alcune norme dello Stato a tutela delle minoranze linguistiche. Nessun riconoscimento è stato invece attribuito, nel 1948, alla lingua sarda dallo Statuto della Regione Autonoma, che è legge costituzionale: l'assenza di norme statutarie di tutela, a differenza degli storici Statuti della Valle d'Aosta e del Trentino-Alto Adige, fa sì che per la comunità sarda, nonostante rappresenti ex lege n. 482/1999 la più robusta minoranza linguistica in Italia, non si applichino le leggi elettorali per la rappresentanza politica delle liste in Parlamento, che pur tengono conto della specificità delle suddette minoranze.[484][485] Si applicano invece al sardo (come al catalano di Alghero) l'art. 6 della Costituzione (La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche) e la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche"[486] che prevede misure di tutela e valorizzazione (uso della lingua minoritaria nelle scuole materne, primarie e secondarie accanto alla lingua italiana,[487] uso da parte degli organi di Comuni, Comunità Montane, Province e Regione, pubblicazione di atti nella lingua minoritaria fermo restando l'esclusivo valore legale della versione italiana, uso orale e scritto nelle pubbliche amministrazioni escluse forze armate e di polizia, adozione di toponimi aggiuntivi nella lingua minoritaria, ripristino su richiesta di nomi e cognomi nella forma originaria, convenzioni per il servizio pubblico radiotelevisivo) in ambiti definiti dai Consigli Provinciali su richiesta del 15% dei cittadini dei comuni interessati o di un terzo dei consiglieri comunali. Ai fini applicativi tale riconoscimento, che si applica alle "…popolazioni…parlanti…sardo", il che escluderebbe a rigore gallurese e sassarese in quanto geograficamente sardi ma linguisticamente di tipo còrso, e sicuramente il ligure-tabarchino dell'isola di San Pietro. Cartello bilingue nel municipio di Villasor Il relativo Regolamento attuativo D.P.R. n. 345 del 2 maggio 2001 (Regolamento di attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche) detta regole sulla delimitazione degli ambiti territoriali delle minoranze linguistiche, sull'uso nelle scuole e nelle università, sull'uso nella pubblica amministrazione (da parte della Regione, delle Province, delle Comunità Montane e dei membri dei Consigli Comunali, sulla pubblicazione di atti ufficiali dello Stato, sull'uso orale e scritto delle lingue minoritarie negli uffici delle pubbliche amministrazioni con istituzione di uno sportello apposito e sull'utilizzo di indicazioni scritte bilingui …con pari dignità grafica, e sulla facoltà di pubblicazione bilingue degli atti previsti dalle leggi, ferma restando l'efficacia giuridica del solo testo in lingua italiana), sul ripristino dei nomi e dei cognomi originari, sulla toponomastica (… disciplinata dagli statuti e dai regolamenti degli enti locali interessati) e la segnaletica stradale (nel caso siano previsti segnali indicatori di località anche nella lingua ammessa a tutela, si applicano le normative del Codice della Strada, con pari dignità grafica delle due lingue), nonché sul servizio radiotelevisivo. La bozza di atto di ratifica della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d'Europa[488] del 5 novembre 1992 (già sottoscritta, ma mai ratificata,[489][490] dalla Repubblica Italiana il 27 giugno 2000) all'esame del Senato prevede, senza escludere l'uso della lingua italiana, misure aggiuntive per la tutela della lingua sarda e per il catalano (istruzione prescolare in sardo, educazione primaria e secondaria agli allievi che lo richiedano, insegnamento della storia e della cultura, formazione degli insegnanti, diritto di esprimersi in lingua nelle procedure penali e civili senza spese aggiuntive, consentire l'esibizione di documenti e prove in lingua nelle procedure civili, uso negli uffici statali da parte dei funzionari in contatto con il pubblico e possibilità di presentare domande in lingua, uso nell'amministrazione locale e regionale con possibilità di presentare domande orali e scritte in lingua, pubblicazione di documenti ufficiali in lingua, formazione dei funzionari pubblici, uso congiunto della toponomastica nella lingua minoritaria e adozione dei cognomi in lingua, programmazioni radiotelevisive regolari nella lingua minoritaria, segnalazioni di sicurezza anche in lingua, promozione della cooperazione transfrontaliera tra amministrazioni in cui si parli la stessa lingua). Si noti che l'Italia, assieme alla Francia e a Malta,[491] non ha ratificato il suddetto trattato internazionale.[492][493] In un caso presentato alla Commissione europea dal deputato Renato Soru in sede di parlamento europeo nel 2017, nel quale si denunciava la negligenza nazionale con riguardo alla sua stessa normativa rispetto alle altre minoranze linguistiche, la risposta della Commissione faceva presente all'Onorevole che le questioni di politica linguistica perseguita dai singoli stati membri non rientrano nelle sue competenze.[494] Le forme di tutela previste per la lingua sarda sono pressoché assimilabili a quelle riconosciute per quasi tutte le altre storiche minoranze etnico-linguistiche d'Italia (friulani, albanesi, catalane, greche, croate, franco-provenzali e occitane, etc.), ma di gran lunga inferiori a quelle assicurate, mediante specifici trattati internazionali, per le comunità francofone in Valle d'Aosta, a quelle slovene in Friuli-Venezia Giulia e, infine, a quelle ladine e germanofone in Alto-Adige. Segnaletica locale bilingue a Pula Inoltre, le poche disposizioni legislative a tutela del bilinguismo sin qui menzionate non sono de facto ancora applicate o lo sono state solo parzialmente. In tal senso il Consiglio d'Europa nel 2015 aveva aperto un'indagine sull'Italia per la situazione delle sue minoranze etnico-linguistiche, considerate nell'ambito della Convenzione-quadro come "minoranze nazionali".[495][496][497] Il sardo non è stato, infatti, ancora oggi introdotto nei programmi ufficiali, rientrando perlopiù in alcuni progetti scolastici (moduli di ventiquattr'ore) senza garanzie di continuità.[498] La revisione della spesa pubblica del governo Monti avrebbe abbassato ulteriormente il livello di tutela della lingua, attuando una distinzione fra le lingue soggette a tutela in base ad accordi internazionali e considerate minoranze nazionali perché "di lingua madre straniera" (tedesco, sloveno e francese[Nota 18]) e quelle afferenti a comunità che non hanno una struttura statale straniera alle spalle, riconosciute semplicemente come "minoranze linguistiche". Tale disegno di legge, nonostante abbia destato una certa reazione da più parti del mondo politico e intellettuale isolano,[499][500][501] è stato impugnato dal Friuli-Venezia Giulia, ma non dalla Sardegna, una volta tradotto in legge, la quale non riconosceva alle minoranze linguistiche "senza Stato" i benefici previsti in tema di assegnazione degli organici per le scuole:[502] con la sentenza numero 215, depositata il 18 luglio 2013, la Corte costituzionale ha però successivamente dichiarato incostituzionale tale trattamento differenziato.[503] La delibera della Giunta regionale del 26 giugno 2012[504] ha introdotto l'uso delle diciture ufficiali bilingui nello stemma della Regione Autonoma della Sardegna e in tutte le produzioni grafiche che contraddistinguono le sue attività di comunicazione istituzionale. Quindi, con la stessa evidenza grafica dell'italiano, viene riportata l'iscrizione equivalente a Regione Autonoma della Sardegna in sardo ovvero «Regione Autònoma de Sardigna».[505] Il 5 agosto 2015 la Commissione Paritetica Stato-Regione ha approvato una proposta, inoltrata dall'Assessorato della Pubblica Istruzione, che trasferirebbe alla Regione Sarda alcune competenze amministrative in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, quali sardo e catalano algherese.[506] Il 27 giugno 2018, il Consiglio Regionale ha infine varato il TU sulla disciplina della politica linguistica regionale. La Sardegna si sarebbe, in teoria, così dotata per la prima volta nella sua storia regionale di uno strumento regolatore in materia linguistica, con l'intento di sopperire all'originale lacuna del testo statutario:[9][507][508] tuttavia, il fatto che la giunta regionale non abbia tuttora provveduto a emanare i necessari decreti attuativi fa sì che quanto è contenuto nella legge approvata non abbia ancora trovato alcuna applicazione reale.[509][510][511] Il 2021 vede l'apertura di uno sportello in lingua sarda per la Procura di Oristano, qualificandosi come la prima volta in Italia in cui tale servizio sia offerto a una lingua minoritaria.[512] Per l'elenco dei comuni riconosciuti ufficialmente minoritari ai sensi dell'art. 3 della legge n. 482/1999 e per i relativi toponimi ufficiali in lingua sarda ai sensi dell'art. 10 vedi Toponimi della Sardegna. Fonetica, morfologia e sintassi[modifica | modifica wikitesto] Fonetica[modifica | modifica wikitesto] Vocali: /ĭ/ e /ŭ/ (brevi) latine hanno conservato i loro timbri originali [i] e [u]; per esempio il latino siccus diventa siccu (e non come italiano secco, francese sec). Un'altra caratteristica è l'assenza della dittongazione delle vocali medie (/e/ e /o/). Per esempio il latino potest diventa podet (pron. [ˈpoðete]), senza dittongo a differenza dell'italiano può, spagnolo puede, francese peut. Le vocali Sarde sono soggette al processo di metafonesi dove [ɛ ɔ] sono alzate a [e o] se la sillaba seguente contiene vocali /i/ o /u/. Inoltre /fɛˈnɔmɛnu/, ad esempio, è realizzato come [feˈnoːmenu]. Nel gruppo di dialetti solitamente ricondotti alla grafia campidanese /ɛ ɔ/ sono state alzate a /i u/ nelle sillabe finali. Le nuove /i u/ non producono la metafonesi. In questi dialetti quindi [e o] possono contrastare con [ɛ ɔ]. Per esempio i vecchi [ˈbɛːnɛ] 'bene' e [ˈbeːni] 'vieni' diventano [ˈbɛːni] e [ˈbeːni] come coppie minime distinte solo dalla vocale tonica. Il campidanese contiene quindi sette diverse vocali. Esclusivi — per l'area romanza attuale — dei dialetti centro-settentrionali del sardo sono inoltre il mantenimento della [k] e della [g] velari davanti alle vocali palatali /e/ e /i/ (es.: [kentu] per l'italiano cento e il francese cent). Una delle caratteristiche del sardo è l'evoluzione di [ll] nel fonema cacuminale [ɖ] (es. cuaddu o caddu per cavallo, anche se questo non avviene nel caso dei prestiti successivi alla latinizzazione dell'isola - cfr. bellu per bello - ). Questo fenomeno è presente anche nella Corsica del sud, in Sicilia, in Calabria, nella penisola Salentina e in alcune zone delle Alpi Apuane. Fonosintassi[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Sardo logudorese § Alcune regole di fonosintassi e Sardo campidanese § Alcune regole di fonosintassi. Una delle principali complicanze, sia per chi si approcci alla lingua sia per chi, pur sapendola parlare, non la sa scrivere, è la differenza fra scritto (qualora si voglia seguire un'unica forma grafica) e parlato data da specifiche regole, fra le quali è importante menzionare almeno qualcuna nei due diasistemi e in questa voce nella generalità dei casi. Sistema vocalico[modifica | modifica wikitesto] Vocale paragogica[modifica | modifica wikitesto] Nel parlato generalmente non è tollerata la consonante finale di un vocabolo, quando però lasciata isolata in pausa o in chiusura di frase, altrimenti sì può essere presente anche nella pronuncia. La lingua sarda si caratterizza pertanto per la cosiddetta vocale paragogica o epitetica, cui si appoggia la suddetta consonante; questa vocale è generalmente la stessa che precede la consonante finale, ma in campidanese non mancano esempi discostanti da questa norma, dove la vocale paragogica è la "i" pur non essendo quella che precede l'ultima consonante, come il caso di cras (crasi, domani), tres (tresi, tre), ecc. In questi casi la vocale finale può anche essere riportata nella lingua scritta, essendo appunto diversa dall'ultima della parola. Quando invece è uguale a quella precedente di norma non va mai scritta; eccezioni possono essere rappresentate da alcuni termini di origine latina rimasti inalterati rispetto all'originale, eccettuando appunto la vocale paragogica, che però si sono diffusi nell'uso popolare anche nella loro variante sardizzata (sèmper o sèmpere, lùmen o lùmene) e, nel diasistema logudorese, dalle terminazioni dell'infinito presente della 2ª coniugazione (tènner o tènnere, pònner o pònnere). Per quanto riguarda i latinismi, nell'uso attuale si preferisce non scrivere la vocale paragogica, quindi sèmper, mentre nei verbi della seconda coniugazione è forse maggioritaria la grafia con la "e", seppur molto diffusa anche quella senza, perciò iscrìere piuttosto che iscrìer (scrivere), che peraltro è altresì corretto. I termini campidanesi vengono generalmente scritti con la "i" dai parlanti di questa variante, dunque crasi, mentre in logudorese avremo sempre e comunque cras, anche qualora nella pronuncia dovesse risultare crasa. Così per esempio: Si scrive semper ma si pronuncia generalmente sempere (LSC/log./nuo., in italiano "sempre") Si scrive lùmen ma si pronuncia generalmente lumene (nuo., in LSC nùmene o nòmene, in italiano "nome") Si scrive però e si pronuncia generalmente però o peroe (LSC/log./nug. /camp., in italiano "però") Si scrive istèrrere (LSC e log.) o istèrrer (log.) e si pronuncia generalmente isterrere (in italiano "stendere") Si scrive funt ma si pronuncia generalmente funti (LSC e camp., in italiano "essi sono") Si scrive andant ma si pronuncia generalmente andanta (LSC, camp. e log. meridionale, in italiano "vanno"). In nuores/baroniese la consonante finale della terza plurale solitamente cade e si pronuncia la vocale paragogica: andan(t)a, cheren(t)e e ischin(t)i. Vocale pretonica[modifica | modifica wikitesto] Le vocali e e o stanti in posizione pretonica rispetto alla vocale i, diventano mobili potendosi trasformare in quest'ultima. Così, per esempio, sarà corretto scrivere e dire: erìtu o irìtu (log., in italiano "riccio"; in LSC, log. meridionale e camp. eritzu) essìre (LSC), issìre (log. ), bessire (log. meridionale) o bessiri (camp.) (in italiano "uscire") drumìre o dromìre (log., in italiano "dormire"; in LSC dormire; camp. dromìri) godìre (LSC) o gudìre (log., in LSC e log. anche gosare, camp. gosai, in italiano "godere") Vi sono delle rare eccezioni a questa regola, come dimostra l'esempio seguente: buddìre vuol dire "bollire", mentre boddìre vuol dire "raccogliere (frutti e fiori)". Sistema consonantico[modifica | modifica wikitesto] Posizione mediana intervocalica[modifica | modifica wikitesto] Quando si trovano in posizione mediana intervocalica, o per effetto di particolari combinazioni sintattiche, le consonanti b, d, g diventano fricative; sono tali anche se si presenta, fra vocale e consonante, un'interposizione della r. In questo caso, la pronuncia della b è perfettamente uguale a quella della b/v spagnola in cabo, la d è uguale alla d spagnola in codo. Fra vocali, il dileguo della g è la norma. Così per esempio: baba si pronuncia ba[β]a (in italiano "bava") sa baba si pronuncia sa [β]a[β]a (in italiano "la bava") lardu si pronuncia lar[ð]u (in italiano "lardo") gatu: in singolare la g cade (su gatu diventa su atu), mentre in plurale quando precede /s/, si mantiene come fricativa (sos gatos = so'/sor/sol [ɣ]àtoso) Lenizione[modifica | modifica wikitesto] Comune ai due diasistemi, cui fa eccezione la sottovarietà nuorese, è il fenomeno di sonorizzazione delle consonanti sorde c, p, t, f, qualora precedute da vocale o seguite da r; le prime tre diventano anche fricative. /k/ → [ɣ] /p/ → [β] /t/ → [ð] /f/ → [v] Così per esempio: Si scrive su cane (LSC e log.) o su cani (camp.) ma si pronuncia su [ɣ]ane / su [ɣ]ani (in italiano, "il cane"). Si scrive su frade (LSC e log.) o su fradi (camp.) ma si pronuncia su[v]rade/su [v]rari (in italiano, "il fratello"). Si scrive sa terra, ma si pronuncia sa [ð]erra (LSC/log./camp., in italiano, "la terra"). Si scrive su pane (LSC e log.) o su pani (camp.) ma si pronuncia su [β]ane / su [β]ani (in italiano, "il pane"). Incontro di consonanti fra due parole (sandhi)[modifica | modifica wikitesto] Reindirizziamo alle voci cui pertengono le differenti ortografie. Pronuncia rafforzata di consonanti iniziali[modifica | modifica wikitesto] Sette particelle, aventi vario valore, provocano un rafforzamento della consonante che a esse segue: ciò accade per effetto di una sparizione, solamente virtuale, delle consonanti che tali monosillabi avevano per finale nel latino (una di esse è italianismo di recente acquisizione). NE ← (lat.) NEC = né (congiunzione) CHE ← (lat.) QUO+ET = come (comparativo) TRA ← (it.) TRA = tra (preposizione) A ← (lat.) AC = (comparativo) A ← (lat.) AD = a (preposizione) A ← (lat.) AUT = (interrogativo) E ← (lat.) ET = e (congiunzione) Perciò per esempio: Nos ch'andamus a Nùgoro / nosi ch'andaus a Nùoro (pron. "noch'andammus a Nnugoro / nosi ch'andaus a Nnuoro") = Ce ne andiamo a Nuoro Che a cussu maccu (pron. "che mmaccu") = Come quel matto Intra Nugoro e S'Alighera (pron. "intra Nnugoro e Ss'Alighera") = Tra Nuoro e Alghero A ti nde pesas? (pron. "a tti nde pesasa?") = Ti alzi? (esortativo) Morfologia e sintassi[modifica | modifica wikitesto] Nel suo insieme la morfosintassi del sardo si discosta dal sistema sintetico del latino classico e mostra un uso maggiore delle costruzioni analitiche rispetto ad altre lingue neolatine.[513] L'articolo determinativo caratteristico della lingua sarda è derivato dal latino ipse / ipsu(m) (mentre nelle altre lingue neolatine l'articolo è originato da ille / illu(m)) e si presenta nella forma su/sa al singolare e sos/sas al plurale (is nel campidanese e sia sos / sas sia is nella LSC). Forme di articolo con la medesima etimologia si ritrovano nel balearico (dialetto catalano delle Isole Baleari) e nel dialetto provenzale dell'occitano delle Alpi Marittime francesi (eccettuando il dialetto di Nizza): es/so/sa e es/sos/ses. Il plurale è caratterizzato dal finale in -s, come in tutta la Romània occidentale ((FR, OC, CA, ES, PT) ). Es.: sardu{sing.}-sardos/sardus{pl.}(sardo-sardi), puddu{sing.}/puddos/puddus{pl.}, pudda{sing.}/puddas{pl.