Luigi Speranza -- Grice e Chiavacci:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale poetica di Gentile – scuola di Foiano della Chiana –
filosofia aretina – filosofia toscana. filosofia italiana – Luigi Speranza, pwl
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Foiano
della Chiana). Filosofo aretino. Filosofo toscano.
Filosofo italiano. Foiano della Chiana, Arezzo, Toscana. Grice: “Chiavacci is a
good one; Italians tend to identify him with Miichelstaedter, but surely there
is more to Chiavacci than an exegesis of Michelstaedter (especially to refute
Gentile’s) – my favourite tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ –
a critique we were lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his
‘reality’ and not appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which
is related to Latin ‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe
della stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed
eredi dell'attualismo gentiliano. Riceve l'istruzione primaria a Cortona, e
quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequenta la facoltà di lettere del Regio
Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Mazzoni, e conobbe
tra gli altri il poeta filosofo Michelstaedter, di cui divenne grande amico,
insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con
una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di
insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata dell'Italia nella prima
guerra mondiale, C. combatté al fronte come capitano di artiglieria. Tornato
all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il ginnasio
superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia a Roma,
dove incontrò Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini.
Comincia a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside
di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne
professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò
filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica. Entra a far parte
dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi
altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti
della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e
Michelstädter «Se mi domando che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile,
quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a
voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la
dottrina dell'atto puro. C., L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica».
La filosofia di C. si muove tra l'idealismo attuale di Gentile da un lato, e
l'anti-dialettica esistenziale di Michelstaedter dall'altro, conciliati in
un'ottica spiritualista cristiana. Dell'attualismo gentiliano egli intende
rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce
piena realtà, a differenza dell'attualità concepita come un presente situato
storicamente tra un passato e un futuro illusori. Riappropriandosi al contempo
del criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si
debba a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata
dalla vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».
Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica
che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo
consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso,
realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso
appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua
volta dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di
mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera
e smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per C., proprio perché non
può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni
metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di
dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza
oggettivarsi», è per C. fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che
permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto.
Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo
"pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua
stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput
mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella
sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione
costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus
sui». Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo C., essenzialmente fede.
Opere Tesi di laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, Fiori) Il valore morale
nel Rosmini (Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come
educazione (Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma
propositiva del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di
Michelstaedter in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione
alla «rettorica». Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il
conflitto michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e
ragione umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica
(Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che
affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra
fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che
assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il
fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della
religione. C. ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter
(Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter"
per l'Enciclopedia Italiana. A lui si devono poi altri due saggi sul Rosmini:
Filosofia e religione nella vita spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La
filosofia politica di A. Rosmini (Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi
filosofici, Leonardi, introduzione di Garin, Firenze, Olschki, Gentile-C..
Carteggio, Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Grita, C., su treccani. Antonio
Russo, C., interprete di Michelstaedter, Trieste. Così C. ricorderà il suo
primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria
generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la
possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del
quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di C. a Gentile, cit. in
Gentile-C.: Carteggio Simoncelli, Firenze). Scheda su C. su agiati.org. Cit.
anche in G. C., Quid est veritas? Saggi filosofici, C. Leonardi, Olschki. C.,
Il pensiero di Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia
italiana». C., Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto,
in «Giornale critico della filosofia italiana», C., Il centro della
speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, C., Quid est veritas? Saggi
filosofici, C. Leonardi, Olschki, C., Quid est veritas? Saggi filosofici,
Russo, C. interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G.
Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo, C. interprete di
Michelstaedter, C. su sapere. Gaetano Chiavacci, Michelstaedter in «Enciclopedia
Italiana», Roma.Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La
Scuola, Guzzo, C. la "Ragione poetica", in «Giornale di metafisica»,
Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,
Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia»,
Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in
«Teoresi», Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in
«Cultura e Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di C., in «Filosofia», Negri,
Gentile: sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia,
Antonio Russo, C. interprete di Michelstaedter, Campailla, in La via della
persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo
(filosofia) Gentile Idealismo italiano Michelstaedter La Persuasione e la
Rettorica C. C., in Dizionario biografico degli italiani. L’encomiabile
Bibliografia michelstaedteriana1, regolarmente aggiornata, che appare sul sito
della Biblioteca statale isontina, ha ormai assunto dimensioni più che
ragguardevolie, nell’ultimo anno, per via del centesimo anniversario della sua
morte, essa s’è di molto arricchita. Sembra, quindi, cosa ardua dire qualcosa
di nuovo su Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio
della sua opera, sorge allorché si tien conto che con il giovane pensatore
goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale anomalo, del tutto
sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono i
primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione
e la rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di laurea ed è stata data
alle stampe postuma; sicché il riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo
nell’ambito del panorama culturale italiano, ma anche di carattere
internazionale, che essa ha avuto, sono in gran parte dovuti alla devota
sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella
degli altri scritti di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa
prematura, il merito di aver sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi,
e sono soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici
fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e C.. Il lavoro paziente e meticoloso del
secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di
Michelstaedter, con la sua edizione delle Opere (Firenze, Sansoni),
“costituisce una pietra miliare nella vicenda storico-culturale e
storico-critica del filosofo goriziano. L’edizione Sansoni di C. è all’origine
del lavorio critico e interpretativo che è seguito negli ultimi trent’anni e
che non accenna ormai a declinare” In uno studio su Michelstedater, non si può
allora perdere di vista questa verità; e, soprattutto non si può non tenerne
conto. Occorre, allora, affrontare il compito di chiarire il senso e i termini
della ricostruzione del suo pensiero proposti da C.e da Ruiz. E parlare dei due
fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio un
autore, Gentile, le cui suggestioni sono penetrate per canali vari e hanno
raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita nella cultura italiana. Non
a caso, con aderenza più o meno piena, da lui hanno preso le mosse molti autori
che poi hanno svolto idee originali e autonome, accentuando, ripensando o
rivedendo l’uno o l’altro aspetto della sua filosofia. Nella sterminata
letteratura critica che gravita sull’attualismo, i due filosofi fiorentini
compaiono, sia pure con caratteristiche proprie che li distinguono dall’uno e
dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della
sinistra (Ruiz) o della destra gentiliana (C.) Tuttavia, il loro lungo e
travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure ripensata in
novitate spiritus, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei
suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e
stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su
questi autori, e in particolare sulla loro collocazione speculativa nell’ambito
del panorama attualistico, si torni ad insistere: essi esordirono come
attualisti; poi, seguirono e amarono Gentile ; non persero mai di vista
l’approfondimento del suo pensiero e si riconobbero in esso nell’arco d’alcuni
decenni, giungendo ad un suo sincero ripensamento. Una lettera di dedica a
Gentile (che apre La ragione poetica, Firenze, Sansoni), mette ampiamente in
evidenza l’effetto che provoca su C. la lettura della Teoria generale dello
spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la
possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del
quale ogni altra cosa non ha pregio. A questi dati se ne potrebbero aggiungere
molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e di spazio, occorre
prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche e
del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore
limitazione del discorso al solo rapporto C.-Michelstaedter-Gentile, anche
perché Ruiz non ha lasciato un grosso volume sistematico, ma solo volumi di
saggi; e quanto a Conoscenza e moralità, che già subito non lo appagava più
egli stesso lo considera un saggio, non un trattato; e, poi, egli è non tanto
un filosofo sistematico (come H. P. Grice), quanto un fine e colto letterato,
un autore di prosa morale o di polemica anti-ntellettualistica o di discussione
su problemi di estetica e di critica d’arte Infine, tutta la sua opera è
pervasa sin dai suoi momenti iniziali da una polemica coi suoi più vicini
maestri: CROCE (si veda) e Gentile; invece, le posizioni speculative di C.
presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo dei motivi
tipicamente attualistici e culminano con maggior consapevolezza ed esiti più
cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione
dell’idealismo. Qui, come termine di riferimento e di confronto, occorre
prendere in considerazione l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua
attività didattica e scientifica trovò il suo più maturo affermarsi, a partire
a Roma. Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le basi di un fitto tessuto
di relazioni che interviene a connettere C. a Gentile, in un rapporto che
diventerà sempre di più assiduo, “amichevole e confidente”. La prima domanda da
porsi, per sgomberare il terreno da equivoci, è di sapere, attraverso l’analisi
puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti
di dissenso. Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i
testi. Gentile si occupa ripetutamente di Michelstaedter. Su sollecitazione di
C., che si era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e
ascoltato le lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle sue cittadelle
editoriali, per caldeggiare l’edizione de LA PERSUASIONE E LA RETTORICA data
effettivamente alle stampe; in lettera a C.) chiede allo stesso C. di redigere
per l’enciclopedia Italiana la voce Michelstaedter di 10 linee, e qualche
giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe. Poi, recensisce
l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel
farlo, tributa innanzitutto elogi all’iniziativa ad opera di un fido gruppo di
amici di Michelstaedter; rileva subito dopo che si tratta di uno scritto
giovanile in cui non c’è un approfondimento metodico degli argomenti trattati,
e né un loro sviluppo sistematico. Infine, prende in considerazione “il
problema dell’opposizione tra la persuasione vera, che corrisponde al possesso
della vita, e la falsa persuasione, scopo della rettorica”. Per Gentile, in
Michelstaedter la persuasione serve ad indicare il fatto che il “possesso della
realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è
caratteristica della sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La
persuasione del vero sapere, come lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo,
sereno, saldo sul punto che è il centro del suo mondo: nel suo animo”. Di
contro, la rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e
s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco
dell’uomo, gli fa credere di vivere in mezzo ai piaceri; la rettorica uccide la
vita, irretisce l’uomo “nella vana teoria dei concetti, sdoppia il sapere e la
vita, oppone alle cose direttamente affermate il pensiero che afferma le cose”
e così mostra “l’insufficienza delle cose che hanno nella persona il loro
correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine
integrante. Tuttavia, per Gentile, anche se il Michelstaedter sceglie giustamente