} (pollo/polli, gallina/galline). Il futuro viene costruito con la forma latina habeo ad. Es: apo a istàre, apu a abarrai o apu a atturai (io resterò). Il condizionale si forma in modo analogo: nei dialetti centro-meridionali usando il passato del verbo avere (ai) o una forma alternativa sempre di tale verbo (apia); nei dialetti centro-settentrionali usando il passato del verbo dovere (dia). Il "perché" interrogativo è diverso dal "perché" responsivo: poita? o proite/poite? ca…, così come avviene in altre lingue romanze (francese: pourquoi? parce que…, portoghese: por quê/porquê? porque…; spagnolo ¿por qué? porque…; catalano per què? perquè… Ma anche in Italiano perché/poiché). Il pronome personale tonico di prima e seconda persona singolare, se preceduto dalla preposizione cun/chin (con), assume le forme cun megus (LSC, log.)/chin mecus (nug.) e cun tegus (LSC, log.)/chin tecus (nug.) (cfr. lo spagnolo conmigo e contigo e anche il portoghese comigo e contigo e il napoletano cu mmico e cu ttico), e questi dal latino cum e mecum/tecum. Ortografia e pronuncia[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Limba Sarda Unificada e Limba Sarda Comuna. Fino al 2001 non si disponeva di una standardizzazione ufficiale né scritta, né orale (quest'ultima non esiste ancor oggi) della lingua sarda. Dopo l'epoca medievale, nei documenti della quale si può osservare una certa uniformità nella scrittura, l'unica standardizzazione grafica, dovuta agli esperimenti dei letterati e dei poeti, era stata quella del cosiddetto "sardo illustre", sviluppato ispirandosi ai documenti protocollari medievali sardi, alle opere di Gerolamo Araolla, Giovanni Matteo Garipa e Matteo Madau e a quelle di una ricca serie di poeti.[514][515] I tentativi di ufficializzare e diffondere tale norma erano però stati ostacolati dalle autorità iberiche e in seguito sabaude.[516] Da questi trascorsi deriva l'attuale adesione di una parte della popolazione all'idea che, per ragioni eminentemente storiche e politiche[517][518][519][520] ma non linguistiche,[518][521][522][523][524][525] la lingua sarda sia divisa in due gruppi dialettali distinti ("logudorese" e "campidanese" o "logudorese", "campidanese" e "nuorese", con chi cerca pure di includere nella categorizzazione lingue legate a quella sarda ma differenti, quali il gallurese o il sassarese), per scrivere le quali sono state sviluppate una serie di grafie tradizionali, anche se con molti cambiamenti lungo il passare del tempo. Oltre a quelle comunemente definite "logudorese" e "campidanese", come già detto, sono state sviluppate anche la grafia nuorese, la grafia arborense e quelle dei singoli paesi, a volte normata con regole generali e comuni a tutti, quali quelle richieste dal Premio Ozieri.[526] Spesso, però, il sardo viene scritto dai parlanti cercando di trascriverne la pronuncia e seguendo le abitudini legate alla lingua italiana.[518] Per risolvere tale problema, e ai fini di consentire una effettiva applicazione di quanto previsto dalla Legge Regionale n. 26/1997 e dalla Legge n. 482/1999, nel 2001 la Regione Sardegna ha incaricato una commissione di esperti di elaborare una ipotesi di Norma di unificazione linguistica sovradialettale (la LSU: Limba Sarda Unificada, pubblicata il 28 febbraio 2001), che identificasse una lingua-modello di riferimento (basata sulla analisi delle varietà locali del sardo e sulla selezione dei modelli più rappresentativi e compatibili) al fine di garantire all'uso ufficiale del sardo le necessarie caratteristiche di certezza, coerenza, univocità, e diffusione sovralocale. Questo studio, pur scientificamente valido, non è mai stato adottato a livello istituzionale per vari contrasti locali (accusata di essere una lingua "imposta" e "artificiale" e di non avere risolto il problema del rapporto tra le varietà trattandosi di una mediazione tra le varietà scritte comunemente con una grafia logudorese, pertanto privilegiate, e non avendo proposto una valida grafia per le varietà solitamente scritte con la grafia campidanese) ma ha comunque, a distanza di anni, costituito la base di partenza per la redazione della proposta della LSC: Limba Sarda Comuna, pubblicata nel 2006, che partendo da una base di mesania, accoglie elementi propri delle parlate (e quindi "naturali" e non "artificiali") di quella zona, ovvero l'area grigia di transizione della Sardegna centrale tra le varietà scritte solitamente con la grafia logudorese e quelle scritte con la grafia campidanese, al fine di assicurare alla grafia comune il carattere di sovradialettalità e sovramunicipalità, pur lasciando la possibilità di rappresentare le particolarità di pronuncia delle varietà locali.[527] Purtuttavia, anche a questo standard non sono mancate critiche, sia da chi ha proposto degli emendamenti per migliorarlo,[528][529] sia da chi ha preferito insistere con l'idea di suddividere il sardo in macrovarianti da regolare con norme separate.[530] La Regione Sardegna, con delibera di Giunta regionale n. 16/14 del 18 aprile 2006 Limba Sarda Comuna. Adozione delle norme di riferimento a carattere sperimentale per la lingua scritta in uscita dell'Amministrazione regionale[531] ha adottato sperimentalmente la LSC come lingua ufficiale per gli atti e i documenti emessi dalla Regione Sardegna (fermo restando che ai sensi dell'art. 8 della Legge n. 482/99 ha valore legale il solo testo redatto in lingua italiana), dando facoltà ai cittadini di scrivere all'Ente nella propria varietà e istituendo lo sportello linguistico regionale Ufitziu de sa limba sarda. Successivamente ha seguito la norma LSC nella traduzione di diversi documenti e delibere, dei nomi dei propri uffici ed assessorati, oltre al proprio stesso nome "Regione Autònoma de Sardigna", che figura oggi nello stemma ufficiale insieme alla dicitura in italiano. Oltre a tale ente, lo standard sperimentale LSC è stato utilizzato come scelta volontaria da diversi altri, dalle scuole e da organi di stampa nella comunicazione scritta, spesso in maniera complementare con grafie più vicine alla pronuncia locale. Per quanto riguarda tale utilizzo è stata fatta una stima percentuale, legata ai soli progetti finanziati o cofinanziati dalla Regione per l'utilizzo della lingua sarda negli sportelli linguistici comunali e sovracomunali, nella didattica nelle scuole e nei media dal 2007 al 2013. Il Monitoraggio sull'utilizzo sperimentale della Limba Sarda Comuna 2007-2013 è stato pubblicato sul sito della Regione Sardegna nell'aprile 2014 a cura del Servizio Lingua e Cultura Sarda dell'Assessorato della Pubblica Istruzione.[532] Da tale ricerca risulta ad esempio, riguardo ai progetti scolastici finanziati nell'anno 2013, una netta preferenza delle scuole nell'utilizzo della ortografia LSC insieme ad una grafia locale (51%) rispetto all'utilizzo esclusivo della LSC (11%) o all'utilizzo esclusivo di una grafia locale (33%) Riguardo invece ai progetti finanziati nel 2012 dalla Regione, per la realizzazione di progetti editoriali in lingua sarda nei media regionali, si riscontra una presenza più ampia dell'utilizzo della LSC (probabilmente dovuto anche ad una premialità di 2 punti nella formazione delle graduatorie per accedere ai finanziamenti, assente invece dal bando per le scuole). Secondo tali dati risulta che la produzione testuale nei progetti dei media è stata per il 35% in LSC, per il 35% in LSC e in una grafia locale e per il 25% esclusivamente in una grafia locale. Infine gli sportelli linguistici cofinanziati dalla Regione nel 2012 hanno utilizzato nella scrittura per il 50% la LSC, per il 9% la LSC insieme ad una grafia locale e per il 41% esclusivamente una grafia locale.[532] Una ricerca recente sull'utilizzo della LSC in ambito scolastico, svolta nel comune di Orosei, ha mostrato come gli studenti della scuola media locale non avessero alcun problema a utilizzare quella norma nonostante il fatto che il sardo da loro parlato fosse in parte differente. Nessun alunno ha rifiutato la norma o l'ha ritenuta "artificiale", il che ha dimostrato la sua validità come strumento didattico. I risultati sono stati presentati nel 2016 e pubblicati integralmente nel 2021.[533][534] Si indicano di seguito alcune delle differenze più rilevanti per la lingua scritta rispetto all'italiano: [a], [ɛ/e], [i], [ɔ/o], [u], come -a-, -e-, -i-, -o-, -u-, come in italiano e spagnolo, senza segnare la differenza tra vocali aperte e chiuse; le vocali paragogiche o epitetica (che in pausa chiudono un vocabolo terminante in consonante e corrispondono alla vocale che precede la consonante finale) non si scrivono mai (feminasa>feminas, animasa>animas, bolede>bolet, cantanta>cantant, vrorese>frores) [j] semiconsonante come -j- all'interno di parola (maju, raju, ruju) o di un nome geografico (Jugoslavia); nella sola variante nuorese come -j- (corju, frearju) corrispondente al logudorese/LSU -z- (corzu, frearzu) e all'LSC -gi- (corgiu, freargiu); nelle varianti logudorese e nuorese in posizione iniziale (jughere, jana, janna) che nella LSC viene sostituita dal gruppo [ʤ] (giughere, giana, gianna) [r], come -r- (caru, carru) [p], come -p- (apo, troppu, pane, petza) [β], come -b- in posizione iniziale (bentu, binu, boe) e intervocalica (abile); quando p>b si trascrive come p- a inizio parola (pane, petza) e -b- all'interno (abe, cabu, saba) [b], come -bb- in posizione intervocalica (abba, ebba) [t], come -t- (gattu, fattu, narat, tempus); quando th>t nella sola variante logudorese come -t- o -tt- (tiu, petta, puttu); Nella LSC e nella LSU viene sostituita dal gruppo [ʦ] (tziu, petza, putzu) [d], come -d- in posizione iniziale (dente, die, domo) e intervocalica (ladu, meda, seda); quando t>d si trascrive come t- a inizio parola (tempus) e -d- all'interno (roda, bidru, pedra, pradu); la finale t della flessione del verbo può, a seconda della varietà, essere pronunciata d ma si trascrive t (narada>narat) [ɖɖ] cacuminale, come -dd- (sedda); La d può avere suono cacuminale anche nel gruppo [nɖ] (cando) [k] velare, come -ca- (cane), -co- (coa), -cu- (coddu, cuadru), -che- (chessa), -chi- (chida), -c- (cresia); non si usa mai la -q-, sostituita dalla -c- (cuadru, camp.acua) [g] velare, come -ga- (gana), -go- (gosu), -gu- (agu, largu, longu, angulu, argumentu), -ghe- (lughe, aghedu, arghentu, pranghende), -ghi- (àghina, inghiriare), -g- (gloria, ingresu) [f], come -f- (femina, unfrare) [v], come -f- in posizione iniziale (femina) e come -v- intervocalica (avvisu) e nei cultismi (violentzia, violinu) [ʦ] sorda o aspra (ital. pezzo), come -tz- (tziu, petza, putzu). Nella LSC e nella LSU sostituisce il gruppo nuorese [θ] e il corrispondente logudorese [t] (thiu/tiu>tziu, petha/petta>petza, puthu/puttu>putzu); nella scrittura tradizionale il digramma tz- non compariva mai a inizio parola. Compare inoltre nei termini di influenza e derivazione italiana (per esempio tzitade da cittade) di cui sostituisce la c /ʧ/ sonora (suono non presente nel sardo originario, ma già da tempo proprio di alcune varietà centrali e campidanesi) al posto del suono velare nativo /k/ ormai scomparso (ant.kitade). Anche il suono tz è proprio delle varietà centrali e campidanesi. [ʣ], come -z- (zeru, ordiminzare). Nella variante logudorese/nuorese e nella LSU come -z- (fizu, azu, zogu, binza, frearzu); nella LSC viene sostituita dal gruppo [ʤ] (figiu, agiu, giogu, bingia, freargiu), come nelle varietà centro-meridionali. [θ], nella sola variante nuorese come -th- (thiu, petha, puthu). Nella LSC e nella LSU viene sostituita dal gruppo [ʦ] (tziu, petza, putzu) [s] e [ss], come -s- e -ss- (essire) [z], come -s- (rosa, pesare) [ʧ], nella sola varietà campidanese come -ce- (celu, centu), -ci- (becciu, aici) [ʤ], come -gia-, -gio-, -giu-. Nella LSC sostituisce il gruppo logudorese-nuorese [ʣ] della LSU e il [ɣ] del nuorese (fizu>figiu, azu>agiu, zogu/jogu>giogu, zaganu/jaganu>giaganu, binza>bingia, anzone>angione, còrzu/còrju>còrgiu, frearzu/frearju>freargiu). Il suono [ʤ] come in bingia è proprio delle varietà centrali e campidanesi. [ʒ] (franc. jour), nella sola variante campidanese, sempre come c- a inizio parola (celu, centu, cidru) e come -x- all'interno (luxi, nuraxi, Biddexidru). LSC LSU Lugodorese Nuorese Campidanese LSC LSU Lugodorese Nuorese Campidanese Simbolo AFI Sempre ch / c ch / c ch / c ch / c c k k k k tʃ/k t t t t t t t t t t th θ f f f f p p p p p p p p p p gh / g gh / g gh / g g ɣ / g g g dʒ/g g / gi g / gi dʒ dʒ gi z z j ? dʒ dz dz j ? r r r r r ɾ ɾ ɾ ɾ ɾ v v v v Ad inizio di parola gh / g g c / ci ʒ, tʃ d d t (d) t (d) t (d) d ? d d d f f f v v v b b p (b) p (b) p (b) β / b b β β β s s s s s s s s s s Intervocalica gh / g ɣ j j j j j j j j j j x ʒ s s s s s z z z / s z / s z / s d d d d d ð ð ð ð ð v v v v v v b b b b b β b β β β c / ci tʃ Doppie o combinazioni ll ll ll ll ll l l l l l rr rr rr rr rr r r r r r dd dd dd dd dd ɖ ɖ ɖɖ ɖɖ ɖɖ nn nn nn nn nn n n n n n bb bb bb bb bb b b b b b mm mm mm mm mm m m m m m nd ɳɖ ss ss ss ss ss s s ss ss ss tt t Finale t t t t t d d d d Grammatica[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Grammatica sarda. La grammatica della lingua sarda si differenzia notevolmente da quella italiana e delle altre lingue neolatine, particolarmente nelle forme verbali. Plurale[modifica | modifica wikitesto] ll plurale viene ottenuto, come nelle lingue romanze occidentali, aggiungendo -s alla forma singolare Nel caso di parole terminanti in -u, il plurale viene formato nel logudorese in -os e nel camp. in -us. Articoli[modifica | modifica wikitesto] Determinativi[modifica | modifica wikitesto] LSC Log. Camp. Sing. su / sa su / sa su / sa Plur. sos / sas / is sos / sas is Indeterminativi[modifica | modifica wikitesto] Masch. Femm. sing. unu una pl. unos unas Pronomi[modifica | modifica wikitesto] Pronomi personali soggetto (nominativo)[modifica | modifica wikitesto] Singolare Plurale (d)eo/jeo/deu LSC deo nuor. (d)ego = io nois/nos/nosu = noi tue/tui = tu vosté/fostei o fusteti (uso formale, richiede la 3ª persona sing., derivato dal vosté catalano, cfr. usted spagnolo, da vuestra merced) = lei bois/bosàteros/bosatrus - bosàteras/bosatras = voi (nelle varianti centrali e meridionali si hanno in sardo due forme, maschile e femminile, per il voi plurale, come nello spagnolo peninsulare vosotros / vosotras) bos (uso formale, persona grammaticale singolare ma da coniugare con un verbo nella 2ª persona plurale, come il vous francese; cfr. antico vos spagnolo, ancora in uso in Sudamerica per tú) = voi (come tuttora in uso nell'italiano meridionale) issu (isse) - issa = lui/lei issos/issus - issas = loro (essi/esse) dopo le preposizioni pro/po, dae/de, intra/tra, segundu, ecc. dopo la preposizione a dopo la preposizione con/chin (la variante chin è propria del nuorese) mene (a mie)/mei mie/mimi (nuor. mime) cunmegus (nuor. chinmecus) tene (a tie)/tei tie/tui (nuor. tibe) cuntegus (nuor. chintecus) issu (isse) - issa nois/nos/nosu bois/bosàteros/bosatrus - bosàteras/bosatras issos/issus - issas Relativi (forma valida in LSC in grassetto corsivo)[modifica | modifica wikitesto] chi (che) chie/chini (chi, colui che) Interrogativi[modifica | modifica wikitesto] cale?/cali? (quale?) cantu? (quanto?) ite?/ita? (che?, che cosa?) chie?/chini? (chi?) Pronomi e aggettivi possessivi[modifica | modifica wikitesto] meu/miu - mea o mia/mia tuo o tou/tuu - tua suo o sou/suu - sua; de vosté/fostei; bostru/bostu (de bos) nostru/nostu bostru (nuor. brostu)/de boisàteros/bosàteros/bosatrus - de boisàteras/bosàteras/bosatras, issoro/insoru Pronomi e aggettivi dimostrativi[modifica | modifica wikitesto] custu,custos/custus - custa,custas (questo, questi - questa, queste) cussu, cussos/cussus - cussa, cussas (codesto, codesti - codesta, codeste) cuddu, cuddos/cuddus - cudda, cuddas (quello, quelli - quella,quelle) Avverbi interrogativi[modifica | modifica wikitesto] cando/candu? (quando?) comente/comenti? (come?) ue? o ube? in ue? o in ube?; a in ue o a in ube? (direzione)/aundi?, innui? (dove?; la forma sarda varia se si tratta di una direzione, cfr. lo spagnolo ¿adónde?) Preposizioni[modifica | modifica wikitesto] Semplici[modifica | modifica wikitesto] a (a,in; direzione) cun o chin (con) dae/de (da) de (di) in (in,a; situazione) pro/po (per) intra o tra (tra) segundu (secondo) de in antis/denanti (de) (davanti (a)) dae segus/de fatu (de) (dietro (a)) in antis (de) (prima (di)) a pustis (de), a coa (dopo (di)) Il sardo, come lo spagnolo e il portoghese, distingue tra moto a luogo e stato in luogo: so'andande a Casteddu / a Ispagna; soe in Bartzelona / in Sardigna Articolate[modifica | modifica wikitesto] Sing. Plur. a su (al) - a sa (alla) a sos/a is (ai) - a sas/a is (alle) cun o chin su (con il) - cun o chin sa (con la) cun o chin sos/cun is (con i) - cun o chin sas/cun is (con le) de su (del) - de sa (della) de sos/de is (dei) - de sas/de is (delle) in su (nel) - in sa (nella) in sos/in is (nei) - in sas/in is (nelle) pro/po su (per il) - pro/po sa (per la) pro sos/pro is/po is (per i) - pro sas/pro is/ po is (per le) Verbi[modifica | modifica wikitesto] I verbi hanno tre coniugazioni (-are, -ere / -i(ri), -ire / -i(ri)). La morfologia verbale differisce notevolmente da quella italiana e conserva caratteristiche del tardo latino o delle lingue neolatine occidentali. I verbi sardi nel presente indicativo hanno le seguenti peculiarità: la prima persona singolare termina in -o nel logudorese (terminazione comune nell'italiano, nello spagnolo e nel portoghese; entrambe queste ultime due lingue hanno ciascuna quattro soli verbi con un'altra terminazione alla 1ª persona sing.) e in -u nel campidanese; la seconda persona sing. termina sempre in -s, come in spagnolo, catalano e portoghese, terminazione derivata dal latino; la terza persona singolare e plurale ha le caratteristiche terminazioni in -t, proprie del sardo tra le lingue romanze e provenienti direttamente dal latino; la prima persona plurale ha nel logudorese le terminazioni -amus, -imus, -imus, simili a quelle dello spagnolo e del portoghese -amos, -emos, -imos, che a loro volta sono uguali a quelle del latino; per quanto riguarda la seconda persona plurale, la variante logudorese ha nella seconda e terza declinazione la terminazione -ides (latino -itis), mentre le varianti centrali e meridionali hanno nelle tre declinazioni rispettivamente -àis, -èis, -is, terminazioni del tutto uguali a quelle spagnole -áis, -éis, -ís e a quelle portoghesi, lingua in cui la 2ª persona pl. è però ormai in disuso. L'interrogativa si forma generalmente in due modi: con l'inversione dell'ausiliare: Juanni tzucadu/tucau est? (è partito Giovanni?), papadu/papau as? (hai mangiato?) con l'inversione del verbo: un'arantzu/ aranzu lu cheres o un'arangiu ddu bolis? oppure con la particella interrogativa a: per esempio a lu cheres un'aranzu? (un arancio, lo vuoi?). La forma con la particella interrogativa è tipica dei dialetti centro-settentrionali. Prendendo in considerazione i diversi tempi e modi, l'indicativo passato remoto è quasi del tutto scomparso dall'uso comune (come nelle lingue romanze settentrionali della Gallia e del Nord Italia) sostituito dal passato prossimo, ma risulta attestato nei documenti medioevali e ancor'oggi nelle forme colte e letterarie in alternanza con l'imperfetto. Parimenti scomparso è l'indicativo piuccheperfetto, attestato in sardo antico (sc. derat dal lat. dederat, fekerat da fecerat, furarat dal lat. volgare *furaverat, etc.).[535] L'indicativo futuro semplice si forma mediante il verbo àere/ài(ri) (avere) al presente più la preposizione a e l'infinito del verbo in questione: es. deo apo a nàrrere/deu apu a na(rr)i(ri) (io dirò), tui as a na(rr)i(ri) (tu dirai) (cfr. tardo latino habere ad + infinito), ecc. Nella lingua parlata la prima persona apo/apu può essere apostrofata: "ap'a nàrrere". L'imperativo negativo si forma usando la negazione no/non e il congiuntivo: per esempio no andes/no andis (non andare), non còmpores (non comprare), analogamente alle lingue romanze iberiche. Verbo èssere/èssi(ri) (essere)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu so(e)/seo/seu ; tue/tui ses/sesi; issu/isse est/esti ; nos/nois/nosu semus/seus ; bois o bosàteros/bosàtrus sezis/seis ; issos/issus sunt o funt . Verbo àere/ài(ri) (avere).[modifica | modifica wikitesto] Il verbo àere/ài(ri) viene usato da solo unicamente nelle varianti centro-settentrionali; nelle varianti centro-meridionali è usato esclusivamente come ausiliare per formare i tempi composti, mentre con il significato dell'italiano avere viene sempre sostituito dal verbo tènnere/tènni(ri), esattamente come accade in spagnolo, catalano, portoghese (dove il verbo haver è quasi del tutto scomparso) e napoletano. Per questo motivo in questo schema vengono indicate unicamente le forme del presente e dell'imperfetto dei dialetti centro-meridionali, che sono le sole dove nei tempi composti appare il verbo àere/ài(ri). Indicativo presente: deo/deu apo/apu ; tue/tui as ; issu/isse at ; nos/nois/nosu a(m)us/eus ; bois o bosàteros/bosàtrus a(z)is ; issos/issus ant ; In LSC: deo apo; tue as; issu/isse at; nois amus; bois ais; issos ant. Coniugazione in -are/-a(r)i : Verbo cantare/canta(r)i (cantare)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu canto/cantu; tue/tui cantas; issu/isse cantat; nos/nois/nosu canta(m)us; bois o bosàteros/bosàtrus canta(z)is; issos/issus cantant ; In LSC: deo canto; tue cantas; issu/isse cantat; nois cantamus; bois cantades; issos cantant. Coniugazione in -ere/-i(ri) : Verbo tìmere/tìmi(ri) (temere)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu timo/timu ; tue/tui times/timis ; issu/isse timet/timit ; nos/nois/nosu timimus o timèus ; bois o bosàteros/bosàtrus timideso timèis ; issos/issus timent/timint ; In LSC: deo timo; tue times; issu/isse timet; nois timimus; bois timides; issos timent. Coniugazione in -ire/-i(ri) : Verbo finire/fini(ri) (finire)[modifica | modifica wikitesto] Indicativo presente: deo/deu fino/finu ; tue/tui finis ; issu/isse finit ; nos/nois/nosu fini(m)us ; bois o bosàteros/bosàtrus finides o fineis ; issos/issus finint ; In LSC: deo fino; tue finis; issu/isse finit; nois finimus; bois finides; issos finint. Lessico[modifica | modifica wikitesto] Tabella di comparazione delle lingue neolatine[modifica | modifica wikitesto] Latino Francese Italiano Spagnolo Occitano Catalano Aragonese Portoghese Romeno Sardo Sassarese Gallurese Còrso Friulano clave(m) clé chiave llave clau clau clau chave cheie crae/-i ciabi chiaj/ciai chjave/chjavi clâf nocte(m) nuit notte noche nuèit/nuèch nit nueit noite noapte note/-i notti notti notte/notti gnot cantare chanter cantare cantar cantar cantar cantar cantar cânta cantare/-ai cantà cantà cantà cjantâ capra(m) chèvre capra cabra cabra cabra craba cabra capră càbra/craba crabba capra/crabba(castellanese) capra cjavre lingua(m) langue lingua lengua lenga llengua luenga língua limbă limba/lìngua linga linga lingua lenghe platea(m) place piazza plaza plaça plaça plaza praça piață pratza piazza piazza piazza place ponte(m) pont ponte puente pònt pont puent ponte punte (pod) ponte/-i ponti ponti ponte/ponti puint ecclesia(m) église chiesa iglesia glèisa església ilesia igreja biserică crèsia/eccresia gesgia ghjesgia ghjesgia glesie hospitale(m) hôpital ospedale hospital espital hospital hespital hospital spital ispidale/spidali ippidari spidali/uspidali spedale/uspidali ospedâl caseu(m) lat.volg.formaticu(m) fromage formaggio/cacio queso formatge formatge formache/queso queijo brânză/caș casu casgiu casgiu casgiu formadi Alcuni vocaboli nella lingua sarda e in quelle alloglotte di Sardegna[modifica | modifica wikitesto] Italiano Sardo[536] Gallurese Sassarese Algherese Tabarchino la terra sa terra la tarra la terra la terra a têra il cielo su chelu/célu lu celu lu tzelu lu zeru lo cel l'acqua s'abba/àcua l'ea l'eba l'aigua l'aegua il fuoco su fogu lu focu lu foggu lo foc u fogu l'uomo s'òmine/ómini l'omu l'ommu l'home l'omu la donna sa fèmina la fèmina la fémmina la dona a dona mangiare mandigare o papare/papai manghjà magnà menjar mangiâ bere bufare/bufai o bìbere bì bì beure beive grande mannu mannu/grandi mannu gran grande piccolo minore o piticu minori/picculu minori petit piccin il burro su botirru lu butirru lu butirru la mantega buru il mare su mare/mari lu mari lu mari lo mar u mô il giorno sa die/dii la dì la dì lo dia u giurnu la notte su note/noti la notti la notti la nit a néùtte la scimmia sa moninca/martinica la scìmia la muninca N.D a scimia il cavallo su caddu/càdhu/cuàdhu lu cabaddu lu cabaddu lo cavall u cavallu la pecora sa berbeghe/brebèi la pècura la péggura l'ovella a pëgua il fiore su frore/frori lu fiori lu fiori la flor a sciùa la macchia sa màcula o sa mantza/mancia la tacca la mancia/maccia la taca a maccia la testa sa conca lu capu lu cabbu lo cap a tésta la finestra sa bentana o su balcone lu balconi lu balchoni/vintana la finestra u barcùn la porta sa janna/ghenna/genna la ghjanna/gianna la gianna (pron. janna) la porta a porta il tavolo sa mesa o tàula la banca la banca/mesa la mesa/taula a tòa il piatto su pratu lu piattu lu piattu lo plat u tundu lo stagno s'istànniu/stàngiu o staini lu stagnu l'isthagnu l'estany u stagnu il lago su lagu lu lagu lu lagu lo llac u lagu/lògu un arancio un'arantzu/aràngiu un aranciu un aranzu, cast. aranciu una taronja un çetrùn la scarpa sa bota o su botinu o sa crapita la botta la botta la bota a scarpa/scòrpa la zanzara sa t(h)íntula/tzìntzula la zinzula la zinzura la tíntula a sinsòa la mosca sa musca la musca la moscha, cast. muscha la mosca a musca la luce sa lughe/luxi la luci la luzi, cast. lugi la llumera a lüxe il buio s'iscuridade/iscuridadi o su buju o s'iscurigore lu bughju lu buggiu, cast. lu bughju la obscuritat scuur un'unghia un'ungra/unga un'ugna un'ugna una ungla un'ùngia la lepre su lèpere/lèpori lu lèparu lu lèpparu la llebre a léve la volpe su matzone o su mariane/margiàni o su grodde/gròdhe/gròdhi lu maccioni lu mazzoni, cast. maccioni lo guineot/matxoni a vurpe il ghiaccio s'astragu o sa titia o su ghiàciu lu ghjacciu lu ghiacciu lo gel u ghiacciu il cioccolato su tziculate/ciculati lu cioccolatu lu ciucculaddu la xocolata a ciculata la valle sa badde/badhe/badhi la vaddi la baddi la vall a valle il monte su monte/monti lu monti lu monti lo mont u munte il fiume su riu o frùmene/frùmini lu riu lu riu lo riu u riu il bambino su pitzinnu/picínnu o piseddu/pisedhu o pipíu lu steddu la criaddura/lu pizzinnu lo minyó u figgeu il neonato sa criadura la criatura/stiducciu la criaddura/lu piccinneddu la criatura u piccin il sindaco su sìndigu[537] lu sindacu lu sindagu lo síndic u scindegu l'auto sa màchina o sa vetura la vittura/la macchina la macchina/la vettura la màquina/l'automòbil a vétüa/a machina la nave sa nae o navi/su vapore la nai lu vapori/la nabi la nau a nòve/vapùre la casa sa domo/domu la casa la casa la casa a câ il palazzo su palàt(h)u/palatzu lu palazzu lu parazzu lo palau u palàssiu lo spavento s'assustu o assùconu o atzìchidu l'assustu/scalmentu l'assusthu/assucconu/ippasimu, cast. assucunadda l'assusto u resôtu il lamento sa mìmula o sa chèscia lu lamentu/tunchju lu lamentu/mimmura, cast. mimula la llamenta u lamentu ragionare arresonare/arrexonai rasghjunà rasgiunà arraonar rajiunò parlare faeddare/fa(v)edhare/fuedhai faiddà fabiddà parlar parlà correre cùrrere/curri currì currì corrir caminò a gambe il cinghiale su sirbone/sirboni o su porcrabu lu polcarvu lu purchabru lo porc-crabo u cinghiole il serpente sa terpe/terpente o sa colovra/colora/su coloru su tzerpenti/colovru la salpi lu saipenti lo serpent adesso/ora como o imoe/imoi abà abà ara aùa io deo/(d)e(g)o/deu eu eu/eiu jo mì camminare ambulare o caminare/caminai caminà caminà caminar camminò la nostalgia sa nostalghía/nostalgia o sa saudade/saudadi la nostalghja la nostalgia la nostàlgia a nustalgia I numeri - Sos nùmeros / Is nùmerus[modifica | modifica wikitesto] Tra i numeri sardi troviamo due forme, maschile e femminile, per tutti i numeri che terminano con il numero uno, escludendo l'undici, il centoundici e così via, per il numero due e per tutte le centinaia escludendo i numeri cento, millecento, ecc. Questa caratteristica è presente tale quale sia nello spagnolo sia nel portoghese. Abbiamo quindi in sardo per esempio (gli esempi sono nel sardo centrale o di mesania) unu pipiu / una pipia (un bambino/una bambina), duos pitzinnos / duas pitzinnas (due bambini, ragazzini/due bambine, ragazzine), bintunu caddos/cuaddos (ventuno cavalli) / bintuna crabas (ventuno capre), barantunu libros (quarantuno libri) / barantuna cadiras (quarantuno sedie), chentu e unu rios (centouno fiumi), chentu e una biddas (centouno paesi), dughentos òmines (duecento uomini) / dughentas domos (duecento case). In sardo abbiamo, come in italiano, due diverse forme per mille, milli, e duemila, duamiza/duamìgia/duamilla. Tabella dei numeri basata sulle varianti logudoresi del Marghine e del Guilcer e del nuorese[538], su quelle di transizione del Barigadu e su quelle campidanesi della Marmilla I numeri duecento, trecento e, unicamente in campidanese, seicento hanno una forma propria, dughentos e treghentos in LSC e in grafia logudorese, duxentus, trexentus e sexentus in campidanese, dove il due, il tre e il numero cento sono modificati; questo fenomeno è presente anche in portoghese (duzentos, trezentos); le altre centinaia invece vengono scritte senza modificare né il numero di base né chentu/centu, perciò bator(o) chentos/cuatrucentus, otochentos/otucentus, ecc. Il fonema "ch" di chentos in logudorese viene comunque sempre pronunciato g, a eccezione del numero seschentos, e la "c" del campidanese centus sempre come x (j francese di journal). In nuorese "ch" viene invece pronunciato sempre k, perciò tutti i numeri sono scritti con "ch" in questa variante. I numeri 101, 102, così come 1001, 1002, ecc., vanno scritti separatamente chentu e unu, chentu e duos, milli e unu, milli e duos, ecc. Anche in questo caso, questa caratteristica è condivisa con il portoghese. Chentu viene spesso apostrofato, chent'e unu, chent'e duos, più raramente anche milli, mill'e unu, mill'e duos, ecc. I numeri che terminano con uno, a eccezione di undici, centoundici, ecc., vengono spesso anch'essi apostrofati, sia nella loro forma maschile sia in quella femminile, se la parola seguente inizia per vocale o per h: bintun'òmines (ventuno uomini), bintun'amigas (ventuno amiche), ecc. Grafia LSC Grafia logudorese Grafia campidanese 1 unu, -a unu, -a unu, -a 2 duos/duas duos/duas duus/duas 3 tres tres tres 4 bator bàtor(o) cuatru 5 chimbe chimbe cincu 6 ses ses ses 7 sete sete seti 8 oto oto otu 9 noe noe/nuor. nobe noi 10 deghe deghe/nuor. deche dexi 11 ùndighi ùndighi/nuor.ùndichi ùndixi 12 dòighi doighi/nuor. doichi doixi 13 trèighi treighi/nuor. treichi treixi 14 batòrdighi batòrdighi/nuor. batòrdichi catòrdixi 15 bìndighi bìndighi/nuor. bìndichi cuìndixi 16 sèighi seighi/nuor. seichi seixi 17 deghessete deghessete/nuor. dechessete dexasseti 18 degheoto degheoto/nuor. decheoto dexiotu 19 deghenoe deghenoe/nuor. dechenobe dexanoi 20 binti binti/vinti binti 21 bintunu bintunu, -a bintunu, -a 30 trinta trinta trinta 40 baranta baranta coranta 50 chimbanta chimbanta cincuanta 60 sessanta sessanta sessanta 70 setanta setanta setanta 80 otanta otanta otanta 90 noranta noranta/nuor. nobanta noranta 100 chentu chentu centu 101 chentu e unu, -a chentu e unu, -a centu e unu, -a 200 dughentos, -as dughentos, -as/nuor. duchentos, -as duxentus, -as 300 treghentos, -as treghentos, -as/nuor. trechentos, -as trexentus, -as 400 batorghentos, -as bator(o)chentos, -as/nuor. batochentos, -as cuatruxentus, -as 500 chimbighentos, -as chimbichentos, -as, chimbechentos, -as/ cincuxentus, -as 600 seschentos, -as seschentos, -as sescentus, -as 700 setighentos, -as setichentos, -as, setechentos, -as setixentus, -as 800 otighentos, -as otichentos, -as, otochentos, -as otuxentus, -as 900 noighentos, -as noichentos, -as, noechentos, -as/nuor. nobichentos, -as noixentus, -as 1000 milli milli milli 1001 milli e unu, -a milli e unu, -a milli e unu, -a 2000 duamìgia duamiza duamilla 3000 tremìgia tremiza tremilla 4000 batormìgia bator(o)miza/nuor. batomiza cuatrumilla 5000 chimbemìgia chimbemiza cincumilla 6000 semìgia semiza semilla 7000 setemìgia setemiza setemilla 8000 otomìgia otomiza otumilla 9000 noemìgia noemiza/nuor. nobemiza noimilla 10000 deghemìgia deghemiza/nuor. dechemiza deximilla 100000 chentumìgia chentumiza centumilla 1000000 unu millione unu milione unu milioni Le stagioni - Sas istajones / Is istajonis[modifica | modifica wikitesto] Grafia LSC Grafia logudorese Grafia campidanese la primavera su beranu su beranu su beranu l'estate s'istiu s'istiu/ nuor. s'estiu, s'istadiale (s.m.) s'istadiali (s.m.), s'istadi (s.f.) l'autunno s'atòngiu s'atunzu/s'atonzu s'atongiu l'inverno s'ierru s'ierru/nuor. s'iberru s'ierru I mesi - Sos meses / Is mesis[modifica | modifica wikitesto] Italiano Grafia LSC Grafia logudorese Grafia campidanese Gallurese Sassarese Algherese Tabarchino Gennaio Ghennàrgiu Bennarzu/Bennalzu/Jannarzu/Jannarju Ghennarzu/Ghennargiu Gennaxu/Gennargiu Ghjnnagghju Ginnaggiu Gener ("giané") Zenò Febbraio Freàrgiu Frearzu/Frealzu/Frearju Friarxu/Freargiu Friagghju Fribaggiu Febrer ("frabé") Frevò Marzo Martzu Marthu/Malthu/Martzu Martzu/Mratzu Malzu Mazzu Març ("malts") Mòrsu/Marsu Aprile Abrile Abrile/Aprile Abrili Abrili Abriri Abril Arvì Maggio Maju Màju Màju Magghju Maggiu Maig ("mač") Mazu Giugno Làmpadas Làmpadas Làmpadas Làmpata/Ghjugnu Lampada Juny ("jun") Zugnu Luglio Trìulas/Argiolas Trìulas/Trìbulas Argiolas Agliola/Trìula/Luddu Triura Juliol ("juriòl") Luggiu Agosto Austu Austu/Agustu Austu Austu Aosthu Agost Austu Settembre Cabudanni Cabidanni/Cabidanne/Capidanne Cabudanni Capidannu/Sittembri Cabidannu Cavidani ("cavirani)/ Setembre ("setembra") Settembre Ottobre Santugaine/Ladàmene Santu 'Aìne/Santu Gabine/Santu Gabinu Ledàmini Santu Aìni/Uttobri Santu Aìni Santuaìni/ Octubre ("utobra") Ottobri Novembre Santandria/Onniasantu Sant'Andria Donniasantu Sant'Andrìa/Nùembri Sant'Andrìa Santandria/ Novembre ("nuvembra") Nuvembre Dicembre Nadale/Mese de Idas (Mese de) Nadale (Mesi de) Idas/(Mesi de) Paschixedda Natali/Dicembri Naddari Nadal ("naràl")/ Desembre ("desémbra") Dejèmbre I giorni - Sas dies / Is diis[modifica | modifica wikitesto] Grafia logudorese Grafia campidanese Sassarese Gallurese lunedì lunis lunis luni luni martedì martis martis marthi malti mercoledì mércuris/mérculis mércuris/mrécuris marchuri malculi giovedì jòbia/zòbia jòbia giobi ghjovi venerdì chenàbara/chenàpura cenàbara/cenàpura vennari vennari sabato sàbadu/sàpadu sàbudu sabaddu sabatu domenica dumìniga/domìniga/domìnica domìniga/domìnigu dumenigga dumenica I colori - Sos colores / Is coloris[modifica | modifica wikitesto] biancu/ant. arbu [bianco], nieddu [nero], ruju/arrùbiu [rosso], grogu [giallo], biaitu/asulu [blu], birde/birdi/bildi [verde], arantzu/aranzu/colori de aranju [arancione], tanadu/viola/biola [Viola], castàngiu/castanzu/baju [marrone]. Etimologia[modifica | modifica wikitesto] Nel presente paragrafo si elenca, senza alcuna pretesa di esaustività in merito, parte di quella mèsse lessicale facente parte sia del substrato, che dei vari superstrati. Nei nomi con due o più varianti viene prima riportato il logudorese, quindi il campidanese. Varie ricerche hanno messo in luce il fatto che la competenza dei parlanti adulti del sardo non ammette un numero di prestiti, provenienti dalle varie lingue dominanti nei secoli, superiore al 15,5% del lessico posseduto.