a suo bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze
speculative e del proprio lavoro di tesi, non ha né tempo né animo per
considerare direttamente e con pari studio la persuasione. Sono accenni qua e
là, e qualche spunto del suo pensiero positivo si può scorgere nelle Appendici
e, più precisamente, ne Il prediletto punto d’appoggio della dialettica
socratica. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come
caratteristica di chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la
forza di non asservirsi al futuro, e tenere raccolta nel presente la propria
vita. Ma qui si ha a che fare con una immagine poetica, non con un concetto
filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul cos’è la vita,
questo permanere, ecc. Il merito indiscusso di Michelstaedter, il suo guadagno
speculativo più cospicuo, secondo Gentile, consiste nel mettere in rilievo un
universale aspetto di verità, che consiste nel fatto che l’uomo “rientra in se
stesso, liberandosi della rettorica e gettando la salda ancora della vita nel
porto della persuasione. Quali sono le reazioni di C. a questo giudizio di
Gentile Uno sguardo da vicino all’elenco dei suoi scritti e una loro attenta
analisi consente di accertare che la sua personalità speculativa, ma anche
quella di Ruiz, nasce dall’incontro con Michelsteadter, cioè d’un humus
fortemente sentimentale, e il suo culto per l’amico comune resta fino
all’ultimo sempre vivo. Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con diversa,
e non certo marginale, fisionomia sistematica e speculativa, fanno proprie le
istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto le suggestioni di
Michelstaedter, nel tentativo di riguadagnare, come nel caso di C., l’essenza
dell’attualismo e così d’offrire un contributo, perfettamente consentaneo, alla
sua più compiuta espressione. L’intero percorso speculativo di C., ad esempio,
manifesta fino in fondo la fedeltà a conservare queste istanze, comunque egli
si muova, quali che siano gli andarivieni del suo pensiero. In particolare,
egli dà alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui Gentile è membro del
comitato di redazione, un testo intitolato Le due nature. In esso, egli
affronta il problema del rapporto tra finito e infinito, sostenendo che
“l’infinito ideale non può realizzarsi come immanente al finito, ma come
immanente alla negazione del finito. Il testo viene pubblicato con una postilla
dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non insistere
tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e,
soprattutto, ad approfondire meglio gli aspetti relativi al ruolo della
“negatività nella dialettica propria dell’idealismo”, con particolare
riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in cui si deve cogliere
una attività che passa e supera il limite che si è posto e si afferma nella
“sua libertà da ogni limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito
non rinvia ad una trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa
la potenza dello spirito nella sua concretezza”. Dopo questo intervento, due
anni dopo, e sulla scia evidente delle sollecitazioni di Gentile, nel Giornale
critico della filosofia italiana, la rivista fondata e diretta dallo stesso
Gentile, C. dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in cui cerca
di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il
pensiero di Michelstaedter non è riconducibile ad una realtà negativa, ma è la
positività dell’atto negante, in quanto vero atto, cioè vita; esso non è “pura
negatività”, e tutta la sua novità consiste nel fatto che il positivo di
Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e perciò è senza
condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”. Tutto il testo di
C. è una serrata, e pacata, replica e a Gentile, in cui si pone il problema di
precisare e difendere le giuste esigenze, quasi come una esplicitazione in
positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione
della sua tesi sulla persuasione e la retorica.Già il titolo dell’articolo di
C. è una risposta a Gentile, che nega al Michelstaedter l’esistenza di una vera
e propria dottrina filosofica, d’un approfondimento metodico e d’uno sviluppo
sistematico e parla piuttosto di personalità filosofica. Per C., invece,
Michelstaedter non parla direttamente della persuasione, ma non per questo è
giusto dire che ne dia pochi cenni della persuasione si parla in tutto il
saggio, perché essa è il criterio della lotta contro la rettorica”. Egli non ne
fa la teoria, come non fa la teoria del positivo della PERSUASIONE, così si
rifuta di considerarne il risultato, come un fatto staccato dal processo”. Il
criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a tante altre
teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è
Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua
affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”; e
perciò la definizione della persuasione risulta “da tutto il saggio”. Una tale
filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera, la vita,
non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita. La via della
persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita
dell’infinito nell’individuo finito, è la vera vita del finito: è processo,
vita. Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di
trascendente, “ma è la realtà stessa più profonda del soggetto; quel che egli
nega del particolare è insieme affermazione, come dice l’idealismo. Si nega la
particolarità del particolare, nella sua [C., Michelstaedter, Giornale critico
della filosofia italiana, pretesa immediata, quel che si afferma è quel che
implicitamente è in lui di universale, senza di che non puo neppure esser
particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che dormiva. Quel che di
lui perisce era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che del
particolare ci deve premere, la sua aspirazione all’universalità, quella non
perisce, ma s’invera. E’ in fondo quel che dice Gentile stesso quando parla
dell’immortalità”. Questo particolare, questo esserci del mondo come
particolare, come finito, non è possibile senza “la richiesta dell’universale”,
è “il campo in cui lo spirito si celebra e trionfa è il lampo che rompe la
nebbia; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato. La convergenza
delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,
diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere
naturale e che “non si restringe nei limiti del particolare: perché egli non
può né pensare, né sentire, né altrimenti realizzarsi, che in un modo
universale, caposaldo e tipica espressione dell’attualismo gentiliano chiamata
in causa nel testo di C., viene pienamente accolta. E si pongono così le basi
di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti del
confronto tra i due autori. Per cogliere ulteriormente i tratti principali del
consenso tra Gentile e C., al di là dei punti di convergenza fin qui messi in
risalto, è necessario tener presente i principali scritti di Gentile di quegli
anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo primo
affermarsi con volontà rivoluzionaria. Si determinava una svolta essenziale del
suo pensiero e della sua azione. Gentile, infatti, inizia il corso di storia
della filosofia. E, nel concludere la sua prolusione, traccia le linee
direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con l’intento di
rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla, perché il
vecchio letterato è morto l’accademia e la filosofia d’eruditi devono essere
davvero un passato irrevocabile: la vita deve diventare una milizia continua.
Come documento più significativo di questa svolta può essere preso il proemio
del primo numero del Giornale critico della filosofia italiana, la rivista
della Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso
della prolusione. Non a caso, in esso, Gentile propone di guardare all’avvenire”
per incominciare una nuova vita, uscendo dall’individualismo e dall’egoismo. E,
per farlo, egli dice, occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia,
contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte c’è la scienza e dall’altra
LA FILOSOFIA. La prima presuppone il proprio oggetto di conoscenza ed è analisi
disgregatrice sintesi impotente a ricreare la vita distrutta la quale se
potesse veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e
quindi inesistente: critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita
restandone fuori; la seconda, invece, e lo stesso discorso vale per la
religione, non presuppone, ma PONE; non guarda, ma crea; non analizza perciò,
ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi. Il problema di questo
rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto
fondamentale del programma della nuova rivista. Gentile parla qui di sviluppo
dialettico che si risolve e si supera in un dramma eterno, che, proprio perché
continuo superamento, rinvia necessariamente al continuo superato, all'oggetto
nel soggetto. Cosicché la realtà, o atto spirituale, è una unità, ma non una
mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia della molteplicità.
Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a più riprese,
significa che la filosofia non è più "teoria e contemplazione del mondo,
ma solo azione e creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un
immediato agire, bensì coscienza d’agire. Tanto che, come afferma SPIRITO (si
veda), l'idealismo trionfa veramente di ogni intellettualismo non in quanto
esso rimane una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua, sicché il suo
valore teoretico è assolutamente nulla (intellettualismo) se non diventa etico
(attualismo). Gentile insiste, in altre parole, sul valore dell’attività
creatrice dell’uomo e sviluppa il concetto di un mondo che noi facciamo e
dobbiamo fare. Anzi, esso è l’unico veramente esistente. Tutto il suo pensiero,
perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto che il problema
dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro
della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo
pensiero, tutta raccolta in quell’umanesimo, che dà significato fin da
principio alla teoria e alla storiografia dell’attualismo. La vita spirituale è
educazione, anzi autoeducazione questa affermazione non ha un significato
parziale, e relativo ad una determinata questione, ma rappresenta l’essenza del
concetto di spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile. E, perciò, per
intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre ”guardare al lato più
propriamente etico della sua filosofia: a quello cioè per cui la filosofia,
essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato
intellettualistico, si afferma come identica alla vita, come il valore stesso
della vita. La filosofia di Gentile è tutta etica o meglio pedagogia. Poiché
una filosofia che non è concetto della realtà, ma auto-concetto, non può essere
più teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo
stesso. In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può indulgere a
nessuna inerzia. Una tale filosofia, infatti, non può risolversi più in una
pura e semplice contemplazione. Prima il filosofo poteva rintanarsi nell’ozio
speculativo, far propria una ideologia estetizzante da filosofo-letterato, ed
avere come unico compito quello di guardare e giudicare, per intendere una
realtà altra ed indipendente da lui. Si trova così dinanzi a sé un mondo già
dato, che per il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo.
Con Gentile, invece, cessa ogni dualismo e ogni astratto concetto di filosofia.
Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole di sé, vita umana, sociale, e
quindi anche educazione e politica. Vi è identità di conoscere e fare e viene
meno la separazione meccanicistica, e con essa ogni residuo dualistico, tra le
varie sfere dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico
diventano tutti termini sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente
liberi e responsabili del nostro mondo e di conseguenza natura, società,
storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è assolutamente
immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più quella
degl’uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma quella della nostra
personalità, più profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le
affratella raccogliendole nel suo seno in una vita unica che deve farsi sempre
più una, e cioè sempre meno particolare ed egoista. Così viene vanificata la
nozione individualistica della persona, nel tentativo di guadagnare una
societas in interiore homine, perché, per usare le stesse parole del Gentile
della teoria generale dello spirito come atto puro: altri, oltre di noi, non ci
può essere, parlando a rigore, se noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è
identificare, superare l’alterità come tale. L’altro è semplicemente una tappa
attraverso di cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura
immanente del nostro spirito: ma passare, non fermarci. Questo stesso concetto,
poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi e struttura della
società, dove si afferma che l’individuo non da considerare come un atomo; ad
esso, infatti, è: immanente al concetto di individuo è il concetto di società.
Perché non c’è io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in
sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius. L’uomo, allora, non può
più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua particolare
competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria personalità nella
coscienza di una vita universale. Gentile, secondo SPIRITO (si veda), non solo
è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la propria vita ci ha
dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della nuova idealità. In
lui filosofia e politica, vita individuale e vita sociale si sono realizzate
nella sintesi più concreta e consapevole. Egli, perciò, nel significato più
proprio dell’espressione hegeliana, è un individuo portatore dello spirito;
anzi, è il simbolo, e, meglio, che il simbolo, l’iniziatore di una nuova
Italia, perché la sua umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione, ma
egli è un uomo intero, appunto perché è quella universalità che si concretizza
nella storia e nell’individuo...vive concretandosi nell’individuo. Il che, nei
suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che C. aveva svolto
nel suo articolo. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo
di vederlo più sopra, anche Michelstaedter non elabora una teoria della
persuasione, e il criterio che egli usa è Michelstaedter stesso vivente.
Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo
organismo vivo che non può contraddirsi; e il nucleo essenziale del suo
pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita, che non ha fuori di sé la vita
perché deve essere essa la vita. La via della persuasione è se stessa e non ha
un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo
finito, è la vera vita del finito: è processo, vita. Lo stesso tema verrà
ulteriormente ripreso da C. Illusione e realtà, e sua prima opera sistematica
di filosofia, per usare un’espressione di GARIN (si veda), può essere intesa
come una sorta di esplicitazione in positivo dela filosofia di Michelstaedter e
in particolare come una prosecuzione della sua tesi su La persuasione e la
retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi, cioè
il tema della persuasione. Dà alle stampe un Saggio sulla natura dell’uomo,
Firenze, Sansoni, animato dal proposito di tradurre nella tensione dialettica
di natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di
continuare la chiarificazione delle principali istanze michelstadteriane in
rapporto alle posizioni gentiliane. Tale compito campeggia sin dalle prime
battute discorsive del saggio, che perciò viene presentato come una visione di
scorcio, un discorso che dovrebbe riuscire ad una riaffermazione di idealismo.
Nell’Epilogo, poi, il risultato dell’argomentazione discorsiva, considerato
nelle sue rigorose e ultime conseguenze, lo porta ad individuare nell’atto
gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale
della riflessione attorno a cui disegnare il tracciato del confronto
Michelstaedter-Gentile. E questo atto consiste in una liberazione e in un
distacco da tutto ciò che è caduco e relativo; epperò, nello stesso tempo,
conduce a vivere con altra mente la vita che ci troviamo a vivere, un
consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione,
perché tale atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura
gioia, se tale può dirsi – è lo stesso suo puro conoscere, la stessa sua
assoluta liberazione interiore. In un altro saggio, apparso ancora una volta
nel Giornale critico della filosofia italiana, C. affronta di nuovo, e non a
caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto. Nel farlo
ammette che il centro dell’attualismo è l’attualità dell’atto, ossia
l’affermare la realtà come un unico processo, un perenne farsi quel che deve
essere e non è, atto come processo che è “assoluto possesso, realtà attuale
immanente al suo farsi. Per spiegare come sia da intendere questa affermazione
di carattere fondamentale, C. analizza alcuni dei principali testi di GENTILE
(vedasi). Mette in evidenza, poi, che la realtà di cui il filosofo di
Castelvetrano [“As Strawson referred to me, ‘the philosopher from Halborne’” –
Grice] parla non è un fatto, ma libera creatività che sfugge ad ogni metro di
criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro.
In questo processo, il finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato
nella sua pretesa sufficienza, nella sua pretesa di sostituirsi all’infinito”,
non viene abolito, ma acquista tutto il suo valore, quando, vedendosene
l’insufficienza in sé, è considerato nel suo essenziale rapporto con
l’infinito...perché visto con altri occhi nella sua vera realtà. Per C., in
questo consiste la verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di
ciò che il gentilianesimo indica quando parla di attualità dell’atto. Non più
filosofia in senso logico, ma vita in atto, attività giudicante e nello stesso
tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto più importante, avvincente e
persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito, in cui “il
processo è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo
stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico, un conoscere
che è nello stesso tempo fare e vivere. In questa concezione, per C. sembra
annidarsi, comunque, una difficoltà di fondo, cioè: anche l’attualità dell’atto
sembra essere una forma di mediazione, di logica, e quindi in definitiva di
oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a suo
tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien
conto che per Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come
“spirito, non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente pensato che questa sia la
nuova mediazione; giacché un farsi, un divenire, non può essere in sé un
immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere all’essere...Ma
anche questa è mediazione logica. La soluzione di questo problema è di capitale
importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far
si che esso non sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente
tramontato, ma sia più vivo che mai. Per sciogliere i nodi del problema e
dissipare i dubbi, in modo da comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale
dell’attualismo, occorre tener presente che la mediazione attuale, di cui parla
Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in atto, è una
mediazione non di opposizione, ma di distinzione, in cui non si afferma né si
nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si
vive la vita altrui, e si vive l’altrui in quanto si vive la nostra. Questo è il
vero e incontestabile attualismo, ossia lo spirito che sempre si fa, sempre non
è, e che pure giunge a vivere questo suo non essere (cioè questo suo superare
il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del finito in cui si
realizza l’infinito. Nei testi Filosofia dell’arte e Genesi e struttura della
società, in particolare, C. trova conferma a questa sua rilettura del Gentile,
soprattutto quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano
dell’individuo all’interno della società trascendentale o societas in interiore
homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già nel suo principio,
non un’unità semplice, un io indivisibile, un individuo atomistico: ma è unità
fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per
la quale soltanto ci possono essere l’io e l’altro. Si tratta di fondare una
società, in cui l’io, essendo conciliato con se stesso, si trova anche
conciliato con gli altri, e la vita di ciascuno è la stessa, identica vita di
tutti. Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea
per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io
nella sua più vera realtà, ora consapevole e perciò soltanto ora veramente
reale nella sua concreta individualità. Si tratta in altri termini di una
dialettica tra logo e attualità o attualità dell’atto, che consente al Gentile,
secondo C., di prendere le distanze e di realizzare un fondamentale progresso
rispetto allo stesso Hegel. Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano
fin qui illustrati (ma poi anche quelli di illusione e realtà traducono in
linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana tra persuasione (vita
del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e
trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo atomistico,
ecc.). A ulteriore dimostrazione di quanto fin qui affermato, c’è un altro
testo di C., significativamente intitolato L’INDIVIDUO [cf. Grice on Strawson,