[539] Substrato paleosardo o nuragico[modifica | modifica wikitesto] CUC → cùcuru, cucurinu (cima di un monte, cocuzzolo; punta sporgente, come Cùcuru 'e Portu a Oristano; cfr. basco kukurr, cresta del gallo)[540] GON- → Gonone, Gologone, Goni, Gonnesa, Gonnosnò (altura, collina, montagna, cfr. greco eolico gonnos, colle) NUR-/'UR- → ant. nurake → nuraghe/nuraxi, Nurra, Nora (mucchio cavo, ammasso), Noragugume NUG: Nug-or; Nug-ulvi (cfr. slavo noga, piede o gamba; sia Nuoro sia Nulvi sono località ai piedi di un monte) ASU-, BON-, GAL → Gallura ant. Gallula, Garteddì (Galtellì), Galilenses, Galile GEN-, GES- → Gesturi GOL-/'OL → Gollei, Ollollai, Parti Olla (Parteolla), golostri/golostru/golóstiche/ golóstise/golóstiu/golosti/'olosti (agrifoglio, si confronti lo slavo ostrь, "spinoso"; il basco gorosti, a cui si associa, è d'origine oscura e probabilmente paleoeuropea, cfr. infatti greco kélastros, agrifoglio) EKA-, KI-, KUR-, KAL/KAR- → Karalis → ant. Calaris (Cagliari), Carale, Calallai ENI → ogl. eni (albero del tasso, cfr. albanese enjë, albero del tasso); MAS-, TUR-, MERRE (luogo sacro) → Macumere (Macomer); GUS → Gusana, Guspini (cfr. serbo guša, gola); ALTRI TERMINI → toneri (tacco, torrione), garroppu (canyon), chessa (lentischio) THA-/THE-/THI-/TZI- (articolo) → thilipirche (cavalletta), thilicugu (geco), thiligherta (lucertola), tzinibiri (ginepro), Tamara (monte nel territorio del comune di Nuxis) thinniga/tzinniga[541](stipa tenacissima), thirulia (nibbio); Origine punica[modifica | modifica wikitesto] CHOURMÁ → kurma ‘ruta di Aleppo’[542] CUSMIN → guspinu, óspinu ‘nasturzio’[542] MS' → mitza/mintza ‘sorgente’[543] SIKKÍRIA → camp. tsikkirìa ‘aneto’[543] YAʿAR ‘bosca’ → camp. giara ‘altopiano’[542] ZERAʿ ‘seme’ → *zerula → camp. tseúrra ‘germoglio, piumetta embrionale del seme del grano’[542] ZIBBIR → camp. tsíppiri ‘rosmarino’[543] ZUNZUR ‘corregiola’ → camp. síntsiri ‘coda cavallina’[542] MAQOM-HADAS → Magomadas ‘luogo nuovo’ MAQOM-EL? ("luogo di dio")/MERRE? → Macumere (Macomer) TAM-EL → Tumoele, Tamuli (luogo sacro); Origine latina[modifica | modifica wikitesto] ACCITUS → ant.kita → chida/cida (settimana, derivata dai turni settimanali delle guardie giudicali) ACETU(M) → ant. aketu>aghedu/achetu/axedu (aceto) ACIARIU(M) → atharzu/atzarzu/atzargiu/atzarju (acciaio) ACINA → ant. àkina, àghina/àxina (uva) ACRU(M) → agru, argu (aspro, acido) ACUS → agu (ago) AERA → aèra/àiri AGNONE → anzone/angioni (agnello) AGRESTIS → areste/aresti (selvatico) ALBU(M) → ant. albu>arbu (bianco) ALGA → arga/àliga (spazzatura; alga) ALTU(M) → artu (alto) AMICU(M) → ant.amicu → amigu (amico) ANGELU(M) → anghelu/ànjulu (angelo) AQUA(M) → abba/àcua (acqua) AQUILA(M) → ave/àbbile/àchili (aquila) ARBORE(M) → arbore/arvore/àrburi (albero) ASINUS → àinu (asino) ASPARAGUS → camp. sparau (asparago) AUGUSTUS → austu (agosto) BABBUS → babbu (padre, babbo) BASIUM → basu, bàsidu (bacio) BERBECE → berbeke/berbeghe/prebeghe/brebei (pecora) BONUS → bonu (buono) BOVE(M) → boe/boi (bue) BUCCA → buca (bocca) BURRICUS → burricu (asino) CABALLUS → ant. cavallu/caballu → caddu/cuaddu/nuor. cabaddu (cavallo) CANE(M) → cane/cani (cane) CAPPELLUS → cappeddu, capeddu (cappello) CAPRA(M) → cabra/craba (capra) CARNE → carre/carri (carne umana, viva) CARNEM SECARE → carrasegare/ nuor. carrasecare (carnevale; "tagliare la carne" nel senso di buttarla via, in quanto ormai prossimo l'inizio della Quaresima; l'etimologia del termine italiano carnevale ha lo stesso significato di origine, seppur una forma differente (da carnem levare); la forma latina è a sua volta un calco del greco apokreos)[544][545] CARRU(M) → carru (carro) CASEUS → casu (formaggio) CASTANEA → castanza/castanja (castagna) CATTU(M) → gattu (gatto) CENA PURA → chenàbura/chenàbara/cenàbara/nuor. chenàpura (venerdì; questo nome era originariamente una definizione diffusa tra gli ebrei dell'Africa settentrionale per indicare il venerdì sera, momento in cui veniva preparato il cibo per il sabato. Numerosi giudei nordafricani si insediarono in Sardegna dopo essere stati espulsi dalle loro terre da parte dei Romani. A loro si deve probabilmente la parola sarda per venerdì)[546] CENTUM → chentu/centu (cento) CIBARIUS → civràxiu, civraxu (tipico pane sardo) CINQUE → chimbe/cincu (cinque) CIPULLA → chibudda/cibudda (cipolla) CIRCARE → chircare/circai (cercare) CLARU(M) → craru (chiaro) COCINA → ant.cokina → coghina/coxina (cucina) COELU(M) → chelu/celu (cielo) COLUBER → colovra/colora/coloru (biscia) CONCHA → conca (testa) CONIUGARE → cojuare/coyai (sposare) CONSILIU(M) → ant.consiliu → cunsizzucunsigiu/cunsillu (consiglio) COOPERCULU(M) → cropettore/cobercu (coperchio) CORIU(M) → corzu/corju/corgiu (cuoio) CORTEX → ant. gortike/borticlu → ortighe/ortiju/ortigu (corteccia del sughero) COXA(M) → cossa/cosça (coscia) CRAS → cras/crasi (domani) CREATIONE(M) → criatura/criathone/criadura (creatura) CRUCE(M) → ant. cruke/ruke → rughe/(g)ruxi (croce) CULPA(M) → curpa (colpa) DECE → ant.deke → deghe/dexi (dieci) DEORSUM → josso/jossu (giù) DIANA → jana (fata) DIE → die/dii (giorno) DOMO/DOMUS → domo/domu (casa) ECCLESIA → ant. clesia → cheja/crèsia (chiesa) ECCU MODO/QUOMO(DO) → còmo/imoi (adesso) ECCU MENTE/QUOMO(DO) MENTE → comente/comenti (come) EGO → ant.ego → deo/eo/jeo/deu (io) EPISCOPUS → ant. piscopu → pìscamu (vescovo) EQUA(M) → ebba/ègua (giumenta) ERICIUS → eritu (riccio) ETIAM → eja (sì) EX-CITARE → ischidare/scidai (svegliare) FABA(M) → ava/faa (fava) FABULARI → faeddare/foeddare/fueddai (parlare) FACERE → ant. fakere → fàghere/fai (fare) FALCE(M) → ant.falke → farche/farci (falce) FEBRUARIU(M) → ant. frearju → frearzu/frearju/friarju (febbraio) FEMINA → fèmina (donna) FILIU(M) → ant. filiu/fiju/figiu → fizu/figiu/fillu (figlio) FLORE(M) → frore/frori (fiore) FLUMEN → ant.flume → frùmene/frùmini (fiume) FOCU(M) → ant. focu → fogu (fuoco) FOENICULU(M) → ant.fenuclu → fenugru/fenugu (finocchio) FOLIA → fozza/folla (foglia) FRATER → frade/fradi (fratello) FUNE(M) → fune/funi GELICIDIU(M) → ghilighia/chilighia/cilixia (gelo, brina) GENERU(M)→ ghèneru/ènneru/gèneru (genero) GENUCULUM → inucru/benugu/genugu (ginocchio) GLAREA → giarra (ghiaia) GRAVIS → grae/grai (pesante) GUADU → ant.badu/vadu → badu/bau (guado) HABERE → àere/ai (avere) HOC ANNO → ocannu (quest'anno) HODIE → oe/oje/oi (oggi) HOMINE(M) → òmine/òmini (uomo) HORTU(M) → ortu (orto) IANUARIUS, IENARIU(M) → ant. jannarju> bennarzu/ghennarzu/jennarju/ghennargiu/gennarju (gennaio) IANUA → janna/genna (porta) ILEX → ant.elike → elighe/ìlixi (leccio) IMMO → emmo (sì) IN HOC → ant. inòke → inoghe/innoi (qui) INFERNU(M) → inferru/ifferru (inferno) I(N)SULA → ìsula/iscra (isola) INIBI → inie/innia (là) IOHANNES → Juanne/Zuanne/Juanni (Giovanni) IOVIA → jòvia/jòbia (giovedì) IPSU(M) → su (il) IUDICE(M) → ant. iudike → juighe/zuighe (giudice) IUNCU(M) → ant. juncu → zuncu/juncu (giunco) IUNIPERUS → ghinìperu/inìbaru/tzinnìbiri (ginepro) IUSTITIA → ant. justithia/justizia → justìtzia/zustìssia (giustizia) LABRA → lavra/lara (labbra) LACERTA → thiligherta/calixerta/caluxèrtula (lucertola) LARGU(M) → largu (largo) LATER → camp. làdiri (mattone crudo) LIGNA → linna (legna) LINGERE → lìnghere/lingi (leccare) LINGUA(M) → limba/lìngua (lingua) LOCU(M) → ant. locu → logu (luogo) LUTU(M) → ludu (fango) LUX → lughe/luxi (luce) MACCUS → macu (matto) MAGISTRU(M) → maìstu (maestro) MAGNUS → mannu (grande) MALUS → malu (cattivo) MANUS → manu (mano) MARTELLUS → martheddu/mateddu/martzeddu (martello) MERIDIES → merie/merì (pomeriggio) META → meda (molto) MULIER → muzere/cmulleri (moglie) NARRARE → nàrrere/nai (dire) NEMO → nemos (nessuno) NIX → nie/nii/nuor. nibe (neve) NUBE(M) → nue/nui (nuvola) NUCE → ant. nuke → nughe/nuxi (noce) OCCIDERE → ochidere, occhire, bochire/bociri (uccidere) OC(U)LU(M) → ogru/oju/ogu/nuor. ocru (occhio) OLEASTER → ozzastru/ogiastru/ollastu (olivastro) OLEUM → oliu → ozu/ogiu/ollu (olio) OLIVA → olia (oliva) ORIC(U)LA(M) → ant.oricla → origra/orija/origa/nuor. oricra (orecchio) OVU(M) → ou(uovo) PACE → ant.pake →paghe/paxi/nuor. pake (pace) PALATIUM → palathu/palàtziu/palatzu (palazzo) PALEA → paza/pagia/palla (paglia) PANE(M) → pane/pani PAPPARE → log. papare, camp. papai (mangiare) PARABOLA → paraula, nuor. paragula (parola) PAUCUS → pagu (poco) PECUS → pegus (capo di bestiame) PEDIS → pe/pei/nuor. pede (piede) PEIUS → pejus/peus (peggio) PELLE(M) → pedde/peddi (pelle) PERSICUS → pèrsighe/pèssighe (pesca) PETRA(M) → pedra/perda/nuor. preda (pietra) PETTIA(M) → petha/petza (carne) PILUS → pilu (pelo), pilos/pius (capelli) PIPER → pìbere/pìbiri (pepe) PISCARE → piscare/piscai (pescare) PISCE(M) → pische/pisci (pesce) PISINNUS → pitzinnu (bambino, giovane, ragazzo) PISUS → pisu (seme) PLATEA → pratha/pratza (piazza) PLACERE → piàghere/pràghere/praxi (piacere) PLANGERE → prànghere/prangi (piangere) PLENU(M) → prenu (pieno) PLUS → prus (più) POLYPUS → purpu/prupu (polpo) POPULUS → pòpulu/pòbulu (popolo) PORCU(M) → porcu/procu (maiale) POST → pustis (dopo) PULLUS → puddu (pollo) PUPILLA → pobidda/pubidda (moglie) PUTEUS → puthu/putzu (pozzo) QUANDO → cando/candu (quando) QUATTUOR → battor(o)/cuatru (quattro) QUERCUS → chercu (quercia) QUID DEUS? → ite/ita? (che/che cosa?) RADIUS → raju (raggio) RAMU(M) → ramu/arramu (ramo) REGNU → rennu/urrennu (regno) RIVUS → ant. ribu → riu/erriu/arriu (fiume) ROSMARINUS → ramasinu/arromasinu (rosmarino) RUBEU(M) → ant. rubiu → ruju/arrùbiu (rosso) SALIX → salighe/sàlixi (salice) SANGUEN → sàmbene/sànguni (sangue) SAPA(M) → saba (sapa, vino cotto) SCALA → iscala/scala (scala) SCHOLA(M) → iscola/scola (scuola) SCIRE → ischire/sciri (sapere) SCRIBERE → iscrìere/scriri (scrivere) SECARE → segare/segai (tagliare) SECUS → dae segus/a-i segus (dopo) SERO → sero/ant.camp. seru (sera) SINE CUM → kene/kena/kentza/sena/setza (senza) SOLE(M) → sole/soli (sole) SOROR → sorre/sorri (sorella) SPICA(M) → ispiga/spiga (spiga) STARE → istare/stai (stare) STRINCTU(M) → strintu (stretto) SUBERU → suerzu/suerju (quercia da sughero) SULPHUR → tùrfuru/tzùrfuru/tzrùfuru (zolfo) SURDU(M) → surdu (sordo) TEGULA → teula (tegola) TEMPUS → tempus (tempo) THIUS → thiu/tziu (zio) TRITICUM → trigu/nuor. trìdicu (grano) UMBRA → umbra (ombra) UNDA → unda (onda) UNG(U)LA(M) → unja/ungra/unga (unghia) VACCA → baca (vacca) VALLIS → badde/baddi (valle) VENTU(M) → bentu (vento) VERBU(M) → berbu (verbo, parola) VESPA(M) → ghespe/bespe/ghespu/espi (vespa) VECLUS(AGG.) → betzu/becciu (vecchio) VECLUS(S) → ant. veclu → begru/begu (legno vecchio) VIA → bia (via) VICINUS → ant. ikinu → bighinu/bixinu (vicino) VIDERE → bìdere/bìere/biri (vedere) VILLA → ant. villa → billa → bidda (paese) VINEA(M) → binza/bingia (vigna) VINU(M) → binu (vino) VOCE → ant. voke/boke → boghe/boxi (voce) ZINZALA → thìnthula/tzìntzula/sìntzulu (zanzara); Origine greca bizantina[modifica | modifica wikitesto] AGROIKÓS → gr. biz. agrikó → gregori ‘terreno incolto’[547] FLASTIMAO → frastimare/frastimai ‘bestemmiare’ KAVURAS ‘granchio’ → camp. kavuru KASKO → cascare ‘sbadigliare’ *KEROPÓLIDA → kera/cera óbida ‘cera che sigilla il favo’[547] KHÓNDROS ‘fiocchi d’avena; cartilagine’ → gr. biz. kontra → log. iskontryare[547] KLEISOÛRA ‘chiusa’ → krisura (krisayu, krisayone) ‘chiusa di un podere’[547] KONTAKION → ant. condake → condaghe/cundaxi ‘raccolta di atti’ KYÁNE(OS) ‘blu scuro’ → camp. ghyani ‘manto morello di cavallo (o di bue)’[547] LEPÍDA ‘lama di coltello’ → leppa ‘coltello’[547] Λουχὶα → ant. Lukìa → Lughìa/Luxia (Lucia) MERDOUKOÚS, MERDEKOÚSE ‘maggiorana’ → centr. mathrikúsya, camp. martsigusa ‘ginestra’[547] NAKE → annaccare (cullare) PSARÓS ‘grigio’ → *zaru → log. medioevale arzu[547] σαραχηνός → theraccu/tzeracu ‘servo’ Στέφανε → Istevane/Stèvini ‘Stefano’ Origine catalana[modifica | modifica wikitesto] ACABAR → acabare/acabai (finire, smettere; cf. spa. acabar)[548] AIXÌ → camp.aici (così) AIXETA → log. isceta (cannella della botte; rubinetto)[548] ALÈ → alenu (alito)[548] ARRACADA → arrecada (orecchino) ARREU → arreu (di continuo) AVALOT → avollotu (trambusto; cf. spa. alboroto (ant. alborote))[548] BANDA → banda (lato)[548] BANDOLER → banduleri (vagabondo; originariamente bandito; cf. spa. bandolero) BARBER → barberi (barbiere; cf. spa. barbero) BARRA → barra (mandibola; insolenza, testardaggine) BARRAR → abbarrare (nell'odierno catalano significa però sbarrare, in sardo camp. rimanere) BELLESA → bellesa (bellezza) (AL)BERCOC → luog. barracoca (albicocca; da una termine balearico passato poi anche all'algherese barracoc)[548] BLAU → camp.brau (blu) BRUT, -A → brutu, -a (sporco) BURRO → burricu (asino; cf, spa. burro e borrico)[548] BURUMBALLA → burrumballa (segatura, truciolame, per est. cianfrusaglia) BUTXACA → busciaca/buciaca (tasca, borsa)[548] CADIRA / CARIA (vocabolo ancor presente in algherese) → camp. cadira (sedia); Caría (cognome sardo) CALAIX → camp. calaxu/calasciu (cassetto) CALENT → caente/callenti (caldo; cf. spa. caliente)[548] CARRER → carrera/carrela (via)[548] CULLERA → cullera (cucchiaio) CUITAR → coitare/coitai (sbrigarsi)[548] DESCLAVAMENT → iscravamentu (deposizione di Cristo dalla croce) DESITJAR → disigiare/disigiai (desiderare)[548] ESTIU → istiu (estate; cf. spa. estío, lat. aestivum (tempus)) FALDILLA → faldeta (gonna)[548] FERRER → ferreri (fabbro) GARRÓ → garrone, -i (garretto)[548] GOIGS → camp. gocius (composizioni poetiche sacre; cf. gosos) GRIFÓ → grifone, -i (rubinetto)[548] GROC → grogo, -u (giallo)[548] ENHORABONA! → innorabona! (in buon'ora!; cf. spa. enhorabuena) ENHORAMALA! → innoramala! (in mal'ora!) ESMORZAR → ismurzare/ismurgiare/irmugiare/imrugiare (fare colazione)[548] ESTIMAR → istimare/stimai (amare, stimare) FEINA → faina (lavoro, occupazione, daffare; già da una forma catalana medievale, da cui si è poi anche originato lo spagnolo faena)[548] FLASSADA → frassada (coperta; cf. spa. frazada)[548] GÍNJOL → gínjalu (giuggiola, giuggiolo) IAIO, -A → jaju, -a (nonno, -a; cf. spa. yayo, -a) JUTGE → camp. jugi/log. zuzze (giudice) LLEIG → camp. léggiu/log. lezzu (brutto) MANDRÓ → mandrone, -i (pigro, nullafacente)[548] MATEIX → matessi (stesso) MITJA → mìgia, log. miza (calza) MOCADOR → mucadore, -i (fazzoletto) ORELLETA → orilletas (dolci fritti) PAPER → paperi (carta)[548] PARAULA → paraula (parola) PLANXA → prància (ferro da stiro; prestito di origine francese, anteriore allo spagnolo plancha)[548] PREMSA → prentza (torchio)[549] PRESÓ → presone, -i (prigione) PRESSA → presse, -i (fretta)[548] PRÉSSEC → prèssiu (pesca)[548] PUNXA → camp. punça/log. puntza (chiodo) QUIN, -A → camp. chini (in catalano significa "quale", in sardo "chi") QUEIXAL → sardo centrale e camp. caxale/casciale, -i (dente molare) RATAPINYADA → camp. ratapignata (pipistrello) RETAULE → arretàulu (retablo, tavola dipinta) ROMÀS → nuor. arrumasu (magro; originariamente in catalano "rimasto" → rimasto a letto → indebolito→ dimagrito, magro)[548] SABATA → camp.sabata (scarpa) SABATER → sabateri (calzolaio) SAFATA → safata (vassoio)[165] SEU → camp. seu (cattedrale, "sede del vescovo") SÍNDIC → sìndigu (sindaco)[548] SíNDRIA → sìndria (anguria) TANCAR → tancare/tancai (chiudere) TINTER → tinteri (calamaio) ULLERES → camp. ulleras (occhiali) VOSTÈ → log. bostè/camp .fostei o fustei (lei, pronome di cortesia; da vostra merced, vostra mercede; cf. spa. usted)[550] Origine spagnola[modifica | modifica wikitesto] Le voci di cui non viene indicata l'etimologia sono voci di origine latina di cui lo spagnolo ha modificato il significato originario che avevano in latino e il sardo ha preso il loro significato spagnolo; per le voci che lo spagnolo ha preso da altre lingue viene indicata la loro etimologia come riportata dalla Real Academia Española. ADIÓS → adiosu (addio, arrivederci)[548] ANCHOA → ancioa (alice)[548] APOSENTO → aposentu (camera da letto) APRETAR, APRIETO → apretare, apretu (mettere in difficoltà, costringere, opprimere; difficoltà, problema) ARENA → arena (sabbia; cf. cat. arena)[548] ARRIENDO → arrendu (affitto)[548] ASCO → ascu (schifo)[548] ASUSTAR → assustare/assustai (spaventare; in camp. è più diffuso atziccai, che a sua volta viene dallo spagnolo ACHICAR)[548] ATOLONDRADO, TOLONDRO → istolondrau (stordito, confuso, sconcertato) AZUL → camp. asulu (azzurro; parola arrivata allo spagnolo dall'arabo)[551] BARATO → baratu (economico) BARRACHEL → barratzellu/barracellu (guardia campestre; parola questa che anche passata all'italiano regionale della Sardegna, dove la parola barracello indica appunto una guardia campestre facente parte della compagnia barracellare) BÓVEDA → bòveda, bòvida (volta (nell'ambito della costruzione) )[552] BRAGUETA → bragheta (cerniera dei pantaloni; il termine "braghetta" o "brachetta" è presente anche in italiano, ma con altri significati; con questo significato è diffuso anche nell'italiano regionale della Sardegna: cf. cat. bragueta) BRINCAR, BRINCO → brincare, brincu (saltare, salto; termine arrivato in spagnolo dal latino vinculum,[553] legame, parola che è poi stata modificata e ha assunto un significato completamente differente in castigliano e che poi con questo è passata al sardo, fenomeno condiviso da molti altri spagnolismi) BUSCAR → buscare/buscai (cercare, prendere; cf. cat. buscar) CACHORRO → caciorru (cucciolo)[548] CALENTURA → calentura, callentura (febbre) CALLAR → cagliare/chelare (tacere; cf. cat. callar)[548] CARA → cara (faccia; cf. cat. cara)[548] CARIÑO → carignu (manifestazione di affetto, carezza; affetto)[548] CERRAR → serrare/serrai (chiudere) CHASCO → ciascu (burla)[548] CHE (esclamazione di sorpresa di origine onomatopeica usata in Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e in Spagna nella zona di Valencia)[554] → cé (esclamazione di sorpresa usata in tutta la Sardegna) CONTAR → contare/contai (raccontare; cf. cat. contar)[548] CUCHARA → log. cocciari (cucchiaio) / camp. coccerinu (cucchiaino), cocciaroni (cucchiaio grande)[548] DE BALDE → de badas (inutilmente; cf. cat. debades) DÉBIL → dèbile, -i (debole; cf. cat. dèbil)[548] DENGOSO, -A, DENGUE → dengosu, -a, dengu (persona che si lamenta eccessivamente senza necessità, lamento esagerato e fittizio; voce di origine onomatopeica)[555] DESCANSAR, DESCANSO → discansare/discantzare, discansu/discantzu (riposare, riposo; cf. cat. descansar)[548] DESDICHA → disdìcia (sfortuna)[548] DESPEDIR → dispidire/dispidì (accomiatare, congedare)[548] DICHOSO, -A → diciosu, -a (felice, beato)[548] HERMOSO, -A → ermosu, -a / elmosu, -a (bello)[548] EMPLEO → impleu (carica, impiego)[548] ENFADAR, ENFADO → infadare/irfadare/iffadare, infadu/irfadu/iffadu (molestia, fastidio, rabbia; cf. cat. enfadar)[556] ENTERRAR, ENTIERRO → interrare, interru (seppellire, seppellimento; cf. cat. enterrar)[548] ESCARMENTAR → iscalmentare/iscrammentare/scramentai (apprendere dall'esperienza propria o altrui per evitare di commettere gli stessi errori; parola di etimologia originaria sconosciuta)[557] ESPANTAR → ispantare/spantai (spaventare; in campidanese, e in algherese, significa meravigliare; cf. cat. espantar) FEO → log. feu (brutto)[548] GANA → gana (voglia; cf. cat. gana; parola di etimologia originaria incerta)[558] GARAPIÑA → carapigna (bibita rinfrescante)[559] GASTO → gastu (spesa, consumo)[548] GOZOS → log. gosos/gotzos (composizioni poetiche sacre; cf. gocius) GREMIO → grèmiu (corporazione di diversi mestieri; anche questa parola fa parte dell'italiano parlato in Sardegna, dove i gremi sono per esempio le corporazioni di mestieri dei Candelieri di Sassari o della Sartiglia di Oristano; oltre che in Sardegna e in spagnolo, la parola si usa anche in portoghese, gremio, catalano, gremi, tedesco, Gremium, e nell'italiano parlato in Svizzera, nel Canton Ticino) GUISAR → ghisare (cucinare; cf.cat. guisar)[548] HACIENDA → sienda (proprietà)[544] HÓRREO → òrreu (granaio) JÍCARA → cìchera, cìcara (tazza; parola originariamente proveniente dal náhuatl)[560] LÁSTIMA → làstima (peccato, danno, pena; qué lástima → ite làstima (che peccato), me da lástima → mi faet làstima (mi fa pena) )[548] LUEGO → luegus (subito, fra poco) MANCHA → log. e camp. mància, nuor. mantza (macchia) MANTA → manta (coperta; cf. cat. manta) MARIPOSA → mariposa (farfalla)[548] MESA → mesa (tavolo) MIENTRAS → camp. mentras (cf. cat. mentres) MONTÓN → muntone (mucchio; cf. cat. munt)[561] OLVIDAR → olvidare (dimenticare)[548] PEDIR → pedire (chiedere, richiedere) PELEA → pelea (lotta, lite)[548] PLATA → prata (argento) PORFÍA → porfia (ostinazione, caparbietà, insistenza)[562] POSADA → posada (locanda, luogo di ristoro) PREGUNTAR, PREGUNTA → preguntare/pregontare, pregunta/pregonta (domandare, domanda; cf. cat. preguntar, pregunta) PUNTAPIÉ (s.m.) → puntepé/puntepei (s.f.) (calcio, colpo dato con la punta del piede) PUNTERA → puntera (parte della calza o della scarpa che copre la punta del piede; colpo dato con la punta del piede) QUERER → chèrrer(e) (volere) RECREO → recreu (pausa, ricreazione; divertimento)[548] RESFRIARSE, RESFRÍO → s'arrefriare, arrefriu (raffreddarsi, raffreddore)[548] SEGUIR → sighire (continuare; seguire; cf. cat. seguir)[544] TAJA → tacca (pezzo) TIRRIA, TIRRIOSO → tirria, tirriosu (cattivo sentimento; cf. cat. tírria)[563] TOMATE (s.m.) → nuor. e centrale tamata/camp. e gall. tumata (s.f.) (pomodoro; parola originariamente proveniente dal náhuatl)[564] TOPAR → atopare/atopai (incontrare, anche per caso, qualcuno; imbattersi in qualcosa; voce onomatopeica; cf. cat. topar)[565] VENTANA → log. e camp. ventana/log. bentana (finestra) VERANO → log. beranu (sp. estate, srd. primavera) Origine toscana/italiana[modifica | modifica wikitesto] ARANCIO → aranzu/arangiu AUTUNNO → atonzu/atongiu BELLO/-A → bellu/-a BIANCO → biancu CERTO/-A → tzertu/-a CINTA → tzinta CITTADE → ant. kittade → tzitade/citade/tzitadi/citadi (città) GENTE → zente/genti INVECE → imbètzes/imbecis MILLE → milli OCCHIALI → otzales SBAGLIO → irballu/isbàlliu/sbàlliu VERUNO/-A → perunu/-a (alcuno/-a) ZUCCHERO → thùccaru/tzùccaru/tzùcuru Prenomi, cognomi e toponimi[modifica | modifica wikitesto] Lo stesso argomento in dettaglio: Prenomi sardi e Cognomi sardi. Dalla lingua sarda derivano tanto i nomi storici di persona (nùmene / nomen / nomini-e / lumene o lomini) e i soprannomi (nomìngiu / nominzu / o paranùmene / paralumene / paranomen / paranomine-i), che i sardi avrebbero conferito l'un l'altro fino all'epoca contemporanea per poi cadere nell'attuale disuso,[566] quanto buona parte dei cognomi tradizionali (sambenadu / sangunau), tuttora i più diffusi nell'isola. I toponimi della Sardegna possono vantare una storia antica,[567] sorgendo in alcuni casi un significativo dibattito inerente alle loro origini.[568] Note[modifica | modifica wikitesto] Esplicative[modifica | modifica wikitesto] ^ Con riguardo alla cristianizzazione dell'isola, Papa Simmaco fu battezzato a Roma e si diceva fosse «ex paganitate veniens»; la conversione degli ultimi pagani sardi, guidati da Ospitone, fu descritta da Tertulliano come il seguente evento: «Sardorum inaccessa Romanis loca, Christo vero subdita». Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997, p. 73. ^ «Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt. ab his orti Poeni multis Carthaginiensium rebellionibus, multis violatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. [...] Africa ipsa parens illa Sardiniae, quae plurima et acerbissima cum maioribus nostris bella gessit.» Cicero: Pro Scauro, su thelatinlibrary.com. URL consultato il 28 novembre 2015. ^ «Potissimum vero ad usurpandum in scriptis Italicum idioma gentem nostram fuisse adductam puto finitimarum exemplo, Provincialium, Corsorum atque Sardorum» ("In verità ritengo anzitutto che la nostra gente [italiana] sia stata indotta a usare nello scritto l'idioma italico, seguendo l'esempio dei vicini Provenzali, Corsi e Sardi") e, più in là, «Sardorum quoque et Corsorum exemplum memoravi Vulgari sua Lingua utentium, utpote qui Italis preivisse in hoc eodem studio videntur» ("Ho ricordato, fra l'altro, l'esempio dei Sardi e dei Corsi, che hanno impiegato la propria lingua volgare, come quelli che in ciò hanno preceduto gli Italiani"). Antonio, Ludovico Antonio (1739). Antiquitates Italicae Moedii Evi, Mediolani, t. 2, col. 1049 ^ Incipit di Ines Loi Corvetto, La Sardegna e la Corsica, Torino, UTET, 1993. Hieronimu Araolla, edited by Max Leopold Wagner, Die Rimas Spirituales Von Girolamo Araolla. Nach Dem Einzigen Erhaltenen Exemplar Der Universitätsbibliothek in Cagliari, Princeton University, 1915, p. 76. Semper happisi desiggiu, Illustrissimu Segnore, de magnificare, & arrichire sa limba nostra Sarda; dessa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones dessu mundu hant magnificadu & arrichidu; comente est de vider per isos curiosos de cuddas. ("Sempre abbia il desiderio, Illustrissimo Signore, di magnificare e arricchire la nostra lingua sarda; nel medesimo modo in cui tutte le nazioni del mondo hanno magnificato e arricchito [la propria]; come si può vedere per coloro che ne sono incuriositi.") ^ …L'Alguer castillo fuerte bien murado / con frutales por tierra muy divinos / y por la mar coral fino eltremado / es ciudad de mas de mil vezinos… Joaquín Arce, España en Cerdeña, 1960, p. 359. ^ E.g.: «…Non podende sufrire su tormentu / de su fogu ardente innamorosu. / Videndemi foras de sentimentu / et sensa una hora de riposu, / pensende istare liberu e contentu / m'agato pius aflitu e congoixosu, / in essermi de te senora apartadu, / mudende ateru quelu, ateru istadu…» Antonio de Lo Frasso, Los Cinco Ultimos Libros de Fortuna de Amor, vol. 2, Londra, Henrique Chapel, 1573-1740, pp. 141-144. ^ «Sendemi vennidu à manos in custa Corte Romana unu Libru in limba Italiana, nouamente istampadu, […] lu voltao in limba Sarda pro dare noticia de cuddas assos deuotos dessa patria mia disijosos de tales legendas. Las apo voltadas in sardu menjus qui non in atera limba pro amore de su vulgu […] qui non tenjan bisonju de interprete pro bi-las decrarare, & tambene pro esser sa limba sarda tantu bona, quanta participat de sa latina, qui nexuna de quantas limbas si plàtican est tantu parente assa latina formale quantu sa sarda. […] Pro su quale si sa limba Italiana si preciat tantu de bona, & tenet su primu logu inter totas sas limbas vulgares pro esser meda imitadore dessa Latina, non si diat preciare minus sa limba Sarda pusti non solu est parente dessa Latina, pero ancora sa majore parte est latina vera. […] Et quando cussu non esseret, est suficiente motiuu pro iscrier in Sardu, vider, qui totas sas nationes iscriven, & istampan libros in sas proprias limbas naturales in soro, preciandosi de tenner istoria, & materias morales iscritas in limba vulgare, pro qui totus si potan de cuddas aprofetare. Et pusti sa limba latina Sarda est clara & intelligibile (iscrita, & pronunciada comente conuenit) tantu & plus qui non quale si querjat dessas vulgares, pusti sos Italianos, & Ispagnolos, & totu cuddos qui tenen platica de latinu la intenden medianamente.» ("Essendo entrato in possesso, presso questa Corte Romana, di un libro in lingua italiana di nuova ristampa, […] l'ho tradotto in lingua sarda per darne notizia ai devoti della mia patria desiderosi di tali leggende. Le ho tradotte in sardo, anziché in un'altra lingua, per amore del popolo […] i quali [popolani] non necessitavano di alcun interprete per potergliele enunciare, anche per via del fatto che la lingua sarda è nobile in virtù della sua partecipazione alla latinità, giacché nessuna lingua parlata è tanto prossima al latino classico quanto quella sarda. […] Giacché, se la lingua italiana si apprezza molto, e se tra tutte le lingue volgari si trova al primo posto per aver molto replicato quella latina, non meno si dovrebbe apprezzare la lingua sarda dal momento che non solo è parente di quella latina, ma è in gran parte latino schietto. […] E quandanche non fosse così, è un motivo sufficiente per scrivere in sardo vedere che tutte le nazioni scrivono e stampano libri nella loro lingua naturale, fregiandosi di avere storia e materie morali scritte in lingua volgare, affinché tutti possano recare giovamento da esse. E dal momento che la lingua latina sarda è, quando scritta e pronunciata come si conviene, chiara e comprensibile in misura uguale, se non superiore rispetto a quelle volgari, dal momento che gli Italiani, e gli Spagnoli, e tutti coloro che praticano il latino in generale la capiscono"). Ioan Matheu Garipa, Legendariu de santas virgines, et martires de Iesu Crhistu, Per Lodouicu Grignanu, Roma, 1627. ^ Nella Dedica alla moglie di Carlo Alberto si possono scorgere diversi passaggi in cui egli omaggiava le politiche culturali perseguite in Sardegna, quali "Era destino che la dolcissima Italiana favella, sebbene nata sulle amene sponde dell'Arno, divenuta sarebbe un dì anche ricco patrimonio degli Abitanti del Tirso" (p. 5) e, formulando un voto di fedeltà alla nuova dinastia di reggenti in luogo della spagnola, "Di tanto bene la Sardegna è debitrice alla Augustissima CASA SABAUDA, la quale, cessata l'ispanica dominazione, con tante savie istituzioni promosse in ogni tempo le scienze, statuendo fin dalla metà del secolo trascorso, che nei Dicasteri e nel pubblico insegnamento delle Scuole Inferiori si facesse uso di quel Toscano che fu poscia la lingua di quante persone ebbero voce di bennate e di colte." (p. 6). Nella Prefazione, più specificamente intitolata Al giovanetto alunno, si dichiara l'intenzione, comune al Porru, di pubblicare un lavoro dedicato alla didattica dell'italiano, partendo dalle differenze e similitudini fornite dalla grammatica di un'altra lingua più familiare, il sardo. ^ Al fine di meglio comprendere tale dichiarazione, occorre infatti osservare che, secondo le disposizioni del governo, «in nessun modo e per nessun motivo esiste la regione» (Casula, Francesco. Sa chistione de sa limba in Montanaru e oe (PDF)., p. 66). ^ In realtà, databili intorno alla seconda metà dell'Ottocento, in seguito alla già menzionata Perfetta Fusione (cfr. Dettori 2001); difatti, neanche nella trattazione settecentesca di autori quali il Cetti si rinvengono giudizi di valore circa la dignità del sardo, sulla cui indipendenza linguistica convenivano generalmente anche gli autori italiani (cfr. Ferrer 2017). ^ Il Wagner cita al riguardo Giacomo Tauro che, a dispetto della vulgata fascista sull'assimilazione del sardo al sistema linguistico italiano, già osservava in una conferenza tenuta a Nuoro nel 1937 che «[La Sardegna] ha una sua propria lingua, che è qualcosa di più e di diverso dai dialetti delle altre regioni d’Italia… Se i diversi dialetti d’Italia hanno tutti qualcosa d’interferente, per cui non è difficile a chi attentamente ne ascolti qualcuno e di essi abbia una certa pratica, d’intuirne e comprenderne, almeno superficialmente, il significato, i dialetti sardi invece non solo riescono quasi del tutto incomprensibili a chi non è dell’isola, ma anche con la pratica difficilmente possono essere acquisiti.» ( Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951-1997, p. 82.) ^ Tali istanze eminentemente industrialistiche e produttivistiche sono finanche attestate nelle norme di cui all'art. 13 del progetto finale, che recita «lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell'Isola.» Cfr. Testo storico dello Statuto (PDF). ^ Alla base del cosiddetto "autonomismo abortivo", secondo i primi critici dello statuto quali Eliseo Spiga, vi era la mancata assunzione di un'identità sarda dotata di soggettività distinta, nelle sue specificità etnonazionali, linguistiche e culturali rispetto alla comunità statale nel suo insieme; in mancanza della quale, a loro avviso si sarebbe approdati a un modello amministrativo che omologava l'isola a "una qualsiasi provincia dello Stivale". Francesco Casula, Gianfranco Contu, Storia dell'autonomia in Sardegna, dall'Ottocento allo Statuto Sardo (PDF), Dolianova, Stampa Grafica del Parteolla, 2008, p. 116. URL consultato il 25 agosto 2019 (archiviato dall'url originale il 20 ottobre 2020). ^ Istanza del Prof. A. Sanna sulla pronuncia della Facoltà di Lettere in relazione alla difesa del patrimonio etnico-linguistico sardo. Il prof. Antonio Sanna fa a questo proposito una dichiarazione: «Gli indifferenti problemi della scuola, sempre affrontati in Sardegna in torma empirica, appaiono oggi assai particolari e non risolvibili in un generico quadro nazionale; il tatto stesso che la scuola sia diventata scuola di massa comporta il rifiuto di una didattica inadeguata, in quanto basata sull'apprendimento concettuale attraverso una lingua, per molti aspetti estranea al tessuto culturale sardo. Poiché esiste un popolo sardo con una propria lingua dai caratteri diversi e distinti dall'italiano, ne discende che la lingua ufficiale dello Stato, risulta in effetti una lingua straniera, per di più insegnata con metodi didatticamente errati, che non tengono in alcun conto la lingua materna dei Sardi: e ciò con grave pregiudizio per un'efficace trasmissione della cultura sarda, considerata come sub-cultura. Va dunque respinto il tentativo di considerare come unica soluzione valida per questi problemi una forzata e artificiale forma di acculturazione dall'esterno, la quale ha dimostrato (e continua a dimostrare tutti) suoi gravi limiti, in quanto incapace di risolvere i problemi dell'isola. È perciò necessario promuovere dall'interno i valori autentici della cultura isolana, primo fra tutti quello dell'autonomia, e "provocare un salto di qualità senza un'acculturazione di tipo colonialistico, e il superamento cosciente del dislivello di cultura" (Lilliu). La Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliari, coerentemente con queste premesse con l'istituzione di una Scuola Superiore di Studi Sardi, è pertanto invitata ad assumere l'iniziativa di proporre alle autorità politiche della Regione Autonoma e dello Stato il riconoscimento della condizione di minoranza etnico-linguistica per la Sardegna e della lingua sarda come lingua «nazionale» della minoranza. È di conseguenza opportuno che si predispongano tutti i provvedimenti a livello scolastico per la difesa e conservazione dei valori tradizionali della lingua e della cultura sarda e, in questo contesto, di tutti i dialetti e le tradizioni culturali presenti in Sardegna (ci si intende riferire al Gallurese, al Sassarese, all'Algherese e al Ligure-Carlofortino). In ogni caso tali provvedimenti dovranno comprendere necessariamente, ai livelli minimi dell'istruzione, la partenza dell'insegnamento del sardo e dei vari dialetti parlati in Sardegna, l'insegnamento nella scuola dell'obbligo riservato ai Sardi o coloro che dimostrino un'adeguata conoscenza del sardo, o tutti quegli altri provvedimenti atti a garantire la conservazione dei valori tradizionali della cultura sarda. È bene osservare come, nel quadro della diffusa tendenza a livello internazionale per la difesa delle lingue delle minoranze minacciate, provvedimenti simili a quelli proposti sono presi in Svizzera per la minoranza ladina fin dal 1938 (48 000 persone), in Inghilterra per il Galles, in Italia per le minoranze valdostana, slovena e ultimamente ladina (15 000 persone), oltre che per quella tedesca; a proposito di queste ultime e specificamente in relazione al nuovo ordinamento scolastico alto-atesino. Il presidente del Consiglio on. Colombo, nel raccomandare ala Camera le modifiche da apportare allo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige (il cosiddetto "pacchetto"), «modifiche che non escono dal concetto di autonomia indicato dalla Costituzione», ha ritenuto di dovere sottolineare l'opportunità "che i giovani siano istruiti nella propria lingua materna da insegnanti appartenenti allo stesso gruppo linguistico"; egli inoltre aggiungeva che "solo eliminando ogni motivo di rivendicazione si crea il necessario presupposto per consentire alla scuola di svolgere la sua funzione fondamentale in un clima propizio per la migliore formazione degli allievi". Queste chiare parole del presidente del Consiglio ci consentono di credere che non si voglia compiere una discriminazione nei confronti della minoranza sarda, ma anche per essa valga il principio enunciato dall'opportunità dell'insegnamento della lingua materna a opera di insegnanti appartenenti allo stesso gruppo linguistico, onde consentire alla scuola di svolgere anche in Sardegna la sua funzione fondamentale in un clima propizio alla migliore formazione per gli allievi. Si chiarisce che tutto ciò non è sciovinismo né rinuncia a una cultura irrinunciabile, ma una civile e motivata iniziativa per realizzare in Sardegna una vera scuola, una vera rinascita, "in un rapporto di competizione culturale con lo stato (…) che arricchisce la Nazione" (Lilliu)». Il Consiglio unanime approva le istanze proposte dal prof. Sanna e invita le competenti autorità politiche a promuovere tutte le iniziative necessarie, sul piano sia scolastico che politico-economico, a sviluppare coerentemente tali principi, nel contempo acquisendo dati atti a mettere in luce il suesposto stato. Cagliari, 19 febbraio 1971. [Farris, Priamo (2016). Problemas e aficàntzias de sa pianificatzioni linguistica in Sardigna. Limba, Istòria, Sotziedadi / Problemi e prospettive della pianificazione linguistica in Sardegna. Lingua, Storia, Società, Youcanprint] ^ "O sardu, si ses sardu e si ses bonu, / Semper sa limba tua apas presente: / No sias che isciau ubbidiente / Faeddende sa limba 'e su padronu. / Sa nassione chi peldet su donu / De sa limba iscumparit lentamente, / Massimu si che l'essit dae mente / In iscritura che in arrejonu. / Sa limba 'e babbos e de jajos nostros / No l'usades pius nemmancu in domo / Prite pobera e ruza la creides. / Si a iscola no che la jughides / Po la difunder menzus, dae como / Sezis dissardizende a fizos bostros." ("O sardo, se sei sardo e sei bravo / abbi sempre presente la tua lingua: / non essere come uno schiavo ubbidiente / che parla la lingua del padrone. / La nazione che perde il dono / della lingua scompare lentamente, / soprattutto se le esce dalla mente / scrivendo e discorrendo. / La lingua dei nostri padri e dei nostri nonni / non la usate più neanche a casa / dal momento che la ritenete povera e rozza. / Se non la portate a scuola / ora, per diffonderla meglio, / starete de-sardizzando i vostri figli.") in Piras, Raimondo. No sias isciau (RTF), su poesias.it. ^ L'italianizzazione culturale della popolazione sarda aveva allora assunto proporzioni tanto considerevoli da indurre il Pellegrini, nella Introduzione all'Atlante storico-linguistico-etnografico friulano, a tessere le lodi dei sardi giacché questi ultimi si dicevano disposti ad accettare che il loro idioma, pur costituendo «un mezzo espressivo assai meno subordinato all'italiano» fosse considerato un semplice "dialetto" dell'italiano, in netto contrasto all'orgoglio e lealtà linguistica dei friulani (Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, p. 195 ; Pellegrini, Giovan Battista (1972). Introduzione all'Atlante storico-linguistico-etnografico friulano (ASLEF), Vol. I, p. 17). Considerazioni analoghe a quelle del Pellegrini erano state avanzate qualche anno prima, nel 1967, dal linguista tedesco Heinz Kloss in riferimento al concetto da lui coniato di Dachsprache ("lingua tetto"); nel suo studio pioneristico, egli osservava come idiomi di comunità quali i sardi, occitani e haitiani, fossero da esse stesse ora percepiti meramente come «dialetti di lingue vittoriose piuttosto che sistemi linguistici autonomi», diversamente dalla profonda lealtà linguistica dei catalani che, nonostante il proibizionismo franchista, non avrebbero mai accettato una siffatta degradazione del loro idioma rispetto all'unica lingua allora ufficiale, lo spagnolo (Kloss, Heinz (1967). "Abstand Languages" and "Ausbau Languages". Anthropological Linguistics, 9 (7), p. 36). ^ È interessante notare come nella questione linguistica sarda possa, per certi versi, sussistere un parallelismo con l'Irlanda, in cui un similare fenomeno ha assunto il nome di circolo vizioso dell'Irish Gaeltacht (Cfr. Edwards 1985). Difatti in Irlanda, all'abbassamento di prestigio del gaelico verificatosi quando esso risultò parlato in aree socialmente ed economicamente depresse, si aggiunse l'emigrazione da tali aree verso quelle urbane e ritenute economicamente più avanzate, nelle quali l'idioma maggioritario (l'inglese) sarebbe stato destinato a sopraffare e prevalere su quello minoritario degli emigranti. ^ Non è un caso che queste tre lingue, protette da accordi internazionali, siano le uniche minoranze linguistiche ritenute da Gaetano Berruto (Lingue minoritarie, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 335-346, 2009) come non minacciate. 