INDIVIDUAL]. L’individuo, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che
non si comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui
individuo. Per cogliere il vero senso del pensiero di Michelstaedter, occorre
allora tener presente che egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire un
imperativo dunque, volto a creare una nuova realtà, in cui il mondo e gli altri
siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in quanto egli abbia
raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta verso
tutti, perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose
lontane. E, nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere
il vero significato del pensiero di Michelstaedter, C. ribadisce ulteriormente
che il valore individuale è la concreta consapevolezza che la nostra essenziale
esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si porta a una
decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità reale, che
né spazio e né tempo potranno minacciare, e il molteplice del mondo s’unifica
anch’esso e si fa a noi interiore. Giunti fin qui, il quadro che nei suoi
tratti più peculiari ci si presenta agl’occhi, in particolare dopo la sintetica
analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata attualistica e
dei testi dati alle stampe da C. nell’arco di alcuni decenni, è quello di un
tentativo di riguadagnare il più profondo significato dell’attualismo. C., in
altri termini, riprende un motivo tipicamente attualistico, espressione di
quell’idealismo che egli considera come la più ricca eredità tramandataci dalla
storia della filosofia moderna, e cerca di mostrare i legami di fondo che
stringono Gentile a Michelstaedter. Colloca così in primo piano i punti di
forza del momento della persuasione e, nello stesso tempo, del momento
dell’attualità dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono,
seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova il
problema della persuasione e di Gentile quello dell’atto in atto, che si fa
continuamente, che è vita. Il suo intento è quello di collocarsi all'interno
dell'attualismo nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi fondamentali,
per cogliere il senso più pieno, più recondito, del lascito gentiliano - e de
La persuasione e la rettorica - e di non lasciare che esso venga ridotto a
teoria, ad una chiusura sinteticistica o una formulistica ripetuta
pedissequamente. Lo stesso Gentile, per C., non sempre ha piena coscienza
degl’ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità
dell’atto, e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di
questa sua conquista, ma questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del
suo discorso, ad una ripetizione puramente verbale di ciò che egli disse. Anzi,
proprio questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo pensiero, ma
addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente
le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza. Così C. ritiene di
poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse, la cui
chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce all’individuo,
come una di quelle verità fondamentali che una volta scorte non possono più
essere perse di vista, ma che possono essere pienamente accolte e fatte oggetto
soltanto di ulteriori svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione
dell’individuo, non più inteso come atomo e che perciò non può più rinchiudersi
nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso nella coscienza di
una vita universale - cioè far si che nasca in noi una nuova realtà, così che
il mondo sia con noi una sola cosa, e che perciò sceglie di permanere, sceglie
l’ora, il qui, convertendoli in sempre e dovunque: sceglie la qualunque
situazione che si trova a vivere, e esaurisce in essa l’infinita sua esigenza:
far finito l’infinito, far vicine le cose lontane, rientra, sul terreno
speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della sua dottrina
dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale convergenza con essa, al di
là di un differente uso terminologico e d’enunciazioni gentiliane non sempre
rigorosamente univoche. Nei saggi successivi, fino ad arrivare agli ultimi dati
alle stampe, C. conferma e sviluppa ulteriormente queste posizioni, sempre
sullo sfondo del dialogo con Michelstaedter e con Gentile, ancora una volta nel
tentativo di conciliarne le esigenze di fondo. Così in un saggio,
significativamente incentrato su L’eredità di Gentile, si propone il compito di
individuare e descrivere ciò che deve al filosofo di Castelvetrano. E nel farlo
afferma senza mezzi termini. Se mi domando che cosa debba al pensiero
filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua
dottrina, che egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo
di lui, e che sentono l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni
sentono il dovere di non dilapidare, ma anzi accrescere, il patrimonio che il
padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e saggiamente risparmiato, non
trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa:
la dottrina dell’atto puro. Su questo terreno speculativo, la chiave di volta è
l’io; ed è un io senza residui intellettualistici che, per poter assolvere
opportunamente il suo compito e realizzarsi senza impietrarsi, non deve avere
alcuna realtà presupposta, ma deve reintegrare la realtà dell’oggetto, senza
farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo qualcosa fuori di questo. Si
tratta qui di un io il cui carattere peculiare è di avere una infinita apertura
e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale, di
una natura presupposta, di un mondo di idee già codificato e platonicamente
costruito sin dall’eternità, che si alimenta tutto e sempre sull’infinita,
indefettibile, unica attualità dell’atto e consiste nell’essere l’io pensante
nelle sue infinite individuazioni storiche” o la consapevolezza che l’atto ha
di sè come forma immanente dello stesso suo concreto e individuato agire,
assoluta responsabilità di chi si assume attualmente la responsabilità della
propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo. Sicché
non può esservi altro che un’eternità che sia il senso immanente della
temporalità un infinito che si realizzi nel finito redimendone la finitudine; e
questo è il guadagno speculativo più cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia
la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno, e tale da aprire
la possibilità dei più felici sviluppi. Tuttavia, secondo C., il filosofo
siciliano non è riuscito a dare alla propria riflessione una formulazione in
tutto e per tutto univoca; e anzi ha mantenuto aperte due possibilità
interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo
pensiero, col rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In
particolare, Gentile non avrebbe assolto pienamente al proprio compito di
riformare la dialettica hegeliana: avrebbe sì investito in maniera efficace e
acuta Hegel dell’accusa d’intellettualismo, per esser eglrimasto legato ad una
dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di
questa sua battaglia e sarebbe ricaduto egli stesso in una dialettica a sua