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Il sardo, su treccani.it. ^ Salta a:a b «La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche al sistema dei dialetti sardi, che si considerano come un gruppo romanzo autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani.» Fiorenzo Toso, Minoranze linguistiche, su treccani.it, Treccani, 2011. ^ L. 15 dicembre 1999, n. 482 - Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche ^ L'UNESCO e la diversità linguistica. Il caso dell'Italia ^ Salta a:a b «With some 1,6 million speakers, Sardinia is the largest minority language in Italy. Sardinians form an ethnic minority since they show a strong awareness of being an indigenous group with a language and a culture of their own. Although Sardinian appears to be recessive in use, it is still spoken and understood by a majority of the population on the island». Kurt Braunmüller, Gisella Ferraresi (2003). Aspects of multilingualism in European language history. Amsterdam/Philadelphia: University of Hamburg. John Benjamins Publishing Company. p. 238 ^ «Nel 1948 la Sardegna diventa, anche per le sue peculiarità linguistiche, Regione Autonoma a statuto speciale. Tuttavia a livello politico, ufficiale, non cambia molto per la minoranza linguistica sarda, che, con circa 1,2 milioni di parlanti, è la più numerosa tra tutte le comunità alloglotte esistenti sul territorio italiano». De Concini, Wolftraud (2003). Gli altri d'Italia : minoranze linguistiche allo specchio, Pergine Valsugana: Comune, p. 196. ^ Lingue di Minoranza e Scuola, Sardo, su minoranze-linguistiche-scuola.it. 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È evidente che esso è, politicamente, uno dei tanti dialetti dell'Italia, come lo è anche, p. es., il serbo-croato o l'albanese parlato in vari paesi della Calabria e della Sicilia. Ma dal punto di vista linguistico la questione assume un altro aspetto. Non si può dire che il sardo abbia una stretta parentela con alcun dialetto dell'italiano continentale; è un parlare romanzo arcaico e con proprie spiccate caratteristiche, che si rivelano in un vocabolario molto originale e in una morfologia e sintassi assai differenti da quelle dei dialetti italiani». Max Leopold Wagner (1950-1997). La lingua sarda. Storia, spirito e forma. Ilisso. Nuoro, pp. 90-91. ^ Carlo Tagliavini (1982). Le origini delle lingue neolatine. Bologna: Patron. p. 122. ^ Rebecca Posner, John N. Green (1982). Language and Philology in Romance. Mouton Publishers. L'Aja, Parigi, New York. pp. 171 ss. ^ cfr. 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Questa circostanza ha molto facilitato le mie ricerche nell’isola, perché almeno la metà dei pastori e dei contadini non conoscono l’italiano.» Maurice Le Lannou, a cura di Manlio Brigaglia, Pastori e contadini in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1941-1979, p. 279. ^ «Prima di tutto, la neonata lingua sarda ingloba un consistente numero di termini e di cadenze provenienti da una lingua originaria preromana, che potremmo chiamare "nuragica".» Salvatore Tola, La Letteratura in Lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p. 9. ^ Salta a:a b c Heinz Jürgen Wolf, p. 20. ^ Archivio glottologico italiano, vol. 53-54, 1968, p. 209. ^ A.A., Atti del VI [i.e. Sesto] Congresso internazionale di studi sardi, 1962, p. 5 ^ Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all'età dei nuraghi, Nuova ERI, 1988, p. 269. ^ Yakov Malkiel (1947). 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Il Nome Sardo del Mese di Giugno (Lámpadas) e i Rapporti del Latino d'Africa con quello della Sardegna. Italica, 29 (3), 151-157. doi:10.2307/477388 ^ «Non vi è dubbio che vi erano rapporti più stretti tra la latinità dell'Africa settentrionale e quella della Sardegna. Senza parlare della affinità della razza e degli elementi libici che possano ancora esistere in sardo, non bisogna dimenticare che la Sardegna rimase, durante vari secoli, alle dipendenze dell'esarcato africano». Wagner, M. (1952). Il Nome Sardo del Mese di Giugno (Lámpadas) e i Rapporti del Latino d'Africa con quello della Sardegna. Italica, 29 (3), 152. doi:10.2307/477388 ^ Paolo Pompilio (1455-91): «ubi pagani integra pene latinitate loquuntur et, ubi uoces latinae franguntur, tum in sonum tractusque transeunt sardinensis sermonis, qui, ut ipse noui, etiam ex latino est» ("ove gli abitanti parlano un latino quasi intatto e, quando le parole latine si corrompono, passano allora ai suoni e tratti della lingua sarda, che, da quanto ne so, deriva anch'essa dal latino")». Citato in Michele Loporcaro, Vowel Length from Latin to Romance, Oxford University Press, 2015, p. 48. ^ Traduzione offerta da Michele Amari: «I sardi sono di schiatta RUM AFARIQAH (latina d'Africa), berberizzanti. Rifuggono (dal consorzio) di ogni altra nazione di RUM: sono gente di proposito e valorosa, che non lascia mai l'arme.» Nota di Mohamed Mustafa Bazama: «Questo passo, nel testo arabo, è un poco differente, traduco qui testualmente: "gli abitanti della Sardegna, in origine sono dei Rum Afariqah, berberizzanti, indomabili. Sono una (razza a sé) delle razze dei Rum. [...] Sono pronti al richiamo d'aiuto, combattenti, decisivi e mai si separano dalle loro armi (intende guerrieri nati).» Mohamed Mustafa Bazama, Arabi e sardi nel Medioevo, Cagliari, Editrice democratica sarda, 1988, pp. 17, 162. ^ «Wa ahl Ğazīrat Sardāniya fī aṣl Rūm Afāriqa mutabarbirūn mutawaḥḥišūn min ağnās ar-Rūm wa hum ahl nağida wa hazm lā yufariqūn as-silāḥ‎». Contu, Giuseppe. Sardinia in Arabic sources (PDF), su eprints.uniss.it. URL consultato il 23 aprile 2022 (archiviato dall'url originale il 25 febbraio 2021). Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Sassari, Vol. 3 (2003 pubbl. 2005), p. 287-297. 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La sua costruzione storica ha origini ben precise e ricostruibili. Nel periodo di esistenza del Regno di Sardegna, l'Isola era suddivisa in due Governatorati, il Capo di Sopra e il Capo di Sotto. Nel XVIII secolo, il naturalista Francesco Cetti, mandato da Torino a studiare la fauna e la natura della Sardegna, e quindi a mappare anche i Sardi, riprese la partizione amministrativa da un celebre commentario cinquecentesco della Carta de Logu utilizzato in ambienti governativi, e la traslò in ambito linguistico. Se esisteva il Capo di Su e il Capo di Sotto, doveva pur esistere un sardo di Su e un sardo di Sotto. Il primo lo denominò logudorese, e il secondo campidanese.» Paolo Caretti et al., Regioni a statuto speciale e tutela della lingua, G. Giappichelli Editore, 2017, p. 79. ^ Marinella Lőrinczi, Confini e confini. Il valore delle isoglosse (a proposito del sardo) (PDF), su people.unica.it, p. 9. ^ Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. 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Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 141. ^ Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 138. ^ Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 93. ^ Una lingua unitaria che non ha bisogno di standardizzazioni, Roberto Bolognesi. ^ Contini, Michel (1987). Ètude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde, Edizioni dell'Orso, Cagliari ^ Bolognesi R. & Heeringa W., 2005, Sardegna fra tante lingue. Il contatto linguistico in Sardegna dal Medioevo a oggi, Condaghes, Cagliari ^ Salta a:a b «Queste pretese barriere sono costituite da una manciata di fenomeni lessicali e fonetico-morfologici che, comunque, non impediscono la mutua comprensibilità tra parlanti di diverse varietà del sardo. Detto questo, bisogna ripetere che le varie operazioni di divisione del sardo in due varietà sono tutte basate quasi esclusivamente sull'esistenza di pronunce diverse di lessemi (parole e morfemi) per il resto uguali. […] Come si è visto, non solo la sintassi di tutte le varietà del sardo è praticamente identica, ma la quasi totalità delle differenze morfologiche è costituita da differenze, in effetti, lessicali e la percentuale di parole realmente differenti si aggira intorno al 10% del totale.» Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2013, p. 141. ^ Cf. Karl Jaberg, Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, vol. 8, Zofingen, Ringier, 1928. ^ «Noi ci atterremo alla partizione ormai classica che divide il Sardo in tre principali dialetti: il Campidanese, il Nuorese, il Logudorese». Maurizio Virdis, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1978, p. 9. ^ Cf. 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Straniera pure si deve avere la lingua che si parla in Sassari, Castelsardo e Tempio; è un dialetto italiano, assai più toscano, che non la maggior parte de’ medesimi dialetti d'Italia.» Francesco Cetti, Storia naturale della Sardegna. I quadrupedi, Sassari, 1774. ^ Giovanni Floris, L'uomo in Sardegna: aspetti di antropobiologia ed ecologia umana, Sestu, Zonza, 1998, p. 207. ^ Cfr. Francesco Mameli, Il logudorese e il gallurese, Villanova Monteleone, Soter editrice, 1998. ^ Mauro Maxia, Studi sardo-corsi, 2010, p.69 ^ Francesco Bruni, op. cit., 1992 e 1996. p. 562. ^ Le lingue dei Sardi (PDF)., Sito della Regione Autonoma della Sardegna, Anna Oppo (curatrice del rapporto finale) e AA. 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Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, 2ª ed., Il Maestrale, 2009, pp. 15-16. ^ «Cicerone in particolare odiava i Sardi per il loro colorito terreo, per la loro lingua incomprensibile, per l’antiestetica mastruca, per le loro origini africane e per l’estesa condizione servile, per l’assenza di città alleate dei Romani, per il rapporto privilegiato dei Sardi con l’antica Cartagine e per la resistenza contro il dominio di Roma.» Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, 2ª ed., Il Maestrale, 2009, p. 16. ^ Heinz Jürgen Wolf, pp. 19-20. ^ Salta a:a b Giovanni Lupinu, Storia della lingua sarda (PDF), su vatrarberesh.it, 19 aprile 2017. ^ Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Editori Laterza, 2009, p. 170. ^ Per una lista di vocaboli considerati ormai già desueti all'epoca di Varrone, cf. Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. 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Anche sotto i Bizantini la Sardegna rimase alle dipendenze dell’esarcato africano, ma l’amministrazione civile fu separata da quella militare; alla prima fu preposto un praeses, alla seconda un dux; tutti e due erano alle dipendenze del praefectus praetorii e del magister militum africani.» Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951–1997, p. 64. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 46, 48. ^ Salta a:a b c Luigi Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna : le invasioni arabe in Sardegna dal 704 al 1016, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 16. ^ M. Wescher e M. 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La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 49. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 49, 64. ^ «La lingua sarda acquisì dignità di lingua nazionale già dall'ultimo scorcio del secolo XI quando, grazie a favorevoli circostanze storico-politiche e sociali, sfuggì alla limitazione dell'uso orale per giungere alla forma scritta, trasformandosi in volgare sardo». Cecilia Tasca, Manoscritti e lingua sarda, Cagliari, La memoria storica, 2003, p. 15. ^ «I Sardi inoltre sono i primi fra tutti i popoli di lingua romanza a fare della lingua comune della gente, la lingua ufficiale dello Stato, del Governo…» Mario Puddu, Istoria de sa limba sarda, Selargius, Ed. Domus de Janas, 2002, p. 14. ^ Gian Giacomo Ortu, La Sardegna dei Giudici, Il Maestrale, 2005, p. 264. ^ Maurizio Virdis, Le prime manifestazioni della scrittura nel cagliaritano, in Judicalia, Atti del Seminario di Studi Cagliari 14 dicembre 2003, a cura di B. Fois, Cagliari, Cuec, 2004, pp. 45-54. ^ «Un caso unico - e a parte - nel dominio romanzo è costituito dalla Sardegna, in cui i documenti giuridici incominciano ad essere redatti interamente in volgare già alla fine dell'XI secolo e si fanno più frequenti nei secoli successivi. [...] L'eccezionalità della situazione sarda nel panorama romanzo consiste - come si diceva - nel fatto che tali testi sono stati scritti sin dall'inizio interamente in volgare. Diversamente da quanto succede a questa altezza cronologica (e anche dopo) in Francia, in Provenza, in Italia e nella Penisola iberica, il documento sardo esclude del tutto la compresenza di volgare e latino. (...) il sardo era usato prevalentemente in documenti a circolazione interna, il latino in documenti che concernevano il rapporto con il continente.» Lorenzo Renzi, Alvise Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza, Il Mulino, 2009, pp. 256-257. ^ Livio Petrucci, Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani, in Storia della lingua italiana, vol. 3, Torino, Einaudi, p. 58. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 50. ^ Salta a:a b Salvatore Tola, La Letteratura in Lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p. 11. ^ Salta a:a b «Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur.» Dantis Alagherii De Vulgari Eloquentia., Liber Primus, The Latin Library (Lib. I, XI, 7) ^ Salta a:a b «Eliminiamo anche i Sardi (che non sono Italiani, ma sembrano accomunabili agli Italiani) perché essi soli appaiono privi di un volgare loro proprio e imitano la "gramatica" come le scimmie imitano gli uomini: dicono infatti "domus nova" e "dominus meus".» De Vulgari Eloquentia. URL consultato il 9 giugno 2019 (archiviato dall'url originale l'11 aprile 2018)., parafrasi e note a cura di Sergio Cecchin. Edizione di riferimento: Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino 1986 ^ Salta a:a b Marinella Lőrinczi, La casa del signore. La lingua sarda nel De vulgari eloquentia (PDF). ^ Domna, tant vos ai preiada (BdT 392.7), vv. 74-75. ^ Leopold Wagner, Max. La lingua sarda, a cura di Giulio Paulis (archiviato dall'url originale il 26 gennaio 2016). - Ilisso, pp.78 ^ Salvi, Sergio. Le lingue tagliate: storia delle minoranze linguistiche in Italia, Rizzoli, 1975, p. 195 ^ Rebecca Posner, John N. Green (1982). Language and Philology in Romance. 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Testi, autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006, p. 17. ^ «Ma, prescindendo dalle divergenze stilistiche e da altri particolari minori, si può dire che la lingua dei documenti antichi è assai omogenea e che, ad ogni modo, l’originaria unità della lingua sarda vi si intravede facilmente.» Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1951-1997, p. 84. ^ Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna, Patron, 1964, p. 450. ^ Salta a:a b Eduardo Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Walter de Gruyter, 1º gennaio 1984, p. 133, ISBN 978-3-11-132911-6. URL consultato il 6 marzo 2016. ^ Francesco Bruni, Storia della lingua italiana, Dall'Umbria alle Isole, vol. 2, Torino, Utet, p. 582, ISBN 88-11-20472-0.. ^ Antonietta Orunesu, Valentino Pusceddu (a cura di). Cronaca medioevale sarda: i sovrani di Torres, 1993, Astra, Quartu S. Elena, p. 11. ^ Tale indirizzo politico, poi palesatosi con la lunga guerra sardo-catalana, era già manifesto nel 1164 sotto la reggenza di Barisone I de Lacon-Serra, il cui sigillo recava le iscrizioni, di tipo decisamente "sardista" (Casula, Francesco Cesare. La scrittura in Sardegna dal nuragico ad oggi, Carlo Delfino Editore, p.91) Baresonus Dei Gratia Rei Sardiniee ("Barisone, per grazia di Dio Re di Sardegna") e Est vis Sardorum pariter regnum Populorum ("È la forza dei Sardi pari al regno dei Popoli"). ^ Salta a:a b «I sardi di Arborea si allearono ai catalani per cacciare gli italiani. I pisani, battuti, lasciarono l'isola nel 1326. I genovesi seguirono la stessa sorte nel 1348. La nuova dominazione innesca però una sorta di rudimentale sentimento nazionale isolano. I sardi, cacciati finalmente i vecchi dominatori (gli italiani) intendono cacciare anche i catalani. Mariano IV di Arborea vuole infatti unificare l'isola sotto il suo scettro e impegna a tal punto le forze catalane che Pietro IV di Aragona è costretto a venire di persona nell'isola al comando di un nuovo esercito per consolidare la sua conquista.» Sergio Salvi, Le lingue tagliate, Rizzoli, 1974, p. 179. ^ «È evidente», scrive Francesco Cesare Casula, «che la diversità di lingua e forse un atteggiamento di superiorità nei confronti dei Sardi da parte degli Aragonesi mal accetto in generale e in particolare in un Paese che si considerava sovrano fece sì che l'Arborea si mantenesse fedele alla tradizione italiana ormai recepita da secoli e adattata alle esigenze locali.» Francesco Cesare Casula, Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu, sta in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari, 1979, 3 tomi, p. 71-109. La citazione si trova in: Francesco Bruni (direttore), AA.VV. Storia della lingua italiana, vol. II, Dall'Umbria alle Isole, Utet, Torino, 1992 e 1996, Garzanti, Milano, 1996, p. 581, ISBN 88-11-20472-0. ^ Lo studio delle fonti documentarie di Arborea effettuato da Francesco Cesare Casula rileverebbe, a detta dell'autore, non solo una qual certa influenza toscana, ma persino «un'affermazione di italianità». Francesco Cesare Casula, op. cit., 1979, p. 87; sta in Francesco Bruni (direttore), op. cit., vol II 1992 e 1996, p. 584. ^ Francesco Bruni (direttore), op. cit., vol. II, 1992 e 1996, p. 584-585. ^ Eduardo Blasco Ferrer, Storia linguistica della Sardegna, Tübingen, Niemeyer, 1984, p. 132. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 83. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 57. ^ Francesco Cesare Casula sostiene che «chi non parlava o non capiva il sardo, per timore che fosse aragonese, veniva ucciso», riportando il caso di due giocolieri siciliani che, trovandosi a Bosa in quel periodo, furono aggrediti perché «creduti iberici per la loro lingua incomprensibile». Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, pp. 56-57. ^ Cfr. Francesco Cesare Casula, Le rivolte antiaragonesi nella Sardegna regnicola, 5, in Il Regno di Sardegna, vol. 1, Logus, ISBN 9788898062102. ^ Ibidem ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Editrice Democratica Sarda, 1978, pp. 38-39. ^ Francesco Cesare Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese, Cagliari, Edizioni della Torre, 1982, p. 128. ^ Proto Arca Sardo; Maria Teresa Laneri, De bello et interitu marchionis Oristanei, Cagliari, CUEC, 2003. URL consultato il 17 marzo 2022 (archiviato dall'url originale il 4 agosto 2020). ^ Max Leopold Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, pp. 68-69. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Cagliari, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 29. ^ Francesco Cesare Casula, Breve storia della scrittura in Sardegna. La "documentaria" nell'epoca aragonese, Cagliari, Editrice Democratica Sarda, 1978, p. 28. ^ Francesco Cesare Casula, La Sardegna catalano-aragonese, 6, in Il Regno di Sardegna, vol. 2, Logus, ISBN 9788898062102. ^ Francesco C. Casula, La storia di Sardegna, 1994, p. 424. ^ Salta a:a b «[I Sardi] parlano una loro lingua peculiare, il sardo, sia in versi che in prosa, e questo in particolare nel Capo del Logudoro ove è più pura, più ricca ed elegante. E giacché sono immigrati qui, e ogni giorno ve ne giungono altri per praticarvi il commercio, molti spagnoli (tarragonesi o catalani) e italiani, si parlano anche le lingue spagnola (tarragonese o catalana) e quella italiana, sicché in un medesimo popolo si dialoga in tutti questi idiomi. I Cagliaritani e gli Algheresi si esprimono però, in genere, nella lingua dei loro maggiori, cioè il catalano, mentre gli altri conservano quella autentica dei Sardi.» Testo originale: «[Sardi] Loquuntur lingua propria sardoa, tum ritmice, tum soluta oratione, praesertim in Capite Logudorii, ubi purior copiosior, et splendidior est. Et quia Hispani plures Aragonenses et Cathalani et Itali migrarunt in eam, et commerciorum caussa quotidie adventant, loquuntur etiam lingua hispanica et cathalana et italica; hisque omnibus linguis concionatur in uno eodemque populo. Caralitani tamen et Algharenses utuntur suorum maiorum lingua cathalana; alii vero genuinam retinent Sardorum linguam.» Ioannes Franciscus Fara, De Chorographia Sardiniæ Libri duo. De Rebus Sardois Libri quatuor, Torino, Typographia regia, 1835-1580, p. 51. Traduzione di Giovanni Lupinu, da Ioannis Francisci Farae (1992-1580), In Sardiniae Chorographiam, v.1, "Sulla natura e usi dei Sardi", Gallizzi, Sassari. ^ Max Leopold Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 185. ^ Salta a:a b c Francesco Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo (secoli XVI-XVII), Il Maestrale, 2010, p. 24. ^ Cfr. J. Dexart, Capitula sive acta curiarum Regni Sardiniae, Calari, 1645. lib. I, tit. 4, cap. 1 ^ «Tutta la popolazione sarda che non abitava le città e che era vassalla nei feudi era retta dalla Carta de Logu, promulgata da Eleonora d’Arborea verso il 1395 e dichiarata legge nazionale dei Sardi da Alfonso V nel parlamento tenuto in Cagliari nel 1421.» Max Leopold Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 69. ^ Max Leopold Wagner, La lingua sarda: storia, spirito e forma, Bern, Francke, 1951, p. 186. ^ Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 33. ^ Antonio Nughes, Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, Edizioni del Sole, 1990, pp. 417-423 ^ Antonio Nughes, Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, Edizioni del Sole, 1990, p. 236 ^ Paolo Maninchedda, Il più antico catechismo in sardo. Bollettino di studi sardi, anno XV n. 15/2022. ^ Gessner, Conrad (1555). De differentiis linguarum tum veterum tum quae hodie apud diversas nationes in toto orbe terraru in usu sunt., Sardorum lingua: pp. 66-67. ^ Sigismondo Arquer; Maria Teresa Laneri, Sardiniae brevis historia et descriptio (PDF), CUEC, 2008, pp. 30-31. URL consultato il 19 marzo 2022 (archiviato dall'url originale il 29 dicembre 2020)... «certamente i sardi ebbero un tempo una lingua propria, ma poiché diversi popoli immigrarono nell'isola e il suo governo fu assunto da sovrani stranieri (vale a dire da Latini, Pisani, Genovesi, Spagnoli e Africani), la loro lingua fu pesantemente corrotta, pur rimanendo un gran numero di vocaboli che non si ritrovano in alcun idioma. Ancor oggi essa conserva molti vocaboli della parlata latina. […] È per questo che i sardi, a seconda delle zone, parlano in maniera tanto diversa: appunto perché ebbero una dominazione così varia; ciò nonostante, fra loro si comprendono perfettamente. In questa isola vi sono comunque due lingue principali, una che si usa nelle città e un'altra che si usa al di fuori delle città: i cittadini parlano comunemente la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che appresero dagli ispanici, i quali ricoprono in quelle città la gran parte delle magistrature; gli altri, invece, conservano la lingua genuina dei sardi.» Testo originale: «Habuerunt quidem Sardi linguam propriam, sed quum diversi populi immigraverint in eam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis tamen plurimis vocabulis, quae in nullo inveniuntur idiomate. […] Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur, iuxta quod tam varium habuerunt imperium, etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea insula linguae, una qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates. Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum Linguam.» Sigismondo Arquer; Maria Teresa Laneri, Sardiniae brevis historia et descriptio (PDF), CUEC, 2008, pp. 30-31. ^ Turtas, Raimondo (1981). La questione linguistica nei collegi gesuitici in Sardegna nella seconda metà del Cinquecento, in "Quaderni sardi di storia" 2, p. 60. ^ Giancarlo Sorgia, Storia della Sardegna spagnola, Sassari, Chiarella, 1987, p. 37. ^ Max Leopold Wagner, op. cit., 1951, p. 391 e Antonio Sanna, Il dialetto di Sassari, Cagliari, Trois, 1975, p. 18 e seg. Entrambi sono in Francesco Bruni, op. cit., 1992 e 1996, p. 562 ^ Bruno Migliorini, Breve storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1969, p. 138. ^ «Per quant en lo present regne hi ha algunes citats, com es la vila de Iglesias y Bosa, que tenen capitol de breu, ab lo qual se regexen, y son en llengua pisana o italiana; y por lo semblant la ciutat de Sasser té alguns capitols en llengua genovese o italiana; y per quant se veu no convé ni es just que lleys del regne stiguen en llengua strana, que sia provehit y decretat que dits capitols sien traduhits en llengua sardesca o catalana, y que los de llengua italiana sien abolits, talment que no reste memoria de aquells». E. 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Movimenti religiosi penitenziali in Logudoro, L'Asfodelo Editore, 1987 ^ «Il brano qui riportato non è soltanto illustrativo di una chiara evoluzione di diglossia con bilinguismo dei ceti medio-alti (il cavaliere sa lo spagnolo e il sardo), ma anche di un rapporto gerarchico, tra lingua dominante (o "egèmone", come direbbe Gramsci) e subordinata, che tuttavia concede spazio al codice etnico, rispettato e persino appreso dai conquistatori.» Eduardo Blasco Ferrer, Giorgia Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal paleosardo alla musica rap, evoluzione storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di brani esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 99. ^ Francesco Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo (secoli XVI-XVII), Il Maestrale, 2010, p. 35. ^ «Los tercios españoles solo podían ser comandados por soldados que hablasen castellano, catalán, portugués o sardo. Cualquier otro tenía vedado su ascenso, por eso los italianos que chapurreaban español se hacían pasar por valencianos para intentar su promoción.» (ES) Vicente G. Olaya, La segunda vida de los tercios, in El País, 6 gennaio 2019. URL consultato il 4 giugno 2019. ^ Michelle Hobart, A Companion to Sardinian History, 500–1500, Leiden, Boston, Brill, 2017, pp. 111-112. ^ Raimondo Turtas, Studiare, istruire, governare. La formazione dei letrados nella Sardegna spagnola, EDES, 2001, p. 236. ^ «Totu sas naziones iscrient e imprentant sos libros in sas propias limbas nadias e duncas peri sa Sardigna – sigomente est una natzione – depet iscriere e imprentare sos libros in limba sarda. Una limba chi de seguru bisongiat de irrichimentos e de afinicamentos, ma non est de contu prus pagu de sas ateras limbas neolatinas.» ("Tutte le nazioni scrivono e stampano libri nella propria lingua natale, e dunque anche la Sardegna - dal momento che è una nazione - deve scrivere e stampare libri in lingua sarda. Una lingua - segue il Garipa - che senza dubbio necessita di arricchimenti e limature, ma non è meno importante rispetto alle altre lingue neolatine."). Casula, Francesco. Sa chistione de sa limba in Montanaru e oe (PDF). ^ Paolo Maninchedda (2000): Nazionalismo, cosmopolitismo e provincialismo nella tradizione letteraria della Sardegna (secc. XV–XVIII), in: Revista de filología Románica, 17, p. 178. ^ Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, pg. 180. ^ Salta a:a b Manlio Brigaglia, La Sardegna, 1. 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De Gruyter Mouton. p. 210. ^ «… La più diffusa, e storicamente precocissima, consapevolezza dell'isola circa lo statuto di "lingua a sé" del sardo, ragion per cui il rapporto tra il sardo e l'italiano ha teso a porsi fin dall'inizio nei termini di quello tra due lingue diverse (benché con potere e prestigio evidentemente diversi), a differenza di quanto normalmente avvenuto in altre regioni italiane, dove, tranne forse nel caso di altre minoranze storiche, la percezione dei propri "dialetti" come "lingue" diverse dall'italiano sembrerebbe essere un fatto relativamente più recente e, almeno apparentemente, meno profondamente e drammaticamente avvertito.» Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 209. ^ «La consapevolezza di alterità rispetto all'italiano si spiega facilmente non solo per i quasi 400 anni di fila sotto il dominio ispanico, che hanno agevolato nei sardi, rispetto a quanto avvenuto in altre regioni italiane, una prospettiva globalmente più distaccata nei confronti della lingua italiana, ma anche per il fatto tutt'altro che banale che già i catalani e i castigliani consideravano il sardo una lingua a sé stante, non solo rispetto alla propria ma anche rispetto all'italiano.» Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 210. ^ Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda. Manuals of Romance linguistics, De Gruyter Mouton, 2017, p. 209. ^ L'ufficiale Giulio Bechi ebbe a dire dei sardi che parlavano «un terribile idioma, intricato come il saraceno, sonante come lo spagnolo. [...] immagina del latino pestato nel mortaio con del greco e dello spagnolo, con un pizzico di saraceno, masticato fitto fitto in una barba con delle finali in os e as; sbatti tutto questo in faccia a un mortale e poi dimmi se non val lo stesso esser sordomuti!» Giulio Bechi, Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo, Nuoro, Ilisso, 1997, 1900, p. 43, 64. ^ «Lingue fuori dell'Italiano e del Sardo nessuno ne impara, e pochi uomini capiscono il francese; piuttosto lo spagnuolo. La lingua spagnuola s'accosta molto anche alla Sarda, e poi con altri paesi poco sono in relazione. [...] La popolazione della Sardegna pare dalli suoi costumi, indole, etc., un misto di popoli di Spagna, e del Levante conservano vari usi, che hanno molta analogia con quelli dei Turchi, e dei popoli del Levante; e poi vi è mescolato molto dello Spagnuolo, e dirò così, che pare una originaria popolazione del Levante civilizzata alla Spagnuola, che poi coll'andare del tempo divenne più originale, e formò la Nazione Sarda, che ora distinguesi non solo dai popoli del Levante, ma anche da quelli della Spagna.» Francesco D'Austria-Este, Descrizione della Sardegna (1812), ed. Giorgio Bardanzellu, Cagliari, Della Torre, 1993, 1812, p. 43, 64. ^ […]«È tanto nativa per me la lingua italiana, come la latina, francese o altre forestiere che solo s'imparano in parte colla grammatica, uso e frequente lezione de' libri, ma non si possiede appieno» diceva infatti Andrea Manca Dell'Arca, agronomo sassarese della fine del Settecento ('Ricordi di Santu Lussurgiu di Francesco Maria Porcu In Santu Lussurgiu dalle Origini alla "Grande Guerra" - Grafiche editoriali Solinas - Nuoro, 2005) ^ Francesco Sabatini, Minoranze e culture regionali nella storiografia linguistica italiana, in I dialetti e le lingue delle minoranze di fronte all'italiano (Atti dell'XI Congresso internazionale di studi della SLI, Società di linguistica italiana, a cura di Federico Albano Leoni, Cagliari, 27-30 maggio 1977 e pubblicati da Bulzoni, Roma, 1979, p. 14.) ^ «L'italianizzazione dell'isola fu un obiettivo fondamentale della politica sabauda, strumentale a un più ampio progetto di assimilazione della Sardegna al Piemonte.» Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, p. 92 ^ «En aquest sentit, la italianització definitiva de l'illa representava per a ell l'objectiu més urgent, i va decidir de contribuir-hi tot reformant les Universitats de Càller i de Sàsser, bandejant-ne alhora els jesuïtes de la direcció per tal com mantenien encara una relació massa estreta amb la cultura espanyola. El ministre Bogino havia entès que només dins d'una Universitat reformada podia crear-se una nova generació de joves que contribuïssin a homogeneïtzar de manera absoluta Sardenya amb el Piemont.» Joan Armangué i Herrero (2006). Represa i exercici de la consciència lingüística a l'Alguer (ss. XVIII-XX), Arxiu de Tradicions de l'Alguer, Cagliari, I.1 ^ The phonology of Campidanian Sardinian : a unitary account of a self-organizing structure, Roberto Bolognesi, The Hague: Holland Academic Graphics, p. 3 ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 88, 91. ^ «Ai funzionari sabaudi, inseriti negli ingranaggi dell'assolutismo burocratico ed educati al culto della regolarità e della precisione, l'isola appariva come qualcosa di estraneo e di bizzarro, come un Paese in preda alla barbarie e all'anarchia, popolato di selvaggi tutt'altro che buoni. Era difficile che quei funzionari potessero considerare il diverso altrimenti che come puro negativo. E infatti essi presero ad applicare alla Sardegna le stesse ricette applicate al Piemonte. Dirigeva la politica per la Sardegna il ministro Bogino, ruvido e inflessibile.». Guerci, Luciano (2006). L'Europa del Settecento : permanenze e mutamenti , UTET, p. 576 ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, p.80 ^ Salta a:a b c Manlio Brigaglia, La Sardegna, 1. La geografia, la storia, l'arte e la letteratura, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, p. 77. ^ Salta a:a b Bolognesi, Roberto; Heeringa, Wilbert. Sardegna fra tante lingue, pp.25, 2005, Condaghes ^ Salta a:a b Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, pg. 181 ^ «In Sardegna, dopo il passaggio alla casa di Savoia, lo spagnolo perde terreno, ma lentissimamente: solo nel 1764 l'italiano diventa lingua ufficiale nei tribunali e nell'insegnamento». Bruno Migliorini, La Rassegna della letteratura italiana, vol. 61, Firenze, Le Lettere, 1957, p. 398. ^ «Anche la sostituzione dell'italiano allo spagnolo non avvenne istantaneamente: quest'ultimo restò lingua ufficiale nelle scuole e nei tribunali fino al 1764, anno in cui da Torino fu disposta una riforma delle università di Cagliari e Sassari e si stabilì che l'insegnamento scolastico dovesse essere solamente in italiano.» Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Editori Laterza, 2009, p. 9. ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, p. 89 ^ «L'attività riformatrice si allargò anche ad altri campi: scuole in lingua italiana per riallacciare la cultura isolana a quella del continente, lotta contro il banditismo, ripopolamento di terre e ville deserte con Liguri, Piemontesi, Còrsi.» Roberto Almagia et al., Sardegna, Enciclopedia Italiana (1936)., Treccani, "Storia". ^ Rivista storica italiana, vol. 104, Edizioni scientifiche italiane, 1992, p. 55. ^ Clemente Caria, Canto sacro-popolare in Sardegna, Oristano, S'Alvure, 1981, p. 45. ^ Sant'Efisio cantato in castigliano: rinvenuti gosos dell'800, su unionesarda.it, 2017. ^ «Il sistema di controllo capillare, in ambito amministrativo e penale, che introduce il Governo sabaudo, rappresenterà, fino all'Unità, uno dei canali più diretti di contatto con la nuova lingua "egemone" (o lingua-tetto) per la stragrande maggioranza della popolazione sarda.» Eduardo Blasco Ferrer, Giorgia Ingrassia (a cura di). Storia della lingua sarda : dal paleosardo alla musica rap, evoluzione storico-culturale, letteraria, linguistica. Scelta di brani esemplari commentati e tradotti, 2009, Cuec, Cagliari, p. 111. ^ Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 89, 92. ^ Francesco Gemelli, Luigi Valenti Gonzaga, Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, vol. 2, Torino, Giammichele Briolo, 1776. ^ Matteo Madao, Saggio d'un'opera intitolata Il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari, Bernardo Titard, 1782. ^ Matteo Madau, Dizionario Biografico Treccani, su treccani.it. ^ Marcel Farinelli, Un arxipèlag invisible: la relació impossible de Sardenya i Còrsega sota nacionalismes, segles XVIII-XX, su tdx.cat, Universitat Pompeu Fabra. 