volta intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa
il movimento per il quale il reale è; è il concetto dell’autoconcetto, per
dirla con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto stesso, che per essere tale non
può essere concetto, ma autocoscienza superante il concetto. In altri termini,
una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua
attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può
essere colta da una teoria ad essa staccata e sopranuotante che trascenda e
definisca il tutto, ricomponendo in sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi
come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per C., si ricade soltanto, e
ancora una volta, in una forma di platonismo o di dualismo; invece, la vita
interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non
può esser conosciuta che per la consapevolezza che il soggetto ha di sé senza
oggettivarsi, consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto
è se stesso, in quanto è conscio del suo rapporto all’altro, così che il
soggetto come vivente relazione non è terzo oltre i due momenti, ma è tra i due
momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno di essi è per se
stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può
essere che una monodiade. Il passo che Gentile deve compiere per condurre a
rigorosa coerenza il suo discorso filosofico consiste nel far propria
l’esigenza di una dialettica attuale, fra momenti attualmente vissuti nella
loro reale soggettività la dialettica triadica degl’opposti era un dannoso impaccio;
occorre intendere l’atto come il vivente attuale processo unitario in cui gli
oppos ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando la proprio
apertura infinita, supera le determinazioni intellettive e attua quella
coincidenza di individuale e di universale, così profondamente vista e così
suggestivamente proclamata tante volte da Gentile, la quale mal si concilia con
la solitudine del logo come sintesi. Essa richiede invece un interiore dialogo
fra logo e sentimento, che ben si può scorgere nel più profondo dell’esigenza
gentiliana. Solo così, ossia liberando la dialettica dai residui
intellettualistici che ancora ne gravano la comprensione e il pieno sviluppo, è
possibile riaprire il discorso e operare un rinnovamento dall’interno dell’attualismo,
per farne fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto
l’intenzione fondamentale che pervade anche gl’altri, successivi, saggi di C. -
tutti volti alla miglior comprensione e all’approfondimento delle stesse
istanze speculative – che aspira a connotarsiquesta sua più significativa e
innovativa scoperta; ed egli resta in definitiva ancora impigliato nelle stesse
difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo C.
occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il
problema del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema
dell’intuizione, ossia dello spirito che vive nell’intuizione; e poi è
necessario cercare di rispondere all’interrogativo sul modo in cui l’io
distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme soggetto e oggetto,
nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi
più propri dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da certe
inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni. In un altro,
denso e complesso, saggio su L’autocoscienza nella filosofia di Gentile, le
posizioni fin qui prese in esame ricompaiono, imperniate sul bisogno di fornire
ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche. Esse,
infatti, ruotano sempre attorno al problema dell’atto e ai vari aspetti ad esso
strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina
dell’autocoscienza e sulle sue articolazioni, perché essa, in quanto “intimità
soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste l’essenza e l’esistenza
concreta dell’io, diviene il centro che sostiene la realtà di tutto l’universo.
Per C., tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il
pensiero gentiliano, negli scritti del filosofo siciliano, tranne qualche
sporadico cenno, non compare una esposizione adeguata del modo in cui l’io
trascendentale ha coscienza di se stesso. Nella teoria generale dello spirito
come atto puro, nel Sommario di pedagogia e in qualche altra opera, ad esempio,
si dice quà e là, e in maniera stringata, che l’io, l’atto, in quanto realtà
presa nella sua infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello
spirito si conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una
trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non
v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si riconosce che ogni grado
della consapevolezza (sensazione, percezione, rappresentazione, intuizione,
sentimento, e così via) è cosciente perché si tratta di distinzioni relative di
certi atti psichici con certi altri, e in quanto tali, sul terreno del logo
astratto, esse sono sempre espressione di un pensiero logico. Tuttavia,
affinché l’atto spirituale sia veramente uno, questa distinzione per gradi
tipica della psicologia empirica e di una concezione analitica dell’anima
umana, nell’attualismo viene abbandonata. In forza di queste considerazioni,
Gentile, secondo C., per evitare di ricadere in una visione cristallizata
dell’atto e così di considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti,
individua e ammette nell’intuizione una forma di logo che non è quella astratta
del logo oggettivo, epperò la traduce in termini diversi da quello di
intuizione, ossia con auto-concetto, facendo valere la distinzione tra pensiero
pensante e pensiero pensato. Tuttavia, pur se questa via è in profonda
dissonanza con i modelli della comune concezione psicologica precedente, sfugge
al Gentile la piena portata. Per C., la distinzione tra i due termini del
discorso emerge in chiaro soltanto nel momento in cui c’è una forma dell’io che
conosce se stesso distinta da quella con cui l’io conosce l’oggetto, perché nel
lessico gergale idealistico, stricto sensu parlando, l’io non ha alcun
contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si
identificano. Questo è un aspetto che orienta tutto il quadro di pensiero di
Gentile - e su cui egli è costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza
unitaria e monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione comporta la
necessità di precisare come concepire l’autocoscienza e quell’autotrasparenza
per la quale mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in atto di
conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale intuizione di sé, che si svela
ancora una volta come un atto logico, perché senza la mediazione propria del
pensiero pensato, concettuale e oggettivante, non ci sarebbe neppure
l’intuizione del soggetto. Questo atto iniziale però ha un carattere intuitivo,
la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo
della conoscenza sin dal suo primo momento e se si tien conto, secondo C., di
come a partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto.
Ci si accorge allora che si tratta di “un atto di analisi che dà per risultato
due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali, concreti, come due sintesi.
Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche l’oggetto,
pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si
riflette, il contenuto della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la
stessa cosa è il suo vivere e il mondo che vive. E’ un conoscere logicamente
anteriore al giudizio predicativo pel quale si può dire propriamente che nasce
il concetto. Negli ulteriori svolgimenti discorsivi, poi, sul terreno che in
termini attualistici viene coperto dall’area semantica del pensiero pensato, in
cui s’analizza il contenuto sintetico datoci attraverso l’intuizione e si
costruisce un fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè la kantiana sintesi
a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere
di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto
sintetico analizzato”, per esplicitarla in maniera analitica. Una cosiffatta
mediazione concettuale, infine, da punto di vista del filosofo di Castelvetrano
non può non riconoscere la propria astrattezza, cioè la coscienza di essere una
esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol
rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e
che è l’intuizione costitutiva dell’attualità dell’io e che forse meglio si
potrebbe dire sensus sui”. Quel che così si viene a colpire è la logica del
pensiero pensato che per quanto utile e per certi aspetti finanche necessaria,
come momento essenziale dello sviluppo dialettico, s’abbandonata a se stessa
verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio, ma che
invece se si alimenta alla fonte d’ogni mediazione, che è la consapevolezza di
sè dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova
nell’intuizione, cioè nella concreta unità dell’atto che è la sede
dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e proficua radice.
Questa certezza C. la chiama anche fede, un termine contro cui si sono
addensate non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto
adeguatamente dell’apertura alla religiosità della vita spirituale mostrata da
Gentile in tutto l’arco della sua produzione filosofica. L’atteggiamento del
filosofo siciliano nei confronti della religione, tuttavia, in proposito
avrebbe potuto essere più evidente e di maggior respiro, se egli avesse
stabilito con chiarezza inequivocabile come individuabile specificazione dell’autoconcetto
ciò che esso veramente è: intuizione o sentimento. Nel tracciato del grandioso
disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il punto più debole e
bisognoso di una riconsiderazione critica. Per C., infatti, la sua costruzione
logica, pur se foggiata in maniera geniale e improntata a una visione
metafisica di grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il
torto di tutte le metafisiche, di oltrepassare con la costruzione
intellettuale, col loro logo pensato, l’unica autentica fonte della verità, il
logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa
nell’attualità dell’atto. Questo non significa affatto sminuirne l’importanza e
le grandi possibilità che essa ci dischiude; anzi, il valore sostanziale delle
sue tesi comporta il più ampio riconoscimento e consiste nel fatto che con esse
noi mettiamo a profitto ciò che egli solo ci ha insegnato, riprendendo l’aureo
filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e arricchendolo
nella sua maschia originalità. Certo è che la filosofia di Gentile mi attirò
fin dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando
ero quasi giunto al mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto
per riconquistare fiducia, il che mi permise di riprendere il mio cammino
attivamente. E di questo non cesserò mai di sentire gratitudine. È una
gratitudine non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi sempre
incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”.
Questa conclusione riassuntiva implica il riconoscimento dell’importanza
fondamentale della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta anche
l’impegno a farne fruttificare il più genuino e fecondo lascito. C., proprio
per questo, sottopone la teoria dell’atto ad approfondimento e revisione
interna, in un ampio, continuo e serrato dialogo, con una disamina volta a
stabilirne una più rigorosa coerenza che valga a guidare e inquadrare la
propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge
C., nel corso del suo lungo cammino intellettuale, presa nel suo complesso,
comporta in definitiva un triplice guadagno: un riuscito tentativo di
promozione dell’opera dell’amico goriziano, per accreditarle una sua
peculiarità e dignità filosofica, col metterla a confronto con la speculazione
gentiliana; C. nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale
elaborazione teoretica dell’attualismo; gli spetta così il merito, con questo
suo atteggiamento rivalutativo di entrambi i filosofi citati, non solo di aver
speso con efficacia le sue migliori fatiche in difesa dell’amico, ma anche un
posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito della
letteratura che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter essere
considerato come espressione di un indirizzo del pensiero filosofico
contemporaneo in cui egli appare indubbiamente tra quelli che più sono
progrediti. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono
stati variamente tributati, le acute indagini e la argomentazioni del C., volte
a svolgere una vigorosa opera di individuazione e di messa in chiaro di un
comune ambito teoretico tra Gentile e Michelstaedter, non sempre trovarono
unanime consenso; in alcuni casi esse suscitarono non poche perplessità. E’ questa,
ad esempio, la convinzione di Spirito che, nel concludere la propria risposta
all’amico C., non esita ad affermare. A me sembra C., profondamente legato alle
esigenze dell’attualismo e a quelle michelstaedteriane, non abbia potuto
conciliarle fino in fondo, sia rimasto in una posizione intermedia tra la
concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”. Su
questo punto, comunque, la riflessione critica che gravita sugl’autori fin qui
presi in considerazione (alquanto lacunosa, a dire il vero, soprattutto negli
ultimi anni e per quanto concerne l’esigenza e il compito di saggiare
storicamente le posizioni di C.!!) a tutt’oggi non è concorde e perciò il
problema della conciliazione tra la speculazione gentiliana e quella di Michelstaedter
ci sembra tuttora aperto a ulteriori sviluppi e approfondimenti che sono ben
lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del tutto assolto.
Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto
delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come
un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a
sostegno della prosecuzione del discorso. Gaetano Chiavacci. Keyowords:
poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura
dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” –
The Swimming-Pool Library.


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