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Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Condaghes. ^ Manlio Brigaglia, Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 84. ^ Manlio Brigaglia, Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 92. ^ «[Il Porru] In generale considera la lingua un patrimonio che deve essere tutelato e migliorato con sollecitudine. In definitiva, per il Porru possiamo ipotizzare una probabilmente sincera volontà di salvaguardia della lingua sarda che però, dato il clima di severa censura e repressione creato dal dominio sabaudo, dovette esprimersi tutta in funzione di un miglior apprendimento dell'italiano. Siamo nel 1811, ancora a breve distanza dalla stagione calda della rivolta antifeudale e repubblicana, dentro il periodo delle congiure e della repressione.» Cardia, Amos (2006). S'italianu in Sardìnnia candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Iskra, Ghilarza, pp. 112-113. ^ Manlio Brigaglia, Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 93 ^ Johanne Ispanu, Ortographia Sarda Nationale o siat Grammatica de sa limba logudoresa cumparada cum s'italiana (PDF), su sardegnadigitallibrary.it, Kalaris, Reale Stamperia, 1840. URL consultato il 26 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 26 giugno 2019). ^ […]Ciononostante le due opere dello Spano sono di straordinaria importanza, in quanto aprirono in Sardegna la discussione sul "problema della lingua sarda", quella che sarebbe dovuta essere la lingua unificata e unificante, che si sarebbe dovuta imporre in tutta l'isola sulle particolarità dei singoli dialetti e suddialetti, la lingua della nazione sarda, con la quale la Sardegna intendeva inserirsi tra le altre nazioni europee, quelle che nell'Ottocento avevano già raggiunto o stavano per raggiungere la loro attuazione politica e culturale, compresa la nazione italiana. E proprio sulla falsariga di quanto era stato teorizzato e anche attuato a favore della nazione italiana, che nell'Ottocento stava per portare a termine il processo di unificazione linguistica, elevando il dialetto fiorentino e toscano al ruolo di "lingua nazionale", chiamandolo "italiano illustre", anche in Sardegna l'auspicata "lingua nazionale sarda" fu denominata "sardo illustre". Massimo Pittau, Grammatica del sardo illustre, Nuoro, pp. 11-12, Premessa. ^ «Il presente lavoro però restringesi propriamente al solo Logudorese ossia Centrale, che questo forma la vera lingua nazionale, la più antica e armoniosa e che soffrì alterazioni meno delle altre». Ispanu, Johanne (1840). Ortographia sarda nationale o siat grammatica de sa limba logudoresa cumparada cum s'italiana, pg. 12 ^ Manlio Brigaglia, Attilio Mastino, Giangiacomo Ortu, 2006. Storia della Sardegna dal Settecento a oggi, v. 2, Editori Laterza, p. 94. ^ "Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d'istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l'uso dei dialetti sardi, prescrivendo l'esclusivo impiego della lingua italiana. In sardo si gettano i cosiddetti pregoni o bandi; in sardo si cantano gl'inni dei Santi (Goccius), alcuni dei quali privi di dignità… È necessario inoltre scemare l'uso del dialetto sardo [sic] e introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo… sì finalmente per togliere una delle maggiori divisioni, che sono fra la Sardegna e i Regi stati di terraferma." Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, pp. 49-51. ^ «In una sua opera del 1848 egli mostra di considerare la situazione isolana come carica di pericoli e di minacce per il Piemonte e propone di procedere colpendo innanzitutto con decisione la lingua sarda, proibendola cioè "severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche". Baudi di Vesme non si fa illusioni: l'antipiemontesismo non è mai venuto meno nonostante le proteste e le riaffermazioni di fratellanza con i popoli di terraferma; si è vissuti anzi fino a quel momento - aggiunge - non in attesa di una completa unificazione della Sardegna al resto dello Stato ma addirittura di un "rinnovamento del novantaquattro", cioè della storica "emozione popolare" che aveva portato alla cacciata dei Piemontesi. Ma, rimossi gli ostacoli che sul piano politico-istituzionale e soprattutto su quello etnico e linguistico differenziano la Sardegna dal Piemonte, nulla potrà più impedire che l'isola diventi un tutt'uno con gli altri Stati del re e si italianizzi davvero». Federico Francioni, Storia dell'idea di "nazione sarda", in Manlio Brigaglia, La Sardegna, 2. La cultura popolare, l'economia, l'autonomia, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, pp. 173-174. ^ Salta a:a b c d Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 306. ^ Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 305. ^ Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 313. ^ Sebastiano Ghisu, 3, 8, in Filosofia de logu, Milano, Meltemi, 2021. ^ Salta a:a b Salvi, Sergio (1974). Le lingue tagliate, Rizzoli, pg.184 ^ «Des del seu càrrec de capità general, Carles Fèlix havia lluitat amb mà rígida contra les darreres actituds antipiemonteses que encara dificultaven l'activitat del govern. Ara promulgava el Codi felicià (1827), amb el qual totes les lleis sardes eren recollides i, sovint, modificades. Pel que ara ens interessa, cal assenyalar que el nou codi abolia la Carta de Logu – la «consuetud de la nació sardesca», vigent des de l'any 1421 – i allò que restava de l'antic dret municipalista basat en el privilegi.» Joan Armangué i Herrero (2006). Represa i exercici de la consciència lingüística a l'Alguer (ss. XVIII-XX), Arxiu de Tradicions de l'Alguer, Cagliari, I.1 ^ Cimitero antico, su Sito ufficiale del comune di Ploaghe. ^ Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Dalla Stamperia Reale, 1848, p. 167. ^ Pietro Martini, Sull’unione civile della Sardegna colla Liguria, con il Piemonte e colla Savoia, Cagliari, Timon, 1847, p. 4. ^ Salta a:a b c d Toso, Fiorenzo. Lingue sotto il tetto d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 8. Il sardo, su treccani.it. ^ Dettori, Antonietta, 2001. Sardo e italiano: tappe fondamentali di un complesso rapporto, in Argiolas, Mario; Serra, Roberto. Limba lingua language: lingue locali, standardizzazione e identità in Sardegna nell’era della globalizzazione, Cagliari, CUEC, p. 88. ^ Gian Nicola Spanu, Il primo inno d'Italia è sardo (PDF). URL consultato il 23 dicembre 2018 (archiviato dall'url originale l'11 ottobre 2017). ^ Carboni, Salvatore (1881). 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La trasformazione che ne seguì fu vasta e profonda.» Guido Melis, La Sardegna contemporanea, in Manlio Brigaglia, La Sardegna. La geografia, la storia, l'arte e la letteratura, vol. 1, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1982, p. 132. ^ Salta a:a b Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda, De Gruyter Mouton, 2017, p. 36. ^ Salta a:a b Remundu Piras, su sardegnacultura.it. URL consultato il 17 febbraio 2018 (archiviato dall'url originale il 30 ottobre 2020). Sardegna Cultura. ^ «Dopo pisani e genovesi si erano susseguiti aragonesi di lingua catalana, spagnoli di lingua castigliana, austriaci, piemontesi ed, infine, italiani […] Nonostante questi impatti linguistici, la "limba sarda" si mantiene relativamente intatta attraverso i secoli. […] Fino al fascismo: che vietò l'uso del sardo non solo in chiesa, ma anche in tutte le manifestazioni folkloristiche». 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La differenza tra modernità e tradizione è ai loro occhi di sostanza, si tratta di due tipi di società opposti per natura, in cui non esiste continuità di pratiche, di attori, né esistono forme miste.» Alessandro Mongili (2015). "9". Topologie postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Condaghes. ^ Martin Harris, Nigel Vincent, The Romance languages, London, New York, 2001, p. 349. ^ Sergio Salvi, Le lingue tagliate, Rizzoli, 1974, p. 195. ^ Sa limba sarda - Giovanna Tonzanu, su midesa.it. 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Manca il fondamento della soggettività di popolo che invece è previsto in altri statuti speciali. Per esempio, mancano i riconoscimenti di tipo etnolinguistico e culturale.» Pala, Carlo. La Sardegna. Dalla “vertenza entrate” al federalismo fiscale?, in Istituzioni del Federalismo. Rivista di studi giuridici e politici, 2012, 1, p. 215. ^ Cardia, Mariarosa (1998). La conquista dell’autonomia (1943-49), in Luigi Berlinguer, Luigi e Mattone, Antonello. La Sardegna, Torino, Einaudi, p. 749. ^ Manlio Brigaglia, La Sardegna. 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La Sardegna, in controtendenza con le regioni dell'Italia meridionale, a cui quest'autore vorrebbe associarla, mostra percentuali di ripetenze del tutto analoghe a quelle di regioni abitate da altre minoranze linguistiche.» Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei Sardi, Condaghes, 2013, p. 66. ^ Mongili, Alessandro, in Corongiu, Giuseppe, Il sardo: una lingua normale, Condaghes, 2013, Introduzione ^ «Ancora oggi, nonostante l'eradicazione e la stigmatizzazione della sardofonia nelle generazioni più giovani, il "parlare sbagliato" dei sardi contribuisce con molta probabilità all'espulsione dalla scuola del 23% degli studenti sardi (contro il 13% del Lazio e il 16% della Toscana), e lo giustifica in larga misura anche di fronte alle sue stesse vittime (ISTAT 2010).» Alessandro Mongili (2015). "9". Topologie postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. 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Fuéddus e chistiònis in sárdu e italiánu, Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro, p. 3 ^ «Nella coscienza dei sardi, in analogia con i processi che caratterizzano la subalternità ovunque, si è costituita un'identità fondata su alcune regole che distinguono il dicibile (autonomia in politica, italianità linguistica, criteri di gusto musicali convenzionali non sardi, mode, gastronomie, uso del tempo libero, orientamenti politici) come campo che può comprendere quasi tutto ma non l'indicibile, cioè ciò che viene stigmatizzato come "arretrato", "barbaro", "primitivo", cioè sardo de souche, "autentico". Questa esclusione del sardo de souche, originario, si è costituita lentamente attraverso una serie di atti repressivi (Butler 2006, 89), dalle punizioni scolastiche alla repressione fascista del sardismo, ma anche grazie alla pratica quotidiana del passing e al diffondersi della cultura di massa in epoca recente (in realtà molto più porosa della cultura promossa dall'istruzione centralizzata).» Alessandro Mongili (2015). "1". Topologie postcoloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Condaghes. ^ Mura, Giovanni (1999). Fuéddus e chistiònis in sárdu e italiánu, Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro, p. 3. ^ «It also triggered a negative attitude on the part of the Sardinians, if not a pervasive sense of inferiority of the Sardinian ethnic and cultural identity.» Andrea Costale, Giovanni Sistu (2016). Surrounded by Water: Landscapes, Seascapes and Cityscapes of Sardinia. 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Questo nuovo codice linguistico, che emerge dall'interferenza tra italiano e sardo, è particolarmente comune presso i meno privilegiati ceti socio-culturali."). Relazione Euromosaic "Sardinian in Italy". URL consultato l'11 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 18 maggio 2018)., Euromosaic, 1995 ^ Andrea Corsale e Giovanni Sistu, Sardegna: geografie di un'isola, Milano, Franco Angeli, 2019, p. 191, 199. ^ Salta a:a b Roberto Bolognesi, Un programma sperimentale di educazione linguistica in Sardegna (PDF), su comune.lode.nu.it, 2000, p. 127. 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La trasmissione intergenerazionale, fattore essenziale per la riproduzione etnolinguistica, resta seriamente compromessa.» Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch, Daniela Marzo, Manuale di linguistica sarda, De Gruyter Mouton, 2017, p. 40. ^ «Yet, it cannot be ignored that at present many young speakers, who have frequently been brought up in Italian, have a restricted active or even a merely passive command of their ethnic language.» Kurt Braunmüller, Gisella Ferraresi (2003). Aspects of multilingualism in European language history. Amsterdam/Philadelphia: University of Hamburg. John Benjamins Publishing Company. p. 241 ^ Andrea Costale, Giovanni Sistu (2016). Surrounded by Water: Landscapes, Seascapes and Cityscapes of Sardinia. Cambridge Scholars Publishing. p. 124 ^ Sergio Lubello, Manuale Di Linguistica Italiana, Manuals of Romance linguistics, De Gruyter, 2016, p. 506. ^ Lingue di minoranza e scuola, Carta Generale. 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Giappichelli Editore, 2017, pp. 75-76. ^ «L'esistenza di una striscia di "terra di nessuno" (fatta eccezione, comunque, per i dialetti di Laconi e Seneghe) tra dialetti meridionali e settentrionali, come anche della tradizionale suddivisione della Sardegna in due "capi" politico-amministrativi oltre che, ma fino a un certo punto, sociali e antropologici (Cabu de Susu e Cabu de Jossu), ma soprattutto della popolarizzazione, condotta dai mass media negli ultimi trent'anni, di teorie pseudo-scientifiche sulla suddivisione del sardo in due varietà nettamente distinte tra di loro, hanno contribuito a creare presso una parte del pubblico l'idea che il sardo sia diviso tra le due varietà del "campidanese" e del "logudorese". In effetti, si deve più correttamente parlare di due tradizioni ortografiche, che rispondono a queste denominazioni, mettendo bene in chiaro però che esse non corrispondono a nessuna varietà reale parlata in Sardegna.» Bolognesi, Roberto (2013). 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[...] La grande omogeneità grammaticale del sardo viene ignorata, per quanto riguarda gli autori tradizionali, in parte per mancanza di cultura linguistica, ma soprattutto per la volontà, riscontrata esplicitamente in Spano e Wagner, di dividere il sardo e i sardi in varietà "pure" e "spurie". In altri termini, la divisione del sardo in due varietà nettamente distinte è frutto di un approccio ideologico alla variazione dialettale in Sardegna» ^ «The phonetic differences between the dialects occasionally lead to communicative difficulties, particularly in those cases where a dialect is believed to be 'strange' and 'unintelligible' owing to the presence of phonetic peculiarities such as laryngeal or pharyngeal consonants or nazalized vowels in Campidanese and in the dialects of central Sardinia. In his comprehensive experimental-phonetic study, however, Contini (1987) concludes that interdialectal intelligibility exists and, on the whole, works satisfactorily.» Rebecca Posner, John N. 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Voci correlate[modifica | modifica wikitesto] Sardegna Grammatica sarda Lingua protosarda Prenomi sardi Cognomi sardi Limba Sarda Comuna Italiano regionale della Sardegna Nuova letteratura sarda Varianti della lingua sarda[modifica | modifica wikitesto] Sardo logudorese Sardo campidanese Lingue alloglotte della Sardegna[modifica | modifica wikitesto] Lingua sassarese Lingua gallurese Dialetto algherese Dialetto tabarchino Bilinguismo[modifica | modifica wikitesto] Segnaletica bilingue in Sardegna Toponimi della Sardegna Altri progetti[modifica | modifica wikitesto] Collabora a Wikipedia Wikipedia dispone di un'edizione in sardo (sc.wikipedia.org) Collabora a Wikisource Wikisource contiene alcuni canti in sardo Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene alcuni proverbi in sardo Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali su sardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul sardo Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto] Sardu.wiki, Atlante dei lemmi della lingua sarda, su sardu.wiki. 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(SC) Deliberatzione n. 16/14 de su 18.04.2006 "Limba Sarda Comuna: Adotzione de sas normas de referèntzia de caràtere isperimentale pro sa limba sarda iscrita in essida de s'Amministratzione regionale" (pdf) (PDF) [collegamento interrotto], su regione.sardegna.it. nascondi V · D · M Lingue romanze Lingue d'origine Latino classico† · Latino volgare† · Latino medievale† Lingua sarda Sardo campidanese · Sardo logudorese Lingue romanze italo-occidentali Lingue gallo-iberiche Lingue galloromanze Arpitano Faetano-cellese · Francoprovenzale Lingue gallo-italiche Emiliano · Ligure · Lombardo · Piemontese · Romagnolo Lingue d'oïl‎ Francese (Francese antico† · Francese medio†) · Normanno (Anglo-normanno†) · Piccardo · Vallone Lingue retoromanze Friulano · Ladino · Romancio Lingue occitano-romanze Catalano · Occitano Lingue ibero-romanze Lingue iberiche occidentali Lingue asturiano-leonesi Asturiano · Cantabrico · Estremegno · Leonese · Mirandese Lingue castigliane Spagnolo (Spagnolo medievale†) · Spagnolo amazzonico Lingue galiziano-portoghesi Galiziano · Minderico · Portoghese · Xálimego Lingue pirenaico-mozarabiche Aragonese · Mozarabico† · Navarro-aragonese† Lingue italo-dalmate Lingue italo-romanze Corso · Gallurese · Italiano · Napoletano · Sassarese · Siciliano Lingue dalmato-romanze Dalmatico† · Istrioto Veneto Cipilegno · Talian · Veneto Lingue romanze orientali Arumeno · Rumeno · Meglenorumeno · Istrorumeno Lingue franche Lingua franca mediterranea/Sabir† Lingue giudeo-romanze Giudeo-aragonese† · Giudeo-catalano† · Giudeo-francese† · Giudeo-italiano · Giudeo-latino† · Giudeo-portoghese† · Giudeo-provenzale† · Giudeo-spagnolo Classificazione incerta Romanzo africano† · Romanzo britannico† · Romanzo mosellano† · Romanzo pannonico† † lingua estinta (nessun sopravvissuto tra i parlanti nativi e nessuno tra i discendenti) mostra V · D · M Minoranze in Italia mostra V · D · M Italia (bandiera) Lingue e dialetti d'Italia Controllo di autorità GND (DE) 4134397-9 · J9U (EN, HE) 987007556089905171 · NDL (EN, JA) 00577474 Portale Linguistica Portale Sardegna Categorie: Lingua sardaLingue SVOLingue SOVLingue VOS[altre]. Tuveri. Keywords: la lingua sarda -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tuveri: implicature sarda” – The Swimming-Poo Library. Tuveri.

 

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